"AMATEVI GLI UNI GLI ALTRI COME IO HO AMATO VOI"
romualdo magno
LA RAZIONALITA’ DELLA FEDE IN GESU’ CRISTO E I SUOI EFFETTI INNOVATIVI E MIGLIORATIVI PER LA NOSTRA ESISTENZA (di Romualdo Magno) Dopo aver letto quasi tutte le pregiatissime opere di Frate Alberto Maggi su Gesù e i Suoi insegnamenti e dopo aver espresso al medesimo la mia massima gratitudine per avermi attraverso le Sue opere illuminato, sento il bisogno di chiarire a tutte le mie Sorelle e a tutti i miei Fratelli in Gesù Cristo nonché Amiche e Amici, reali e/o virtuali, la razionalità e l’altissimo valore formativo della fede in Gesù Cristo. Questa fede non è né una fola, né un’utopia. Premesso che è scientificamente dimostrato che l’uomo, a differenza della bestia che agisce d’istinto, è un essere che usa anche la ragione e/o intelletto, attività che gli serve prima di tutto (accogliendo la tesi universalistica di Cartesio) per distinguere il bene dal male (intendo per bene tutto ciò che fa l’uomo felice e non arreca alcun danno a lui stesso e a nessun altro) e successivamente scegliere il primo o il secondo e conseguentemente improntare la propria vita relazionale di qualsiasi tipo secondo la prima o la seconda scelta: ecco in cosa consiste il libero arbitrio. Premesso, altresì, che la parola fede in latino fides significa fiducia, lealtà verso qualcuno o qualcosa. Da quanto già accennato, è ovvio che se abbiamo effettuato la scelta verso il bene riporremo la nostra fiducia o fede verso Gesù e i Suoi insegnamenti che mirano ed hanno per scopo la piena felicità dell’uomo e la realizzazione su questa terra del Suo Regno cioè quel Regno basato sul Suo amore che va a ogni individuo indipendentemente dal genere, dalla razza, dalla religione, dal censo e anche dalla sua condotta. In definitiva è la società perfetta che Gesù è venuto a proporre in alternativa a quella imperfetta che avvelena da tempi remotissimi la vita di noi uomini e nella quale imperano i tre verbi maledetti dell’avere, del salire e del comandare. Tali verbi suscitano negli uomini odio, rivalità , inimicizia e ingiustizia. Gesù propone a noi uomini il Regno di Dio, cioè una società in cui al posto dell’avere e dell’accumulare ci sia la gioia del condividere e del dare, anziché il salire ci sia scendere – cioè non considerare nessuno al di fuori del raggio d’azione del proprio amore – e dove soprattutto anziché comandare ci sia il rapporto d’incontro, di collaborazione, di reciproco amore e rispetto. La realizzazione di detta società perfetta sta completamente alla volontà degli uomini, che accogliendo Gesù e facendo propria la fede in Lui (nel senso specificato di avere riposto la propria fiducia in Lui e nei Suoi insegnamenti) ne hanno preso l’impegno. Ecco perchè io credo che la fede in Gesù Cristo sia una cosa razionale e i suoi effetti siano innovativi e migliorativi per la nostra esistenza, e quindi ogni uomo, sia esso cristiano, credente, agnostico o ateo, dovrebbe accettarla e farla sua.
di romualdomagno
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"P. Alberto Maggi OSM APPUNTI - 1999 DIO E’ PADRE DI TUTTI?
Tutte le religioni sono uguali, almeno quelle monoteiste che invitano a credere in un unico Dio, (conosciuto con nomi diversi: Yahvé, Signore, Allah) e ogni religione, anche le non monoteiste, insegna il timore verso Dio, l'amore per il prossimo e il rispetto per gli altri. Tutte assicurano che l'accettazione dei loro insegnamenti e la pratica dei relativi precetti conducono alla salvezza (in un paradiso o in un nirvana), mentre la disobbedienza e la trasgressione vengono severamente punite in questa vita o nella futura. Qualunque religione ha come aspetto basilare i tre grandi cardini della spiritualità: la preghiera, l'elemosina e il digiuno (Mt 6,1-18). E ognuna ha un aspetto imprescindibile: la certezza (o la pretesa) di essere l'unica e la sola via di salvezza. Ogni religione si presenta infatti come quella vera, escludendo tutte le altre, denunciate come false e opera del demonio. Quando le circostanze storiche lo permettono gli infedeli vengono obbligati ad abbracciare la vera fede. Se resistono vengono eliminati in nome di Dio e la storia insegna che mai si ammazza con tanto 2 gusto come quando si uccide in nome di Dio che si chiami Yahvé o Allah o Signore non fa alcuna differenza. Ogni epoca storica ha sempre offerto una grande abbondanza di religioni o di cammini filosofici, new o next non importa, pronte a rassicurare, gratificare ed esorcizzare le paure di sempre. Se è vero che tutte le religioni conducono a Dio e quindi alla salvezza, perché mai si dovrebbe scegliere proprio Gesù e il suo impegnativo messaggio? E se si può scegliere, quali sono i criteri che spingono a preferire una religione piuttosto che un'altra se tutte in fondo sono uguali? Quanto finora espresso è volutamente riduttivo e caricaturale di un malinteso senso di ecumenismo all'insegna del "comunque vogliamoci bene" che riduce tutte le religioni a una melassa dove tutto viene omogeneizzato e reso digeribile e che soprattutto svuota il messaggio del vangelo equiparando Gesù a uno dei tanti maestri spirituali apparsi nella storia, che si chiamino Confucio o Buddha, Mosè o Maometto non importa. C'è da chiedersi: nel panorama religioso dell'epoca (e anche in quella attuale) che cosa ha portato Gesù di nuovo che non sia già stato detto dai grandi saggi e santi dell'antichità? Gesù che cosa ha insegnato di nuovo che non sia già contenuto nella Legge data da Dio a Mosè o formulato nei Libri Sacri delle religioni? Non il concetto di Dio-Padre: la concezione di Dio quale padre è una caratteristica primordiale della storia dell'umanità e patrimonio comune delle religioni, da Zeus, definito da Omero "padre degli uomini e degli dèi" (Odissea 1,28), a Yahvé "il Signore, il nostro Dio, il nostro Padre" (Tb 13,4). Neanche per la salvezza Gesù sembra proporre un cammino originale. Quando gli chiedono cosa si deve fare per ottenere la vita eterna, Gesù risponde che non è a lui che si 3 devono rivolgere perché già Mosè ha indicato nei comandamenti la via per la salvezza: "se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti" (Mt 19,16-19). La novità del messaggio di Gesù non consiste neanche nell'invito all'amore, presente in tutte le religioni, da quelle pagane a quella giudaica (Lv 19,18). E' vero che Gesù ha sganciato la pratica dell'amore dal ristretto ambito del clan familiare e l'ha estesa pure ai nemici (Mt 5,43-48), ma non è questa l'originalità della "buona notizia". E comunque nessun profeta è mai morto per aver invitato la gente ad amarsi. L'invito a non opporsi al malvagio e a porgere "l'altra guancia" (Mt 5,39) non allarma i potenti ma li rassicura. Anzi i detentori del potere si rallegrano quando sentono un messaggio che invita la gente a "non giudicare" (Mt 7,1), a "non condannare" (Lc 6,37) e ad estendere l'amore pure ai prepotenti (Mt 5,39-41). Gesù, il Dio a servizio degli uomini La novità portata da Gesù è stata la causa della sua morte: Gesù ha dimostrato, nell'insegnamento e nella pratica, di essere un Dio a servizio degli uomini, il "Dio con noi" (Mt 1,23). Questa nuova immagine di Dio ha avuto l'effetto dirompente di scardinare alle radici il concetto stesso di religione, basato sul servizio dovuto dagli uomini a Dio ed ha attirato contro Gesù l'odio mortale di tutte le componenti della società, dalle autorità, che sulla religione basavano il loro potere e il proprio prestigio, al popolo, che dalla pratica della religione si sentiva protetto. E Gesù verrà inchiodato al patibolo riservato ai criminali "maledetti da Dio" (Dt 21,23; Gal 3,13), abbandonato dalla famiglia, tradito dai suoi discepoli, ridicolizzato dai Romani, deriso dalle massime autorità religiose (Mt 27,39-44). 4 L'insegnamento di Gesù verso Dio è stato talmente nuovo e deflagrante che nessuno l'ha compreso (Mt 7,28-29; Mc 1,27). Dai vangeli appare che se per i sommi sacerdoti e i farisei Gesù "è un impostore" (Mt 27,63), per gli scribi è un "bestemmiatore" meritevole della morte (Mt 9,3) e per la folla uno dei tanti che "inganna la gente" (Gv 7,13). Gesù è riuscito persino a scandalizzare "molti suoi discepoli che si tirarono indietro e non andavano più con lui" (Gv 6,66), e a disorientare anche Giovanni il Battista, che pur lo aveva riconosciuto e indicato al popolo come il Messia atteso (Gv 1,29-36). Constatato che Gesù insegna e si comporta diversamente da come egli aveva annunciato, Giovanni gli invia un ultimatum che suona come una sconfessione: "Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro?" (Mt 11,3). Gli stessi familiari di Gesù non hanno nessuna fiducia in questo loro strano parente che ha sconvolto la tranquilla religiosità di Nazareth dove "neppure i suoi fratelli credevano in lui" (Gv 7,5). Per essi è solo un matto da togliere dalla circolazione in quanto è il disonore di tutto il clan familiare ("I suoi, uscirono per andare a catturarlo poiché dicevano è fuori di testa", Mc 3,21). Giudizio negativo confermato dalle autorità: "Ha un demonio ed è fuori di sé; perché lo state ad ascoltare?" (Gv 10,20; cf 8,52; Mc 9,30). L'immagine di Dio che Gesù ha proposto era completamente sconosciuta nel panorama religioso contemporaneo e segna il passaggio dalla religione alla fede: non più l'uomo al servizio di Dio, ma Dio al servizio degli uomini, un Dio che "non è venuto per essere servito, ma per servire" (Mc 10,45; Mt 20,28) . In ogni religione veniva e viene insegnato che l'uomo aveva come compito principale quello di servire il suo Dio (Dt 13,5): 5 un Dio presentato sempre come sovrano esigentissimo che continuamente chiede agli uomini, sottraendo loro cose ("il meglio delle primizie del suolo lo porterai alla casa di Yahvé, tuo Dio", Es 23,19), tempo (Es 20,8-11) ed energie (Dt 6,5), in un servizio che veniva reso principalmente attraverso il culto. Il nuovo volto di Dio proposto da Gesù è quello di un Dio che anziché togliere, dona, che non diminuisce l'uomo ma lo potenzia. Un Dio che "non abita in templi costruiti dalle mani dell'uomo né dalle mani dell'uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa: è lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa" (At 17,24-25). L'immagine di un Dio a servizio degli uomini è per Gesù talmente importante che nell'ultima cena, dopo aver fatto dono di sé come alimento vitale per i suoi (pane e vino), dichiara: "Io sto in mezzo a voi come colui che serve" (Lc 22,27). Il servizio è l'attività che svela l'identità di Gesù. E una volta risuscitato, il Signore sarà riconoscibile nel servizio in cui continuamente fa dono di sé: "riferirono di come l'avessero riconosciuto nello spezzare il pane" (Lc 24,35; Gv 21,9-14). Il Dio che Gesù ha fatto conoscere ai suoi discepoli non si comporta come un sovrano, ma come servo degli uomini. Ribaltando logica e consuetudine, Gesù paragonerà Dio a un padrone che, rientrato a notte fonda da un viaggio e, trovati i servi ancora svegli, anziché sedersi a mensa e farsi servire "li farà mettere a tavola e passerà a servirli" (Lc 12,37). Un Dio che mette tutta la sua forza d'amore a disposizione degli uomini per innalzarli al suo stesso livello. Per questo nell'ultima cena Gesù, "il Signore", compie un lavoro da servo affinché i servi si sentano signori (Gv 13,1-17). Lavando i piedi ai discepoli, Gesù, l'Uomo-Dio, dimostra che la vera grandezza non consiste nel dominare ma nel servire gli altri. Gesù ponendosi all'ultimo posto 6 non solo non perde la dignità, ma manifesta quella vera, quella divina: "Io Yahvé, sono il primo e io stesso sono con gli ultimi" (Is 41,4). Per esprimere questo profondo mutamento nel rapporto con Dio c'era bisogno di una nuova relazione (Alleanza) che sostituisse l'antica. Mentre Mosè, "servo di Dio" (Ap 15,3), ha proposto al popolo d'Israele un rapporto con Yahvé come quella tra dei servi e il loro Signore ("Voi servirete Yahvé", Es 23,25), Gesù, "figlio di Dio" (Mc 1,1), inaugura la nuova relazione tra dei figli e il loro Padre basata su un'incessante comunicazione d'amore: "Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi" (Gv 15,9; 14,21.23). La condizione dell'uomo nei riguardi di Dio non è più quella del servo verso il suo Signore, ma quella del figlio nei confronti di un Padre che lo invita a raggiungere la condizione divina. E come Gesù non è servo di Dio, ma "figlio del Padre" (2 Gv 1,3), ugualmente coloro che gli danno adesione non saranno suoi servi (Gv 15,15), ma in quanto figli dello stesso Padre, fratelli che con lui e come lui sono chiamati a collaborare al progetto di Dio sull'umanità (Mt 28,10). Questo nuovo rapporto dell'uomo verso Dio, comporta un profondo cambiamento non soltanto nei confronti del Signore, ma pure nelle relazioni tra gli uomini, dove viene esclusa qualunque forma di dominio: se Dio stesso non domina ma serve, nessuno può più dominare gli altri, e tantomeno può farlo in nome di Dio. In nome di Dio si può solo servire e dare la propria vita (Mc 10,45; Gal 5,13; 1 Pt 4,10). Il nuovo volto di questo Dio verrà fatto conoscere da Gesù con il nome "Padre" (Mt 6,9). Mentre "Dio" è il nome comune di ogni religione, "Padre" è lo specifico della fede cristiana. 7 Mentre il Dio delle religioni discrimina tra credenti e no, osservanti o meno, premia e condanna, il Padre ama tutti gli uomini indipendentemente dal loro credo religioso e dalla loro condotta morale, comunicando vita a tutti. E se in nome di Dio si può uccidere (Gv 16,3), in nome del Padre che "ha tanto amato il mondo dare il suo Figlio" (Gv 3,16) si può soltanto donare la propria vita per gli altri: "nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici" (Gv 15,13). Gesù nel rivelare ai suoi discepoli il Padre, elimina da questo termine ogni caratteristica di potere, di dominio e di paura, presentando la paternità di Dio unicamente quale incessante comunicazione di un amore che trasmette agli uomini la sua stessa pienezza di vita: "perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3,16). La volontà di questo Dio-Padre, "amante della vita" (Sap 11,26), è che ogni uomo possa divenire suo figlio adottivo ("predestinandoci a essere suoi figli adottivi", Ef 1,5; Rm 8,15.23; Gal 4,5), e il Padre stesso si mette a servizio degli uomini perché possano rispondere liberamente e positivamente a questo suo invito ("Vedete che grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio", 1 Gv 3,1). Il significato dell'adozione divina alla quale ogni uomo è chiamato va compreso nella cultura dell'epoca, dove l'istituto giuridico dell'adozione era uno strumento con il quale l'imperatore, che quasi mai lasciava in eredità il regno a uno dei suoi figli, adottava come figlio quello che tra i suoi ufficiali riteneva il più idoneo a reggere l'impero dopo la sua morte. La scelta pertanto presupponeva una grande considerazione e fiducia nell'individuo che veniva adottato. Dio ha tanta stima negli uomini che li eleva a suoi "figli adottivi", ritenendoli capaci di continuare la sua stessa azione 8 creatrice sull'umanità: "In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati dinanzi a lui nell'amore, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il suo disegno d'amore" (Ef 1,4-6). Prima ancora di creare il mondo (Gv 1,1) Dio ha scelto gli uomini predestinandoli a essere suoi figli. Questa predestinazione da parte del Padre non si realizza automaticamente con la nascita dell'individuo, ma esige ed è condizionata da un impegno che S. Paolo individua nella pratica dell'"amore". Il termine greco impiegato (agapê) indica l'amore gratuito, quell'amore capace di dirigersi anche verso chi non lo merita (Mt 5,44-46), di fare del bene senza attendere nulla in cambio (Lc 6, 33-35), e soprattutto capace di concedere il perdono prima che questo venga richiesto (Mc 11,25). Questa figliolanza divina non viene imposta da Dio ma deve essere frutto di una libera e fattiva scelta da parte degli uomini. Essere "figlio" non è una condizione che viene data una volta per sempre con la nascita, ma che si sviluppa con una attività che assomiglia a quella di Dio stesso. E' per questo che Giovanni nel Prologo al Vangelo scrive che a quanti l'hanno accolto, Gesù "ha dato il potere di diventare figli di Dio" (Gv 1,12). Per l'evangelista "figlio di Dio" non si nasce, ma si diventa attraverso una "nuova nascita", cioè una nuova qualità umana che Gesù chiama la nascita "dall'alto" (Gv 3,3). Se Dio è indubbiamente Padre per tutti gli uomini, non è (ancora) il Padre di tutta l'umanità. Dio non potrà essere pienamente Padre degli uomini finché ogni uomo non avrà avuto la possibilità di essere suo figlio, e così "Dio sia tutto in tutti" (1 Cor 15,28). Se da parte di Dio c'è la disponibilità di essere il Padre per tutti gli uomini, è anche vero che questa relazione di paternità 9 può iniziare e diventare effettiva solo quando da parte dell'individuo esiste una scelta libera e volontaria che implica una rottura col passato e un cambiamento di vita che viene indicato nei vangeli con il termine "conversione" (Lc 3,8). Per diventare figlio di Dio occorre una nascita che non è quella della venuta alla luce di una nuova vita, ma quella in cui questa vita si trasforma in luce (Gv 1,4; Mt 5,14). L'uso di un verbo dinamico come "diventare" indica che il processo di crescita è continuo e si sviluppa esercitando un'attività simile a quella del Padre (Gv 5,19-20). Per comprendere la qualità della figliolanza divina alla quale ogni uomo è chiamato, occorre approfondire il significato della paternità nel mondo culturale giudaico, dove non esiste il termine “genitori”, ma un “padre” e una “madre” (Gen 2,24; 28,7) con compiti nettamente distinti. Il termine ebraico 'ab (padre) significa "colui che genera" (cf Pr 17,21; 23,24) in quanto è solo il padre che trasmette la vita al figlio. La madre (considerata alla stregua di un' incubatrice), deve solo nutrire e far crescere il seme ricevuto per poi partorirlo al momento dovuto. La vita che il padre comunica al figlio non si limita al concepimento, ma l'accompagna e lo sostiene in tutta la sua esistenza. Come il Creatore plasma l’uomo a sua immagine e somiglianza (Gen 1,26-27), così il padre, assieme alla vita fisica, comunica al figlio la personalità, la religione e la spiritualità, per cui essere "figlio di” ha il significato di somiglianza al padre. In questo cammino di identificazione e di imitazione il figlio fa quel che vede fare dal padre: "Il Figlio da se stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio la fa allo stesso modo" (Gv 5,19). 10 La possibilità per ogni uomo di essere figlio di Dio, e di rivolgersi a lui chiamandolo "Padre", nasce dal processo di somiglianza al comportamento di Dio verso gli uomini mediante un amore (agapê) che si fa dono: "Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nell'amore [agapê] nel modo in cui anche Cristo ci ha amati [êgapêsen] e ha donato se stesso per noi" (Ef 5,1-2; 1 Cor 11,1; 1 Ts 1,6). Mentre il Dio della religione impone l'ubbidienza alle sue leggi, il Padre di Gesù chiede imitazione al suo amore. Gesù, che mai ha chiesto ai suoi discepoli di ubbidire a sé o a Dio, continuamente invita i suoi a “diventare” figli del “Padre nei cieli” mediante un amore che sia capace di raggiungere pure i nemici "affinché siate figli del Padre vostro" (cf Mt 5,45; Lc 6,35). La fedeltà a questo amore conduce l’uomo a una crescente identificazione che lo rende sempre più somigliante al Padre: “Siate dunque perfetti come il Padre vostro nei cieli è perfetto” (Mt 5,48). La perfezione alla quale invita Gesù si riferisce a quella di un amore illimitato, totale come è quello del Padre. Mentre la religione presenta un Dio che discrimina tra meritevoli e no del suo amore, e che rifiuta la pioggia ai peccatori (Am 4,7; Ger 14,1-10), Gesù mostra un Padre "che fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti" (Mt 5,45). La comunione con Dio non dipende dai meriti e dagli sforzi dell'uomo ma dall'accoglienza di un amore che è dono gratuito e come tale va trasmesso (Mt 10,8). Questa perfezione del Padre, che tutti i credenti sono invitati a raggiungere, è quella di un amore talmente forte da non lasciarsi condizionare dal comportamento degli uomini "cattivi e ingiusti", e capace di comunicare a tutti un amore che, come l’azione della pioggia e del sole, feconda e produce vita. 11 Il servizio, quale prolungamento dell'amore del Padre a ogni uomo, è l'unico culto che Dio chiede (Gv 4,23-24) per far giungere a tutti la sua proposta di vita e realizzare così il suo disegno sull'umanità: essere Padre non solo per tutti gli uomini ma di tutti."
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ČSettimana Alfonsiana Palermo 23 settembre 2008 TEMPO DI APOCALISSE Parlare del libro dell’Apocalisse vuol dire entrare in contatto con uno dei testi più affascinanti del Nuovo Testamento, ma anche uno dei più complessi, sia a livello letterario che di contenuto. Nonostante il fascino che l’Apocalisse suscita, tuttavia prevale una forte diffidenza nei riguardi del suo messaggio, poiché è facilmente frainteso e lo si riduce a un annuncio sulla fine dei tempi, quando il giudizio di Dio sarà accompagnato da sconvolgimenti cosmici e catastrofi mondiali. Inoltre, tra gli scritti del NT, questo dell’Apocalisse resta uno dei meno conosciuti, poiché, a causa della sua complessità, è praticamente assente dalla vita della comunità cristiana. Per questo l’espressione «tempo di Apocalisse» si presta a equivoci, in quanto nel linguaggio comune è diventata sinonimo di «catastrofe», oppure identifica il libro dell’Apocalisse come una raccolta di profezie, dove si concentrano predizioni di eventi terribili che stanno per accadere e che porteranno alla fine di questo mondo con tutta la sua storia. La questione dell’apocalittica I termini apocalisse / apocalittico, parole ricorrenti nel linguaggio attuale, ricevono spesso dei connotati estranei al loro significato originario, che è 2 quello di rivelazione (gr. apokaliptô = togliere il velo). Il testo dell’Apocalisse rispetta, in parte, le caratteristiche di una corrente letteraria (apocalittica), che si sviluppa nel giudaismo fin dal sec II a.C. come letteratura di consolazione, ma anche di contestazione, per rinsaldare le credenze dei fedeli e sostenere le attese di quanti aspettavano l’intervento liberatore di Dio. Si tratta di una corrente letteraria alternativa e di carattere settario, al margine dei circoli ufficiali, che si interessa a quanto del piano divino era rimasto ancora nascosto. Si caratterizza dal pessimismo nei confronti del mondo e dal determinismo sullo svolgimento della storia, i cui eventi erano già previsti dal piano divino. Tutto questo comporta un forte individualismo, che induce alla tentazione di girare le spalle alla realtà centrando l’attenzione sull’interesse personale, e un’etica passiva incline a evadere ogni responsabilità nell’attesa di un mondo nuovo, riservato esclusivamente agli eletti di Dio. A differenza di questi scritti, l’Apocalisse ha, invece, un concetto positivo della realtà umana, offrendo nella visione finale l’immagine incoraggiante di essa –contemplando un cielo nuovo e una terra nuova (cf. Ap 21,1)- quale piena realizzazione del progetto della creazione. L’autore non evade dalla storia che lo circonda ma è fortemente interessato a quanto accade, presentando gli eventi che la caratterizzano in funzione di un «cielo» e di una «terra» completamente trasformati, senza alcuna traccia di male (cf. Ap 12,8). Il testo si discosta pertanto dallo schema tipico dell’apocalittica e propone, seppur conservando alcuni dei suoi elementi più comuni1 , una visione unica e originale di quello stile letterario; l’autore centra l’obiettivo sul messaggio da comunicare: la signoria 1 Come ad es. la riletture dei testi delle Scritture; l’intervento di figure angeliche; l’uso dei simboli, in particolare quello aritmetico; la divisione del racconto in cicli (settenari); la dialettica tra bene e male; la sconfitta dell’Avversario; ecc. 3 universale di Dio e l’attuazione del suo disegno, per una pienezza di vita offerta a tutti gli uomini. Un altro aspetto importante dell’Apocalisse è che il suo messaggio non si limita a un gruppo particolare (sètta), ma si rivolge a tutte le comunità cristiane (le sette lettere alle chiese indicano «universalismo»), con una delle più forti denunce contenute nelle Scritture riguardo alla concezione del potere e alla sua pretesa origine divina. Poiché i cristiani in generale erano tentati di riconoscere l’ordine imposto da Roma2 , l’autore manifesta il suo dissenso, e scrive la sua opera come una sfida rivolta a quanti vogliono annunciare il Vangelo mediante le dinamiche del potere, ricordando che non si possono mescolare i valori del Regno (condivisione, uguaglianza, servizio) con i principi dei sistemi terrestri (denaro, prestigio, potere), che sono quelli offerti dal Satana. Chi legge e ascolta le parole contenute nell’Apocalisse non può rimanere neutrale: o si accetta l’ideologia del potere, sottomettendosi alle sue dinamiche di morte, o si dà adesione alla proposta di Dio, accogliendo la vitalità del suo amore. Superare l’equivoco La difficoltà di lettura e di comprensione dell’Apocalisse è causata innanzitutto dalla mancanza di conoscenza del contesto culturale in cui scrisse l’autore e del linguaggio adoperato per comporre l’opera. Oggi nessuno ritiene più che gli astri rappresentino delle divinità, che tuoni e fulmini siano delle entità inviate dal cielo per recare degli annunci o dei castighi da parte di Dio, oppure che esista un regno d’oltretomba. In relazione al linguaggio, altamente simbolico, esso deve essere valutato secondo le strategie grammaticali e lette- 2 Cf. il riferimento a tale problematica in Rm 13,1; 1 Tim 2,2; 6,1; Tit 3,1. 4 rarie usate da Giovanni. Un altro aspetto che incide sulla difficoltà d’interpretazione del testo è il non conoscere la fonte alla quale l’autore attinge per costruire le sue immagini e visioni. Infatti le visioni che costellano l’opera si prendono come eventi speciali ai quali l’autore ha partecipato come spettatore, mentre in realtà esse sono il risultato di una riflessione attenta e profonda sui testi dell’Antico Testamento. Il libro dell’Apocalisse, nonostante la complessità del suo stile letterario, si rende accessibile grazie a delle indicazioni che l’autore stesso offre. Già nel titolo stesso dell’opera, «Rivelazione di Gesù Cristo» (Ap 1,1), si accenna all’origine del messaggio e alla sua autorevolezza, ponendolo in stretto rapporto con l’annuncio della buona novella del Regno di Dio; pertanto tutto quello che Giovanni riporta e descrive nel suo scritto deve essere considerato alla luce di tale annuncio. Nel prologo all’opera si dichiara che tutte le parole scritte in essa sono «parole di profezia» (Ap 1,3), ossia hanno un valore fondamentale per la comunità cristiana, in quanto contengono un appello radicale a leggere e interpretare le vicende storiche dalla prospettiva divina. Queste parole sono oggetto della prima beatitudine che l’autore rivolge al lettore e agli ascoltatori: «Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia» (Ap 1,3) 3. Trattandosi di un testo caratterizzato da numerose visioni, sorprende che questa beatitudine non riguardi il «vedere», bensì il «leggere / ascoltare». L’accento è infatti messo sull’ascolto4 , atteggiamento che distin- 3 La prima delle sette beatitudini che costellano l’opera (cf. Ap 1,3; 14,13; 16,15; 19,9; 20,6; 22,7.14). 4 Per sette volte nella prima parte del libro torna l’invito all’ascolto dello Spirito: Ap 2,6.11.17.29; 3.6.13.22 5 gue la fede del credente e che ricorda come il messaggio dell’Apocalisse non sia destinato alla lettura privata ma comunitaria5 . Un’altra indicazione, per la comprensione dell’Apocalisse, viene offerta dalla terminologia usata dall’autore; ad esempio per esprimere l’idea di tempo egli distingue tra un tempo cronologico (gr. chronos), che scade e si esaurisce, e un tempo qualitativo (gr. kairòs) 6 , che offre l’occasione propizia per agire. Del kairòs s’interessa la prima beatitudine, in quanto ricorda l’imminenza di un tempo adatto per rendere testimonianza a Gesù e al suo vangelo, momento opportuno per agire in sintonia con Dio, secondo il suo progetto di salvezza. Fin dalle prime parole dell’opera, Giovanni si rivolge ai lettori e agli ascoltatori perché vivano questo tempo propizio, impegnandosi al presente a testimoniare i valori del Regno, nella tensione continua verso «i cieli nuovi e la terra nuova» (Ap 21,1). Per questo più che di «tempo di Apocalisse» si deve parlare di «Apocalisse e pienezza del tempo». Non si tratta di vivere un tempo in cui si annunciano nuove rivelazioni, ma di cogliere il momento propizio per una profonda riflessione sulla rivelazione di Gesù Cristo e sull’attuazione di quanto essa contiene. 5 L’Apocalisse si presenta come testo a carattere «dialogico», e questo grazie al linguaggio simbolico usato dall’autore, cf. G. BIGUZZI, Apocalisse, Milano 2005. Il simbolismo delle immagini è a «struttura discontinua», cioè l’autore mette insieme sullo stesso piano diversi elementi procedenti dalla tradizione biblica, per creare un’immagine nuova con differenti livelli di interpretazione (cf. Ap 5,6). L’uso dei simboli hanno lo scopo letterario e teologico di creare un universo simbolico in cui il lettore e gli ascoltatori possono immergersi pienamente, tanto da esserne influenzati e da modificare il loro modo di percepire il mondo, cf. U. VANNI, L’Apocalisse, Bologna 1988, 73-86. 6 Il kairòs era una divinità minore del panteon greco raffigurata da un ragazzino con le ali ai piedi e con un ciuffo di cappelli sull’occipite; questo personaggio era simbolo delle occasioni propizie che si presentavano improvvisamente agli uomini e che non dovevano farsi sfuggire, per tanto bisognava prendere per i cappelli quel fanciullo, prima che passi oltre. 6 Apocalisse e pienezza del tempo Il problema che si pone riguardo all’Apocalisse, una volta superati gli equivoci che pesavano sul testo, è come ricuperare il suo messaggio nella vita della chiesa, e come rendere attuale il valore della profezia contenuta in esso. La testimonianza dei credenti è sostenuta da quel appello radicale che Giovanni rivolge con il suo scritto a favore del Regno di Dio e della sua diffusione. Per guidare la lettura e la comprensione del messaggio dell’Apocalisse, Giovanni colloca, all’inizio di ciascuna delle due parti in cui si divide l’opera7 , due visioni fondamentali centrate sulla persona del Cristo: nella prima parte, quella del Figlio d’uomo, che riguarda il Cristo vincitore sulla morte e modello di umanità (cf. Ap 1,12-20), e nella seconda quella dell’Agnello sgozzato, dove il simbolo dell’agnello indica una potenza di vita che si manifesta mediante il dono di se stesso (cf. Ap 5,6-12). Le visioni di Giovanni contribuiscono ad allargare l’orizzonte dei suoi lettori, collocandosi in un ambito in cui si sente la comunione con Dio e orientando l’esistenza verso un futuro di pienezza che non conoscerà mai fine. Per i credenti ciò comporta l’impegno concreto a collaborare alla trasformazione del creato; di fronte alla visione pagana del mondo, dove i potenti sembrano reggere i destini degli uomini, si scopre una veduta nuova, quella dello Spirito, dove si riconosce Dio come unico signore della storia e del creato. 7 Le proposte sulla struttura letteraria dell’Apocalisse e sul modo di dividere le sue parti sono numerose, tuttavia quella più sostenibile è la seguente: Parte I: 1,4-3,22 / Parte II: 4,1 – 22,5, Cf. U. VANNI, La struttura letteraria dell’Apocalisse, Roma 1971. 7 *La visione di uno simile a «figlio d’uomo» La prima visione dell’Apocalisse riguarda una manifestazione del Cristo risorto (Ap 1,10-18). Gli attributi che servono per identificare la sua persona esprimono la sua condizione divina, ma sono applicati a lui in quanto «figlio d’uomo», ovvero l’uomo che ha raggiunto la sua pienezza (cf. Dn 7,13). In questa visione è Gesù che, risplendendo della stessa gloria di Dio, dichiara in prima persona: «Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Ero morto, ed ecco, sono vivo per i secoli dei secoli…» (Ap 1,17-18). L’accenno alla morte ribadisce la sua umanità e, allo stesso tempo, la sua vittoria come «vivente» o «risorto» conferma la sua divinità. Ciò che nell’Antico Testamento era prerogativa di Dio ora è attribuito alla persona di Cristo, il quale detiene le chiavi dell’Ade, il regno dei morti, segno della vittoria piena sulla morte8 . Prima di descrivere la visione, l’autore dà delle precise indicazioni che aiutano la sua comprensione: essa avviene nel «giorno del Signore», quando la comunità si raduna per l’eucaristia e celebra la vittoria del Cristo sulla morte, e mentre Giovanni si trova nell’isola di Patmos, esiliato a causa della sua testimonianza della parola di Gesù. Per vedere quanto lo Spirito intende mostrargli, Giovanni deve cambiare la sua visuale, e per due volte egli dice «mi voltai» (Ap 1,12): ciò significa che non si può contemplare quanto il Signore 8 Nell’AT, l’espressione «il Dio vivente» (Ger 10,10) riguarda Yahvè e la sua capacità di dare vita alle creature. La stessa fonte di vita è presente in Gesù, il quale offre agli uomini i doni che da essa sgorgano (cf. Ap 2,7.10; 3,5; 7,17; 13,8; 20,12.15; 21,6; 22,2.14.19). Il titolo «il Vivente» possiede un senso antagonistico e polemico contro tutte le false divinità che vogliono imporsi sugli uomini con la loro forza e il loro dominio; Giovanni parlerà di esse come realtà al passato, «furono ma non sono più» (Ap 17,8). L’immagine delle chiavi è molto originale, mentre in Rm 6,9 si dice che la morte non ha più potere sul Cristo, l’autore dell’Apocalisse rovescia l’affermazione dando ad essa un valore ancora più potente: è Cristo ad avere potere sulla morte e a detenere le chiavi della sua dimora (cf. Ap 1,18). 8 vuole comunicare agli uomini mantenendo una posizione già fissata dalla tradizione. Bisogna contemplare le vicende storiche da una prospettiva diversa, non quella propagandata dai sistemi di potere, ma quella suggerita dallo Spirito, ponendo lo sguardo in sintonia con quello del Creatore che «vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era molto buono» (Gen 1,31). Giovanni percepisce per primo una voce potente alle sue spalle, ed essa è paragonata al suono di una tromba; l’immagine richiama le teofanie della tradizione biblica9 , dove la voce di Dio era impossibile da riprodurre e poteva solo essere interpretata. Allo stesso tempo il simbolismo della tromba richiama la solennità e la dimensione cultuale del messaggio da ascoltare. Il parlare alle spalle esprime uno degli atteggiamenti caratteristici del divino quando si rivela: imprevedibilità, inafferrabilità, trascendenza. Ascolto e comprensione della parola vanno unite insieme: nell’uomo Gesù risuona la stessa voce di Dio. Giovanni presenta la figura del «figlio dell’uomo» in mezzo a «sette candelabri d’oro», immagine della Chiesa nella sua dimensione storica (cf. Ap 1,19), e rivestito di un’alta dignità, riconoscibile dalla lunga veste (cf. Es 28,2- 4; Zac 3,1-4; Sap 18,20-24) e dalla cintura d’oro, prerogativa non solo dei sommi sacerdoti, ma anche dei re (cf. 1 Mac 10,89; 11,58). Di seguito vengono descritti i particolari fisionomici del personaggio, a cominciare dalla testa e dai capelli, il cui colore bianco, «come lana candida» (cf. Dn 7,9), richiamano la dignità, la saggezza e l’eternità. I tratti successivi che caratterizzano il «figlio d’uomo» si riferiscono ai modi mediante i quali l’uomo influisce sul mondo che lo circonda, e stanno a dimostrare una forza grandiosa: lo sguardo penetrante del Cristo («gli occhi come fiamma di fuoco»), la sua saldezza e 9 Sul Sinai la manifestazione di Dio era stata annunciata da un fortissimo squillo di trombe (cf. Es 19,16). 9 forza incrollabile («i piedi di metallo prezioso»), la potenza e l’universalità del suo messaggio («voce come di molte acque»), il suo rapporto vitale con le chiese («le stelle nella mano destra»), la sua parola liberatrice («la spada che esce dalla bocca»), la sua condizione divina («il volto come il sole»). * La visione dell’Agnello La figura più rappresentativa di Cristo nell’Apocalisse è l’Agnello sgozzato (cf. Ap 5,6.9.12; 13,8), e alla luce di essa bisogna leggere e interpretare il contenuto della seconda parte dell’opera10. Mediante questa figura Gesù è raffigurato come colui che ha ricevuto una morte violenta, i cui segni rimangono evidenti (cf. Gv 20,20), ma che Egli ha superato con la potenza del suo amore, ristabilendo la comunione di Dio con tutti gli uomini. L ’Agnello viene presentato in maniera dettagliata, cominciando dall’elemento principale, che è la sua anomala posizione in piedi. Questo particolare attira per primo l’attenzione di Giovanni e serve a sottolineare la risurrezione di Cristo, come l’evento fondante della comunità cristiana. L’autore dell’Apocalisse riprende il tema anticotestamentario dell’agnello sacrificato per la pasqua (Es 12,1-14; cf. Dt 7,8; 13,5) ma lo interpreta in modo originale per descrivere il nuovo e definitivo esodo iniziato 10 Il termine agnello (gr. arnion) riferito a Cristo, ricorre 28 volte nell’Apocalisse, sette delle quali in locuzioni che l’abbinano a Dio (Ap 5,13; 6,16; 7,10; 14,4; 21,22; 22,1.3). Quattro è, dopo il sette, la cifra che si trova con maggior frequenza e regolarità nell’Apocalisse. Al pari di sette, considerato il numero della completezza, quattro rappresenta il mondo, con i suoi quattro angoli (cf. Ap 7,1; 20,8) o quattro ripartizioni (Ap 5,13; 14,7). La ricorrenza 7 x 4 allude all’ambito universale della vittoria raggiunta dall’Agnello, e corrisponde alla struttura quadripartita della locuzione con cui Giovanni designa tutte le nazioni del mondo («popoli, tribù, lingue e nazioni»). 10 da Gesù11: il Cristo-Agnello rappresenta il segno di liberazione e di salvezza per l’umanità intera (cf. Gv 1,29). L’Agnello sgozzato, collocato in mezzo al trono di Dio (Ap 5), è identificato dall’autore con Dio stesso, e associato alla sua azione di portare avanti il disegno di salvezza per l’umanità. Colui che siede sul trono interviene e agisce sulla storia in base all’amore gratuito versato da Cristo sulla croce. Il simbolismo del trono divino è svuotato da ogni elemento che possa ricordare i troni terreni basati sul dominio e sulla violenza. Il carattere particolare di questo Agnello è reso visibile da due segni distintivi: le sette corna e i sette occhi. Il corno, nel mondo antico, è simbolo della potenza che è pronta a mettersi in azione; l’occhio è l’organo della comunicazione (vedere e sapere) e, applicato a Dio, diventa simbolo dello Spirito che, inviato sulla terra, vede e conosce ogni cosa. L’Agnello ha la pienezza della potenza e dello sguardo divino, la sua capacità di incidere in maniera vitale nella storia è determinata da un modo unico di percepirla e di manifestarle la compassione divina12. Un altro aspetto che aiuta la comprensione di questa visione è la contrapposizione tra ciò che Giovanni ode (Ap 5,5) e quanto egli vede (Ap 5,6). Egli ode da uno degli anziani che «il leone della tribù di Giuda, la radice di Davide ha vinto». Si tratta di titoli messianici che evocano un’immagine di 11 In Ap 15,2-4 i seguaci dell’Agnello, che riportano la vittoria sulla bestia, sono considerati il nuovo popolo liberato. Essi stanno in piedi sul mare di cristallo e cantano il cantico dell’Agnello. Giovanni si serve delle immagini del nuovo esodo per mostrare che tale evento salvifico si è già compiuto, sebbene il traguardo debba essere ancora raggiunto. 12 Giovanni spiega che i sette occhi sono simbolo dei sette spiriti di Dio inviati su tutta la terra, è la fecondità stessa di Dio che continua ad agire nella creazione per farle raggiungere la sua pienezza. Mentre le sette corna esprimono la pienezza della forza divina, i sette occhi indicano un guardare in grazia e potenza. 11 accentuato stampo nazionalistico sul messia trionfatore e la sua vittoria sulle nazioni pagane13. Le due espressioni «leone» / «radice» si completano a vicenda, il Messia doveva sorgere dalla tribù di Giuda e avere una componente regale e profetica; egli è presentato come «colui che ha vinto», alludendo al compimento della promessa di Gen 49,10, ma, soprattutto, alla vittoria pasquale del Cristo. L’immagine del «leone» non corrisponde però a quanto Giovanni vede con i propri occhi: «un agnello in piedi come ucciso (sgozzato)». L’agnello appare infatti inatteso, dopo che è stata annunziata la vittoria del leone di Giuda. L’inaspettato cambio da «leone» a «agnello» è segno evidente che Giovanni non è d’accordo con il pensiero giudaico del suo tempo, che continua a sperare in una vittoria del «leone di Giuda» sui nemici del popolo d’Israele (impero romano). Con i segni della morte violenta di Cristo, ma anche della sua risurrezione, Giovanni presenta nella figura dell’Agnello il vero vincitore; la vittoria non si ottiene mediante la forza o il dominio di una nazione sulle altre («leone»), ma attraverso il dono di se stesso («agnello»). A differenza della tradizione giudaica sull’attesa messianica, che mai associa il simbolismo dell’agnello al Messia, il Messia-Agnello dell’Apocalisse non adopera nessuna forma di violenza né di imposizione, la sua unica arma è quella dell’amore 13 Cf. Gn 49,9; Is 11,1.10; il rimando anticotestamentario è alla benedizione di Giuda da parte di Giacobbe e alla vittoria sui suoi nemici (cf. Gn 49,8-12), ma l’autore rielabora il testo per indicare la figura del Messia. Ugualmente l’espressione «radice di Davide» non si trova nell’AT né nel NT, ma solo nell’Apocalisse (cf. Ap 22,16) e rimanda a Is 11,1.10; il cambiamento operato da Giovanni serve per mettere meglio a fuoco l’idea di messianismo: la radice indica non i discendenti ma gli ascendenti di Davide; il Messia non è la radice generata da Davide, ma la radice da cui Davide è generato e allo stesso tempo appartiene alla sua discendenza (cf. Ap 22,16). 12 gratuito. La vittoria perdurante e definitiva di Dio sul male non è altro che il compimento della decisiva vittoria dell’Agnello in croce. I tempi della fine Leggendo l’Apocalisse, guidati da queste due visioni «programmatiche», si può accedere alla ricchezza del suo messaggio e valutarlo correttamente. Con il suo scritto Giovanni non intende profetizzare nulla di nuovo, né vuole descrivere la storia come una concatenazione di fatti che si dovranno avverare, ma, adoperando il linguaggio dei simboli, individua delle costanti all’interno delle vicende storiche14 per aiutare la comunità dei credenti a comprendere meglio la realtà storica in cui si vive, e a testimoniare l’adesione alla parola di Cristo. In quanto «rivelazione», il libro vuole affermare che il Risorto è il Signore della storia, è presente ed agisce in essa per portare al suo traguardo il piano di salvezza (cf. Mt 28,20). Malgrado le apparenze, la storia umana è animata da Dio, con la potenza di vita che scaturisce dalla vittoria di Cristo sulla morte. Dio non interviene nella storia determinando ogni singolo evento, o decidendo già in anticipo in che modo dovrà accadere (come in un copione già prestabilito), ma potenziando con il suo spirito l’uomo, affinché questi faccia delle scelte sempre più in sintonia con il suo disegno di vita (cf. Ap 4,1-11; 21,5). La novità che l'Apocalisse offre, nel presentare la rivelazione di Cristo e indicando il tempo in cui vivono le chiese come quello della pienezza, viene completata verso la fine dell’opera nella dichiarazione solenne che si fa sentire dal trono di Dio: «E la morte non sarà più, né gemito né fatica né grido sarà più, poiché le cose di prima passarono» (Ap 21,4). 14 Ad esempio i «quattro cavalieri» in Ap 6,2-8 rappresentano le dinamiche di vita e di morte che si immettono nella storia. 13 Il libro non rimanda alla fine dei tempi, poiché nessuno conosce come gli eventi si svolgeranno15, ma si concentra nel tempo presente, quello in cui la comunità deve testimoniare la sua adesione fedele al disegno del Padre. Invece della «fine dei tempi», l’autore dell’Apocalisse si interessa ai «tempi della fine», ossia al presente della Chiesa che vive nella tappa finale della storia dell’umanità, quella inaugurata dal Cristo con la sua morte e risurrezione. Non c’è un ordine nuovo da attendere, perché con la risurrezione di Gesù il male è stato debellato alla radice e sono iniziati i tempi ultimi, quelli del compimento, Alla luce del disegno di salvezza rivelato da Cristo, l’autore dell’Apocalisse intende centrare l’attenzione dei credenti sul loro presente e sulla testimonianza a favore del Regno nel tempo della pienezza, dove si va realizzando quel disegno. Ricardo Pérez Márquez Centro Studi Biblici “G. Vannucci” Montefano (Mc) 15 Nell’incontro con il Risorto i discepoli sognano la restaurazione gloriosa d’Israele, che doveva avvenire alla fine dei tempi: «Signore è questo il tempo in cui ristabilirai il regno per Israele? Ma egli rispose: Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla propria autorità…» (At 1,6)đ
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Amiche, oggi, 8 marzo 2017 festa della donna, un messaggio particolare d’auguri per Voi,
Le donne sono come le stelle del firmamento, per quanto si possano chiudere gli occhi loro ci illumineranno sempre la vita! Auguri a te donna, madre, suocera, moglie, sorella, figlia, nipote, nonna, zia cugina, compagna, amica. Auguri a te donna, insostituibile fonte di vita, sostegno, speranza, calore di ogni famiglia!
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Mar 8, 2017 7:57 AM
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