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La mostra illustra un percorso che è al tempo stesso storico, geografico e culturale. Parte da un elemento molto preciso e fecondo: le ricette. Quelle ricette sulla preparazione dei colori, delle tavole, dei muri, ma anche sull'impostazione visiva dei paesaggi, sulle proporzioni della figura, sul sapiente dosaggio delle velature e delle ombre che F.B. studiò instancabilmente nei trattati e nelle opere dei grandi maestri, sperimentò, spesso modificandole e adattandole, per tutta la vita nei suoi lavori e trasmise ad innumerevoli schiere di allievi.
Come per le ricette di cucina, gli ingredienti sono quasi sempre prodotti della terra e in più di qualche caso proprio gli stessi ingredienti: uova e formaggio per le colle, olio e resine per i medium, acqua, latte, aceto, alcol, ecc. con anche tutto l'armamentario di pentole, imbuti, setacci, bottiglie, fornelli e simili. Dalla terra provengono anche le polveri coloranti (i pigmenti) e i materiali usati per i supporti (cotone, legno, gesso, calce, ecc.).
Che si tratti di ricette culinarie o pittoriche, lo scopo è quello di preparare un manufatto da condividere con altri in un rito conviviale e sociale basato sullo scambio, sulla relazione e sulla comunicazione.
La storia è quella di un pittore che osserva e ritrae attentamente e amorevolmente il mondo che lo circonda sia che si tratti di un paesaggio, di un interno, di un ritratto, dello studio di un nudo o degli oggetti di una natura morta. A partire dalle opere giovanili realizzate a Colognola fino alle grandi superfici dipinte in Nord America e in Italia, o per il Brasile, Bolivia, Francia, ecc.
Questo perché l'arte di F.B. era saldamente ancorata all'osservazione del vero.
In questo amore per la terra e i suoi frutti rientra anche la produzione poetica, attaccata al dialetto arcaico di Colognola ai Colli utilizzato per descrivere quel mondo contadino che caratterizzò la sua prima formazione umana e artistica e che si portò sempre dentro.
L'esposizione delle opere sarà arricchita con alcuni degli oggetti ai quali le opere rimandano: dalle polveri coloranti utilizzate, alle immagini dei volti e dei luoghi dipinti, dai frutti alle bottiglie e alle caraffe presenti nelle mature morte, dai soggetti delle opere allegoriche e simboliche alle storie che essi contengono e che più volte sono riportate nei manoscritti dell'artista.
Ricetta autografa di Federico Bellomi per la preparazione di un inchiostro calcografico risalente agli anni '60.
MODI DI LAVORARE DI FEDERICO BELLOMI
Ho potuto assistere alla realizzazione di molte opere di mio padre. Per alcune di esse sono stato presente dalle primissime fasi delle loro ideazione fino alla completa realizzazione. Quindi parlare dei modi di lavorare di mio padre è per me un tuffo nella memoria e nei ricordi, ma anche un modo mettere in luce alcuni aspetti della sua poietica, della sua personalità umana e artistica, delle tecniche adoperate e di quei misteriosi comportamenti che a volte gli artisti adottano e che hanno a che fare con i bisogni più oscuri e profondi dell'animo.
Le modalità operative di Federico Bellomi erano diverse e variavano a seconda di molti fattori: la tecnica adoperata, la grandezza dell'opera, il contesto umano e ambientale nel quale l'opera veniva realizzata, il carattere del committente, ecc.
La realizzazione di un'opera di piccole dimensioni poteva richiedere da pochi minuti ad intere giornate. Le grandi opere murali furono invece quelle che lo impegnarono più a lungo, per settimane, mesi o anni. Per le grandi opere murali l'esecuzione spazia dalla durata di 15 anni per i 240 mq della tempera “Arbor Redemptionis” (Chiesa di Lugagnano VR,
alcune immagini visibili al seguente link: https://picasaweb.google.com/110500200349787129026/ArborRedemptionisLugagnanoPareteFotoScannerizzate
ai 40 giorni per “Il mito di Aci e Galatea” di 30 mq circa (Abitazione Hoffman, Boise, Idaho, US
immagini visibili al seguente link: https://sites.google.com/site/federicobellomicatalogoopere/boise-idaho-2001
A queste variazioni di durata e di tempo si univa l'imprevedibilità degli umori del momento. Anche se molte opere di mio padre furono meditate a lungo, progettate ed eseguite con estrema meticolosità, pensate in ogni minimo dettaglio, il mio ricordo più caro e vivo è quello dei momenti di grande esaltazione e frenesia creativa, quando in pochi minuti poteva eseguire un pastello, una sanguigna o un disegno frementi di energia, con segni rapidissimi e sicuri, come un gioco acrobatico o una improvvisazione in stato di grazia. In questi lavori io vedo il suo spudorato talento, la sua tecnica raffinatissima, il suo lato più estroverso e trascinante. La sua energia era contagiosa. A chi gli stava vicino veniva subito voglia di prendere in mano una matita, una creta, insomma qualcosa e di mettersi subito a disegnare. Sapeva creare un vortice di attenzione e di energia e la sua classe era sempre piena di studenti anche per questo motivo.
Federico Bellomi mentre dipinge all'aperto in un disegno probabilmente di qualche allievo dell'Accademia Cignaroli.
Paesaggi ad olio “en plein air”
Si partiva la mattina presto1. Sulla macchina il cavalletto con i colori, un cassone a scomparti contenente le tavole già dipinte e quelle ancora da dipingere2, varie bottiglie e barattoli di vernici, solventi e olio di lino cotto e crudo, la scorta dei viveri per la giornata e l'immancabile sombrero spagnolo che, assieme ad una vecchia casacca militare, era l'abbigliamento tipico di Federico nelle sue uscite.
Si cominciava a girare osservando i paesaggi e cercando quello “giusto”. La ricerca poteva durare poco ma più spesso durava almeno due o tre ore, con soste ai bordi delle strade. Federico scendeva per valutare meglio, anche tenendo conto del giro che il sole avrebbe fatto nel corso della giornata e capire quali sarebbero state le ombre profonde, che a lui tanto interessavano, nel pomeriggio inoltrato, quando il lavoro sarebbe stato nella fase finale. Quasi tutti i paesaggi furono dipinti in una sola seduta o giornata di lavoro. Trovato il posto, aperto il cavalletto e posizionata la tavola, iniziava una prima fase di attenta osservazione del paesaggio della durata di circa mezzora. In questi minuti Federico era concentratissimo e immobile, pareva essere totalmente assente a tutto il resto. Io sapevo per esperienza che distrarlo con una domanda o con altro in questa fase lo avrebbe disturbato enormemente, quindi stavo da una parte in silenzio. Al termine di questa specie di trance visiva Federico sembrava come risvegliarsi e tornare alla realtà, prendeva i pennelli, apriva i vasetti dell'olio e della trementina, e si preparava con grande cura alcune tonalità sulla grande tavolozza.
Nel preparare queste tonalità spesso ritornava ad osservare attentamente e analiticamente i dettagli del paesaggio. In certi momenti avevo la sensazione che la fissità e l'intensità di certi sguardi fosse funzionale alla ricerca dei colori complementari, che appaiono come un debole alone dopo qualche minuto di osservazione intensa e fissa, ai bordi delle masse di colore. Aveva una estrema facilità nell'arrivare a cogliere questo effetto ottico e uno dei giochi che Federico mi fece scoprire da bambino era proprio quello di fissare attentamente un rettangolo di carta colorata posta su di un fondo neutro (grigio): dopo qualche minuto appare ai bordi un alone del colore complementare e se qualcuno toglie improvvisamente in rettangolo colorato si vede per qualche secondo al suo posto un rettangolo illusorio del colore complementare.
Preparati i colori iniziava una sorta di rito per «vincere la paura del bianco» come talvolta diceva: la superficie della tavola veniva cosparsa di una serie di puntini di colori diversissimi ed estremamente contrastanti che sembravano non avere nulla a che fare con il paesaggio che era davanti a noi.3 Riesco ancora a sentire il ticchettio del piccolo pennello di setola dura contro la tavola nel silenzio della natura che ci circondava. Conclusa la fase preparatoria iniziava la pittura vera e propria con una sommario disegno del soggetto, nel quale erano solo accennati i volumi e le masse principali, poi passava alle campiture delle grandi masse, solitamente con tonalità molto spente, nelle quali era sempre presente una grande parte di grigio. Si arrivava così, in un orario fra il mezzogiorno e le due del pomeriggio (ma più spesso le due o oltre) a concludere una prima fase del lavoro. Era il momento di fermarci per mangiare qualcosa all'ombra di qualche albero o, alla peggio, in macchina.
Innumerevoli sono le storie che potrei raccontare, degli incontri e degli episodi che popolavano queste ore di sublime silenzio: dai dialoghi con i rari passanti incuriositi dal pittore, agli attacchi di nugoli di mosche cattivissime che ci pungevano senza pietà nonostante ci fossimo passati sulla pelle uno strato di inefficace, anche se tossica, trementina; dalla commovente generosità di alcune persone che ci portavano qualcosa in regalo da bere o da mangiare, al cane randagio che rimase con noi per tutta una giornata e con il quale dividemmo il nostro cibo.
Federico sapeva parlare con tutti e spesso gli incontri fortuiti di quelle giornate si trasformavano in inviti a ritrovarci, con scambi di indirizzi, ecc.
La fase successiva, quella del pomeriggio era la più difficile. Era quella in cui, sulle masse già disposte e già parzialmente asciugate, il pittore interveniva con le sue tipiche pennellate nervose e veloci, che riprendevano il disegno delle cose, che giocavano con i colori complementari; dove si scatenava il cromatismo più acceso e infuocato. Qualche volta Federico ragionava ad alta voce... «si... qui una staffilata di carminio su questo verde acido, si ancora, adesso un blu “che sia più blu del blù, un rosso più rosso del rosso” … una lacca di garanza, ecco cosa ci vuole, una lacca di garanza, dove ho messo il tubetto della lacca...» Era come una danza, o una lotta. L'esatto contrario dell'immobilità della prima fase; Federico si muoveva rapido, saltellante, spesso arretrando veloce per vedere l'effetto da una distanza maggiore. Sembrava voler inseguire istante per istante i fuggevoli cambiamenti della luce, e inseguiva le ombre come un segugio la sua preda prima che il movimento del sole le cambiasse o le cancellasse. Le ombre profonde del controluce erano la sua passione, il momento magico che attraversa tutti i suoi lavori più profondi. In quell'ombra indefinibile, nell'ora in cui gli animali vanno a bere e il giorno comincia appena a cedere il suo regno alla notte, Federico vedeva un pulsare e pullulare di colori dalle sfumature straordinarie, un mondo misterioso e intenso. Quello era l'appuntamento finale, gli occhi socchiusi contro il sole del tardo pomeriggio per cogliere le minime sfumature, per accedere al mistero dell'ombra.
Il quadro era finito, si pulivano i pennelli, si chiudeva il cavalletto. Al quadro, appoggiato a una ruota della macchina, un ultimo sguardo terribile prima di metterlo nel cassettone a scomparti.
Lo sguardo freddo e distaccato dell'analisi, del giudizio finale. Lo sguardo del «si, ho fatto un buon lavoro oppure del «c'è qualcosa che non va». Da quello sguardo dipendeva la dose di allegria del viaggio di ritorno. E se lo sguardo era quello del si, era una festa dentro di noi anche se nessuno parlava perché non serviva parlare: il silenzio era quello pieno e felice di chi ha passato un intero giorno a dipingere un pezzo di mondo e sa in cuor suo che ce l'ha fatta.
Un frescante in scarpe da ginnastica.
Ogni volta che stava per iniziare un grande lavoro (affresco, vetrata o altro) Federico si metteva le scarpe da ginnastica. Non “delle” scarpe da ginnastica ma “quelle” scarpe da ginnastica che, dagli anni sessanta in poi lo avevano accompagnato in tutti i grandi lavori nelle chiese, nelle ville, nelle sale. Anche se ormai erano distrutte e piene di macchie di colore e di buchi, dovevano essere quelle: non altre: un rito. Alla sua morte erano ancora nel magazzino di tutte le cianfrusaglie, con gli oggetti dimenticati, i vecchi quadri e disegni assieme ai tubetti di colore, agli inchiostri oramai seccati. Con quelle scarpe si arrampicava a settantanni sulle armature, con quelle scarpe era salito e sceso migliaia di volte dalla scala di legno del suo grande studio di Piazza Broilo 3, dove, sul cavalletto alto sei metri, aveva disegnato quasi tutti i cartoni delle sue grandi opere fino al 1986.
Quelle scarpe da ginnastica erano per lui sinonimo di “cantiere”, di disponibilità a lavorare a qualunque costo e in qualunque situazione. Anche se non correva con i piedi, con quelle scarpe correva con la mente e con il gesto sicuro della mano sulle grandi superfici ancora pulite che ricevevano i primi segni a fusaggine. Con quelle scarpe avrebbe dovuto essere seppellito se la morte non fosse diventata un rigido rituale inumano dalla geometria assurda e burocraticamente implacabile.
Salire sul ponteggio era per lui accedere ad un mondo sospeso fra pittura e realtà. Era il suo mondo, quello che lui amava senza riserve, dove dialogava silenziosamente con i suoi personaggi, quelli che lui aveva creato e che lui considerava la «mia tribù, il mio clan», quelli, per capirci, che popolano le varie Trasmigrazioni dei miei personaggi e che lo accompagnavano in tutti i suoi viaggi reali o immaginari nella pittura o nella vita.
Federico Bellomi, Trasmigrazione dei miei personaggi, litografia. 1973 cm. 64 x 44
Chi gli fece da aiutante, come capitò al sottoscritto nei suoi anni giovanili, sa della meticolosità quasi esasperante con la quale egli preparava pennelli, colori, colle, medium, fissativi, ecc.
Il lavoro non cominciava fino a quando ogni cosa non era pronta all'uso. Era sicuramente un modo per caricarsi di energia, per prepararsi a fare il difficile salto “dentro” al muro o alla tavola o alla tela. Quando anche questo non bastava veniva in soccorso la musica, la grande musica classica che ascoltava continuamente durante il lavoro e che “lo caricava”. La sua spiccata sensibilità lo aveva portato a spaziare dal repertorio sinfonico ottocentesco (negli anni '60) fino, in epoche posteriori, a Monteverdi, a Stravinsky, all'ars antiqua perfino fino a Schoenberg e Cage negli ultimi anni.
Ma il suo amore totale era per il grande J.S.Bach. Quando, nelle ultime settimane di vita, gli portai in ospedale la Passione secondo san Matteo, uno dei suoi pezzi preferiti, e gli misi le cuffie per fargli sentire l'attacco del primo coro, mi chiese a fatica: «che cos'è questa meraviglia?» (non l'aveva riconosciuta) gli risposi: «E' la passione secondo san Matteo di J.S.Bach: il tuo pezzo preferito”. Mi guardò con un'aria pensosa, poi allargò le braccia sulla carrozzina e si mise a gridare per tutto il corridoio: “io amo Bach! Io amo la musica di Johann Sebastian Bach!» e continuò così per più di mezzora, fino a quando la voce non gli si ruppe e una nebbia di confusione non gli velò gli occhi.
Ricordati di salvare i bianchi!
Nell'ultimo disegno che egli fece per me come per gioco, durante una nostra conversazione serale del settembre 2009, si vede un volto vagamente efebico, tracciato con la penna attraverso un tratteggio fitto ed elegantissimo nel gesto e nella trama. Mentre disegnava mi diceva “non so come spiegarlo, è come se la mando andasse da sola, mi sembra di aver finalmente capito come si fa a disegnare, è come scolpire … con questi tratti come tanti colpi di scalpello ... aveva ragione Michelangelo … ” Io capivo e non capivo e in quei venti minuti osservavo in silenzio l'artista al lavoro con la mente in ebollizione, la mano rapida e quasi nervosa ma sicura e dolcemente forte.
Arrivato a casa misi il disegno nel mio cassetto senza minimamente immaginare che sarebbe stato l'ultimo suo regalo.
Ho cercato molte volte di copiare questo disegno: non ci sono mai riuscito: troppo elegante e libero, non si lascia catturare da nessuna copia meticolosa se non perdendo tutta la sua freschezza e leggerezza. E' un distillato di anni di esperienza e di studio ai vertici della tecnica e della poesia.
E' un disegno così arioso che mi riporta agli anni della mia infanzia, quando disegnavo con ostinazione.
Uno dei consigli immancabili arrivava quando la mia ostinazione mi faceva superare il punto nel quale il disegnatore deve fermarsi: «Ricordati di salvare i bianchi”. In pratica: non coprire tutta la superficie di un fitto tratteggio, lascia dei vuoti, lascia respirare il disegno...
Questa sapienza del “non finito” (che lui amava follemente nei marmi e nei disegni dell'ultimo Michelangelo) si vede in innumerevoli suoi disegni, ma anche nei dettagli delle grandi opere.
dove gli oggetti dello sfondo sono avvolti in un'ombra che li nasconde quasi interamente spingendoli sul confine fra realtà e penombra, tra essere e non essere. La misteriosa presenza della testa e dell'anfora ci parlano e ci raccontano silenziosamente, emergendo dalle ombre indefinibili, il mondo di Federico Bellomi: un mondo che, come ha acutamente rilevato il filosofo Jean Marc Trigeaud nel suo scritto : «... è incessantemente attraversato dalle effusioni mistiche della luce alla quale partecipa un cromatismo acceso o pacato; e questa luce non è percepibile al di fuori del riverbero infinito che offrono le apparenze; apparenze esteriorizzate in un paesaggio abitato e coltivato, o apparenze più interiorizzate che circondano oggetti prosaicamente disposti davanti a finestre chiuse. Apparenze che alternano il movimento dei grandi venti che spazzano il mondo naturale (che ricordano quell’Adamo ed Eva cacciati dal paradiso terrestre di Masaccio che inquietano già l’immaginazione del pittore con il loro alberi curvi sul crinale delle colline...) e l’improvvisa immobilità di una vita più ferma e contemplativa (come quella alla quale appartiene il maestro di Delft). Apparenze che diventano anche poco a poco, attraverso i cambiamenti e le trasformazioni delle circostanze della vita, il mistero dell’essere.»
Era un modo per conservare, anche nell'opera più pensata e meditata, il senso dell'immediatezza, la dinamicità, la leggerezza e l'eleganza. La cosa è ovvia nei rapidi disegni e nei pastelli ma è ottenuta anche, a furia di velature, nelle opere dall'esecuzione lenta e accuratamente pensata, come l'inquietante Natura morta con la testa in marmo rosa del 1975 (olio su tavola, cm 50 x 60)
La tavolozza del pittore:
In realtà è solo una delle sue tavolozze e nemmeno la più grande.
Forse è l'ultima usata per dipingere un quadro en plein air ma non sappiamo quale sia questo quadro. E' rimasta così, con i suoi impasti, i suoi colori tonali, la sua struttura.
Nella lunga carriera artistica di Federico Bellomi vi è una costante mai tradita: l’interesse e lo studio dei materiali, delle tecniche, delle procedure, in una parole: del “mestiere”. Innanzi tutto per quanto riguarda quello che la tradizione ha prodotto di efficace e duraturo nel tempo. Ma la sperimentazione di materiali e nuove soluzione lo ha spinto talvolta ad introdurre varianti nelle ricette e nelle procedure per fornire soluzioni adeguate ai vari contesti. A tutti quelli che lo conoscevano è nota la meticolosità con la quale l’artista preparava i supporti sui quali avrebbe poi dipinto. Che si trattasse di una tavola, di una tela o di un muro. Lo ricordo ancora in varie occasioni dove era in procinto di eseguire un lavoro su muro, verificare la struttura del muro, la composizione delle malte e degli intonaci, toccare con le mani il muro quasi per sentirne al tatto il grado di umidità, la consistenza, l’affidabilità. Raramente il suo fiuto e il suo istinto lo tradivano: “sentiva” la qualità dei materiali con una precisione sconcertante.
Questa dote naturale lo portò anche, in qualche caso, a dover affrontare problemi imprevisti: come la sgarbatissima reazione di un collezionista che aveva appena comperato un falso quadro rinascimentale che Federico Bellomi fiutò subito e che dimostrò essere tale sollevando un lembo di pigmento e dimostrando che si trattava di una foto stampata su tela abilmente ritoccata con vernici e colori veri. Il rifiuto di firmare una falsa certificazione di autenticità fu accolto con accese polemiche e minacce neanche tanto larvate.
Un esempio a tutti visibile di questa meticolosità nella scelta dei materiali e degli strumenti tecnici sono i pannelli del Polittico Bertaiola “Storie del fiume Mincio” nella Antica Locanda Mincio di Borghetto a Valeggio sul Mincio (VR).
La richiesta era quella di eseguire le opere su muro, ma Bellomi, dopo una attentissima esplorazione e valutazione decise di eseguirli su pannelli lignei preparati, secondo la tecnica rinascimentale, a gesso e colla animale. La salvezza e la durata nel tempo di questi dipinti si deve a tale scelta. Al contrario, la piccola Madonna con bambino dipinta ad affresco su muro nella nicchia che si trova a poche decine di metri di distanza sulla facciata della chiesa di Borghetto di Valeggio S.M. (del resto non sarebbe stato possibile lasciare all’aperto un pannello ligneo) è stata “mangiata”, come Bellomi temeva, dalle infiltrazioni di umidità che, risalendo dalle acque del fiume Mincio, hanno prodotto quelle macchie di muffa e di salnitro che hanno distrutto quasi totalmente il dipinto. La stessa sorte sarebbe toccata alle “storie del fiume Mincio” nella locanda, se le avesse affrescate su muro.
OLIO SU TELA E SU TAVOLA
La mostra illustra un percorso che è al tempo stesso storico, geografico e culturale. Parte da un elemento molto preciso e fecondo: le ricette. Quelle ricette sulla preparazione dei colori, delle tavole, dei muri, ma anche sull'impostazione visiva dei paesaggi, sulle proporzioni della figura, sul sapiente dosaggio delle velature e delle ombre che F.B. studiò instancabilmente nei trattati e nelle opere dei grandi maestri, sperimentò, spesso modificandole e adattandole, per tutta la vita nei suoi lavori e trasmise ad innumerevoli schiere di allievi.
Come per le ricette di cucina gli ingredienti sono quasi sempre prodotti della terra e in più di qualche caso proprio gli stessi ingredienti: uova farina e formaggio per le colle, olio essenze e resine per i medium, acqua, latte, aceto, aglio, alcol, ecc. con anche tutto l’armamentario di pentole, imbuti, setacci, bottiglie, fornelli e simili. Dalla terra provengono anche le polveri coloranti e i materiali usati per i supporti (cotone, legno, gesso, calce, ecc.).
Che si tratti di ricette culinarie o pittoriche, lo scopo è quello di preparare un manufatto da condividere con altri in un rito conviviale e sociale basato sullo scambio, sulla relazione e sulla comunicazione.
La storia è quella di un pittore che osserva e ritrae attentamente e amorevolmente il mondo che lo circonda sia che si tratti di un paesaggio, di un interno, di un ritratto, dello studio di un nudo o degli oggetti di una natura morta. A partire dalle opere giovanili realizzate a Colognola fino alle grandi superfici dipinte in Nord America e in Italia, o per il Brasile, Bolivia, Francia, ecc.
Questo perché l’arte di F.B. era saldamente ancorata all’osservazione del vero.
In questo amore per la terra e i suoi frutti rientra anche la produzione poetica, attaccata al dialetto arcaico di Colognola ai Colli utilizzato per descrivere quel mondo contadino che caratterizzò la sua prima formazione umana e artistica e che si portò sempre dentro.
L’esposizione delle opere sarà arricchita con alcuni degli oggetti ai quali le opere rimandano: dalle polveri coloranti utilizzate, alle immagini dei volti e dei luoghi dipinti, dai frutti alle bottiglie e alle caraffe presenti nelle mature morte, dai soggetti delle opere allegoriche e simboliche alle storie che essi contengono e che più volte sono riportate nei manoscritti dell’artista.
L’artista preparava le tavole lignee prevalentemente in questo modo:
La sera prima si mettevano a bagno le stecche di colla animale perchè si ammorbidissero.
Oggi questa stessa colla viene venduta in piccole perline della grandezza di un chicco di mais che impiegano molto meno tempo ad ammorbidirsi in acqua.
Ma all’epoca la colla animale reperibile in commercio era prodotta quasi esclusivamente dalla ditta francese “Lapin” che marchiava ogni singola stecca con un timbro contenente il nome e il simbolo della ditta produttrice, un coniglio appunto.
Questo fatto ha alimentato un modo di dire e una leggenda ancora oggi indistruttibili: questa colla veniva chiamata tanto per capirsi “colla di coniglio” e cominciò a farsi strada la convinzione che fosse fabbricata utilizzando appunto la pelle del coniglio. Cosa che viene riportata tranquillamente anche in più di qualche trattato moderno sulla pittura.
Niente di più falso e ingenuo! la colla animale si ottiene dalla lavorazione (che ha come procedimento fondamentale la bollitura) degli scarti animali di macelleria: ossa, pelle e soprattutto cartilagini (che contengono grandi quantità di collagene, l’ingrediente fondamentale della colla) come ad esempio i testicoli di toro, provenienti soprattutto dai “grandi animali” cioè bovini, equini, ovini ecc. Il contributo quantitativo dei poveri conigli è, se c’é, assai modesto. La cosiddetta colla d’ossa non è altro che una colla animale più forte (più concentrata) ma gli ingredienti base sono sempre gli stessi.
Uno primo strato di colla animale a caldo (cioè riscaldata a bagnomaria per evitarne la cottura) sciolta in tanta acqua fino a farne un liquido moderatamente denso e una piccola quantità di gesso di Bologna. Si distende sulla tavola lignea, posta orizzontalmente su di un supporto, velocemente (perchè raffreddandosi si solidifica) con un pennello largo. Contenendo una alta percentuale di colla e poco gesso è una colla molto forte e ci mette da uno a tre giorni per asciugare completamente a seconda del clima e della stagione. Il colore risultante è di un grigio-caffè ancora piuttosto trasparente (si vedono ancora sotto le macchie del legno: nodi, venature, ecc.)
Una volta asciutto il primo strato se ne prepara analogamente un secondo con una maggiore percentuale di gesso di Bologna e lo si distende sulla tavola allo stesso modo.
Quando asciutto il secondo strato si passa al terzo con un percentuale di gesso di Bologna ancora maggiore, e così via fino ad ottenere la superficie finale della bianchezza, porosità e consistenza volute.
In alcune tavole rinascimentali ci sono anche sei strati diversi di questa preparazione.
Federico Bellomi usava comunemente tre strati per le piccole tavole sulle quali ha dipinto molti paesaggi e nature morte e quattro strati sui lavori di maggior impegno (polittico Bertaiola e altri)
Chi ha usato queste vecchie stecche di colla animale della ditta Lapin ricorderà l’odore nauseabondo e vomitevole che questa colla sprigionava quando era calda. Nelle moderne colle animali vendute in perline questo odore non si produce più grazie ad alcuni accorgimenti utilizzati nella preparazione industriale delle colla.
Per Federico Bellomi la fase iniziale dei paesaggi dipinti “en plein air” consisteva, dopo una attenta osservazione e una preparazione dei colori sulla tavolozza che poteva durare anche un’ora, nel cospargere la superficie di una serie di punti, con piccole pennellate nervose e colori scelti prevalentemente per contrasto rispetto ai colori che sarebbero stati stesi successivamente. Si può vedere benissimo questa procedura le paesaggio incompleto di San Giovanni in Valle in autunno.
San Giovanni in Valle, olio su tavola, 1972, cm 57 x 44, firmato ma
non completato.
So bene il motivo per cui questo quadro non è stato completato.
Mentre mio padre dipingeva da "san Benedetto" del Don Calabria arrivò la telefonata che mio fratello (che allora aveva 9 anni) si era rotto un braccio a scuola, durante la ricreazione, andando sulla giostrina che c'era nel cortile. Mio padre piantò tutto e lo portò di corsa in macchina all'ospedale di Negrar.
Come in diversi altri casi di lavori interrotti per motivi spiacevoli, non
lo riprese mai più e lasciò volutamente l'opera incompleta.
La parte interessante sono le due macchie bianche in basso (a sinistra e, più piccola, a destra) dove si vede il bianco della preparazione a colla animale e gesso di Bologna "picchiettatto" con macchie di vari colori (giallo, rosso, blu, verde, ecc.).
Come riportato sopra, nella fase iniziale del lavoro tutta la superficie della tavola era trattata allo stesso modo.
Le stesse macchie si vedono ancora in trasparenza sotto i primi azzurri del cielo.
Il resto del quadro è appena abbozzato con i proplasmi molto schematici ed essenziali delle masse, con colori tonali molto spenti (che contengono cioè una grande quantità di grigi).
Per la preparazione su tela la ricetta variava di poco, utilizzando il più elastico Gesso di Marcellise.
Per la preparazione delle mestiche venivano utilizzate le ricette tradizionali a base di olio di lino cotto e, soprattutto, crudo, con aggiunta di essenza di trementina, vernice Damar ecc.(l’acquaragia derivata dal petrolio serve solo a pulire i pennelli!) riportate già dai trattati di Cennino Cennini, del Rosa, del Piva.
Le dosi variavano a seconda del risultato voluto con un medium molto magro nelle prime fasi e via via più grasso nei paesaggi dal 1970 in poi. Vi sono opere con una materia molto grassa, violente pennellate cariche di colore e una pasta assai densa; altre oli invece rimandano ai modelli della pittura rinascimentale, con una grande cura delle campiture, delle mezze tinte, delle sfumature e delle velature, come nella cupa natura morta con la testa in marmo di Margherita riportata più sopra.
Ma vi sono anche molte opere dove le due differenti tecniche convivono e dialogano, come nel “Ritratto di Ana nella Sierra Morena” che fu inizialmente dipinto “en plain air” con la consueta tecnica a pasta grassa e pennellate vigorose, come si può ancora vedere nel paesaggio dello sfondo. Invece il corpo della figura femminile in primo piano fu successivamente trattato con varie velature fino ad ottenere quell’effetto di luminosità intensa ma soffusa e velata che caratterizza questo corpo illuminato dal sole dell’estate spagnola del 1974.
Serrana (ritratto di Ana), olio su tavola, 1974, cm 50 x 60.
In qualche raro caso Bellomi lavorò i colori a olio anche a spatola: ad esempio nella maglia gialla del figlio Francesco nel ritratto di famiglia del 1970 dove tale scelta era esplicitamente collegata all’enorme impressione appena avuta dalla visione in Olanda del corpetto della “Sposa Ebrea” di Rembrandt.
Fino ad oggi tutti i quadri ad olio della collezione dell’artista dipinti dagli anni ‘60 in poi si sono mantenuti in ottimo stato di conservazione, nonostante i vari traslochi e il fatto che talvolta siano stati conservati in ambienti climaticamente poco adatti (come una soffitta freddissima d’inverno e rovente d’estate). Anche i colori non hanno subito alterazioni significative e vi è un unico caso di una natura morta dipinta su cartone dove il colore usato per dipingere una zucca si sfoglia perché contiene probabilmente qualche sostanza sbagliata.
I quadri che risentono maggiormente dell’usura del tempo sono quelli giovanili, dipinti a Colognola e nel periodo di studio all’Accademia Cignaroli durante la guerra. Era un periodo di grande povertà e i materiali adoperati sono spesso materiali di recupero. Ad esempio un piccolo ritratto ad affresco di Carolina Taddei è eseguito su un frammento di soffitto con intonaco da un lato e canne dall’altro: le cosidette “arelle” utilizzate un tempo per i controsoffitti. Molte tele sono dipinte su entrambi i lati. In un caso vi è un dipinto di Federico Bellomi su un dipinto precedente di altro artista, probabilmente del sec. XIX°; è probabile che la tela fosse stata recuperata da qualche quadro appartenente a qualche chiesa o villa della zona e destinato ad essere distrutto. Anche la qualità dei colori usati è quella che consentivano le limitate risorse del periodo giovanile di Federico.
Negli anni ’50 il contatto con il pittore Pino Casarini e l’inizio dell’attività di frescante su grandi superfici murarie, porterà il pittore ad essere sempre più attento alla qualità dei mezzi e dei materiali adoperati, ad utilizzare sempre di più le antiche ricette contenute nei principali trattati di pittura che hanno dimostrato di poter reggere l’usura dei secoli.
Questa attenzione aumentò ancora quando, da docente di pittura all’Accademia Cignaroli, si trovò a dare indicazioni ai propri allievi.
Ma fu sempre un percorso di studio e di sperimentazione, con anche tentativi ed errori. Ad esempio una grande pittura murale dipinta in una casa privata di Caprino Veronese (intitolata “una festa ebraica”) paga oggi l’errore di aver adoperato, nei primi anni ’60, delle colle viniliche per la pittura su muro. Era la moda e la novità del momento e queste colle sembravano affidabilissime anche per la pittura. ma non avevano ancora superato “la prova del tempo” e Bellomi le abbandonò velocemente.
In altri casi i dipinti sono stati danneggiati dell’incuria e dagli agenti atmosferici, come il grande encausto dipinto all’interno della caserma dei vigili del fuoco di Verona, oggi completamente cancellato, che avrebbe potuto essere salvato con una semplice gronda protettiva dal sole e dalla pioggia.
TEMPERA E TEMPERA DI CASINA LATTICA
I numerosi lavori a tempera abbracciano un arco di tempo molto vasto che va da alcune opere giovanili rimaste e sopravissute al rogo che periodicamente l’artista accendeva per bruciare quei lavori che non erano più considerati degni di essere conservati, ai grandi lavori murali degli ultimi anni con la grande tempera di caseina lattica della chiesa di Lugagnano, con il rifacimento del catino absidale della chiesa di Quaderni (VR) con la grande parete del “Mito di Aci e Galatea” nella casa del regista Michael Hoffman in Boise (Idaho- USA) a con molti altri lavori collocati in varie parti del mondo. (Bolivia, Francia, Svizzera, Portogallo e Italia).
La preparazione delle tavole e delle tele per la tempera era analoga a quella per la pittura ad olio, ma molte tempere furono invece eseguite su carta (carta da scene o cartoncino tipo schedario 300g/m2, più raramente altri tipi di carta).
Esiste anche una caso di tempera all’uovo, una scena di cavalli e soldati.
La tecnica della tempera servì anche per preparare le cosiddette “carte tinte” che furono adoperate in grande quantità per disegni a sanguigna, crete, pastelli e carboncino o fusaggine.
RICETTA PREPARAZIONE CARTE TINTE E IMMAGINE
Sono rimaste alcune “carte tinte” abilmente lavorate con colori, masse e trattamenti particolari: ad esempio uni straccio fatto rotolare sul colore ancora fresco per ottenere una serie di macchie irregolari e imprevedibili delle quali fa tesoro nel successivo lavoro.
Ma il tipo di tempera che alla fine si impose su tutti gli altri fu la “tempera di caseina lattica”.
Le motivazioni sono da ricercare nella capacità di questa colla di aderire in modo quasi incancellabile alla superficie dell’intonaco murale, alla sua straordinaria forza e durata nel tempo attraverso il processo di carbonatazione assai simile a quello dell’affresco, alla resa luminosissima e assai affine all’affresco nell’utilizzo delle polveri coloranti cioè dei pigmenti, alla possibilità di poter essere usata su quasi tutti i tipi di superficie pittorica (tranne vetri e metalli).
RICETTA COLLA DI CASEINA LATTICA
OPERE DIPINTE A TEMPERA E TEMPERA DI CASEINA LATTICA
Nudo, senza data, tempera su cartoncino e disegno a fusaggine con pentimenti e dettagli di paesaggio.
RICETTA PREPARAZIONE CARTE TINTE E IMMAGINE
Sono rimaste alcune “carte tinte” abilmente lavorate con colori, masse e trattamenti particolari: ad esempio uni straccio fatto rotolare sul colore ancora fresco per ottenere una serie di macchie irregolari e imprevedibili delle quali fa tesoro nel successivo lavoro. Altre carte tinte, come quelle delle successive immagini, hanno già una idea abbastanza chiara del soggetto che sarà poi disegnato e lo prefigurano che delle forme facilmente leggibili e riconoscibili.
Esempi di carte tinte preparate da Federico Bellomi
PASTELLI, SANGUIGNE E CRETE, FUSAGGINI E CERE.
(su carte tinte o su carte normali)
Bellomi si era fabbricato in proprio una serie di cere che utilizzò in numerosi studi e disegni degli anni ’60, come il seguente studio su carta da scene per un personaggio del “Convito di Levi” nella chiesa di Quaderni.
Per la preparazione delle fusaggine invece utilizzava delle scatole metalliche accuratamente chiuse, nelle quali metteva i rami di nocciuolo (preferito da Bellomi alla fusaggine) accuratamente selezionati e tagliati della misura voluta.
La scatola posta nel forno da ceramica durante la cottura del “biscotto” a 600° circa, carbonizzava perfettamente i rami ottenendo il “carboncino” ovvero fusaggine.
Praticamente tutti i cartoni per le grandi opere murali sono stati eseguiti con fusaggine su carta da scene. Ma anche innumerevoli studi e disegni di piccole e medie dimensioni, come il seguente ritratto della madre del 1954.
Pastelli sanguigne e crete invece non erano preparate in proprio ma acquistate.
Il pittore e la modella, pastello su carta tinta
Ritratto della madre, 1956, sanguigna su carta da scene.
AFFRESCO:
RICETTA DETTATA SULL’AEREO PER BOISEAFFRESCO
MURO: deve essere assorbente, costruito in cotto o sasso tufaceo o mattone.
INTONACO: - occorre calce spenta da 1/4 anni.
Quando la calce viva viene spenta immergendola in acqua reagisce violentemente in seguito la reazione diminuisce di intensità e si forma nella parte alta del contenitore sulla superficie dell’acqua uno strato di 4 mm circa, dall’aspetto cremoso: è il grassello di calce, la sua parte più nobile.
Il primo intonaco da fissare sul muro è detto “rinzaffo” ed è composto da due parti di calce e due parti di sabbia di fiume. Si presenta grezzo e rugoso e viene buttato sulla patrete con cazzuola e fratazzo. Quando è asciugato “segna” presenta cioé delle crepe perchè è grasso.
Seguono 3 mm circa di intonaco detto “arricciato” o “malta bastarda” nel nord Italia esso è composto di calce spenta 1/4, sabbia di fiume 1,45 parti (per il resto), (coccio pesto 0,15) (polvere di marmo).
A Roma è composto di calce e pozzolana (un calcare) che trattiene l’umidità
L’”arricciato” viene tirato con una cazzuola e fratazzato con “sparviero”. Deve conservare una certa ruvidezza,
Infine si mette il “Tonachino” (spessore 2/3 mm) detto anche malta fine o intonaco fine.
Dosi del “tonachino”
due parti di grassello di calce, due parti di sabbia di fiume lavata, 0,25 di polvere di marmo se si vuole la superfice levigata, ma la polvere di marmo ostacola il processo di carbonatazione che si realizza anche grazie ala naturale “trasudazione del Muro”
3) TONACHINO (spessore 2/3 mm) (malta fine o intonaco fine)
2p. di grassello
2p. di sabbia di fiume lavata
0,25 di polvere di marmo se si vuole parete levigata
la polvere di marmo ostacola la carbonatazione (trasudazione del muro) come Cristallina -c'è anche nelle grotte primitive.
Negli arcovoli dell'Arena la carbonatazione fa ritornare le malte durissime (come sasso)
AFFRESCHI ANTICHI - un po' levigati (Sommacampagna)
8-13 ore - processo di carbonatazione. Una volta creata la pellicola non accetta più il colore.
- stagioni miti
- sacchi segatura per umidità = carbonatazione rallenta
- in INVERNO il gelo non va bene
- l'umidità rallenta la carbonatazione.
- più è lenta e più protegge i colori.
AFFRESCHI BAROCCHI (Tiepolo) su intonaci solo fratazzati (= carta vetrata)
- steso prima latte di calce (spenta)
"Scialbare" - Giotto (con anche terre colori)
Superfice ruvida accoglie più cariche di colore
Film . colori (visione in sezione del muro come profilo di montagne)
più liscio = solo mezza pasta
TIEPOLO val Marone = pasta intera.
pasta intera = pigmenti + grassello + acqua di calce.
Le terre calcinate resistono di più all'aggressività della calce.
Acqua di calce (alla superficie una ragnatela azzurrina) x mescolare i colori.
- lapislazzuli + colla di caseina lattica.
ANTICHI : ricotta + grassello di calce + olio di lino (poco) per attenuare la forza della colla.
COLLA MADRE (allungabile con acqua)
NOI OGGI: caseina in polvere a bagno nell'acqua
+ ammoniaca
x sciogliere la granulosità + olio di glicerina (minima)
per fare un latte e sostenere Lapislazzuli.