La vita e le opere di Federico Bellomi raccontate dal figlio Francesco
Angeli negri
Pittore ti voglio parlare
mentre dipingi un altare.
Io sono un povero negro
e d’una cosa ti prego.
Pur se la Vergine è bianca
fammi gli angioletti negri.
Se tu
dipingi con amor
perché disprezzi il mio color?
Se vede bimbi negri
Iddio sorride lor.
Non sono che un povero negro
ma nel Signore io credo
e so che tiene d’accanto
anche i negri che hanno pianto.
Quando dipingi le chiese
là fra le candele accese
fra gli arcangeli ti prego
metti un angioletto negro.
ALLITTERAZIONE
Hai da fare?
No, figurati. Dimmi.
Non riesco a trovare la definizione di "Allitterazione".
Presta un attimo.
Ecco. - Allitterazione: ripetizione di lettere o sillabe, uguali o foneticamente simili, di solito all'inizio di due o più parole successive.
Cioè?
Ti faccio un esempio che conosci bene perchè è una storia che mi hai raccontato quando ero bambino.
C'era un pittore che aveva dipinto una madonna; sulla veste di questa madonna c'era un nastro, come quello che ha la madonna della pietà di Michelangelo in Vaticano, dove lui, alla fine, mise la firma.
Ma sul nastro di questa madonna non c'era la firma dell'autore, ma tante p.;
p.p.p.p.p.p.p.p.p.p.p. Undici p., per l'esattezza.
Tutti si chiedevano il significato di quella strana decorazione.
La soluzione fu data dal pittore, le undici p. significavano: Pittore Pinse Pittura Per Poco Prezzo, Porco Prete Paesan Pagare Poco.
Ah, ah, adesso mi ricordo. Perfetto, non mi dimenticherò mai più cos'é un'allitterazione.
Sei bravo a ricordarti questa storia dopo così tanti anni.
Quello che mi hai raccontato, io non lo dimentico.
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Il precedente dialogo si è svolto tra me e mio padre nel mese di gennaio 2010, mentre abitavo con lui per aiutarlo nella sua convalescenza.
Morirà 4 mesi dopo, il 25 aprile 2010, di un tumore cerebrale (glioblastoma) che gli era stato diagnosticato un paio di settimane prima del nostro colloquio sull'allitterazione.
Eravamo nella sala del suo appartamento di via Anfiteatro 9. Seduti uno di fronte all'altro al grande tavolo da 6 posti.
Dalla strada arrivavano i suoni del traffico e delle persone tipici del mezzo pomeriggio. Dall'altra parte del tavolo c'era pieno di medicine per le fibrillazioni atriali, con relativi appunti sugli orari di ciascuna pillola.
Conoscendo la sua memoria formidabile, sono certo che non avrà più dimenticato cos'era una allitterazione, nemmeno quando, due mesi dopo, mi chiese dal suo letto d'ospedale:
Qui êtes-vous?
Je suis ton fils, Francis.
Mon fils?
Oui.
Est-ce vrai?
Oui, c'est vrai.
N'est pas possible! Je ne comprends pas...
Nelle sue ultime settimane di vita parlava esclusivamente in francese, con pronuncia perfetta e senza accento.
Uno dei primi ricordi consapevoli che ho di mio padre risale al periodo che abitavamo in piazza Caduti 44 (Quartiere Santa Lucia, Verona). Io camminavo su e giù per il corridoio del piccolo appartamento cercando di usare il bastone di canna che si era portato dietro dalla Francia nel 1951, dopo aver lavorato per quasi tre anni nelle miniere di carbone. Io avevo meno di 5 anni e arrivavo a fatica all'impugnatura, altissima, sopra la mia testa.
Mio padre lavorava nel suo studio, la stanza in fondo al corridoio, lasciando la porta socchiusa per tenermi d'occhio.
Molti anni dopo spiegò che quel bastone, comperato ai minatori nordafricani, serviva loro per trasportare la droga, essendo vuoto e avendo un manico semplicemente avvitato sulla canna.
Questo lo rese assolutamente prezioso e speciale per me e mio fratello; un po' troppo speciale per mio fratello, a dire la verità.
Questo bastone è ancora fra le sue cose, ma non lo usava per uscire, preferiva usare quello che gli aveva costruito Cecilia Valentini con una canna di bambù dei suoi campi e un pomolo di legno. Oppure, quando non poteva evitarlo, con quello che gli aveva regalato Irene Nava, anche se non gli piaceva molto.
Uno degli sport preferiti negli ultimi tempi era, prima della passeggiata per andare in farmacia o a fare il prelievo del sangue, "Dove ho messo il mio bastone?"
Alle volte occorrevano 20 minuti buoni prima di trovare l'angolo dove aveva distrattamente appoggiato il bastone, dimenticandolo.
Questa foto risale alle vacanze di natale del gennaio 2010.
E' l'ultima foto fatta a mio padre vivo.
La canzone "Angeli negri" riportata all'inizio ha invece un'altra motivazione, e la spiegherò quando avrò tempo.
SCHIAFFI
Io ero arrivato da poco, meno di due mesi, e la mia culla era nella camera dei miei genitori.
Ero il primo figlio e, quando molti anni dopo, nacque la mia prima figlia, mio padre, appena diventato nonno, di disse: "quando ti nasce un figlio i sensi si affinano: é come se ti spuntassero le antenne e senti le cose come non le hai mai sentite prima. Specie quando è il primo figlio. Ad esempio, quando sei nato tu e abitavamo a Quaderni, in via Leopardi 14, una notte (ti avevi appena due mesi o meno) mi svegliai di soprassalto nel cuore della notte. Subito non mi resi conto del perché ma dopo un momento capii; non ti sentivo più respirare. Allora mi alzai dal letto e mi avvicinai alla culla dove tu eri: non respiravi, eri tutto rigido e freddo, immobile. Allora ti presi in braccio scuotendoti con violenza, ma tu niente, rimanevi duro, freddo e non respiravi. Allora ti presi a schiaffi e tu improvvisamente facesti come uno scatto con tutto il corpo e cominciasti a piangere disperato, ma respirando. Mi ero svegliato per il silenzio, perché non ti sentivo più respirare. Se non avessi sentito quel silenzio e non mi fossi svegliato forse la tua sarebbe stata una delle tante e inspiegabili morti bianche".
L'ipotesi che si fa oggi è che le "morti bianche" sia dovute al fatto che i neonati sognano di essere ancora nel ventre materno e smettono di respirare. Questa fu la prima volta che mio padre mi salvò la pelle.