“Se fosse possibile vedere attraverso la scatola cranica e se la zona maggiormente eccitata fosse luminosa, si potrebbe seguire, in un uomo intento a pensare, lo spostamento incessante di questo punto luminoso, in un continuo cambiamento di forma e dimensione” Ivan Pavlov
Il sogno di Pavlov, premio Nobel nel 1904 per le sue famose indagini sui riflessi condizionati, era avveniristico. Ai suoi tempi, infatti, erano stati appena insigniti del premio Nobel i coniugi Pierre e Marie Curie per le loro ricerche sulla radioattività e Wilhelm Conrad Röntgen per la scoperta dei raggi X, indagini che rappresentarono la premessa per l’uso clinico delle radiografie. La radiografia del cranio permetteva di identificare solo le strutture ossee del cranio, ma ha rappresentato l’unica modalità di indagine a disposizione dei neurologi fino agli anni 70 del secolo scorso. Solo in quegli anni iniziò infatti l’era moderna della neuroradiologia, caratterizzata dall’introduzione delle tecniche di neuroimaging, cioè di quelle metodiche che finalmente hanno consentito di visualizzare il contenuto all’interno del cranio. Attualmente, con il termine neuroimaging strutturale vengono indicate le tecniche che permettono la visualizzazione della morfologia (anatomia) cerebrale, mentre come neuroimaging funzionale sono definite le tecniche che consentono di studiarne il funzionamento (fisiologia).
Al primo gruppo appartiene la tomografia computerizzata (TC), introdotta appunto all'inizio degli anni '70 da Cormack e Hounsfield (Nobel nel 1979); la metodica, basata sui raggi X, per la prima volta riuscì ad ottenere una immagine del cervello; con la rapida evoluzione tecnica degli anni successivi le immagini ottenute con la TC sono divenute poi sempre più dettagliate. Qualche tempo dopo, negli anni 80, fu sviluppata la risonanza magnetica (RM o, in inglese, MRI); la metodica, per la cui introduzione a scopo clinico Mansfield e Lauterbur hanno ricevuto il Nobel nel 2003, si basa sulla diversa risposta dei tessuti del corpo umano alla perturbazione di un campo magnetico e attualmente consente di ottenere immagini anche tridimensionali delle strutture nervose.
Al secondo gruppo appartengono metodiche che sfruttano un noto principio della fisiologia: i neuroni per funzionare necessitano di risorse energetiche; ciò, nelle regioni cerebrali che entrano in funzione, determina un aumento del flusso sanguigno e del metabolismo, un cambiamento che è possibile misurare in vario modo. Queste metodiche di indagine funzionale sono state sviluppate sempre negli anni 80: ad esempio la tomografia a emissione di fotone singolo (SPECT) e la tomografia ad emissione di positroni (PET) misurano il segnale ricevuto da un tracciante radioattivo che, immesso nel circolo sanguigno, raggiunge il sistema nervoso e si localizza nelle strutture cerebrali in modo proporzionale al consumo metabolico.
All’ultimo decennio del secolo scorso, definito il “decennio del cervello”, risale infine l’utilizzo della risonanza magnetica funzionale (RMf o, in inglese, fMRI) che ha rappresentato una rivoluzione radicale per il mondo sia della clinica che della ricerca. La metodica si basa sulle differenze di magnetizzazione tra il flusso sanguigno povero di ossigeno (quando la struttura cerebrale è in stato di riposo) e quello ricco di ossigeno (quando la stessa struttura è invece in stato di attivazione). Il confronto tra questi due stati del cervello consente di visualizzare quali aree cerebrali entrano in funzione durante l’esecuzione di un compito (ad esempio, muovere una mano o vedere una figura).
La fMRI ha rappresentato una rivoluzione, in primo luogo, perché non è un esame invasivo e quindi, dato che non richiede l’uso né di raggi X né di un mezzo di contrasto, non comporta nessuno degli effetti collaterali che erano invece associati alle metodiche di indagine precedenti. Questa caratteristica è stata rapidamente sfruttata dai ricercatori (al di là delle indicazioni cliniche) per indagare il funzionamento cerebrale in condizioni fisiologiche, cioè in soggetti sani; infatti, come si possono documentare i cambiamenti del sistema nervoso conseguenti al movimento di una mano, così si possono verificare quali regioni si attivano, per esempio, se si sta ammirando un’opera d’arte o se si sta cercando di prendere una decisione difficile e così via. Più in generale, qualunque aspetto del comportamento umano può essere indagato allo scopo di individuare le modificazioni cerebrali che lo accompagnano; per fare ancora un esempio, mediante la fMRI si può osservare il correlato cerebrale di uno stato emotivo e così comprendere che uno stimolo che provoca una reazione di disgusto si associa ad un pattern di attivazione cerebrale diverso da quello associato ad un sentimento di paura, di rabbia, di amore... In pratica, è divenuto possibile oggettivare gli stati interiori e soggettivi di ogni individuo. Per la prima volta il sogno di Pavlov di avere a disposizione un mezzo in grado di mostrare gli effetti del pensiero sul cervello veniva esaudito.
Un altro aspetto rivoluzionario dal punto di vista dello studio del comportamento è rappresentato dalla possibilità di ripetere l’esame più volte nello stesso soggetto, cioè di effettuare indagini longitudinali grazie alle quali diviene possibile osservare le modificazioni anatomiche e funzionali che si verificano nel tempo e la loro evoluzione in relazione agli eventi intercorsi; ciò ovviamente ha candidato queste metodiche come strumento imprescindibile per lo studio dei processi di apprendimento, sia in condizioni fisiologiche che patologiche. Si è così avuta la definitiva documentazione che, contrariamente a quanto supposto precedentemente, l’organizzazione cerebrale è continuamente mutevole e che la sua organizzazione dipende direttamente dalle esperienze effettuate. Proprio grazie alla fMRI si è diffuso nell’uso comune il termine di plasticità cerebrale, cioè appunto il concetto che le reti neuronali responsabili del comportamento sono sempre pronte a riorganizzarsi per rispondere alle richieste del contesto ambientale fisico e sociale. Ad esempio, apprendere a suonare uno strumento musicale comporta cambiamenti impressionanti delle relazioni fra le strutture cerebrali così come profonde differenze si riscontrano nell’organizzazione cerebrale di un analfabeta rispetto ad un soggetto che ha imparato a leggere.
In conclusione, la fMRI rappresenta oggi lo strumento privilegiato per studiare i meccanismi cerebrali corrispondenti ai processi mentali. Il suo contributo negli anni è ulteriormente accresciuto grazie allo sviluppo di metodiche che ne sono derivate e che per esempio consentono di visualizzare non solo le regioni cerebrali (cioè la sostanza grigia) ma anche i fasci di fibre che le collegano (cioè la sostanza bianca). Da questo punto di vista, essendo in grado di evidenziare con sufficiente precisione topografica le strutture coinvolte nel compito che il soggetto sta eseguendo, la fMRI viene spesso considerata alla stregua di “una finestra sul cervello”. Bisogna comunque tener ben presente che l’esame per essere affidabile deve essere eseguito in modo attento e scrupoloso da parte di un team multidisciplinare esperto ed affiatato. Il risultato che si ottiene dall’esame fMRI infatti non va scambiato per una fotografia e non rappresenta una misura diretta dell’attività neuronale, ma deriva dal confronto statistico tra due stati diversi in cui si trova il cervello: lo stato di riposo, di base, e quello provocato dal compito che viene fatto svolgere al soggetto esaminato.
In ogni caso, utilizzata correttamente, il neuroimaging è uno strumento di indagine da cui non si può prescindere nello studio delle patologie del sistema nervoso. In particolare, è comprensibile quanto sia fondamentale il suo utilizzo in riabilitazione. In condizioni di danno cerebrale la plasticità spontanea comporta una riorganizzazione cerebrale che consente il migliore adattamento possibile del sistema ma che non necessariamente è davvero funzionale per l’individuo. Non molti anni fa qualunque tentativo di trattamento dopo un ictus o un trauma veniva ritenuto inutile sulla base delle conoscenze dogmatiche del tempo sulla immutabilità del sistema nervoso; la conseguenza era che, ad esempio, un soggetto emiplegico, lasciato a letto senza il supporto della terapia riabilitativa, difficilmente tornava a mettersi in piedi e camminare. Grazie alle metodiche di neuroimaging è divenuto invece possibile visualizzare lo stato funzionale del cervello che ha subito un danno, verificare i cambiamenti conseguenti all’intervento riabilitativo, stabilirne la reale efficacia, confrontare gli effetti di terapie differenti e così via. Soprattutto importante sarebbe identificare in modo più preciso le relazioni fra le modifiche indotte nel cervello dalla lesione, quelle indotte dal trattamento riabilitativo e i cambiamenti comportamentali conseguenti. Senza entrare nel merito, è compito della futura ricerca in riabilitazione definire metodi in grado di indirizzare al meglio i processi plastici e stabilire con sufficiente precisione quale grado di recupero funzionale è possibile ottenere grazie all’intervento riabilitativo e come operare a tale scopo.
In conclusione, le metodiche di neuroimaging funzionale possono essere pensate come la rivoluzione che ha consentito alla riabilitazione di trasformarsi da disciplina basata sull’esperienza pratica a disciplina fondata su basi scientifiche. Come le conoscenze sul cosmo sono state rivoluzionate dall’uso del telescopio, l’interpretazione del funzionamento del sistema nervoso è stata rivoluzionata dall’introduzione delle metodiche di neuroimaging.