L’illusione di sapere (seconda parte)
“Dubitare di tutto o credere a tutto sono due soluzioni ugualmente comode che ci dispensano, l’una come l’altra, dal riflettere”
Jules Henri Poincaré
Supponiamo di dover sostenere un esame. Ci viene chiesto di rispondere al seguente quesito con risposta a scelta multipla:
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Gianni guarda Maria
Maria guarda Tommaso
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Gianni è sposato
Tommaso non è sposato
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C’è una persona sposata che guarda una persona non sposata?
a. Si ___
b. No ___
c. Non è possibile saperlo ___
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Prendiamoci il tempo necessario. Quale ci sembra la risposta giusta? Quale decidiamo di scegliere?
Come abbiamo visto, il pensiero veloce, intuitivo, ha il pregio di evitare il consumo inutile di risorse cognitive. A questo proposito può essere opportuno ricordare che il cervello rappresenta appena il 2% del peso corporeo, ma utilizza più del 20% dell'energia totale disponibile. Inoltre, nel cervello non sono presenti riserve di energia, immagazzinate e pronte ad essere spese; data la necessità di un apporto continuativo di risorse, diventa quindi essenziale ogni meccanismo in grado di risparmiare energia.
Nelle situazioni abitudinarie di vita quotidiana il pensiero intuitivo è quindi la modalità di routine, mentre il pensiero razionale viene riservato per affrontare contesti più complessi. Però spesso il pensiero intuitivo viene utilizzato quando sarebbe più opportuno utilizzare quello lento, razionale.
Torniamo al quesito che ci era stato proposto. La quasi totalità delle persone intervistate risponde che non è possibile saperlo (risposta c). Chiedendo il motivo di questa scelta, la risposta è che non sappiamo se Maria è sposata oppure no.
E’ certamente vero che non ci viene detto se Maria è sposata oppure no. Tuttavia, pensandoci, non ci sono alternative; delle due l’una: Maria o è sposata o non lo è. Allora, se è sposata, è Maria che guarda Tommaso non sposato; se non è sposata, è Gianni che è sposato che guarda Maria (che appunto non è sposata).
Insomma, la risposta esatta è necessariamente la risposta a: “sì”.
Ma prendere in considerazione le differenti ipotesi richiede di elaborare le informazioni rendendo espliciti aspetti che non sono immediatamente disponibili; si tratta di un processo certamente costoso dal punto di vista del consumo di risorse: piuttosto che esaminare tutte le possibili ipotesi alternative è preferibile decidere rapidamente accettando le informazioni così come ci vengono presentate.
Ancora una volta, l’esempio non è fine a se stesso, ma svela le strategie e le procedure che adottiamo ogni volta che ci troviamo nelle condizioni di dover risolvere una situazione problematica, indipendentemente dalla sua complessità, sia che si tratti di decidere in quale ristorante andare a cena o di programmare un viaggio sul pianeta Venere. Ovviamente quelle che possono essere diverse sono le conseguenze.
Pensiamo ad un esame clinico (un test) che risulta positivo nel 95% delle persone che sono davvero ammalate (veri positivi) ma che risulta positivo anche nel 7% delle persone che in realtà non sono ammalate (falsi positivi). Sapendo che la malattia indagata è presente in un caso su mille persone (cioè, ha una prevalenza dello 0,1%), se risultiamo positivi a questo test, quale è la probabilità di essere davvero ammalati?
La maggior parte delle persone risponde che la probabilità è del 95% o comunque molto alta (80-90% almeno). Ma la risposta esatta è che la probabilità che abbiamo di essere ammalati è meno del 2%!
Sorprendente o addirittura incredibile.
Ma andiamo con ordine. Un test ovviamente non è mai perfetto e la sua affidabilità viene solitamente indicata da due fattori:
la sensibilità (cioè, la capacità del test di identificare i soggetti che presentano davvero la malattia) corrisponde alla proporzione di soggetti realmente ammalati in cui il test risulta positivo,
la specificità (cioè, la capacità del test di identificare i soggetti che non presentano la malattia) corrisponde alla proporzione di soggetti realmente sani in cui il test risulta negativo.
Chi si sottopone al test può quindi rientrare in una di quattro categorie:
a. Il test è positivo e la persona è davvero ammalata (categoria dei “veri positivi”, nell'esempio fatto 95 persone su 100)
b. Il test è positivo, ma la persona non è ammalata (categoria dei “falsi positivi”, nell'esempio 7 persone su 100)
c. Il test è negativo, ma la persona è effettivamente ammalata (categoria dei “falsi negativi”, nell'esempio 5 persone su 100)
d. Il test è negativo e la persona effettivamente non è ammalata (categoria dei “veri negativi”, nell'esempio 93 persone su 100).
Per rispondere alla domanda non dobbiamo lasciarci guidare dalla elevata specificità del test che è in grado di individuare una persona ammalata 95 volte su 100. E’ questa informazione che ci induce a rispondere velocemente, in modo intuitivo. Invece, per rispondere abbiamo bisogno di concentrarci anche sulle altre informazioni.
Consideriamo una popolazione di 100.000 abitanti. Dato che la malattia è presente in una persona su mille, ci saranno 100 malati (100.000 diviso 1.000) e 99.900 sani (100.000 meno 100). Dato che la sensibilità del test corrisponde al 95%, i malati che risultano positivi al test saranno 95 su 100. Ci saranno però anche 7 falsi positivi su 100, quindi 6.993 persone (7% di 99.900) che risultano positive al test ma non sono ammalate. In totale i test positivi saranno 6.993 + 95, cioè 7.088. La probabilità di essere davvero ammalati avendo un test positivo sarà quindi 95 (veri positivi) diviso 7.088 (la totalità dei positivi), cioè 0,013 (1,3%), poco più dell’1%.
In pratica, in base alle informazioni che avevamo (proporzione di veri positivi, falsi positivi e prevalenza di malattia) avremmo dovuto essere in grado di sapere che la probabilità di essere ammalati non è del 95% ma appena superiore all’1%. Tuttavia, anche gli esperti nel settore il più delle volte rimangono esterrefatti.
Questo allora vuol dire che è inutile eseguire un test clinico? Al contrario. Semplicemente bisogna tener conto non solo della sensibilità dl test (come ci induce a fare il pensiero intuitivo), ma anche di molti altri elementi che incidono sul risultato.
Premesso che in generale test molto sensibili sono poco specifici (cioè, hanno un alto tasso di falsi positivi) e, viceversa, test molto specifici sono poco sensibili (cioè, hanno un alto tasso di falsi negativi), bisogna tener presente che il valore predittivo di un test (sia in positivo che in negativo) dipende soprattutto dalla prevalenza della malattia nella popolazione esaminata. Quindi, più è bassa la prevalenza (cioè, più la malattia è rara) e più è alto il numero degli individui esaminati, più il valore predittivo del test si abbassa. Ad esempio, lasciando invariati gli altri parametri, se il test fosse eseguito su 1.000 persone invece che 100.000, la probabilità salirebbe al 60%. In altre parole, il valore predittivo del test aumenta se non viene proposto in modo indiscriminato a tutta la popolazione ma solo a coloro per cui esiste un effettivo dubbio diagnostico che faccia pensare alla presenza della malattia in questione.
Invece il pensiero veloce prende il sopravvento e si accontenta di prendere in esame le informazioni così come ci arrivano, senza elaborarle. Quando le situazioni sono problematiche, per trovare la soluzione bisogna sottrarsi all'influenza del pensiero intuitivo e resistere alla sua apparente linearità.
Il problema è che spesso scambiamo una questione complessa per una questione semplice: riconoscere la complessità è il primo passo verso una conoscenza più adeguata del mondo in cui viviamo.
In conclusione, il pensiero razionale, la logica, non sono patrimonio immediatamente disponibile, pronto ad essere utilizzato; il pensiero lento deve essere attivato resistendo alla forza della spiegazione intuitiva (ed è per questo che richiede sforzo e consumo di risorse).
Il ragionamento scientifico (ipotetico, analitico, ecc.) non è la modalità di default, routinaria, del pensiero. Per questo qualcuno, affidandosi al solo pensiero veloce, intuitivo, può pensare che la terra sia piatta e che sia il sole a muoversi nel cielo.