“Volli, e volli sempre, e fortissimamente volli” Vittorio Alfieri
La sensazione che le azioni che compiamo dipendano dalla nostra intenzione di eseguirle è un convincimento fortemente radicato. Se adesso sto scrivendo è perché volevo farlo; se adesso qualcuno sta leggendo è perché ha deciso di farlo. Insomma, percepiamo le nostre azioni come volontarie; sentiamo di essere noi la causa del nostro comportamento. L’impressione soggettiva che sia la nostra volontà a causare le nostre azioni apparentemente deriva direttamente dalla nostra continua esperienza quotidiana e non sembra che possa essere messa in discussione.
Tuttavia, esistono situazioni in cui la corrispondenza tra azione e sensazione di agire viene meno. Particolarmente rilevante è la sindrome della mano “aliena”, provocata da un danno delle regioni fronto-parietali o delle connessioni interemisferiche: il paziente prova la sensazione che la propria mano esegua movimenti finalizzati in modo completamente autonomo e spesso in contrasto con la propria volontà; a volte addirittura le due mani svolgono azioni antagoniste: una abbottona la camicia e l’altra la sbottona, una accende una sigaretta e l’altra la spegne, una gira le pagine di un libro e l’altra cerca di chiuderlo, eccetera. In questi casi il paziente non nega che la mano gli appartenga (come può avvenire invece nei pazienti che soffrono dl neglect personale), però sostiene che non rispetta la sua volontà e si comporta come se fosse guidata da un’entità esterna.
Sono molto noti poi i comportamenti messi in atto dai soggetti cosiddetti “split-brain”, sottoposti ad un intervento chirurgico di sezione longitudinale del corpo calloso.
Se questi sono esempi di condizioni in cui il movimento eseguito è dissociato dal senso di agire volontariamente, come se le azioni ci capitassero invece di essere noi a compierle, in altre situazioni può avvenire il contrario, cioè il soggetto può avere la sensazione di compiere un’azione anche se in effetti non sta facendo niente.
In un celebre esperimento condotto da Daniel Wegner e Thalia Wheatley, due partecipanti sono stati fatti sedere ad un tavolino uno di fronte all’altro; sul tavolo una tavoletta quadrata, di 12 centimetri di lato, era montata sopra il mouse di un computer. Ognuno doveva mettere la punta delle dita sul proprio lato della tavoletta in modo da poter insieme muovere il mouse e formare con il cursore dei lenti cerchi sullo schermo di un computer posto al loro fianco in modo da essere chiaramente visibile a tutti e due. Sullo schermo era raffigurata una foto con cinquanta figure (ad esempio, un’automobile, un cigno, eccetera). Ai due partecipanti fu spiegato che ogni prova durava 40 secondi: indossate delle cuffie, avrebbero ascoltato musica e parole; dopo i primi 30 secondi (in cui dovevano continuare a muovere il mouse) avrebbero ascoltato una clip musicale di 10 secondi che indicava che avrebbero dovuto fermarsi. Le tracce ascoltate sarebbero state diverse perché ognuno avrebbe sentito parole diverse. Ad ogni fermata bisognava valutare quanto quella fermata era stata intenzionale utilizzando una cartellina centimetrata con i due estremi rappresentanti da un lato “sono stato io a volermi fermare” e dall’altro “non sono stato io a volermi fermare, ma ho solo permesso che avvenisse”. La valutazione doveva essere personale, indipendentemente da quelle che potevano essere le intenzioni del partner.
Lo stratagemma usato nell’esperimento è stato che uno dei due partecipanti, all’insaputa dell’altro, era un complice dei ricercatori; non sentiva né parole né musica ma solo delle istruzioni per muovere il mouse in momenti particolari; in alcune prove egli doveva fermarsi sull’oggetto che gli veniva indicato. Queste fermate provocate dal complice erano programmate per verificarsi ad intervalli specifici da quando il partecipante aveva sentito la parola corrispondente, e cioè 30 secondi prima, 5 secondi prima, 1 secondo prima dell’arresto o 1 secondo dopo. Ognuna di queste fermate forzate riguardava una figura diversa dello schermo. Nelle altre fermate il partecipante sentiva una parola 2 secondi prima dell’inizio della musica ed era libero di fermarsi senza che il complice interferisse. In metà delle prove la parola ascoltata non corrispondeva ad alcuna figura dello schermo.
I risultati hanno mostrato che, quando un elemento presente sullo schermo veniva indicato 1 o 5 secondi prima che il cursore fosse spostato forzatamente, i partecipanti riferivano di aver eseguito quel movimento in modo intenzionale, ritenevano cioè di essere stati responsabili del movimento anche se in effetti a muovere il mouse era stato il complice. Ciò avveniva di rado se la parola veniva ascoltata 30 secondi prima e non avveniva praticamente mai se il cursore veniva fermato 1 secondo prima che la parola venisse ascoltata o se l’oggetto indicato non corrispondeva alla parola ascoltata.
In pratica il soggetto esaminato era convinto di aver fatto volontariamente qualcosa che invece era stata fatta da qualcun altro (cioè, dal collaboratore dei ricercatori). Secondo gli autori, non è l’intenzione di agire che causa l’azione: l’esperienza cosciente che si accompagna all’intenzione è distinta dalla causa che provoca effettivamente l’azione: pensi di fare X e poi fai X, non perché il pensiero cosciente causi l'azione, ma perché processi, che non sono percepiti coscientemente, causano sia il pensiero che l'azione.
Le intenzioni volontarie sarebbero quindi un’anteprima dell’azione, o una sua interpretazione immediatamente successiva. Quando un pensiero appare nella coscienza appena prima di un'azione (priorità), è coerente con l'azione (coerenza) e non è accompagnato da evidenti cause alternative dell'azione (esclusività), sperimentiamo la volontà cosciente e attribuiamo a noi stessi la paternità dell'azione. In sostanza, sperimentiamo noi stessi come agenti che causano consapevolmente le nostre azioni quando le nostre menti ci forniscono tempestive anteprime di azioni che risultano accurate quando osserviamo le azioni che ne conseguono. (Pensiamo di accendere una luce prima di farlo, per esempio, e nient'altro sembra causare l'accensione della luce, quindi quando succede concludiamo di essere stati noi a volerlo fare).
L'esperienza soggettiva è il modo in cui la mente descrive le operazioni che esegue; quindi, non ha a che fare con l’operazione effettiva. Meccanismi inconsci creano sia il pensiero cosciente sull'azione sia l'azione stessa, e producono anche il senso di volontà che sperimentiamo percependo il pensiero come causa dell'azione. L'esperienza della volontà cosciente nasce da un processo che interpreta queste connessioni, non dalle connessioni stesse. Credere che i nostri pensieri coscienti causino le nostre azioni è un errore basato sull'illusione della volontà.
I veri meccanismi causali alla base del comportamento sono inconsci; d’altra parte, sono molto numerose le indagini che documentano come la quasi totalità del nostro comportamento abbia un’origine di cui non siamo consapevoli. Utilizziamo due sistemi di pensiero profondamente diversi e pressoché incompatibili: uno fisico e meccanicistico (un orologio, ad esempio, non deve avere l’intenzione di tenere il tempo o averne l’esperienza mentre lo fa) e l’altro psicologico e mentale la cui essenza risiede nell’interpretazione del comportamento (“ci vuole una mente per sapere cos’è una mente”).
L’illusione della volontà sarebbe quindi il risultato di un meccanismo adattativo, funzionale a dare una spiegazione coerente al proprio comportamento e a distinguere le azioni proprie dalle altrui.
La corrispondenza tra azione e sensazione di agire è stata anche indagata utilizzando la stimolazione cerebrale sia in modo invasivo (ad esempio, quando viene utilizzata a fini diagnostici e/o terapeutici) sia in modo non invasivo (mediante la TMS, stimolazione magnetica transcranica, o le metodiche similari). La stimolazione delle regioni fronto-parietali può, a seconda della sede, provocare:
l’esecuzione di un movimento complesso senza percepire un senso di volontà;
la sensazione di aver compiuto un’azione (“ho premuto il pulsante”) anche se in effetti non c’è stata alcuna attività motoria;
la sensazione di avere un’intenzione cosciente (“voglio premere il pulsante”);
l’interruzione di un movimento precedentemente attivato;
l’interpretazione di un’attività motoria attivata artificialmente (la persona dice: “volevo controllare di aver allacciato le scarpe”, dopo che la stimolazione cerebrale lo aveva indotto a chinare il capo).
La corrispondenza tra la sensazione di agire e l’attività motoria sembra derivare quindi da una complessa attività cerebrale le cui caratteristiche devono ancora essere compiutamente esplorate. Come scriveva Baruch Spinoza nella sua Etica, pubblicata postuma nel 1677:
“Gli uomini s’ingannano nel ritenersi liberi, e questa opinione consiste solo in questo, che essi sono consapevoli delle loro azioni, ma sono ignari delle cause da cui sono determinati.”