Ezio, un insegnante della scuola primaria, ha sentito sempre più spesso parlare di neuromiti ma non riesce a comprendere il significato di questo termine.
Un “neuromito” è un convincimento errato sul funzionamento del cervello che apparentemente deriva da studi scientifici ma che in realtà dipende da una cattiva interpretazione dei dati pubblicati.
Il problema è particolarmente sentito in ambito educativo perché un neuromito può indurre ad utilizzare metodi didattici, ammantati di scientificità, ma inappropriati. Tra gli esempi più noti c’è l’idea che utilizziamo solo il 10% del cervello o che ognuno utilizza meglio un singolo emisfero e quindi possiede una sola modalità di apprendimento. In breve, se può essere considerato corretto ritenere che ogni emisfero svolge funzioni specifiche, ciò che conta nell’apprendimento è la capacità di integrare le varie strategie che caratterizzano i due emisferi e non quella di separarle; di fatto qualunque funzione per essere espletata si avvale delle abilità di ambedue gli emisferi. Ancora un esempio: si può apprendere mentre dormiamo (ad esempio imparare a parlare una nuova lingua); è vero che il sonno contribuisce alla memorizzazione, ma questo vale per le conoscenze già acquisite (che vengono consolidate), non per quelle da acquisire: nessuna nuova conoscenza può essere appresa durante il sonno.
Il propagarsi di neuromiti è la conseguenza (inevitabile?) di molti fattori; in particolare usare il linguaggio delle neuroscienze in contesti diversi può essere facilmente fonte di equivoci. A questo proposito, uno dei compiti che si propone la cosiddetta “neurodidattica” è proprio quello di facilitare la comunicazione tra gli insegnanti e gli studiosi di neuroscienze per escogitare le metodologie di insegnamento più adeguate al modo in cui il sistema nervoso consente l’apprendimento.