Fulvio si chiede perché quando ha un impegno da finire non riesce a toglierselo dalla mente al punto che questo pensiero disturba qualunque altra attività cerchi di iniziare.
Il sultano persiano Shahriyār, adirato contro il genere femminile per essere stato tradito dalla moglie, ogni giorno sposava una fanciulla; però, passata la prima notte di nozze, la faceva decapitare. Un giorno Shahrazad decise di offrirsi volontariamente come sposa al sovrano, avendo pensato al modo di interrompere questa strage: ogni sera raccontava al sultano una storia, ma prima di arrivare alla fine si fermava e la rimandava al giorno dopo. Andò avanti così per "mille e una notte", evitando altre decapitazioni finchè, alla fine, il re, innamorato, le rese salva la vita e la sposò.
Un finale che lascia in sospeso una storia è l’espediente ancora oggi comunemente utilizzato per sfruttare il potere della narrazione, in qualunque modalità (letteratura, cinema, serie televisive, fumetti o altro); in inglese questa procedura è nota come "cliffhanger" (che letteralmente indica chi "rimane appeso a un precipizio"): l’episodio si interrompe più o meno improvvisamente in corrispondenza di un momento di particolare interesse. Il cliffhanger, come Shahrazad, lascia appositamente incompiuta la storia per sfruttare il desiderio di scoprirne il finale.
In psicologia questo fenomeno viene definito “effetto Zeigarnik”. Il nome è legato a quello di Bluma Zeigarnik, una psicologa di origine lituana che ne fece l’oggetto di un suo studio del 1927 intitolato "On Finished and Unfinished Tasks". Una sera, seduta in un ristorante di Vienna, notò con sorpresa che i camerieri riuscivano a ricordare un gran numero di ordinazioni fatte dai clienti ma subito dopo averli serviti le dimenticavano. La psicologa ipotizzò che le azioni non concluse o interrotte vengono ricordate meglio di quelle completate.
Per confermare la sua ipotesi ideò una serie di esperimenti in cui i partecipanti dovevano eseguire alcuni semplici compiti (infilare perline, risolvere un puzzle o un calcolo aritmetico); metà dei partecipanti con delle scuse venivano interrotti durante lo svolgimento del compito che stavano eseguendo e poi venivano nuovamente invitati a finirlo. Dopo un'ora, ai partecipanti veniva chiesto di descrivere quali compiti erano stati loro proposti. In effetti, coloro il cui lavoro era stato interrotto ricordavano decisamente meglio ciò che avevano fatto rispetto a coloro che non erano stati interrotti nello svolgimento dei loro esercizi. In un altro esperimento, i partecipanti ricordavano i compiti non finiti il 90% più spesso di quelli finiti, che non erano stati interrotti.
Questi risultati sono stati successivamente confermati numerose volte. Ad esempio, John Baddeley, noto nel mondo per i suoi studi sulla memoria di lavoro, chiedeva ai partecipanti ad un suo esperimento di risolvere una serie di anagrammi entro un determinato periodo di tempo. Quando non riuscivano a risolvere l'anagramma prima dello scadere del tempo, veniva data loro la risposta corretta. Ai partecipanti è stato poi chiesto di ricordare le parole degli anagrammi. La memorizzazione è risultata migliore per le parole di cui non era stata trovata la soluzione.
Proprio la memoria di lavoro può essere chiamata in causa nella genesi dell’effetto Zeigarnik: infatti, data la sua capacità limitata di trattenere nel tempo le informazioni, per riuscire a non farle decadere nell’oblio è necessario continuare a tenerle attive mediante apposite strategie, quali la reiterazione continuativa che viene spontaneamente messa in atto quando bisogna ricordare delle informazioni verbali (come un numero di telefono). Un compito non completato attiva le strategie necessarie per mantenerlo costantemente a livello della consapevolezza. Un compito terminato invece non necessita più di questo lavoro mentale e può così finire nel dimenticatoio.
Inoltre, l’effetto Zeigarnik potrebbe rappresentare l’equivalente cognitivo della legge percettiva della chiusura/completamento, formulata dai teorici della gestalt: linee incomplete e forme non chiuse sono percepite come linee continue e forme chiuse grazie al completamento percettivo attraverso bordi artificiali. E’ il caso della nota illusione del triangolo, ideata nel 1955 dallo psicologo italiano Gaetano Kanizsa, in cui viene percepito distintamente un triangolo bianco centrale che invece non è disegnato.
In definitiva, sembra esserci un bisogno fisiologico di portare a termine quello che si comincia a fare: in effetti, per iniziare una qualunque attività è necessario uno sforzo (una motivazione) che genera una “tensione psichica” che non si esaurisce se l'attività non viene completata; sarebbe questa tensione a mantenere meglio in memoria un compito non finito rispetto ad un'attività che viene terminata.
Appare evidente che nella vita quotidiana questo effetto può avere conseguenze positive o negative a seconda di come viene utilizzato: da un lato, non finire qualcosa che si è cominciato può sia impedire di concentrarsi su altre attività che avere ripercussioni sul benessere psicofisico e sulla qualità del sonno, dall’altro, per non pensare più a qualcosa, qualunque essa sia (vale ad esempio anche per una relazione sentimentale), è importante imparare a concludere l’attività mentale iniziata, proprio come si procede a livello percettivo grazie alla legge di chiusura. Da un altro punto di vista l’effetto Zeigarnik rivela molto sul funzionamento della memoria e può essere utilizzato come strategia per l’apprendimento e come metodo didattico.