Maria Assunta si dice fortemente turbata dal ripetersi di episodi di violenza efferata e riferisce di essersi accorta di subirne le conseguenze non solo sull’umore ma anche sul comportamento (per cui ad esempio ha difficoltà ad uscire dopo cena).
La vicenda di Abele e Caino credo sia un indizio sufficiente del fatto che la violenza e l’aggressività non sono fenomeni sporadici del comportamento umano. Lasciando da parte la diatriba impersonata dai filosofi Jean-Jacques Rousseau (il mito del buon selvaggio) e Thomas Hobbes (homo homini lupus), si può far riferimento ai numerosi esperimenti che Philip Zimbardo ha riassunto nel suo famoso volume che ha intitolato “L’effetto Lucifero”. Particolarmente noto è il cosiddetto esperimento della prigione di Stanford: studenti universitari, selezionati dopo un’intervista perchè considerati tra i più emotivamente equilibrati e perché non avevano mai manifestato comportamenti antisociali, furono casualmente divisi in due gruppi cui furono assegnati il ruolo o di guardie o di carcerati. Inseriti in una prigione simulata, predisposta presso l’Università di Stanford, a Palo Alto, in California, i detenuti furono obbligati a indossare ampie divise sulle quali era applicato un numero, sia davanti che dietro, un berretto di plastica, una catena a una caviglia, e fu loro detto di attenersi alle regole del carcere; a loro volta, le guardie indossavano uniformi color kaki, occhiali da sole riflettenti (che impedivano ai detenuti di guardarle negli occhi), erano dotati di manganello, fischietto e manette, e fu data loro la consegna di mantenere l'ordine. I risultati di questa simulazione furono drammatici: dopo solo due giorni, per evitare ribellioni da parte dei prigionieri, le guardie cominciarono a umiliarli, costringendoli, per esempio, a defecare in secchi che non avevano il permesso di vuotare e a pulire le latrine a mani nude. Per evitare conseguenze gravi l’esperimento fu interrotto dopo soli cinque giorni.
In pratica, la prigione finta era diventata, nell'esperienza psicologica vissuta dai soggetti di entrambi i gruppi, una prigione vera. Si era verificato un processo di de-individuazione: assumere una funzione di controllo sugli altri nell'ambito di una istituzione (come quella del carcere), induce ad assumere le norme e le regole dell'istituzione come unico valore a cui adeguare il proprio comportamento; l’identificazione agli scopi e alle azioni dell’istituzione e l’assunzione di un ruolo comportano una perdita dell’autonomia e indebolisce i controlli basati sul senso di colpa, la vergogna, la paura, così come quelli che inibiscono l'espressione di comportamenti aggressivi e distruttivi. Le conseguenze delle proprie azioni non vengono vissute come responsabilità personale, ma come parte del ruolo che si riveste (in questo senso si può comprendere l’affermazione dei gerarchi nazisti processati a Norimberga “Ho solo eseguito gli ordini”).
Apparentemente ogni individuo può compiere azioni in conflitto con i propri valori morali. La linea tra ciò che consideriamo bene e ciò che consideriamo male non è così netta come spesso presumiamo. I meccanismi di de-individuazione del sé, di de-umanizzazione dell’altro, la diffusione di responsabilità, l’identificazione con il ruolo e l’obbedienza acritica alle norme possono superare la barriera solitamente costituita dai principi della morale.
Bisogna accettare l’idea che nell’essere umano alberga una componente che si può definire “luciferina”. Come scrive Roberto Escobar nella prefazione all’edizione italiana del libro di Zimbardo “C’è qualcosa, nel cosiddetto Male assoluto, che non è affatto mostruoso e non-umano, ma proprio umano, troppo umano: qualcosa che ci riguarda tutti, almeno come terribile possibilità non ancora espressa”.