n.10 - autunno 2022

Chi ha ucciso Jacopo del Cassero?
Un giallo fanese del tredicesimo secolo


del prof. Francesco Fioretti

1. I versi della Commedia su Jacopo del Cassero e la lapide di San Domenico a Fano


Nei versi 67-84 del canto quinto del Purgatorio Dante fa riassumere al personaggio stesso, il fanese Jacopo del Cassero, le vicende della propria morte. Il canto è tra quelli della seconda cantica che si leggono ancora a scuola ed è quindi sufficientemente noto: il trittico dei personaggi che raccontano la propria morte violenta (dopo Jacopo, Bonconte da Montefeltro e Pia dei Tolomei) s’imprime nella memoria dei più col taglio tragico e incisivo delle epigrafi sepolcrali. È un canto su cui s’è scritto molto e non è mia intenzione (se non con una sommaria nota bibliografica a margine [1]) gravare il lettore di considerazioni già assodate per gran parte della critica e di conseguenza, in questa sede, del tutto superflue. Argomento specifico della presente indagine è invece il confronto serrato dei versi danteschi con quelli latini della lapide sepolcrale di Jacopo del Cassero, conservata nella chiesa di San Domenico a Fano (e correttamente decifrata, di recente, da Anna Falcioni [2] ).

Quando le biografie liofilizzate da Dante nella Commedia sono l’unica o la prima fonte storica in nostro possesso, si sa, c’è poco da fidarsi della ricca aneddotica con cui i primi lettori del poema condiscono a posteriori i propri commenti. Basti pensare, caso esemplare - nonché “geograficamente” contiguo a quello del nobile guelfo fanese - alla vicenda di Francesca da Rimini, alla fioritura di particolari scandalistici, sempre inediti e spesso contraddittori, stimolata dalla reticente cronaca del canto quinto dell’Inferno [3]. Altrettanto dicasi dei commenti all’episodio di Jacopo del Cassero, che enfatizzano, dilatando le laconiche allusioni dantesche, l’odio mortale tra Azzo VIII, il signore di Ferrara, e il nobile fanese, raccontando dettagli la cui attendibilità è difficile da dimostrare. Quando però possediamo altre fonti, indipendenti dalla Commedia, esse diventano per noi preziosissime, e ci capita spesso di dover correggere il tiro rispetto alla versione dantesca dei fatti, com’è il caso delle vicende del conte Ugolino (e dei nipoti che diventano figli) o di Pier della Vigna (e della sua quanto meno dubbia fedeltà all’Imperatore Federico II di Svevia).

Per quanto riguarda le notizie sui suoi contemporanei è ovvio che Dante sia costretto per lo più a servirsi di materiali di seconda mano, ovvero di narrazioni per gran parte orali raccolte in giro tra le diverse città del centro-nord; e le fonti alternative, più che a ricostruire una verità storica sempre di necessità congetturale, ci servono semmai a misurare gli scarti, a intuire le atmosfere, e a dedurre dall’ampiezza delle eventuali “forzature” dantesche la vis poetica, il taglio cioè che l’autore ha voluto imprimere alla storia per marcarne l’esemplarità o, viceversa, per amplificarne la portata drammatica.

A Fano, dunque, c’è la lapide sepolcrale di Jacopo del Cassero [4], e non è ozioso confrontarla con i versi di Dante nella speranza di potercene servire per l’esegesi di quei memorabili versi. Prima di tutto bisognerebbe sapere però quando fu incisa e messa nella chiesa dei domenicani, per valutare se si tratti davvero di fonte indipendente, ovvero se si possano escludere le due ipotesi concorrenti, ma pressoché equivalenti sul piano euristico, che l’estensore del testo latino abbia letto l’episodio del Purgatorio o, viceversa, che Dante abbia letto la lapide.

In ogni caso, tra parentesi, la data di morte del nobile fanese, il 1298 (annis sub mille duo de trecentis evenit…), scolpita sulla pietra sepolcrale, ha già il valore di una testimonianza difficile da confutare: Jacopo, nei versi danteschi, sta aspettando nell’Antipurgatorio da appena due anni, è morto nove anni dopo Campaldino e, se fu - come pare - della partita, ritrova qui l’antico nemico (suo, ma anche di Dante), il ghibellino Bonconte da Montefeltro, che, morto in battaglia, attende invece già da undici anni di poter accedere all’espiazione dei propri peccati [5].

Il sospetto che Dante e l’autore dell’epitaffio in esametri latini non siano del tutto tra loro indipendenti può insorgere in considerazione della piena concordanza di accenti nella descrizione della morte di Jacopo del Cassero, braccato dai sicari del suo nemico nelle paludi dalle parti di Oriago. Entrambi i testi, infatti, e quasi allo stesso modo, esprimono il medesimo rammarico. Così la lapide:


EOLUS O UTINAM // PERFLASSET CARBASA RETRO

VECTUS PATAVIAM…


Gli esametri dell’epitaffio, sia pure trasferendola alla terza persona, sembrano addirittura calcare la sintassi dei versi danteschi (o, viceversa, sono quelli di Dante a interiorizzare la sintassi dell’elogio funebre): “oh, se Eolo avesse gonfiato le vele in direzione di Padova!” (ovvero inver’ la Mira, che è già in territorio padovano, seguendo i canali navigabili del Brenta). Lo stesso rimpianto, quasi la stessa costruzione, nelle parole di Jacopo a Dante (vv. 79-81):


Ma s’io fosse fuggito inver’ la Mira

quando fu’ sovragiunto ad Oriaco

ancor sarei di là dove si spira.


Si tratta dell’unica concordanza rilevante tra i due testi, ma la si potrebbe semplicemente ricondurre a una fonte comune, a una tradizione orale del racconto dell’agguato formatasi subito dopo il fatto di cronaca. Poi, si sa, per quanto riguarda l’assassino Dante non ha dubbi: quel da Esti il fe’ far, Azzo VIII, che m’avea in ira / assai più là che dritto non volea (vv. 77-78). Al di là della famigerata ostilità verso Jacopo del marchese di Ferrara, che tramava da tempo per insediare a Bologna un governo a lui favorevole (e che si scontrò per tale motivo con le resistenze del fanese quando questi era podestà della città), la tesi di Dante risulta plausibilissima anche su un piano più strettamente politico: Jacopo del Cassero fu raggiunto dai sicari del suo assassino mentre si stava recando a Milano per ricoprirvi la carica di podestà, e un’alleanza anti-estense tra Milano e Bologna sarebbe equivalsa per Azzo VIII a un vero e proprio accerchiamento. Dunque il calcolo delle prospettive future può aver influito sull’omicidio altrettanto, se non più dell’odio pregresso.

Nella lapide c’è tuttavia qualche indizio sulla data di composizione dell’epitaffio, che porterebbe ad avvicinarla il più possibile alla data di morte del nobile fanese, e di conseguenza a escludere definitivamente, se non altro, l’ipotesi che l’estensore dell’epitaffio possa aver letto i versi danteschi. Nel terzo verso della seconda ottava infatti si legge:


PUGNET BONONIA // CONSURGAT MEDIOLANUM


L’idea che Milano insorga (consurgat Mediolanum) contro l’estense è decisamente anacronistica già nel 1300, due anni dopo il misfatto, quando le nozze tra Galeazzo Visconti e Beatrice d’Este, sorella di Azzo VIII, sanciscono una salda alleanza tra le due famiglie; l’idea poi che Bologna prenda le armi (pugnet Bononia) contro Ferrara diventa altrettanto velleitaria nel marzo del 1306, quando il governo felsineo passa nelle mani dei Geremei filo-estensi. Se il mandante dell’assassinio è quel da Esti, dunque, l’epitaffio ha tutta l’aria d’essere stato redatto a caldo, tra il 1298 e il 1300 (al massimo nel 1305, o nei primi mesi del 1306, se s’intende - ma lo ritengo assai improbabile - che i milanesi debbano insorgere contro i Visconti): in ogni caso ben prima che Dante mettesse mano al suo Purgatorio.

Se c’è un legame di filiazione tra i due testi (ma è più che possibile a questo punto che non ve ne sia alcuno) va dalla lapide a Dante, e non viceversa.



2. Un bestiario politico alternativo


A meno che ad armare i sicari non sia stato affatto quel da Esti.

Che a Fano si avessero idee diverse da quelle dantesche è lecito quanto meno sospettarlo. Nella lapide si fa due volte riferimento agli assassini, nell’ultimo verso della prima ottava e nel quarto della seconda, e in entrambi i casi li si designa con l’appellativo di “cani”, la prima volta al singolare, la seconda al plurale:


… TESTATUR DEBITA CANI

… NISI PERDANT CRIMINA CANUM


Potrebbe trattarsi di un epiteto generico e l’iterazione potrebbe essere semplicemente un indizio della povertà lessicale dell’autore dell’epitaffio. Ma è difficile sfuggire al sospetto che si tratti invece di un’allusione precisa. Data l’esiguità della metafora, un’elementare norma retorica avrebbe suggerito l’uso della variatio, ma l’estensore del testo sembra insistere volutamente. Si dirà che si condanna da solo a misure coercitive, avendo scelto il meccanismo vincolante (e per niente obbligatorio trattandosi di esametri latini) dello schema fisso a rima baciata, aggravato dalla puntuale rima al mezzo alla cesura regolarmente semiquinaria di ogni coppia di versi:


ATROPOS INFAUSTA // DEPLORANT MENIA FANI

PROBITAS EXHAUSTA // TESTATUR DEBITA CANI


Ma la rima, in questo caso non difficilissima (ancor meno lo è quella Mediolanum - canum), non sembra una ragione sufficiente a giustificare, se non altro, lo stridente dativo cani (invece del genitivo canis retto da debita) in dipendenza direttamente da testatur: “la Probità stremata è testimone dei (suoi) debiti al cane” [6]. Si direbbe piuttosto che l’autore abbia voluto sacrificare in questo caso la linearità della sintassi alla perentorietà della denuncia. Tutto dunque lascerebbe pensare che i “cani” del testo fanese siano un riferimento preciso, un’accusa a uno o più personaggi della fauna politica del tempo. D’altra parte lo stesso Dante usa spesso metafore da bestiario per dipingere sinteticamente uno scenario politico, e un caso molto pertinente ai nostri fini lo troviamo in Inferno XXVII, 37-51:


Romagna tua non è, e non fu mai,

sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni;

ma ’n palese nessuna or vi lasciai.

Ravenna sta come stata è molt’anni:

l’aguglia da Polenta la si cova,

sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni.

La terra che fé già la lunga prova

e di Franceschi sanguinoso mucchio,

sotto le branche verdi si ritrova.

[…]

Le città di Lamone e di Santerno

conduce il lïoncel dal nido bianco,

che muta parte da la state al verno.


L’aquila dei Polenta a Ravenna, il leone degli Ordelaffi a Forlì, il leoncino di Maghinardo a Faenza e Imola: a parlare è il personaggio-poeta, su richiesta di Guido da Montefeltro, che gli chiede aggiornamenti sui fatti di Romagna. Il piccolo bestiario romagnolo è funzionale alla presentazione del personaggio, che s’inserirà con precisione in questa atmosfera di zoologia politica (vv. 73-75):


Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe

che la madre mi diè, l’opere mie

non furon leonine, ma di volpe.


Alle aquile e ai leoni, animali di nobile blasone, si oppone dunque la volpe montefeltrana, ma non basta. Nei versi omessi del brano precedente, ci sono anche i due cani che stavamo cercando:


E ’l mastin vecchio e ’l nuovo da Verrucchio,

che fecer di Montagna il mal governo,

là dove soglion fan d’i denti succhio.


Cani e volpi, tra aquile e leoni, sono i nemici storici, entrambi di dubbio lignaggio: i Malatesta da una parte, i Montefeltro dall’altra, che minacciano peraltro, su entrambi i fronti dell’antica via Flaminia, la fragile libertas del Comune di Fano. Dal punto di vista di un fanese vicino alla famiglia Del Cassero, è più che plausibile che i “cani”, al plurale, potessero essere i due mastini, e al singolare il solo Malatestino, figlio di Malatesta il Vecchio: perché i rivolgimenti della storia fanese degli anni Novanta del Duecento, e le vicende che ne seguiranno ai primi del Trecento, giustificano ampiamente sospetti di questo tipo.

Il Comune di Fano si barcamena insomma, nel XIII secolo, tra il martello ghibellino dei Montefeltro e l’incudine guelfa dei Malatesta, appunto tra la volpe e i cani. Le vicende del versante romagnolo-marchigiano e di quello toscano dell’Appennino sono collegate, come si arguisce anche dall’interesse sempre vivo di Dante per le cronache romagnole: un unico, compatto fronte ghibellino dell’entroterra lega Arezzo e Urbino, e non a caso, a Campaldino, Bonconte da Montefeltro è di là nella cavalleria aretina e ghibellina, mentre Dante e Jacopo sono (assai verosimilmente entrambi) di qua, tra i guelfi fiorentini e delle armate romagnolo-marchigiane al comando di Maghinardo da Susinana, il lïoncel dal nido bianco. Nel Comune adriatico i leader dei due fronti sono, come si sa anche per l’episodio dantesco dei due miglior da Fano, la famiglia cittadina e guelfa dei Del Cassero e quella radicata nel contado, e dunque ghibellina, dei Da Carignano.

All’inizio degli anni Novanta, però, le cose stanno cambiando. Improvvisamente le due famiglie rivali fanno la pace, nel 1291, quando celebrano il matrimonio tra Orianna (figlia di Angiolello da Carignano) e Guido II (figlio di Guido I del Cassero). Cosa le induce a questa brusca inversione di rotta? I Malatesta governano stabilmente la vicina Pesaro col femminicida (e fratricida) Gianciotto, e il Mastin nuovo, che ha messo radici a Cesena, aspira al controllo di Fano (mentre il Mastin vecchio, come sempre, fa d’i denti succhio nella sua Rimini). Nel 1294 Malatestino viene sconfitto nella battaglia dell’Arzilla dalle forze riunite dei Del Cassero e dei Da Carignano, ma non demorde. Quattro anni dopo muore Jacopo del Cassero, mentre si reca a Milano a ricoprire la carica di podestà, che potrebbe peraltro garantirgli la protezione viscontea. E non è finita. Tra il 1304 e il 1306 va collocato l’altro episodio chiave di questa sequenza, annunciato in forma di profezia (nel 1300 del viaggio nell’aldilà) nel canto XXVIII dell’Inferno: Malatestino fa uccidere a tradimento (prima li invita alle trattative, poi li fa mazzerare al largo di Cattolica) i due miglior da Fano, Guido del Cassero e Angiolello da Carignano. A questo punto la via di Fano è aperta, e il destino della città è irrimediabilmente, come di fatto sarà per oltre un secolo e mezzo, malatestiano [7].

Inseriti in questa serie di fatti, i crimina canum rendono plausibile, non dico che il delitto di Jacopo sia effettivamente da addebitarsi ai “mastini” del bestiario politico dantesco, ma che i Del Cassero e il loro entourage fossero orientati a vederci in qualche modo lo zampino del vecchio cane da Verucchio e dei suoi voraci rampolli.

L’identikit dell’autore, che emerge anche da un’approssimativa analisi stilistica dell’epitaffio, conferma d’altro canto l’assunto che appartenesse all’ambiente dei Del Cassero, più precisamente alla scuola notarile fanese fondata dal nonno di Jacopo, quel Martino da Fano, giurista al tempo assai noto della scuola postaccursiana, che insegnò diritto tra Fano, Modena e Arezzo, e sarebbe stato, se Dante non avesse sparigliato le carte di famiglia, il personaggio più illustre della casata [8].

Se si fossero salvati solo i primi quattro versi dell’epitaffio, saremmo stati, infatti, portati a pensare che si trattasse dell’elogio funebre di Martino, nel cui nome inizia il componimento: Italie sidus, Martinus, copia legum // aggreditur fidus doctorum conscia regum… L’estensore del testo, d’altra parte, per quanto impacciato nell’uso degli esametri latini, sembrerebbe compulsarli a partire da un orecchio ben addestrato agli alessandrini in volgare, francesi o italiani che fossero (si pensi al Contrasto di Cielo d’Alcamo, alle Tre Scritture di Bonvesin da la Riva o al De Babilonia civitate infernali di Giacomino da Verona), non solo per l’uso già segnalato (e non necessario) delle rime, comprese quelle al mezzo, ma per la larga prevalenza di emistichi a cadenza settenaria nei suoi esametri (specie se si risolvono nel dittongo del volgare parole come copia o conscia). E si aggiungano le metafore d’ambito notarile: una per tutte, il già segnalato testatur debita, che declina in un unico sintagma due dei termini di maggior frequenza nei documenti notarili del tempo. Infine il grecismo Theotocos, che rinvia direttamente al Codex giustinianeo.

Non c’è che dire, l’autore di questo testo ha tutta l’aria di essere un notaio della scuola di Martino, che mastica giurisprudenza e si diletta di poesia in volgare. Forse, se non proprio un parente stretto, un amico di famiglia. E sembra suggerire allusivamente una versione dei fatti diversa da quella dantesca. E allora, se qui deve leggersi un’attribuzione del delitto ai Malatesta, cambia qualcosa nell’interpretazione di quel verso della lapide che esorta Bologna e Milano a prendere le armi contro l’omicida? Bologna e Milano, le due città che avevano nominato podestà Jacopo del Cassero, sono evocate per questo stesso motivo nello scatto d’indignazione per il truce fatto di sangue. Ma, Malatesta o Estensi, poco cambia nello scacchiere delle alleanze tra fazioni, perché le due signorie, al momento, fanno parte, insieme ai guelfi neri di Firenze, dello stesso schieramento politico.



3. Jacopo del Cassero alter ego di Dante


Il testo della lapide è dunque d’estremo interesse, perché ci permette di entrare nell’atmosfera di quegli anni dal punto di vista di una famiglia che è stata illustre e, che abbia o meno fondamento la congettura fin qui discussa, vede sprofondare il terreno sotto i propri piedi. Avanziamo l’ipotesi che Dante avesse sotto mano una variante differente della storia di Jacopo del Cassero, e che ne circolasse, d’altro canto, una versione fanese alternativa; un’attribuzione bolognese del delitto ad Azzo VIII contro una fanese ai Malatesta.

L’autore della Commedia non nutre alcuna simpatia per i signori di Rimini, e se avesse avuto sentore di un loro coinvolgimento nel complotto per eliminare Jacopo del Cassero non si sarebbe fatto scrupoli di sorta. Nel canto quinto dell’Inferno ci racconta come i figli del Mastin vecchio sanno a lor donne buon’ cognati stare: il verso a dire il vero, com’è noto, è riferito ai Donati, cordiali nemici oltre che lontani parenti di sua moglie, nella famosa tenzone con Forese, fratello di Corso, il leader dei guelfi neri; ma appunto, che la storia di Paolo e Gianciotto richiami vecchie allusioni alla promiscuità dei Donati, specie ora che Corso Donati è tra i principali responsabili dell’esilio di Dante, tutto è fuorché un gesto di simpatia.

Nel XXVIII dell’Inferno, poi, del delitto di Malatestino (il tiranno fello - e traditor - che farà gettare in acqua i due miglior da Fano) si dirà che è il più efferato che Nettuno e il Mediterraneo abbiano mai visto dai tempi della Grecia arcaica. Due figli del Mastin vecchio, dunque, ancora vivi nel 1300, hanno già un posto prenotato nel più basso Inferno, tra Caina e l’Antenora, nei fraudolenti contro chi si fida. L’esule fiorentino non ha riguardi per i signori di Rimini.

Ma, semplicemente, è possibile che Dante abbia sentito raccontare dell’orrenda fine di Jacopo a Bologna, e con tutta probabilità in un momento assai drammatico, tra il 1305 e il 1306, quando il colpo di mano dei Geremei filo-estensi lo costringe peraltro, assai verosimilmente, a una precipitosa fuga [9] Aria di complotti, e in questo caso è certo: quel da Esti il fe’ far. Perché in fondo i guelfi neri di Firenze, i Malatesta e gli Estensi, come detto, sono comunque sullo stesso fronte, e Dante e Jacopo, guelfi anche loro, si ritrovano infine su quello opposto: guelfi, forse insieme a Campaldino, poi, nel rimescolamento generale di fine secolo, alleati con gli antichi rivali ghibellini contro una fazione molto più feroce e avida di potere del loro stesso originario schieramento politico.

E forse, comunque siano da intendere i riferimenti fanesi ai crimina canum, è proprio questa la lezione più importante che si può ricavare dal confronto con la lapide di San Domenico a proposito del quinto canto del Purgatorio: Jacopo del Cassero e Dante sono schierati due volte dalla stessa parte, sono insieme a Campaldino contro Bonconte e i ghibellini, poi si ritrovano contro i loro vecchi alleati (a Campaldino c’era anche Corso Donati), che adesso puntano ad annientarli, e sono costretti a scendere a patti con i vecchi avversari. Il fatto che Bonconte e Jacopo del Cassero si rivedano da “amici”, salvi, pacificati, sulle pendici del Purgatorio ha un significato anche politicamente decisivo. Jacopo è un alter ego di Dante, come in parte Pier della Vigna e del tutto Romeo da Villanova nel sesto canto del Paradiso. Su di lui il poeta proietta la propria storia, il percorso politico che li accomuna ogni volta fino in fondo. La fine che ha fatto Jacopo è quella che potrebbe fare anche l’autore della Commedia, braccato come lui dagli antichi alleati diventati improvvisamente nemici, ospite da qualche parte, ma sempre pronto alla fuga, impossibilitato alla piena fiducia nei confronti di chicchessia.

Ritengo probabile, dunque, che né Dante abbia mai letto la lapide, né l’autore di questa abbia ancora letto Dante. Le analogie nel compianto per la sorte sfortunata di Jacopo del Cassero possono avere semplicemente un’origine comune: affinità di racconti orali, che si diffondono in una cerchia a largo raggio di amicizie e alleanze condivise. Ma non si può non leggere, a questo punto, nel comune sospiro di rimpianto per i capricci del caso e la precarietà di una condizione sospesa, il segno di una stessa preoccupazione e di un identico senso di sconfitta.

La poesia di Dante incalza col racconto di Bonconte, retrocedendo da Oriago a Campaldino e dilatando la stessa scena di disfacimento della carne dal lago di sangue versato da Jacopo alla piena dell’Archiano che infierisce diabolicamente sul corpo dell’antico rivale. Ultimo tocco, il disfacimento di Pia nelle paludi della Maremma. L’idrografia lagunare, fluviale, palustre in crescendo che impone il suo ritmo all’intero canto racconta alla maniera di Dante il liquefarsi di ogni valore civile e politico nel tempo gramo della violenza, del trasformismo, del tradimento.

Note al testo

  1. Per una sommaria bibliografia sul canto quinto del Purgatorio si vedano quanto meno H. A. Hatzfeld, Il canto V del Purgatorio, in G. Getto (a cura di), Letture dantesche, Firenze, Sansoni 1958, pp. 767-86, U. Bosco, Vanità dell’odio, in “Veltro” III, 1959, pp. 7-16, C. Grabher, Il canto V del Purgatorio, Firenze, Sansoni 1964, pp. 145-51, M. Puppo in Lectura Dantis scaligera, Firenze, Le Monnier 1967, pp. 163-79, C. Varese, Purgatorio – Canto V, in Letture classensi, III 1970, pp. 283-94. Sulla vicenda di Jacopo del Cassero cfr. M. Parrozzani, Quel da Esti e il suo diritto all’ira contro Jacopo del Cassero, Padova, Società Cooperativa Tip., 1916, G. Fallani, Nota storica su Jacopo del Cassero, in “L’Alighieri” I, 1, 1960, A. Campana, Novità su Jacopo del Cassero, in “Romagna arte e storia”, XXIV 70, 2004 e L. Cesaroni, Dante e le Marche, Ancona, Affinità elettive 2010.

  2. Cfr. A. Falcioni, Le epigrafi, in AA.VV., La chiesa di San Domenico a Fano, Fano, Fondazione Cassa di Risparmio, 2007, pp. 38-53.

  3. Cfr. se non altro L. Renzi, Le conseguenze di un bacio. L’episodio di Francesca nella Commedia di Dante, Bologna, Il Mulino 2007.

  4. Se ne riporta qui di seguito il testo nella ricostruzione (e senza punteggiatura) di Anna Falcioni: Italie sidus Martinus copia legum / aggreditur fidus doctorum conscia regum / inclita cui proles de qua processit amenus / flos decus et sol es patrie ros atque serenus / sol tenebras patitur Proserpina luce dehiscit / dum Iacobus moritur de Cassero tristia fixit / Atropos infausta deplorant menia Fani / probitas exhausta testatur debita cani. // Eolus o utinam perflasset carbasa retro / vectus Pataviam caderet non limite tetro / pugnet Bononia consurgat Mediolanum / perditur ha gloria nisi perdant crimina canum / annis sub mille duo de trecentis evenit / milii dux ille strenuus quod misere venit / hic iacet infoditur ubi corde semper adhesit / Theotocos igitur ut regnet minime desit.

  5. La notizia della partecipazione di Dante alla battaglia di Campaldino, com’è noto, era contenuta in una lettera perduta di Dante stesso al Comune fiorentino, lettera che intorno al 1436 poteva ancora leggere Leonardo Bruni, che ce la tramanda. La conoscenza dei luoghi e delle circostanze della morte di Bonconte nel canto V del Purgatorio non fa che confermare l’attendibilità della notizia. Che a Campaldino ci fosse anche Jacopo del Cassero è molto probabile: certa la sua partecipazione l’anno prima alle spedizioni antiaretine, certo anche il contributo alla vittoria guelfa di Campaldino da parte di un contingente romagnolo-marchigiano al comando di Maghinardo da Susinana (di cui Jacopo era amico), dunque più che probabile la sua partecipazione alla battaglia. Si vedano in proposito le osservazioni di U. Carpi, La nobiltà di Dante, Firenze, Polistampa 2004, pp. 365-66.

  6. A meno che, ma l’ipotesi avrebbe scarso fondamento, cani non sia il genitivo di canus: “i debiti del canuto”, alludendo a un non meglio identificabile vecchio (non di certo, in tal caso, Azzo VIII, circa trentacinquenne all’epoca dei fatti; ma si riporta la congettura alternativa per puro dovere di cronaca).

  7. Dettagliato resoconto di questi fatti della storia fanese in M. Carini, “E fa sapere a’ due miglior da Fano”. Guido del Cassero e Angiolello da Carignano nei versi di Dante (Inferno XXVIII 76-90), in “Nuovi Studi Fanesi” 10, 1995.

  8. Cfr. L. Frati, L'epistola De regiminie et modo studendi di Martino da Fano, in Studi e memorie per la storia dell'Università di Bologna, VI (1921), pp. 21-29, e U. Nicolini, I giuristi postaccursiani e la fortuna della glossa in Italia, in Atti del Congresso internazionale di diritto romano e di storia del diritto, I, Milano 1951, III, pp. 879 n. 173, 882 s. n. 183, 896.

  9. Cfr. U. Carpi, La nobiltà di Dante, cit., pp. 480-81 e M. Santagata, Dante, Milano, Mondadori 2012, pp. 183-84.