The Rabbi is in









Foto di Stefano Sodaro

Sito della rubrica settimanale di Miriam Camerini per 

Il giornale di Rodafà

Fra qui e Betlemme - 2

La nostra città brucia


(segue)

Quel che è successo in Israele fra novembre e oggi lo sappiamo tutti: Smotrich è ministro delle finanze, Ben Gvir ha portato la sua faccia accigliata dentro al Parlamento come ministro degli interni e nel frattempo - questo solo a me un po’ consola - la politica è ovunque: dal parrucchiere, per strada, al supermercato, ai concerti.

La riforma giuridica proposta dal governo Netanyahu viene discussa e approvata a tappe forzate mentre fuori le piazze rigurgitano di marce e manifestazioni contrarie, da Haifa a Beer Sheva, con centinaia di migliaia di dimostranti a Tel Aviv e a Gerusalemme.

Ciò che non cessa di stupirmi è la genuinità delle persone, giovani e anziane, che bloccano le strade e occupano le piazze, si riuniscono sera dopo sera e giorno dopo giorno davanti alla Knesset, il Parlamento, fuori dalla casa del Presidente Herzog - voce di mediazione finora inascoltata - e anche di fronte alla casa di Netanyahu, proprio a pochi metri da dove abito io, con tanto di transenne ovunque, strade sbarrate e copertoni bruciati.

Il fatto che il primo ministro non stia certo qui a lasciarsi disturbare dai fumi o dai rumorosi tamburi (ne ho uno anche io, portato da Istanbul, e viene con me a ogni marcia) e dalle trombette di plastica - bensì si goda pacifico la brezza marina dalla casa sul mare di Cesarea, un po’ un nuovo Erode - viene ripetuto in continuazione dalla mia parrucchiera, per esempio, e da altre e altri ammiratori della sua politica liberista, dagli entusiasti del capitalismo ruggente estimatori del premier carismatico che dovrebbe stare sotto processo e invece governa proprio per non andare ancora in galera.

A volte questi giovani e anziani religiosi e laici - sventolanti bandiere di ogni genere, israeliane, palestinesi, arcobaleno, rosse con tanto di falce&martello - mi ricordano certi germanisti compagni di università che avevo quando studiavo qui, di cui ammiravo la capacità di leggere Heinrich Heine come fossero suoi contemporanei e dire la propria opinione come se due secoli di critica letteraria non esistessero.

La disillusione italiana per la politica qui è lontana, le signore si accapigliano sotto casa discutendo la riforma giudiziaria e l’estensione delle colonie e io trovo in questo l’unica consolazione: l’indifferenza del cittadino comune qui non è contemplata e c’è invece, nell’approccio alla politica, qualche cosa di ingenuo, fiducioso e un po’ primordiale.

I cartelli, le canzoni, gli slogan e gli striscioni delle israeliane e degli israeliani sono i più vari: da quelli che esigono “Tre poteri e non uno di meno”, a quelli che avvertono i vari ministri che “Qui non siamo in Polonia né in Ungheria e neppure in Iran”, a quelli che semplicemente scandiscono “Vergogna!” Si passa rapidamente a problemi più antichi: “Basta con l’occupazione”, “Una Nazione che ne opprime un’altra non sarà mai libera”, fino al giovane: “Five, six, seven, eight: Israel apartheid State!”, passando per “Palestinian lives matter” e “L’occupazione è la vergogna più grande”, il clima è teso, violento e scontento, le persone sono stufe e però non mollano, anzi sono ogni giorno di più, nonostante la polizia a cavallo – che non si vedeva da anni – i fumogeni e lacrimogeni, i feriti e gli arrestati a Tel Aviv con la scusa della lotta all’anarchia e della sicurezza, che qui da sempre giustifica tutto, o quasi.

I cartelli che però più mi commuovono e sorprendono sono i due o tre scritti non in ebraico, bensì in yiddish, l’antica lingua germanica della diaspora ebraica centro-europea: una giovane attivista che conosco regge - davanti alla Knesset - questo cartello: "Demokratsye: alemen glaykh, funem yam bizn taykh”: “Democrazia, tutti uguali, dal mare (Mediterraneo) fino al fiume (Giordano)”. Così lo yiddish e l’est Europa tornano prepotenti nel nostro immaginario ribaltato quando, in seguito all’uccisione da parte di terroristi di due ventenni coloni ebrei nel West Bank, dozzine di loro compagni incendiano automobili, distruggono case, perpetrando un vero e proprio pogrom ai danni della popolazione del villaggio arabo di Hawara.

Un uomo arabo che non ha ancora 40 anni resta ucciso nella violenza: qualcuno gli ha sparato alla schiena, non si sa chi e non si saprà, ma intanto è morto un giovane padre. I cartelli a questo punto esplodono di citazioni dalla più struggente poesia yiddish di Mordechai Gebirtig, che – ucciso da un nazista nel ghetto di Cracovia – mai credo avrebbe immaginato un simile contesto per la sua “Unzer shtetl brennt: la nostra città brucia”.

Dopo duemila di anni di nostre città bruciate da altri, l’idea che siamo noi a bruciare città altrui è il mio peggiore incubo che diventa realtà.

La città forse brucia però certo non tace: le proteste sono tante e tali che - a pochi giorni da Pesach, la Pasqua ebraica che ricorda la liberazione e la redenzione del popolo ebraico dalla schiavitù egiziana - la riforma giudiziaria viene messa in pausa.

I giorni seguenti saranno quelli della conta dell’Omer, tradizionalmente un periodo di lutto e sobrietà, in cui non ci si tagliano i capelli e non si celebrano matrimoni, in ricordo di una pestilenza avvenuta a causa della mancanza di rispetto reciproco fra gli allievi di Rabbi Akiva, uno dei maggiori Maestri del Talmud, in seguito martire delle persecuzioni romane per aver continuato a insegnare Torah nonostante il divieto.

Possa questo periodo di riflessione e studio avvicinarci – passo passo – a un nuovo Sinai, rendendoci degni di ricevere anche quest’anno una Torah di giustizia e misericordia.


Miriam Camerini

30 aprile 2023

Fra qui e Betlemme - 1

Questo è il libro delle generazioni di Adamo



Sono tornata in Israele in autunno, per riprendere la yeshivah dove studio per diventare rabbina.

Arrivavo da Parigi, via Istanbul. Qui era un pomeriggio ancora molto caldo di fine ottobre, venerdì.

La città santa si preparava allo shabbat, al sabato di festa ebraico, il primo del nuovo ciclo di lettura della Bibbia, che l’indomani si sarebbe riaperta da capo, dal racconto di quella divinità che in principio – non si sa nemmeno poi ben perché – crea il cielo e la terra

A Parigi aveva piovuto e io in valigia avevo solo stivali e scarpe da ginnastica: mi sono diretta in città vecchia per comprare un paio di sandali, i più semplici, quelli biblici, con una suola solida e qualche striscia di cuoio per camminare fino alle prime piogge di qua. Il mio calzolaio di fiducia al shuq è sempre lo stesso da 20 anni: il padre è ormai anziano, il figlio avrà circa la mia età. Li riconosco dal naso, che hanno simile e molto pronunciato, “semita”, direbbe qualcuno, ma non so se si può. Il padre calzolaio, magari un po’ stanco e accaldato, o magari solo per far due chiacchiere, si è seduto sul suo divano, accanto a me che provavo i sandali e mi guardavo i piedi. Lui invece guardava me e quando ho alzato la testa i nostri sguardi si sono incrociati per un momento. Ho amato la calma che mi infondeva quel suo starsene così seduto lì sul divano accanto a me: una cliente europea, occidentale, ebrea, israeliana, donna. Ovviamente ho comprato l’opera delle sue abili mani e me ne sono andata con i sandali ai piedi e sulla lingua un verso del brano della Genesi che avrei ascoltato in sinagoga l’indomani e che per alcuni Maestri è il più importante della Bibbia: “Questo è il libro delle generazioni di Adamo” (Gen. 5:1), a spiegarci che tutti veniamo dagli stessi genitori e che tutti siamo fratelli molto prima di qualsiasi divisione fra popolo, religione, quartiere e nazione e anche - secondo i Maestri del Talmud - che ogni essere umano (Adam) è di per sé un mondo intero.

Subito fuori dalla porta di Giaffa, passate quelle mura già rosa per il tramonto imminente e lo Shabbat entrante, un manifesto elettorale mi ha distolta bruscamente da queste pacifiche meditazioni: la faccia corrucciata e volitiva di Itamar Ben Gvir a braccia conserte, in completo grigio e papalina in testa si domandava retoricamente: “Chi sono qui i padroni di casa?”. Mi sono fermata orripilata, profondamente disturbata dal fatto che un pensiero del genere si potesse pubblicare, affiggere, esprimere in pubblico e incredula che potesse davvero mietere voti.

“Voti di chi?” mi domandavo con quella sciocca ingenua fiducia nel trionfo del bene, della fratellanza, quanto meno delle buone maniere, che è l’errore di tutti noi che stiamo nelle nostre belle confortevoli bolle e parliamo solo con chi già la pensa come noi, per sentirci giusti e buoni, non vedere e non soffrire di quel che c’è “fuori”.

 

Una settimana più tardi - inizio Novembre - ero a Budapest per lavoro e la sera dello spoglio dei seggi seguivo in TV con un amico ungherese, ebreo, cittadino israeliano come me, i tragici risultati elettorali: lo sbaragliamento totale di qualsiasi “sinistra”, la sostituzione del Sionismo religioso “moderato” e moderno di Naftali Bennett, l’eroe delle start-up del centro di Israele, rapidamente tramontato, con l’estrema destra religiosa e coloniale di Bezalel Smotrich, inneggiato negli insediamenti della Cisgiordania e la cui moglie – secondo le sue stesse parole – “Non è razzista, Dio ne guardi, ma quando partorisce (cioè circa una volta all’anno, ché bisogna fare tanti figli perché gli arabi ne fanno di più) poi desidera riposare e quindi vuole essere messa in camera con una silenziosa e beneducata puerpera ebrea e non con un’araba dalla famiglia rumorosa”. Questa era stata la sua “giustificazione” – nel 2016 – in seguito alla polemica scatenata da un tweet dello stesso Smotrich, all’epoca giovane esponente del partito nazional-religioso, in cui promuoveva e plaudiva la separazione già di fatto in atto in alcuni reparti maternità degli ospedali del Paese fra madri arabe ed ebree.

 

Mentre scrivo ora, mesi più tardi, scaldata dal sole già quasi estivo al grande tavolo di un bel locale medioriental/hipster da poco aperto nel quartiere di Baka, uno dei più chic della Gerusalemme ebraica, fra ex case arabe e le mura della città vecchia, sulla via che in appena un’ora e mezza a piedi porterebbe a Betlemme, se solo ci si potesse andare, una ragazza in jeans e canottiera accanto a me studia una pagina di Talmud - immagine che farebbe svenire un ultraortodosso, se solo fin qui se ne avventurassero - e a me pare di stare sempre più in una bolla che ignora tutto quel che c’è fuori dal centro della città buono e bello, aperto e libero, intellettuale e femminista, progressista e impegnato.


(continua)


Miriam Camerini

23 aprile 2023

Nel 700 il germe del 7, lo Shabbat


700 è un numero impegnativo: porta in sé il germe del 7, lo Shabbat, la creazione del riposo, della Sosta.

L’inizio della fine dei freddi invernali corrisponde quest’anno con la lettura della prima formulazione delle Dieci Parole, conosciute popolarmente come i Dieci Comandamenti, nel II libro della Bibbia, Esodo. 

Abbiamo aperto l’infinito rotolo alla fine di ottobre, era il mio primo sabato a Gerusalemme dopo la lunghissima estate, e ancora una volta ci abbiamo trovato dentro la divinità intenta a separare cielo e terra, nuovo giro, altra creazione: un nuovo regalo, il nuovo anno. Abbiamo srotolato piano piano, settimana dopo settimana, tutta le Genesi, culminando l’ispirazione narrativa con l’affascinante e magica figura di Yosef, Giuseppe, che si è stagliata e separata dalle altre, diverso dai fratelli, favorito dal padre, figlio primogenito di una madre che farà a tempo a generargli appena un unico fratello, prima di morire, ci ha accompagnati, o forse noi abbiamo accompagnato lui, shabbat dopo shabbat, giù in Egitto e di nuovo con quei fratelli che cerca da quando sa camminare da solo. 

Domenica scorsa abbiamo celebrato un capodanno “minore”: il Capodanno degli alberi, l’inizio della fine dell’inverno.

Qualche giorno fa sono stata invitata a partecipare a una serata “sperimentale”: una mia amica, Yael, studiosa e insegnate di Torah, scrittrice e attrice inglese, ha radunato alcuni suoi amici, particolarmente ispirati, intrigati e toccati dalla figura del sognatore biblico: per un paio d’ore, nel suo salotto, gelido come solo le vecchie case di Rechavia durante il piovoso inverno di Gerusalemme, ci siamo raccontati il nostro Giuseppe. 

A me quella sera è capitato di pensare che Yossef è una figura che sta a metà tra passione e buone maniere, tra desiderio e dovere. 

Il verso che maggiormente riassume questa sua qualità è il mio preferito di tutta la storia: Genesi 37:16 וַיֹּ֕אמֶר אֶת־אַחַ֖י אָנֹכִ֣י מְבַקֵּ֑שׁ הַגִּֽידָה־נָּ֣א לִ֔י אֵיפֹ֖ה הֵ֥ם רֹעִֽים׃

Che significa: “Io cerco i miei fratelli, dimmi per favore dove pascolano”.

Un verso pieno di buona educazione, di maniere civili, riassunte in quel verbo אָנֹכִ֣י מְבַקֵּ֑שׁ, io cerco, che significa anche in ebraico: io chiedo, domando, desidererei avere, prego.

Interpretare i sogni in fondo, l’asso nella manica di Giuseppe, il suo “forte”, ciò che lo salva e rende immortale, è anche una azione di mediazione “narrativa” fra la piena libertà dell’inconscio, che si esprime nel sogno senza filtri né censure, e un racconto, qualche cosa di “dicibile”, che si può condividere, ripetere, dire per interpretare, per comprendere tramite esso la realtà.

Una signora la settimana scorsa ha condiviso con me una canzone israeliana vecchissima, che emergeva chissà come e chissà dove dalla sua memoria: “Che fare, che fare che io sono così bella e che un’altra come me non c’è, dal mare fino al Giordano?”. La figlia Anita aveva partecipato alla cena de Lo Shabbat di tutti che avevo portato a Sondrio, appena arrivata da Israele, ed era stata una bella sorpresa trovare una signora dai grandi occhi blu che mi parlava in ebraico in piena Valtellina. A fine cena la signora aveva preso un po’ di quel cibo, di hummus, di challah, il pane a treccia del Sabato, da portare alla madre, 96enne, israeliana, in una casa di riposo a Poschiavo, poco distante da Sondrio, in Svizzera. 

Dopo il nostro concerto sulle canzoni del Bund a Poschiavo la scorsa settimana sono andata a trovare la signora Hedva, vecchissima e dolcissima, che non ricordava il cibo dello shabbat ma mi ha preso la mano e cantata questa bellissima canzone. Quando le ho chiesto: da dove è arrivata la tua famiglia in Israele mi ha detto: “La mia famiglia... La mia famiglia... Non me lo ricordo”. 

Ricorda il giorno del Sabato, dice la III di quelle Parole. Ricorda. 

Shabbat Shalom


Miriam Camerini

12 febbraio 2023


Ogni discesa comprende in sé stessa l’ascesa (Shlomo An-sky, Il Dybbuk



Tutto ciò che vive soffre, ma c’è sofferenza che costruisce e sofferenza sterile: tutto sta nel saper distinguere l’una dall’altra.

Un racconto rabbinico contenuto nel Talmud babilonese, trattato di Avodah Zarah pagina 8a, ci parla di Adamo e del suo sgomento davanti alle giornate di questo periodo dell’anno, nel loro farsi sempre più corte. Il primo umano, così terreno da portare la sua radice anche nel nome, non sa che cosa sta succedendo e terrorizzato si dice: “Certo è causa mia, perché ho peccato, che il mondo sta tornando al caos primo e anche io tornerò certo a essere polvere, perché da lì sono venuto”. Nella speranza di poter ancora modificare il corso degli eventi, il primo uomo indice otto giorni di penitenza e digiuno, chiedendo perdono al Creatore. Quando Adamo vede che i giorni, passato il novilunio di Tevet, che quest’anno cade sabato e domenica prossimi, tornano ad allungarsi, si rincuora e dice a sé stesso: “Certo questa è la condotta del mondo” e stabilisce otto giorni di banchetti e allegria, musica e feste.

Il Rabbino con cui studio ci ha recentemente spiegato così questa storia: “Adam è il primo a festeggiare la scoperta che non tutto dipende da lui e che il mondo non gira attorno alla sua persona soltanto”.

La sezione biblica che si è letta ieri in sinagoga contiene due discese di due fratelli, uno dopo l’altro: il primo è Giuda, Yehuda, uno dei figli di Lea e del patriarca Giacobbe, che in Genesi 38 “scende” da presso i suoi fratelli. Il testo non spiega che cosa intende con questa “discesa”, ma, nel corso di un racconto breve e sintetico, Giuda incontra una donna, Tamar, e – senza riconoscerla come sua nuora – si unisce a lei. Ne nasceranno due gemelli, uno dei quali progenitore del Messia, figlio di Davide.

L’altro figlio di Giacobbe, Giuseppe, figlio di Rachele, scende – siamo al capitolo successivo, il 39 – in Egitto, venduto dai suoi fratelli ai mercanti di schiavi e anche lui nella sua discesa incontra una donna, la moglie di Potifar, il suo capo, ministro del Faraone. Giuseppe, a differenza del fratellastro, non “cede” alla donna che gli si offre e – laddove Tamar si era celata il viso con un velo – la moglie di Potifar, respinta, lascia in mano i suoi abiti a Giuseppe, proprio a colui che della sua speciale e bella tunica era stato spogliato dai fratelli.

Giuseppe scende ancora di più: viene gettato in una prigione che ha lo stesso nome, bor, di quella cisterna vuota, senz’acqua, nella quale poche righe prima lo avevano rinchiuso i fratelli, tramando di ucciderlo.

La tradizione rabbinica, e in seguito quella chassidica, parlano di un “Messia temporaneo”, “dell’emergenza”, un Messia provvisorio che verrà prima di quello finale e ultimo. Il primo Messia è il figlio di Giuseppe (attenzione a non confondersi: stiamo parlando di questo Giuseppe, il figlio di Rachele e di Giacobbe) mentre il secondo – e definitivo – Messia è il figlio di Davide, quindi di Giuda.

 

A volte bisogna scendere in basso per portare redenzione nel mondo

Auguri di luce


Miriam Camerini

18 dicembre 2022

Stabilitas loci? 



Sono arrivata poco prima che facesse buio, era una delle prime domeniche dell’ora illegale – come diceva mio padre quando ero piccola per farmi ridere – e a Tel Aviv, fuori dall’aeroporto, faceva ancora così caldo che mi sono domandata che ci facevo lì con i pantaloni neri di lana comperati a Parigi. 

La mia vita degli ultimi mesi è stata un costante preoccuparmi di non avere le scarpe e i vestiti adatti al clima e alla latitudine in cui mi trovavo, corse continue a questo e quel negozio per procurarmi il minimo indispensabile, un perenne far lavatrici ovunque per aver pronti all’uso i pochi indumenti utilizzabili nel luogo e tempo in cui mi trovavo. 

Non ho preso il treno questa volta: sapevo che sarei stata troppo stanca per salire – ancorché con la scala mobile – i cinque piani che separano i binari dalla strada, arrivata a Gerusalemme. Ho preso uno sherut, uno di quegli antichi, scomodissimi e mediorientali taxi collettivi che sono fortunatamente meno popolari da quando esiste il treno, ma che nel momento del bisogno tornano utili. L’autista era antipatico come quasi sempre, la famigliola di tedeschi, non ebrei, turisti, accanto a me, faticava a farsi capire e ho funto da traduttrice. “Sai il tedesco?”, mi ha chiesto l’autista, in ebraico. “Un po’”, ho risposto: l’ho studiato tanti anni, qua e là. “Io so contare in yiddish”, mi ha detto l’autista: “eyn, tzvey, dray...” sempre più amichevole. Per un istante (ricordiamo che sono molto assonnata) provo a ipotizzare che sia russo e gli chiedo se sa lo yiddish da casa: “Neshamah, anì lo ashkenazì!” (Anima mia, non sono ashkenazita!) esplode quello con il suo miglior accento e l’espressione idiomatica da ebreo originario di un paese arabo, come il 99% degli autisti. “L’ho imparato dai clienti, dalla strada”.

Mi scarica finalmente davanti a casa, rotolo dentro, faccio il minimo necessario per renderla abitabile e appena fa buio mi addormento. 

Mi sveglio alle 11 di sera con una gran fame, mi faccio una pasta e torno a dormire fino all’indomani. Sono due settimane che dormo, praticamente. Non ricordo quando ho dormito tanto in anni recenti, e ancora non ho finito, credo. Nel frattempo, ho ripreso la yeshiva, incontrato amici vecchi e nuovi, visto – come sempre faccio qui – vecchi film, a casa e al cinema, iniziato a smaltire qualche quintale di lavoro arretrato. Ho studiato e insegnato, cucinato e fatto la spesa, cose che per mesi non avevo avuto occasione di fare. 

Recentemente mi è stato chiesto, a Milano, in università, dove stavo tenendo una lezione sullo Shabbat, il sabato ebraico, che senso ha “essere obbligati” a riposare: oggi, durante la lezione di pensiero chassidico (mistico-pietista) che seguo alla mia scuola rabbinica, ho avuto una possibile risposta: perché la forza e l’energia che vorrebbe, al tramonto del sesto giorno, che io andassi avanti a lavorare, a creare e pianificare, deve essere convertita in forza spirituale di sosta; è una trasformazione dell’energia, che non si deve disperdere, bensì cambiare sostanza, per un giorno alla settimana, il settimo, e insegnarmi a sostare.

Buona settimana.


Miriam Camerini

4 dicembre 2022

Dopo Sukkot


Un mese fa era venerdì ed ero sulla spiaggia di Levanto, tornata da molte settimane di fine estate e lavoro intenso per festival e piazze d’Italia; guardavo il mare. Pensavo all’anno ebraico che si sarebbe concluso di lì a due giorni appena, e a quello che stava per incominciare. Avevo comprato dal rigoglioso verduraio di Via Garibaldi dei funghi porcini e li avevo messi in padella per cenare con mia zia Mara e festeggiare con lei l’arrivo dell’autunno e di quell’ultimo Shabbat dell’anno, un anno fra i più difficili che mi sia finora capitato di vivere, che avrei salutato senza rimpianti, pronta ad abbracciare il nuovo.

Avevo deciso che avrei trascorso le feste ebraiche dell’autunno facendo esattamente ciò di cui avevo voglia, cioè viaggiare per le città d’Europa che amo e visitare amiche e amici che non vedevo da tempo. Poter frequentare una sinagoga, partecipare a una funzione religiosa nella quale mi sento coinvolta, in cui non sono – in quanto donna – relegata alle ultime file, alla “piccionaia” del matroneo, era però il vero e principale obiettivo che mi ero data. Lo scorso anno avevo trascorso le feste di Kippur e di Sukkot in Nord America, a Montreal prima e a New York poi, danzando con i rotoli della Torah in una palestra dell’Upper West Side, proprio vicino al Parco a Simchat Torah, il giorno in cui si termina la lettura dei primi cinque libri della Bibbia e si danza di gioia con il rotolo vestito a festa come fosse uno sposo. Avevo portato un caro amico, non ebreo, ad assistere al rito e – forse per il suo distinto e serio abbigliamento da professore universitario, molto italiano, per quell’aria un po’ straniera in tutti i sensi, con la sua giacca di lana e i pantaloni di velluto – era stato immediatamente onorato con l’invito a portare uno dei rotoli, danzare con esso mentre gli altri attorno cantavano e battevano le mani. Anche io, dalla parte delle donne, avevo danzato con un piccolo Sefer vestito di bianco, che avevo poi riposto nel suo armadio, finito l’ultimo giro e l’ultimo canto. Ci eravamo divertiti poi a camminare per l’Upper West Side pieno di sinagoghe e di ebrei più e meno giovani, che camminavano in gruppo, spostandosi da una festa all’altra, da una cena a una funzione religiosa. Avevamo finito la serata bevendo vino kashèr nella capanna, nella Sukkà allestita sul marciapiede da un ristorante kashèr che aveva offerto ai suoi avventori, per tutta la settimana precedente, di onorare la prescrizione biblica consumando i propri pasti in una capanna di frasche, portando un po’ di Medioriente e di Sinai fra i marciapiedi di West Broadway e Columbus Ave. Un picnic a Central Park aveva onorato il Sabato dell’inizio della lettura della Torah nell’ultimo mio giorno nel Nuovo Mondo: in principio Dio creò il cielo e la terra. La settimana precedente, Sukkot, avevo pranzato con alcuni amici nuovi nella loro sukkà, capanna, costruita per la festa fra due vicoli pedonali di un quartiere residenziale di Montreal, fra le foglie d’acero già autunnali e gli scoiattoli curiosi.

In tutte queste esperienze, ciò che per me era stato fondamentale era il rendermi conto, ancora una volta e sempre di più, che non sono più interessata al ruolo che l’ebraismo ortodosso - come è praticato nella comunità in cui sono cresciuta – propone alla donna, cioè nessuno. Esistono e fioriscono, in Nord America, in Israele e pian piano anche in Europa, comunità indipendenti, piccoli gruppi o sinagoghe già ben stabilite, minyanim – gruppi di preghiera – che restano dentro all’ortodossia per quanto riguarda l’osservanza dei precetti e l’approccio allo studio della Torah, come per la forma e i testi e la lingua della liturgia, ma che lavorano da dentro la tradizione – è questa la novità - per fare spazio alle donne all’interno della funzione religiosa, della vita della sinagoga, della lettura e dello studio dei testi biblici e di quelli rabbinici. Se questo è per me importante ogni giorno, e da un Sabato all’altro, diventa fondamentale nel periodo delle feste d’autunno, da Capodanno a Kippur, da Sukkot a Simchat Torah: lì l’esclusione da ciò che per quasi un mese è la vita pulsante della comunità, della famiglia e di ogni ebreo o ebrea è diventata per me intollerabile fino a farmi arrabbiare, intristire e preoccupare all’avvicinarsi del mese di Tishre, invece che rallegrarmi nell’attesa di un periodo che dovrebbe essere di intensità spirituale per i “giorni del giudizio” seguita da gioia pura per l’anno iniziato e il “raccolto” finito. Uno degli insegnamenti più importanti delle ricorrenze ebraiche di questo mese, e forse di tutti i mesi, è però quello della responsabilità individuale e collettiva, per cui ognuna di noi ha il dovere e il diritto di “riparare il mondo” e di farlo per sé e anche per gli altri. Ognuno può e deve scegliere dove può sentirsi a suo agio e dove può dare di più alla comunità, essere sé stesso nella miglior versione possibile per star bene con gli altri. Parlando con Emma, la mia amica fra poco psicologa, a Parigi l’altra sera in un caffè, dicevamo che l’ebraismo è libertà: “Libertà dentro a 613 precetti?” le chiedevo. Forse l’ebraismo è questo: una continua giostra fra regola e libertà, una tensione collettiva e personale che aspira a trovare l’equilibrio perfetto tra il devo e il voglio, ma che a ben guardare funziona benissimo: le regole e i precetti dell’ebraismo liberano la persona, costringendola ad assumere responsabilità.


Miriam Camerini

23 ottobre 2022

La misericordia del raviolo


Ieri sera parlavo con un amico della “misericordia del raviolo”: eravamo per strada, a Dresda, lo Shabbat era uscito da poco e lui si era comperato alla pizzeria di un afghano delle sorte di gnocchetti di pane, o meglio: di impasto di pizza ripieni di formaggio e spinaci, come dei piccoli panzerotti al forno. Con il fornaio afghano, mentre la pasta della pizza si gonfiava in forno, avevamo avuto una conversazione interessante iniziata con il mio: “Tu sei musulmano, giusto? E mangi maiale?”. 

C’erano salami e prosciutti sul menu, fra i vari possibili ripieni dei calzoncini e mi domandavo quale sia la norma per la vendita di cibo proibito nell’Islam. 

Un ebreo non può mangiare maiale, ma non gli è proibito venderlo o trarne altro vantaggio economico, anche se non conosco nessuno oggi che lo faccia, mentre è proibito – per esempio – derivare alcun profitto dalla mescolanza di latte e carne, secondo la regola ebraica, che però l’Islam non ha adottato. 

Il ragazzo ci ha risposto che – appunto – lui il maiale non lo mangia però lo può vendere e ci ha citato non il Corano, bensì l’esatto passaggio biblico che proibisce il maiale in Levitico, lasciandomi abbastanza sorpresa. Abbiamo salutato e ce ne siamo andati, mangiando i nostri panzerottini e parlando di come la pasta ripiena e calda sia uno di quei cibi che confortano a prescindere, come tornare nel ventre materno, in quel grembo o utero che in ebraico come in arabo si chiama rechem, ossia misericordia, che è a sua volta uno dei nomi di dio in entrambe le fedi e anche il nome dato dai Maestri ai loro rispettivi testi sacri, la Torah e il Corano. 

Manuel Kanah e io eravamo a Dresda per presentare il libro di cucina e religioni che abbiamo scritto assieme, io le storie e lui le ricette, e che è da poco stato pubblicato in Germania, con il titolo di Rezepte und Gebote, tedesco per Ricette e Precetti. La sera precedente, su una grande barca ormeggiata sull’Elba, avevamo intrattenuto un’ottantina di ospiti curiosi di assaggiare challà, pane dolce del sabato, e humus, couscous e chraimi, pesce piccante al pomodoro, shershi di zucca tripolina e ceci piccanti al coriandolo per una cena dello Shabbat con cibo mediorientale ma musica yiddish, nigunim chassidici cantati assieme a due giovani uomini che hanno lasciato le loro comunità “ultra-ortodosse” rispettivamente a New York e a Gerusalemme per costruire una nuova comunità ebraica più “moderna” sulle rive dell’Elba, nella culla della Riforma, all’ombra della grande statua di Lutero e a due passi dalla sua chiesa. 

L’ultima sera prima di Sukkot, la festa delle capanne che inizia fra appena un’ora al tramonto di questa domenica, alla luce brillante della luna piena del settimo mese dell’anno biblico, primo secondo il conto rabbinico, abbiamo benedetto lo Shabbat sul vino e spezzato la challà dopo aver lavato le mani, cantato e contemplato il fiume, le stelle e la luna, benedetto l’eterno per il vino e il pane, la terra, il Sabato e la Legge. 

Mentre camminavamo pensavo che c’è davvero qualche cosa di materno e misericordioso in questa pasta calda e morbida che si ingravida di formaggio, di verdure o di carne e mi domandavo se è solo in occidente che il conforto derivato da questo cibo, pasta ripiena, fritta o cotta al forno che sia: borek turco-balcanico, tortello del carnevale italiano-svizzero-tedesco, raviolo e panzerotto italo-mediterraneo o knödel austro-tedesco è così immediatamente “materno”. Sul momento ho ripensato a una lezione che ho sentito un paio d’anni fa dal rabbino con cui studio a Gerusalemme, americano di nascita e polacco di famiglia, che trattava la teologia dei Krepelakh, involtini di pasta e carne trita di origine ebraica – aschkenazita, ossia esteuropea, che si preparano per Rosh Hashanah, il capodanno ebraico, appena trascorso, festa del Giudizio divino e del “conto dell’anima”, in cui tutte le azioni, buone e cattive commesse durante l’anno appena concluso vengono passate in rassegna al suono dello shofàr, il corno di ariete che dà voce al nostro dolore, al rigore della giornata, alla consapevolezza della nostra difficoltà di esseri umani, ma anche alla certezza di poter sempre aspirare a far meglio. 

Il suono del corno, in sinagoga e in casa, a Capodanno, segue una “partitura” che ne prescrive i suoni: la durata e la quantità, se sono continui o spezzati, lisci o tremolanti. 

Il suono lungo e continuo, “liscio” è detto tekiah – ossia suonata, vera e propria – il suono spezzato e “tremolante” si chiama teruah, ossia “strepito, rumore fragoroso”, che dà anche il nome alla giornata.

Il suono di mezzo è quello diviso in tre e si chiama shevarim, cioè pezzi, cocci, frammenti. La tekiah, il suono liscio, rappresenta la misericordia che deve avvolgere sempre il giudizio, la legge, il rigore: nella partitura dello shofàr, infatti, i suoni frammentati sono sempre preceduti e seguti dalla morbidezza della tekiah, che li avvolge. Così nei krepelakh, crespelle del mio rabbino, la carne del ripieno – il padre, la legge, il rigore – è avvolta nella misericordia del femminile, della pasta che perdona: entrambe le dimensioni del rigore e della misericordia sono divine, tutte e due tengono in piedi il nostro mondo. 

L’importante – come sempre – è la scansione e la posizione dell’una e dell’altro. 

Musica e cibo, ancora una volta, ce lo rammentano.


Miriam Camerini

9 ottobre 2022

La bella la va al fosso

C’è un anello che ha comprato mia madre molti anni fa in un negozio di gioielli non proprio antichi ma un po’ vecchi vicino a casa “nostra”, cioè casa dei miei a Milano. Sono pochissimi i gioielli che mi piacciono, solitamente, ma quell’anello l’ho amato da subito, e gliel’ho detto. Non ricordo quand’era che lo ha comprato, ma so che a un certo punto, nella sua generosità, ha deciso di regalarlo a me, che glielo complimentavo e guardavo ogni volta che lo indossava: è venuta una sera in cui non ha più resistito. Ero da loro, di nuovo guardavo l’anello. Lei se lo è tolto e mi ha detto: “E’ così raro che ti piaccia tanto un gioiello: mettilo tu, io mi cerco qualcos’altro”. E così ha fatto: di lì a poco si è comprata nello stesso negozio un anello diverso da quello ormai “mio”, ma con gli stessi colori. Insolito che io non riesca a collocare nella mia maniacale memoria un evento di tale emotiva portata, eppure tant’è. Così a occhio direi che poteva essere una decina di anni fa, ma forse anche un po’ meno. Ho un ricordo suffragato da foto, forse la prima in cui compare: il bellissimo matrimonio veneziano di due amici, la cerimonia in una delle “cinque Scole”, ossia sinagoghe, del ghetto e poi il ricevimento all’isola del manicomio, che in questo momento mi cela il nome. Metà di luglio 2014: mia nonna materna era morta da quattro mesi e appena ci stavamo tutti in casa riprendendo un po’, io avevo un uomo di cui ero innamorata come mai prima ero stata nella vita e a quel matrimonio lo avevo portato fra mille inquietudini: era la prima volta in cui comparivo con un compagno non ebreo in un contesto tanto ebraico e osservante. Avevo chiamato al telefono il mio rabbino per avvertirlo: sapevo che la notizia non l’avrebbe rallegrato, ma avevo preferito dirglielo qualche giorno prima che lasciarglielo scoprire durante il matrimonio, al quale sapevo avrebbe presenziato e celebrato. P. e io, a quel banchetto nuziale, eravamo di una bellezza che non mi vergogno a celebrare: la foto non mente. Felici e innamorati, divertiti e sorpresi che ci si potesse innamorare tanto e divertire così. Io avevo un vestito lungo con la schiena nuda, ovviamente blu, una borsa di cuoio degli anni ’70 di mia zia e indossavo l’anello con la pietra rossa scura: una bellissima foto scattata quel pomeriggio da un’amica me lo ricorda. Da quel giorno in avanti l’anello è stato proprio ovunque nei miei viaggi per il mondo, nelle feste e agli spettacoli più importanti e anche in giorni qualunque, poiché ha il grande pregio di non essere prezioso per altri che per me.

Qualche settimana fa, a Weimar in Germania per Yiddish Summer, festival di musica klezmer e quest’anno greco-turca, sono andata in piscina un pomeriggio in pausa-pranzo con Manuel, arrivato da poco per seguire i corsi di musica strumentale e accaldato quanto me. Stesi gli asciugamani ho meccanicamente tolto l’anello assieme all’orologio e a tutto il resto, ho lanciato tutto un po’ alla rinfusa sul prato e mi sono buttata in acqua. All’uscita frettolosa non ho fatto caso a ciò che accadeva dei miei possedimenti, ho indossato tutto distrattamente, inforcata la bici e via di nuovo verso nuovi corsi, suoni, emozioni. Giunta all’accademia di musica per le lezioni del dopo-pranzo, la percussionista Nora mi ha messo in mano un tamburello e detto: “Suona!” e così ho fatto. Io solitamente tolgo in automatico gli anelli per battere il tamburo, come mi ha insegnato il sornione musicista curdo Ashti la scorsa estate, prestandomi il suo prezioso daf, ma questa volta non ho ricordo di ciò che ho fatto: avevo un anello? Non l’avevo già più? Chissà.

Trascorre il pomeriggio.

Suono e canto, poi esco a mangiare torta e bere caffè con due amiche, una riunione zoom per decidere alcune cose che farò in Sud Africa fra poco più di una settimana: la ragazza con cui parlo lì è vestita da pieno inverno, il che mi terrorizza tanto che appena finisco la chiamata compro finalmente il volo per la Grecia cui sto pensando da giorni: qualche giorno di estate fra la Germania e l’inverno dell’altro emisfero. Felice torno in ostello, mi lavo e mi vesto per la jam session serale, finalmente ho deciso quando partire, il sole e il mare greco già mi sorridono, l’umore è buono come non era da settimane; cerco l’anello per indossarlo stasera.

Non c’è.

Lo cerco ovunque, in camera e in bagno, in ogni borsa e tasca e piega. Torno in bici alla piscina, che è ormai chiusa, ma conosco benissimo il pertugio da cui saltare dentro: l’ho già fatto un sacco di volte, da un muretto che richiede solo un po’ di coraggio e un salto sui due metri. Mi butto, vado dritta al prato del pomeriggio senza neppure alzare la testa, finché sento indistinte voci e risate, alzo lo sguardo e trovo una dozzina di bagnini a riposo e mezzi sbronzi: hanno finito la giornata e ora bevono birre al baretto della piscina e non si capacitano della nonchalance con la quale spiego loro nel mio stentato tedesco che sto cercando il mio anello, motivo per cui sono lì fuori orario, anzi se per favore mi danno anche loro una mano magari finiamo prima. Molti ridono, uno mi prende sul serio e setaccia un po’ il prato con me. Niente anello. Il capo-bagnino mi domanda ridacchiando sotto i baffi da dove ho in mente di uscire; ops... A questo non avevo pensato: il salto di due metri all’insù ancora non l’ho mai provato. Magnanimo, scrollando il capo, mi apre il cancello, ringrazio ed esco, torno alla bici, cerco alla scuola di musica, invano.

Alla jam session mi presento in ritardo e triste, ma ballo e suono il tamburello, rido e canto e bevo e fumo e chiacchiero come posso.

A fine jam propongo con Manuel la classica spaghettata di mezzanotte all’ostello: “Tutti dagli italiani che improvvisano una pasta pomodorini e salmone eccezionale!”. La serata è bella.

Vado a letto, spero ancora nella luce del mattino, ma quando apro gli occhi l’indomani il pensiero dell’anello perduto mi trafigge con una fitta di dolore: è un momento molto difficile per me, questo; sono così tante in questa estate le cose che mi affaticano, non me ne serviva un’altra ora. Mi alzo, inizio la giornata, in qualche modo. Continuo a pensare all’anello perduto, lo immagino solo e triste, lasciato in disparte, lo chiamo, gli dico: “So che da qualche parte sei: non puoi essere scomparso, parlami, chiamami, dimmi dove trovarti e ti verrò a cercare!”. Passano le ore, faccio altre cose: è il mio ultimo giorno a Weimar per questa estate, le persone da salutare sono tantissime, le ultime commissioni, ancora un po’ di musica, domani sera se tutto va bene sarò in Grecia. Il pensiero però mi torna sempre all’anello, non mi do pace, so che in qualche luogo è e il pensiero di partire e lasciarlo qui solo mi fa disperare.

Manuel guarda ancora in piscina, io chiedo a tutti, cassieri e bagnine, uomini delle pulizie, bagnanti e passanti: invano. Sono triste ora, l’idea che domani mattina io partirò e l’anello resterà qui da solo, che nessuno più lo cercherà (certo, qualcuno magari lo troverà, forse persino indosserà, ma no: il pensiero non mi consola) e che verrà dimenticato, coperto magari in un tombino dalle foglie che fra poco diventeranno gialle e cadranno, la pioggia lo bagnerà, la neve lo seppellirà e continuerà ad esistere ignorato, sconosciuto, non più portatore di gioia, ricordo di generosità materna, simbolo dell’amore più forte e disinteressato che conosca... Non può essere.

Mi alzo, vado da Koriat, la pasticceria del giorno prima: non c’è ragione che sia lì, ma tant’è. Chiedo alla proprietaria, che assieme a me sposta divani e tavolini, infine mi porta del succo di mela, ma siamo in Germania: non me lo offre nemmeno per consolazione, dice solo: Es tut mir leid

Mi siedo su una panchina e piango al sole. Penso a mia mamma, a Paolo, a quel giorno, a tutti gli anni, gli spettacoli e i viaggi e so che non dovrei essere così triste per un oggetto, ma io sono in uno dei periodi più difficili che la mia vita - in fondo facile e felice, grazie a Dio - abbia conosciuto e questa perdita mi pare come un accanimento del destino, un messaggio oscuro dei cieli avversi.

Oramai sento che l’anello è perduto per sempre e lì sulla panchina fuori dal caffè inizio a dipingerlo per me nella mente, a descrivermelo per ricordarlo, non perderne traccia almeno nella memoria. Lo piango, lo lascio andare...

All’improvviso ho un lampo e lo vedo: è caduto per terra nel cortile dell’Oma, the other music accademy (la sede del festival, una grande casa dotata anche di lavatrice, che avevo usato la mattina) ieri mentre andavo con la bici a ritirare il mio bucato verso sera. Ne sono certa. Entrata dal cancello, ora ricordo, la bici ha sbandato un momento, probabilmente scivolando su un sasso per terra: non sono caduta, ma c’è mancato poco e l’inclinazione è stata forte... Ora la sento proprio nel corpo, quella quasi caduta, qui seduta al sole da Koriat e non ho dubbio: l’anello era in borsa, la borsa era nel cestino dietro la bici, la bici è scivolata e l’anello è caduto dalla borsa. La dinamica è chiara davanti ai miei occhi. Mi alzo e vado, la bici mi porta diretta al punto esatto del cortile dell’Oma (che in tedesco è anche vezzeggiativo per nonna), si ferma - pare animata - lì proprio dove è quasi caduta la sera prima. Guardo per terra.

L’anello è lì.

La bella la va al fosso, ravanel remulaz, barbabietole e spinaz, tre palanche al maz, la bella la va al fosso al fosso a resentare al fosso a resentàr

E intant che la resenta ravanel remulaz barbabietole e spinaz tre palanche al maz, intant che la resènta al gh’è cascà l’anel, al gh’è cascà l’anel… 

La canzone d’altronde è quella, se ci avessi pensato avrei capito subito dove avevo perso l’anello: al fosso a resentàr.

La canzone l’ho sentita per la prima volta da mia madre, anno 1995, quando in prima media dovevo preparare un piccolo lavoro su un tema a scelta e lei mi propose la canzone popolare italiana, sedendomi poi al tavolo di cucina per svariate e deliziose ore a registrare canzoni - voce e chitarra - su una cassetta che ancora ascolto e sempre mi prometto di copiare in digitale.

Morale della favola: se sbassi gli occhi all’onda e non vedi il pescator, l’anello tu intanto ripescatelo da sola, e poi si vede.


Miriam Camerini

4 settembre 2022


Teorema, le gonne, le gatte

Siamo all’uscita 50, giubileo di questa rubrica, numero tondo e importante.

Ancora una volta sono in viaggio, questa volta in aereo, invece che in treno.

Questa mattina ho sistemato casa di mia madre a Gerusalemme, salutato con un bel brunch “finisci-avanzi” un caro amico, comprate le ultime spezie da portare in Occidente, riposto gli abiti “modesti”, le gonne lunghe e le magliette con le maniche che indosso solo lì, ordinato i libri che lascio in quella casa, lavato e pulito e chiuso la porta.

Sono state, anche questa volta, settimane più pacifiche di quelle che vivo in Europa, sono andata molto al cinema e anche a qualche bel concerto, all’anteprima di una nuova produzione israeliana di Nathan il saggio, testo teatrale di G.E. Lessing, filosofo e drammaturgo dell’Illuminismo tedesco che ho tanto amato e studiato.

Bello vedere illustrata proprio a Gerusalemme la favola ideale che funge da scrigno e pretesto alla quasi universale Parabola dei tre anelli, utopia di fratellanza fra i popoli e i “tre monoteismi” che attraversa il Mediterraneo e l’Europa dal Medioevo fino al discorso di Hannah Arendt a Stoccolma.

Ho approfittato di una rassegna della Cinematheque in occasione del centenario di Pier Paolo Pasolini - su cui sto anche lavorando - per recuperare qualche film suo che ancora non avevo mai visto, come Teorema e il Decameron.

Ho visto un film polacco degli anni ’80 sullo scoppio della Prima guerra mondiale e il nuovo acclamato norvegese sulla trentenne che butta all’aria tutte le relazioni mentre gli altri attorno a lei nascono e muoiono come niente fosse; una sera, con un’amica che sta chiudendo un matrimonio di molti anni e parecchi figli, sono stata a un originale festival sul tetto di un edificio brutalista in centro città a vedere l’ancor più brutto e brutale Lazzaro felice, uno dei film più inutilmente tristi che il cinema italiano abbia prodotto negli ultimi anni, direi.

Ho anche avuto serate quiete e casalinghe, qualche cenetta con amici e amiche, un paio di bei giorni al mare.

Ho adottato temporaneamente due gattini di forse un mese, sorella e fratello, di cui mi sono semplicemente innamorata: sono saltati in braccio a me che mi ero avvicinata per vedere chi miagolava e dov’era la mamma mentre correvo in ritardo a vedere Teorema, me li sono portati, attaccati con le unghie potentissime alla mia gonna, fin dentro la cineteca dove la maschera, gentilissima, mi ha accolta con affetto, ha dato loro da bere e se ne è occupata mentre io vedevo il film. Li ho portati a casa e poi affidati a un vicino gentile e “gattaro”, che ora mi manda le foto e mi mostra giorno dopo giorno come si adattano alla nuova vita al piano di sopra con altre tre gatte adulte e 4 o 5 (non ricordo) “fratellastri” acquisiti. Nel prenderli con me, la sera di Teorema, sapevo che al massimo li avrei “goduti” per una decina di giorni, il tempo che mi separava dalla partenza, e ho scelto coscientemente di godere di quella gioia temporanea sapendo che sarebbe durata un tempo esiguo e già stanziato.

Ho riflettuto molto sull’idea di legame temporaneo, su quanto si possa amare sapendo che non sarà “per sempre”: un po’ è come se quest’anno (scolastico) fosse stato tutto così per me: un susseguirsi di realtà estremamente temporanee, legate a un luogo, uno spazio che sapevo sempre per quanto (poco) avrei abitato, fosse una camera d’albergo o una casa di amici, il vagone letto di un treno o la cella di un monastero... Non so più, qui, ora, questa sera, sotto la pioggia e il tendone a righe bianche e blu del bar dei Bagni Sirena, sul lungomare di Levanto, luogo della mia stabilità, rifugio marino di ormai cinque generazioni di “noi”, dove mia sorella a breve verrà con i tre figli, dove tutte le “amiche del mare” (che magari stavano a Milano a due fermate di tram, ma ci vedevamo lo stesso solo qui) della mia infanzia sono qui con pance, bambini e carrozzine, non so più davvero che cosa desidero, quanto a lungo ancora mi piacerà questa erranza, e mentre lo scrivo una goccia di pioggia enorme come una lacrima scivola sullo schermo e allora temo sia ora di chiudere il computer e andare a cena.


Miriam Camerini

26 giugno 2022

Una rivelazione non fanatica



Ero a Catania, la scorsa settimana, invitata a partecipare a un bel Festival del Mediterraneo, di cui parlerò in seguito, e in cui ho raccontato proprio ciò che ora vado a dire a voi, e così questa “pagina” è rimasta nel mio diario: la condivido ora, scusandomi per il ritardo con le lettrici e i lettori, e chiedendo loro di fare un salto mentale indietro di un quarto di luna, grazie.

È l’ultima sera dell’Omer, quel periodo di sette settimane, 49 sere, che contiamo dalla seconda notte di Pesach, Pasqua, affinché ci conduca fino a Shavuot, Settimane, ossia Pentecoste, pronti al dono della Torah e alla raccolta del primo grano. Omer è una misura d’orzo, quella che per biblica prescrizione veniva offerta al Tempio di Gerusalemme ognuno dei 49 giorni. 

L’idea di contare il tempo in “grammi” mi ha sempre affascinata, come se i giorni fossero proprio una cosa solida, con un loro peso, una dimensione, come se ogni ora avesse un odore, un corpo, una consistenza, come se si potesse aggiungerne o toglierne un po’... “E’ un omer e mezzo: che faccio signora, lascio?” mi immagino di sentir dire da questo immaginario venditore-pesatore di tempo/cerealoide con la sua paletta in mano, mentre pesca in un sacco di juta ancora qualche ora, qualche minuto, una mezza giornata.

Sette settimane, quasi due lune complete, dall’uscita dall’Egitto al Monte Sinai, dalla redenzione alla rivelazione: le scrivo minuscole volutamente, perché sono entrambe parziali, provvisorie, temporanee, appunto. 

La redenzione è infatti più che altro liberazione fisica, concreta, dalla schiavitù, dallo stato di servitù in cui il tempo non lo si conta affatto perché non appartiene all’individuo, bensì al suo padrone. 

Per lo schiavo il tempo non ha alcun valore: non è retribuito e non è in alcun modo collegato al godere il frutto del proprio lavoro; per questa ragione, in Numeri 10, i Figli d’Israele nel deserto del Sinai si lamentano con Mosè e rimpiangono il tempo della schiavitù, durante cui in Egitto mangiavano tanto e “gratis”, che detto di persone che lavorano senza sosta è ridicolo, ma ci fa capire che cosa succede quando separiamo completamente il lavoro dalla sua retribuzione.

Lo schiavo non ha nemmeno un giorno di pausa, qualche ora libera per tirare il fiato e contemplare l’opera compiuta. 

Per questa ragione il IV comandamento al Sinai doveva suonare davvero rivoluzionario: “Shabbàt, sosta, fermati, non fare e non disfare”, “Ricorda” e “Osserva”, così è prescritto il Sabato, con due verbi non immediatamente produttivi, che presuppongono – anzi: impongono - la necessità di non-fare.

Anche la rivelazione è parziale; così ho sentito spiegare prima di Shavuot dal Rabbino con cui studio a Gerusalemme, che cita un importante Maestro chassidico (mistico) dell’800. La Divinità si rivela dicendo “Anochì”, cioè “Io” nella sua forma più lunga, con una “caf”, la lettera “C/Ch” nel centro, che in ebraico sta per come, come se, simile a... Non è una rivelazione totale, aggressiva, invadente, troppo diretta, bensì un rivelarsi per allusioni, per somiglianza, piano piano e con delicatezza. 

Femminile e seducente, più che maschile e conquistatore. 

Così vorremmo ogni nostro incontro con il Divino, così vorremmo fosse ogni esperienza spirituale e forse anche – a ben guardare – qualsiasi nostro incontro con l’Altro/a: che piacere c’è nel conoscere una persona che ci interessa e vederla subito “nuda”?  

La rivelazione non fanatica, all’insegna del “Come se” è una delle più grandi lezioni di crescita di Shavuot: per imparare a contare e camminare da soli serve un Altro che non invada, che lasci fare a noi la nostra parte.


Miriam Camerini

12 giugno 2022



Un mese, ovvero: da Gerusalemme a Matera e ritorno



È stato un mese esatto: me ne sono andata da Gerusalemme la notte in cui è finita Pasqua, Pesach, con la luna calante, dopo aver mangiato e pregato, passeggiato con i miei genitori e con amici, partecipato a un picnic pieno di meditazioni e canti, benedizioni e pensieri mistici, oltre che vino e cibo.

Alla sera avevo visto alla Cinematheque con un amico uno strano progetto musical-cinematografico: il rifacimento del Dybbuk di Waszynski, film polacco del 1937, con le voci doppiate dagli attori e cantanti in sala, che eseguivano i rumori e le musiche di scena dal vivo. Di lì a poco, avevo raccontato all’amico, avrei tenuto a Matera una lezione proprio sul Dybbuk, avremmo messo a contatto quella storia, tutta ebraica ed est-europea, con quella salentina, pre-cristiana prima e poi legata a San Paolo, delle tarantate, ma di questo ho già parlato qui. 

L’indomani ero giunta a Roma, anzi fuori Roma, sulla Flaminia, a Sacrofano, per un grande raduno, in una bella atmosfera di condivisione e confronto avevo parlato assieme a una giornalista siriana musulmana e a una suora che lavora in carcere di centro e periferia, margini e confini, diaspora e Gerusalemme.

L’indomani era stato il turno del “Talmud on stage”, progetto che porta il mare della sapienza e della fantasia narrativa rabbinica nelle periferie tramite il teatro d’improvvisazione. Dopo Gratosoglio, alla periferia di Milano, è stato il turno del cuore d’Europa, Vienna, e da lì Düsseldorf, dove ho presentato il mio libro, da poco uscito in tedesco, a tante belle signore in mezzo a quadri meravigliosi delle Avanguardie russe.

Uno spettacolo nuovo, su Pasolini, assieme a un amico cantante e chitarrista mi ha ricordato ancora una volta quanto amo stare in scena, recitare e cantare.

E poi è stato il turno della Lucania, dove un festival ingegnoso e creativo, “Tracce ebraiche”, aspettava e preparava da tempo i suoi fuochi d’artificio, che sono esplosi uno dopo l’altro per una settimana pirotecnica quanto la Festa della Madonna di Viggiano descritta da Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli: fino a tarda notte e con maestria, dedizione e magia. 

L’arrivo nella notte è stato già un regalo, respirare l’odore del mar Ionio dopo un’intera giornata in treno, esplorare di notte con un amico, ospite del festival anch’esso, la spettrale Marconia, cittadella fascista dedicata a Guglielmo Marconi e all’elettricità, tornare alla splendida, indicibile Matera l’indomani, città da cui mancavo da sette anni ma che ricordavo in ogni suo sasso. Dal tavolino di un’enoteca, davanti a un bicchiere di Aglianico, ho tenuto una lezione via zoom per un gruppo basato a Berlino, (Matera – Berlino: che viaggio!) su un tema assai legato al luogo in cui mi trovavo: i piedi del Messia, storie di piedi e Redenzione nella Bibbia e altrove; dal comando (togliere i calzari!) dato da Dio a Mosè al roveto ardente all’inizio di Esodo, allo stratagemma di Naomi che suggerisce alla nuora Rut di scoprire i piedi del ricco cugino Boaz nell’aia, a mezzanotte, mentre sorveglia l’orzo. A mezzanotte Cenerentola perde la scarpetta, del resto, e la storia di Boaz e Rut in qualche modo ricorda quella dei fratelli Grimm semplificata poi da Disney. 

Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini - del 1964 - è girato proprio a Matera e in altre suggestive terre lucane: lo guardiamo Manuel e io al fresco della sera, con il computer posato su una sedia fuori dalla porta di casa, aperta sui calanchi.

Il Vangelo di Luca racconta di come una donna lavi i piedi a Gesù, fra lo scandalo dei presenti: Youtube ci regala l’indimenticata canzone di Maria Maddalena in Jesus Christ Superstar e i miei simpatici allievi berlinesi cantano in playback e ballano, ognuno dal suo divano. Un’altra storia che ho già qui nominata, tolta dal Talmud babilonese, trattato di Sanhedrin, pagina 98, descrive il Messia seduto alle porte della Città (forse Roma?) con i piedi piagati dalla lebbra, intento a svolgere e riavvolgere le bende dei piedi - per sostituirle - una per volta, per non tardare se fosse chiamato, immagine ripresa anche dal poeta yiddish Halpern Leivick nel suo Golem, testo teatrale del 1921 che colloca però il Messia alle porte di Praga, come la mitologica creatura d’argilla. Anche il profeta Isaia (52:7) contempla i piedi del Messia che annunciano la pace e la redenzione: bello vederne le tracce sui monti di Giudea. L’intreccio tra Berlino, Praga, Gerusalemme e Betlemme, queste storie di redenzione, Medioriente e Matera è magico, e la cena che segue è degna di un banchetto messianico.

L’indomani visitiamo le catacombe di Venosa, unica traccia rimasta della presenza ebraica in quelle terre, dei primi secoli dopo Cristo. Le scritte in ebraico, greco e latino sono emozionanti e ancor più il greco scritto in caratteri ebraici mi affascina, come sempre l’incontro fra corpi e anime diversi.

Il giorno seguente è dedicato all’incontro con le studentesse e gli studenti delle scuole superiori della zona: attenti, curiose, intelligentissimi e presenti. L’incontro avviene e dura a lungo, e durerà ancora, ne sono certa. La sera un bellissimo spettacolo di danza mi sorprende per la sua professionalità, opera del coreografo Mario Piazza, che conosco lì, e delle allieve di una scuola locale. 

La fine della settimana è all’insegna della musica con il nostro Caffè Odessa, viaggio nelle diaspore musicali ebraiche, e - finalmente - Lo Shabbat di tutti a Pisticci, paese bianco come quelli descritti da Carlo Levi. Al suono del Salmo 95 accompagniamo i commensali dal vicolo dentro la sala da pranzo in processione, i cuori sono lieti per la settimana compiuta, la cena del Sabato ha inizio, Shabbat Shalom!

Lo Shabbat successivo sono di nuovo a Gerusalemme, da dove leggo Cristo si è fermato a Eboli -ripensando a tutto questo - sulla panchina fuori da un monastero greco-ortodosso il sabato pomeriggio, ma di questo parleremo in seguito...



Miriam Camerini

29 maggio 2022


L’abito bianco e Le Belle Bandiere, Sud e Magia, Casarsa e Matera. Cristo si è fermato a Eboli: posso fare a meno degli armadi e dei mariti, dell’amore invece no 

C’è (anzi, al momento non c’è) un abito che ho cercato per un’ora, oggi: me lo ha dato mia madre, cui lo ha dato la moglie di un cugino, cui lo ha dato la suocera buonanima. Perso non è, dato via certo non l’ho, solo chi sa dove si nasconde nella mia baraonda? Chiaro: tenere gli abiti tutti in un armadio aiuterebbe assai, ma per farlo servirebbe un armadio, e io non ce l’ho.

I miei vestiti - tantissimi - stanno appesi qui a là ovunque: i più fortunati, diciamo, sono quelli che almeno hanno un appendino e quando va benissimo anche una plastica della tintoria di quelle che li ripara dalla polvere.

Altri stanno sul divano, non il divano-letto, che mi serve per dormire, l’altro, quello zoppo della nonna che prima o poi andrà buttato; molti vestiti stanno sul letto, quello su cui tanto non riesco comunque a dormire, alcuni su una poltrona di quelle da cinema che avevo preso per fare il teatro in cantina, ma che poi è rimasta su.

Il posto più comodo resta la grande vasca da bagno turchese laccata con i piedi bianchi di leone smaltato: è vicina al letto; quindi posso tirar fuori i vestiti da lì e piegarli sul letto, quando ci trovo su spazio, ovviamente.

Ma poi, anche una volta che li ho piegati, che ne faccio? Tornano comunque nella vasca, o sul letto, o appesi a qualche libreria, o buttati in una valigia, a gualcirsi di nuovo.

Insomma io oggi sono passata da casa per precisamente un’ora, fra la una e le due, quando sarebbe stato assai più utile, ragionevole e urgente pranzare, visto che poi mi attendevano otto ore di treno, e invece quell’ora l’ho spesa a cercare quest’abito bianco, di cotone e pizzo, lungo ai piedi e con le maniche lunghe, di cui so per certezza che l’ultimo avvistamento risale alla fine di Settembre del 2020, quando abbiamo fatto uno Shabbat di tutti al teatro vicino casa mia, La Corte dei miracoli, sul Naviglio grande.

Vari ospiti importanti erano intervenuti in quella occasione: una coppia di amici dell’Associazione culturale Casa Alta, “delegati” a Milano per prendere contatto ed eventualmente riproporre il formato, l’iniziativa anche a Trieste, casa loro.

C’era poi un giornalista RAI, che aveva realizzato un breve servizio sul mio percorso di studi rabbinici uniti alle mie attività teatrali e di racconto della cultura ebraica.

Era stata una serata speciale, il primo Shabbat di tutti dall’inizio della pandemia, quando avevamo festeggiato la trentesima nostra cena/spettacolo del Sabato proprio alla vigilia della prima chiusura, quando il morbo già infuriava per Milano: era un venerdì e domenica si sarebbe – nello spazio di un pomeriggio – fermato tutto per mesi, chiusa e spenta la città, una luce dopo l’altra, e in seguito l’Italia, l’Europa, il mondo.

Insomma, quel Settembre, passata la primavera della pandemia, finita la prima estate delle caute e forsennate riaperture, si appressava un nuovo autunno caldo, ma ci si godeva anche qualche ultima settimana di nuova normalità. Avevamo, insomma, celebrato un primo e ultimo Shabbat di tutti, l’aria era già freddina, io avevo messo l’abito bianco con i sandali a zeppa ma anche un grande scialle di lana di mia nonna e pure uno spolverino bordeaux di seta lungo: un po’ estate e già un po’ autunno, allegri e tristi, fiduciosi e consci, energici e già stanchi.. così eravamo.

Innumerevoli sono le cose avvenute da allora, i chilometri percorsi, le valigie fatte e disfatte, gli alberghi, le stanze, i vagoni, le cabine, le carrozze, i letti, le camere, le case i divani i letti le tende e le cuccette, i sacchi a pelo i divani letto che io ho abitato da quell’ultimo Shabbat di fine estate, di inizio autunno.

Quell’abito in tutto questo tempo invece che avrà fatto, letto, detto, visto pensato? Credo mia madre lo avesse rammendato: c’era un piccolo strappo che si era fatto nel pizzo delicato. Lo ha forse anche lavato? Stirato? Dove, dove mai lo abbiamo riposto?

Tornerà, ne sono certa, ma ora - qui in treno adesso - mi manca: vorrei per miracolo aprire questa sera lo zaino, quando sarò giù in Lucania, sullo Ionio a Metaponto, e trovarlo lì, ma non si prega per miracoli di questo genere: chiedere e credere nell’azione “retroattiva” è magia, e non è permesso. Sud e magia, certo, scrisse De Martino, ma lì siamo già fuori dalle mie competenze religiose, ci avventuriamo presso altre divinità un poco più infere, come la Madonna nera di Carlo Levi a Viggiano e non vorrei trovarmi fuori zona. Certo quell’abito bianco ben si addice a quei luoghi ed è per questo che tanto a lungo l’ho cercato, ma se ha deciso di non venire avrà le sue ragioni. Io volevo portarlo con me e indossarlo per due serate nel festival lucano dedicato all’ebraismo cui sto andando a prestar l’anima per un’intera settimana, da domani alla prossima domenica.

La prima serata è dedicata all’incontro fra due miti, uno salentino e l’altro galiziano/est europeo, ma accomunati da un aspetto che spero emergerà: la possessione come invenzione e sfogo, stratagemma necessario orchestrato da fanciulle date in spose a chi non amano.

La tarantata è una ragazza morsa da un ragno mentre raccoglie tabacco, cioè ora, a Maggio, che deve ballare e muoversi per tre giorni e tre notti: così esprime la voglia e il desiderio, la forza e la repressione del suo giovane corpo e del suo sensibile cuore, contro la casa paterna e lo sposo destinato, l’amore non consultato, il futuro già scritto e non da lei. Le si concedono tre giorni di ballo, le si procurano mandolinisti e violinisti, si suona per lei anche il tamburello, strumento del diavolo e del sesso, per quella mano o quel bastone che battono la pelle tesa, pronta a vibrare. Simile e più cupa ancora è la leggenda del Dybbuk, in yiddish “attaccamento”, adesione sessuale e mistica di un’anima ad un’altra, di una creatura al suo Creatore, anelito più che raggiungimento, desiderio e moto, ricerca e spasmo ben più che congiunzione vera. Nella versione del mito che racconterò io a Matera, quella raccolta da Shlomo An-ski nella Zona di Residenza ebraica della Galizia polacca alla vigilia della Prima guerra mondiale e messa in scena a Mosca al teatro Habima nel 1920, Honon e Leyeh, amanti destinati fin dalla culla, vengono separati da un crudele destino, da famiglie stolte e affamate di denaro, da morti premature di un padre e di un figlio. Honon, l’innamorato, torna fra i vivi e prende dimora nel corpo di Leyeh, possedendola ed abitandola il tempo necessario a darle voce (di uomo) per rifiutare lo sposalizio combinato, già sotto la chuppà, il baldacchino nuziale. Moriranno entrambi, l’anima di Honon e la vergine Leyeh, e culleranno assieme nell’ombra i bambini da loro mai nati. La scena dell’esorcismo è potente e ingenua assieme, con lo shofàr – il corno d’ariete – suonato dai rabbini come il giorno di Capodanno, come nel Giorno del Giudizio. “Ti ordino di uscire!” grida il Rebbe fin dentro il corpo di Leyeh, “Sei scomunicato!”... 

E però, mi ha recentemente fatto notare un attore yiddish da me interpellato, qualche somiglianza con il trattamento più “omeopatico” della tarantata c’è: con il dybbuk si tenta prima di tutto di parlare, venire a una mediazione, trattare una resa, capire che cosa desidera. Solo in secondo tempo lo si espelle, e come ultima ratio. C’è qualche cosa in comune con i tre giorni di ballo, con la cappella dei Santi Pietro e Paolo a Galatina, con i carri che vanno a Nardò come ce li ha spiegati Ernesto De Martino, come ce li ha raccontati Salvatore Quasimodo? Sono curiosa di scoprirlo a Matera, in una delle serate che ho inventato per il Lucania Film Festival e che condurrò assieme al Professor Imbriani, antropologo dell’Università del Salento. Tanto Leyeh quanto le tarantate hanno abiti lunghi, semplici e bianchi, con il cotone di pizzo e quello mio distratto e pigro che ha deciso di restare a casa non sa che cosa si perde...

L’altra serata per la quale avrei indossato il mio abito bianco, se si fosse fatto trovare per tempo, è Lo Shabbat di tutti che condurrò - sempre per il festival - a Pisticci, assieme ai miei due fedeli musicisti e amici e qualche ospite venuto da lontano. Sarebbe stato bello riunire quel primo Shabbat di tutti in cui Casa Alta è venuta a “trovarci” a Milano, con questo lucano, in cui altri amici triestini giungeranno di lontano...

Ancora un pensiero, e poi chiudo, che oramai sono già a Roma ed è meglio guardare avanti, va a Pasolini, che ho “incontrato” per la prima volta davvero a Matera, nell’estate del 2014, la prima trascorsa con un uomo che ho amato e un po’ amerò sempre - dal quale purtroppo sono fuggita quando ha iniziato a fare spazio per i miei abiti nel suo armadio e che ho deciso di lasciare il pomeriggio in cui mi ha comprato degli appendini -  in una splendida mostra dedicata al poeta di Bologna, di Roma e di Casarsa, e – appunto – anche all’evangelista di Matera, al suo Vangelo secondo Matteo girato proprio in Lucania. 

Ho con me anche Levi di Cristo si è fermato a Eboli e De Martino, conosciuti tutti lì quell’estate eterna con quell’amore che non uscirà mai da dentro me del tutto.

Per uno di quei doni che la sorte fa a chi ha valigie al posto di armadi, uomini amati al posto di mariti e solitudine quanta ne può sopportare un umano, lo scorso weekend ho cantato e recitato in uno spettacolo bellissimo, scritto da un caro amico e grande musicista, dedicato proprio alla vita di Pasolini. Le belle bandiere si chiama: lo abbiamo debuttato su un bel palco all’aperto a Fidenza, viaggerà ancora con noi, con o senza abito bianco.


 

Miriam Camerini

15 maggio 2022


Giustizia, silenzio



Eccomi ancora in treno, tanto per cambiare.

Questa notte ho dormito male, o quantomeno poco: il notturno che ho preso da Vienna dopo la fine di Shabbat, un’ultima birra e un sigaro al mercato sotto casa con un amico mentre separavamo lo Shabbat appena uscito dalla settimana appena iniziata – che oggi corrisponde anche a un nuovo mese, Yiar – era in ritardo e affollato: le famiglie in fuga dall’Ucraina sono ancora molte e la rotta Budapest – Vienna – Monaco / Zurigo resta frequentatissima, riempiendo le cuccette e i vagoni letto del centro Europa.

Sto andando a Düsseldorf, invitata da una signora gentile che ancora non conosco di persona, a presentare il mio libro Ricette e Precetti, uscito in Italia proprio per le Pasque di tre anni fa e pubblicato poco prima dell’ultimo Natale da un’editrice ebraica di Lipsia come Rezepte und Gebote. In una casa meravigliosa, piena di luce e circondata di verde, parlerò del mio libro e di tutte le avventure che lo hanno accompagnato fino a esistere anche in tedesco a una trentina abbondante di donne di tutte le età, alcune appartenenti alla comunità ebraica locale, altre no; molte vengono dall’ex-Unione Sovietica, come la padrona di casa Tanya, moscovita coltissima e collezionista d’arte superba delle Avanguardie Russe: i quadri acquisiti da suo nonno ancora a Mosca, fortunosamente portati da sua madre in Lituania e così giunti miracolosamente fino a lei in USA, Israele e ora Germania, fanno da cornice al nostro incontro, che riempiono di vita vissuta, malinconia, bellezza, Storia e colore. Un paio di amiche vengono apposta da altre città vicine per questo incontro: sono le mie compagne di corso di canto al festival Yiddish Summer Weimar. Chiedo a una di loro di cantare per noi e poi mi unisco a lei, condividendo un Salmo di famiglia legato alla cena di Pasqua. Una signora con un grande cappello di feltro marrone e una casacca di velluto nero mi si presenta alla fine, mentre mangiamo torta Pavlova con panna e mirtilli, come la nipote di una stella del teatro yiddish romeno, la sua famiglia è di Czernowitz, la signora sembra la mia poetessa Else Lasker-Schüler e in questa casa Bauhaus pare all’improvviso che qualcuno abbia installato una bella macchina del tempo.


A proposito di macchina del tempo...

I giorni a Vienna sono stati belli e intensi: per Yom Ha-Shoah, il giorno della memoria stabilito dallo Stato di Israele nell’anniversario della rivolta del ghetto di Varsavia, conduciamo un laboratorio per giovani adulti ebrei, cristiani e musulmani sul tema della giustizia divina: il breve racconto talmudico che discutiamo (TB Menachot 29b) mostra Mosè catapultato avanti nel tempo, alla scuola di Rabbi Akiva, durante le persecuzioni romane in Terra d’Israele, di lì a poco Palestina romana, quando insegnare Torah è proibito. Sulle prime Mosè non comprende gli insegnamenti di Akiva, nonostante questi si fondino direttamente sulla Torah ricevuta e insegnata proprio dal profeta sul Sinai, ma poi capisce che la trasmissione e l’interpretazione sono una catena infinita, e che una parte di quello che succede lì origina proprio da lui, Mosè. Chiede egli allora di vedere nel futuro la fine di Rabbi Akiva e la Divinità gli mostra come il Maestro verrà torturato e ucciso dai romani per aver continuato a insegnare Torah nonostante il divieto. Il grido di dolore e incomprensione di Mosè è quello di tutti noi: “Questa è la Torah, la sapienza, l’insegnamento di Akiva e questa la sua ricompensa?” “Ma veramente?!” – sembra di sentire dopo la domanda, retorica e vera a un tempo. La risposta divina è formulata con le stesse poche parole usate subito prima nel racconto, per zittire Mosè che, schivo come sempre, ha appena chiesto all’Eterno perché si è servito proprio di lui per consegnare la Legge, quando aveva un uomo come Akiva a disposizione: “Taci, così mi è venuto in mente di fare!”. Entrambe le volte, a entrambe le domande: “Perché io e non lui?” e “Perché una mente e un cuore così grandi devono fare una fine così violenta, misera e atroce?” La risposta è la stessa, una non-risposta: “Così, perché mi va”. C’è in questo racconto rabbinico un particolare ancora più sofisticato nella sua crudeltà, che non ricordavo: a Mosè non viene mostrato lo scelus (che in effetti mai si mostra, per esempio, nelle tragedie greche), bensì le sue conseguenze: la carne strappata di dosso ad Akiva viene pesata e venduta dal macellaio, comprata al mercato. A questa cruenta e disgustosa visione Mosè cede e grida, l’Eterno risponde e non consola: la bilancia – così leggiamo noi assieme oggi questa storia – è passata al macellaio, è lui che pesa e giudica, retribuisce e castiga. Le ore scorrono dense e nessuno di noi si stanca di interrogare un testo tanto duro, che fa eco al Dio di Giobbe (“Dov’eri tu mentre io creavo il mondo? Che cosa ne sai?”) e a quello del Rotolo di Ester, con il re Assuero – controfigura del Re dei Cieli - che si sfila l’anello del potere e passa il suo sigillo, la facoltà di emettere decreti, anche mortali, al perfido Aman, il “macellaio” della nostra storia.

Una ragazza velata, musulmana di Bosnia, si alza all’ora di Iftar, quando è il momento di prendere qualche dattero per rompere il digiuno: torniamo nel mondo, portiamo con noi la storia, tentiamo di superarla.

La sera successiva vado al Theater in der Josefstadt, dove è in scena Leopoldstadt, testo teatrale dell’inglese Tom Stoppard dedicato a tre generazioni di ebrei viennesi dalla fine del XIX secolo fino alla Shoah; la fine è prevedibile e nota, ma sempre dolorosa: sento l’imbarazzo e l’inquietudine che serpeggiano nella sala quando gli attori sillabano “Unschuldige Opfer!”, vittime innocenti, facendo allusione all’atteggiamento verso la Shoah dell’Austria “conquistata e annessa” e dunque non responsabile. Torno a casa - è già Shabbat - camminando in discesa verso il fiume, o meglio verso quel canale del Danubio che separa il primo distretto dal secondo, quello degli ebrei e della Leopoldstadt, appunto. Ancora oggi i miei amici vivono in quel quartiere e le giornate passano serene fra i banchi del mercato di Karmeliterplatz con i suoi fiori e i suoi caffè.

Sabato vado allo Stadtempel, la Sinagoga centrale della città, dove un maestoso Bar-Mitzvah mi sorprende con il suo buffet di aringhe e salmone, cholent e kugel e l’immancabile vodka delle 12 del mattino: tutto come nell’Est Europa dei tempi passati! Il mio amico e io ci sediamo a mangiare e – come sempre quando siamo assieme – le ore fuggono in conversazioni interessantissime senza che nemmeno ce ne accorgiamo. L’intero Shabbat pomeriggio è un’unica grande conversazione che si sposta dal Tempio agli Augarten, uno dei miei parchi preferiti a Vienna, quello – appunto – del II Bezirk, dove tante sere d’estate ho visto all’aperto film vecchi e bellissimi. 

Shabbat finisce con un aperitivo fai da te sul Donau-Kanal assieme alla mia amica e ospite, una canzone yiddish che non conoscevo, triste e malinconica come si confà all’uscita del Sabato, e già è ora di far la valigia e saltare sul treno. Nel vagone pieno all’orlo di famiglie in fuga dall’Ucraina ripenso alla storia che abbiamo letto, a tutte le conversazioni di questi pochi giorni viennesi e anche a Suor Paola, che ho conosciuto a Roma lo scorso lunedì a un grande raduno di missionari cristiani dove ero invitata a parlare assieme a un’amica siriana, musulmana, giornalista. Suor Paola anche teneva lì a Sacrofano una sessione, che ho avuto la grande fortuna - per puro caso - di andare ad ascoltare: dopo anni di lavoro in Camerun, assistendo fino alla fine prigionieri e condannati a morte di uno dei regimi più inumani e arbitrari del mondo, Suor Paola è stata rimandata in Italia prima che la malaria - contratta quando ancora non ci si proteggeva - la portasse via, privando il mondo della sua opera preziosa: oggi, a 82 anni, lavora ogni giorno con le detenute a Rebibbia, “Uno dei peggiori carceri d’Italia” dice, dove molte cose si potrebbero fare per alleviare la fatica dell’universo carcerario, della comunità di detenute e detentrici, ma non ci sono i mezzi, i soldi, il modo per farlo. Chiedo a Suor Paola, mentre sulla Flaminia piove un primo forte temporale primaverile e la sera scende qui fuori Roma, come fa a sopportare tanta ingiustizia incomprensibile, proprio come nella storia di Mosè e Rabbi Akiva, con il macellaio che pesa la carne di un giusto innocente. “Bisogna fare tutto, ma proprio tutto quel che si può, fino all’ultimo, per ciò che si può cambiare”, risponde “E bisogna imparare a trovare in cuore la pazienza di accettare quello contro cui non si può combattere”.



Miriam Camerini

1 maggio 2022




Il/La Messia e le porte della Città


“Abbi una buona Pasqua (Pesach) e che arrivi presto il Messia (Mashiach)!” Mi augura un signore accompagnato da un bambino piccolo, vestito di nero, con cappello e peot e tutto il necessario per riconoscerlo come un haredi, (ultra-ortodsso, come dice la stampa con approssimazione), non bastasse a tale scopo il luogo dell’incontro, ossia il quartiere – appunto – haredi di Mea Shearim. 

Siamo alla vigilia di Pesach a Gerusalemme e il quartiere pulsa e freme di attività preparatorie: un vecchio libraio espone fuori dal negozio in offerta speciale una cesta di haggadot – il libro che fa da “copione” al seder, la cena di Pesach, nel narrare l’uscita d’Egitto, o meglio: nel narrarne la narrazione, come è cambiata negli anni e nei secoli e nei luoghi. 

Le panetterie finiscono il pane, che non potranno vendere, produrre, possedere per tutta la prossima settimana secondo la proibizione biblica di consumare cereali fermentati e lievitati. Nessuno, infatti, potrà consumarne per la settimana di Pesach, nel ricordare la frettolosa uscita dall’Egitto. 

Ma non basta: le stoviglie, le posate, le pentole... Tutto deve essere reso kashèr per Pesach, ossia bollito e “pulito” dal contatto con i cibi proibiti durante la Pasqua e cucinati e mangiati il resto dell’anno. Chi non vuole o non può ricomprare tutto nuovo ogni volta bolle in enormi pentoloni di strada l’intera attrezzeria di cucina e le strade sembrano già una strana festa un po’ stregonesca, con uomini (è lavoro pesante, di chili di acciaio e molti litri di acqua) che fanno su e giù dalle case ai cortili per approfittare del pentolone di bollitura comune. 

Mentre mi aggiro e guardo e annuso l’odore inebriante dell’attesa, ecco il signore che mi rivolge la parola, stanco, lui, forse, di aspettare: ecco infatti che auspica la pronta venuta del Messia, tradizionalmente atteso ogni anno alla fine di Pesach, l’ultimo giorno, cioè il settimo. “E se non fosse un Messia, ma una Messia?” Gli rispondo: non resisto. La replica ha una sua logica che sulle prime potrebbe sfuggire: “Come può essere una donna? C’è scritto nei testi che danzerà per noi, il Messia: una donna non può danzare per gli uomini... Vedi? Dev’essere un uomo per forza”. Mi ricordo del brano biblico che si legge proprio l’ultimo giorno di Pesach, quello che parla di Miriàm la profetessa, sorella di Mosè e Aronne, la quale – è vero – conduce le donne nella danza e nel canto dopo aver attraversato il Mar Rosso, ma poi - dice il verso – (Esodo 15:21) “E Miriam cantò per loro” (וַתַּ֥עַן לָהֶ֖ם מִרְיָ֑ם) dove per loro è la forma maschile, cioè generica, come ovunque. Il mio simpatico interlocutore non sa tanto che cosa rispondere, non credo abbia voglia di addentrarsi con me in grandi discussioni filologiche, mi domanda se ho figli. “Ne ho tre”, rispondo: ho deciso che d’ora innanzi, a parte che con possibili partner o persone che potrebbero presentarmene, questa sarà la mia versione ufficiale, soprattutto in Israele e nel mondo religioso: andare in giro single e senza figli a quasi quarant’anni ti espone a troppa troppa fatica, che io al momento non ho voglia di fare: spiegare, giustificare... meglio inventarsi una vita parallela e chi c’è c’è. “Che i tuoi figli siano sani!” mi augura il mio cappelluto amico per chiudere la discussione sul sesso del/la Messia. “Amèn, così i tuoi! Pesach felice” rispondo, e corro a casa, in ritardo per la lezione zoom con la mia allieva che preparo al Bat-Mitzvah, la maggiorità religiosa, figlia di una mia amica e appassionata di Torah e di Talmud, altro che Messia uomo e donne che non possono danzare.

Oggi ho tenuto una giornata intera di laboratorio in un oratorio alla periferia sud di Milano, assieme a tre eccellenti amici e colleghi, due ungheresi e un israeliano che vive a Vienna, sul tema della responsabilità e sulla domanda – messianica, anche questa – su chi porta la redenzione, che cosa la affretta. 

I ragazzi erano studenti di fine liceo e inizio università, provenienti tutti e tutte da luoghi non facili: tutti vivono “alle porte della città”, proprio come il Messia descritto nel brano talmudico che assieme abbiamo studiato, discusso, recitato: Sanhedrin 98a, dal Talmud di Babilonia. Alcune ragazze vengono da Sarajevo, qualcuna di loro sta digiunando perché siamo nel mese di Ramadan, altre sono cristiane. I ragazzi vengono dalle banlieue di Parigi, molti di loro sono africani, alcuni musulmani. Il concetto di periferia qui non è estraneo a nessuna e a nessuno: facilmente “entrano” in questa storia in cui il Messia siede alla porte di una grande città (forse Roma, la capitale del mondo conosciuto da chi scrive quella storia in quel momento) assieme ai poveri e lebbrosi: mentre tutti gli altri cambiano le medicazioni dei due piedi nello stesso momento, il Messia è riconoscibile perché disfa un bendaggio, lo sostituisce col nuovo, poi toglie l’altro e fa lo stesso, dicendo: “Se fossi chiamato proprio in quel momento, non vorrei tardare”. Una delle ragazze fa notare come sia importante saper prendersi cura di se stessi senza per questo dimenticare le esigenze del prossimo: occuparsi di noi sì, ma senza dimenticare l’altro.

A Budapest lo scorso mese, alla fine dell’ultimo Shabbat che ho trascorso lì cercando di allievare con il pochissimo che potevo fare la sofferenza dei profughi e anche degli ucraini ancora dentro i loro confini, alla partenza per la frontiera del camion che tutta la settimana avevamo lavorato a riempire di cibo in scatola e prodotti di prima necessità, ci siamo abbracciati in un grande cerchio fuori dal centro comunitario dove per settimane avevamo accumulato giocattoli e pannolini, scarpe e cibo e sapone, abbiamo acceso una candela, preso in mano i profumi, versato il vino; un rabbino gentile mi ha chiesto di condurre la cerimonia di havdalà, separazione fra il Sabato di sosta e la settimana di lavoro, celebrare così, assieme, nel canto, nel lume, nel profumo di spezie e nel vino l’inizio di una nuova settimana, la fine dello Shabbat di sospensione. Veder partire il camion diretto al confine, sapere di aver lavorato duro per riempirlo e iniziare così la nuova settimana di lavoro mi ha ricordato la storia del Messia dai piedi piegati: bisogna saper prendersi cura di se stessi senza dimenticare gli altri, bisogna curare gli altri senza perdere noi stessi.


Miriam Camerini

24 aprile 2022

In cammino



Sono di nuovo a Gerusalemme, è il II giorno di Pesach, la domenica di Pasqua e la metà del mese di Ramadan; è un anno esatto da che ho iniziato a scrivere questa rubrica.

Anche allora, un anno fa, ero a Gerusalemme, e la sera prima che il direttore del Giornale di Rodafà mi proponesse questa sorta di “diario spirituale”, a una cena barbecue sul tetto di una bella casa a Gerusalemme, alla fine della Festa dell’Indipendenza, avevo in cuor mio chiesto all’Eterno che mi fornisse una ragione, una cornice per descrivere tutte le possenti cose che mi capitavano, un appuntamento “pubblico” per ripensare a tutte le emozioni, gli insegnamenti, le riflessioni che una settimana in questa terra d’intensità fornisce in (sovra)abbondanza.

L’indomani mattina - un venerdì, vigilia di Shabbat – avevo ricevuta la proposta, il pomeriggio, prima del tramonto, avevo già mandato il primo pezzo di The Rabbi is in, da un autobus lanciato nel deserto del Negev, verso casa dei miei cugini, ad Arad.

Camminare e raccontare sono due verbi che ben descrivono la settimana di Pesach, quel racconto di strada e quella marcia nella Storia, nel suo tramandarsi.

Uno dei canti più amati della cena di Pesach, il sèder, invita le e i più giovani a tavola a domandare: “Ma nishtanà”, che cosa è cambiato? In che cosa è diversa questa dalle altre notti, perché mangiamo cibi diversi dal solito e in maniera differente, sdraiati invece che seduti, intingendo le verdure in vari condimenti, dall’impasto di frutta che deve ricordare la malta dei mattoni fabbricati dai Figli d’Israele in Egitto all’acqua e sale delle lacrime da essi versate nell’amarezza della schiavitù?

Come ogni appuntamento fisso, però, anche questo - soprattutto questo, con la sua domanda precisa e aperta assieme - ci invita, forse ci obbliga perfino, a domandarci che cosa è cambiato dall’anno scorso, quanto siamo cresciuti, che cosa in noi è diverso ora. Se ripenso allo scorso Pesach, ricordo che ero molto felice, venivo da un periodo di grande concentrazione e creatività, immersa nella bellezza di Parigi, con amici, soprattutto amiche, come si dice poche ma buonissime, rapporti profondi, intensi, di grande cura.

Arrivata in Israele alla luna nuova del mese di primavera, Nisan, avevo passato le due settimane che conducono alla notte dell’uscita dall’Egitto in trepida preparazione, la quarantena obbligatoria assumeva tratti mitologici, spogliata dalla durezza burocratica, e tutto si mescolava nella primavera in fiore, nel Cantico dei Cantici che si legge a Pesach, in tanto lavoro di scrittura e studio, insegnamento e creatività.

Era stato un Pesach molto bello, con un seder significativo, bei pasti festivi e grandi conversazioni, tre gite nella natura di Israele a primavera, a nord, al centro e al sud del Paese.

E poi ero tornata in Yeshiva, alla mia scuola rabbinica, pronta finalmente a studiare dal vivo con insegnanti, amiche e amici per troppo tempo visti solo via zoom, dall’inizio della pandemia. Era stato un periodo di rinascita.

Quest’anno no. Quest’anno è stato molto più difficile, le Pasque sono venute più tardi, l’anno è embolismico, ossia “bisestile”, cioè ha un mese in più.

Pesach è più avanti, ma la natura sembra essersi adeguata a questa tarda primavera.

Due settimane fa ero a Zurigo e guardavo la neve cadere e posarsi su fiori bellissimi e carnosi, già sbocciati e “a tradimento” coperti da quelle nevi tardive e pesanti che preoccupavano mia nipote Alisa, sette anni ancora da compiere, che li guardava pensosa e diceva: “Non so se reggono finché si scioglie!”... A me invece quell’insieme di stagioni, quel tornare della neve come a finire un lavoro incompiuto su petali già maturi, su colori e tessuti già adulti pareva bello, uno scherzo al tempo che non va sempre e solo avanti ma a volte torna indietro, sosta, riguarda, ci ripensa, riavvolge, completa, migliora.

Sono venuta in Israele con grande fatica questa Pasqua, dopo giorni difficili, di spaesamento e stanchezza, di incertezza e tristezza.

La vita che ho condotto da quando è iniziata la pandemia a oggi temo sia finita, quel vivere “nel momento”, nel posto in cui sono, senza preoccuparmi di quanto a lungo ci saprò potrò o vorrò stare è - temo - giunto al suo termine.

Immagino che dovesse accadere prima o poi, e in fondo posso essere grata per quanto è durata, questa euforia del vivere solo di una piccola valigia per mesi e mesi, senza una casa.

Oggi sento che è ora di incamminarmi verso una qualche Terra Promessa, una qualunque, purché mi dia una direzione.

Forse più che ai 40 anni dei Figli di Israele nel Sinai del libro dell’Esodo assomiglierà, questo mio andare, al “Lech Lechà”, vai verso te stesso, impartito ad Abramo in Genesi 12. È un andare “...verso una terra che ti indicherò”, è un mettersi in cammino verso una meta che non c’è ancora, ma che si capirà strada facendo.

L’importante, forse, per oggi, è sapere che c’è una strada e c’è un cammino e c’è una meta. Voglio iniziare a cercare di capire qual è, e cercherò di tenere aperti gli occhi e il cuore perché mi venga mostrata.


Miriam Camerini

17 aprile 2022


Springtime, parte 1: Via dall’Ungheria



Poco più di due settimane a Budapest e una giornata a Vienna: sono arrivata con un certo ottimismo, vestiti e scarpe pesanti come se dovessi andare poi sul confine, nella neve, o pensando che alcuni indumenti li avrei poi lasciati lì, a chi ne avesse bisogno: qualcosa in effetti ho poi sì lasciata, un golf che mi sono letteralmente tolta di dosso in stazione, uno dei primi giorni, poi un paio di scarpe... ma la verità è che in queste settimane ho guardato la massa delle “cose” crescere e moltiplicarsi, salire la pila fino a debordare, simbolo che non necessita di alcuna decodificazione per spiegare quanto opulenti siamo, quanto ciarpame abbiamo, quanti vestiti, scarpe, merendine, saponi e giocattoli produciamo e possediamo, quanto non vediamo l’ora che qualcuno ci dia una buona ragione per sbarazzarcene.

Così che possiamo presto acquistarne di nuovi, ovvio.

Alle stazioni ferroviarie, nei centri comunitari, negli alberghi adibiti a luoghi di smistamento e transito: dappertutto oggetti, giocattoli, pennarelli, libri, vestiti, scarpe, spazzolini da denti e merendine, succhi di frutta e cibo per gatti, ovunque, per gatti e per cani, onnipresente, come se ogni singola persona uscisse dall’Ucraina con un animale al seguito. 

Ma cerchiamo di andare con un poco di ordine.

Il primo giorno mi è stato chiesto di caricare del cibo, ma sono arrivata che il lavoro era già fatto, poi è entrato lo Shabbat e fino a lunedì non se ne è parlato più, salvo prendere un treno il sabato sera da Budapest per andare a una festa a Vienna e trovarlo pieno fino all’ultimo centimetro quadrato di famiglie in fuga verso Zurigo e Monaco. 

Un bambino ha perso un mazzo di carte mentre correva per salire sul treno: mi sono chinata a raccoglierlo, ma non ho potuto restituirglielo perché era già sparito, tirato per mano dalla madre. L’ho tenuto io, cacciato nella tasca dello zaino, ne ho fatto una sorta di porta-fortuna simbolico: la sorte in tasca è uno dei temi della storia di Purim, la festa ebraica che ho celebrato lì in quegli strani giorni con la bella e grande comunità di Budapest: Purim significa proprio sorti e l’intera vicenda che a Purim ricordiamo, come narrata nel Rotolo di Ester, ci svela e mostra in balìa della sorte, ad essa ci abbandona, lasciandocene governare, capendo e mostrandoci che forse è poi questo l’unico modo per condurre il gioco: immaginare, fingere di subirlo, per poi piano iniziare a giocarlo dall’interno, prendere responsabilità. 

Poco prima di venire in Ungheria, a Venezia, avevo incontrato un amico, uno studioso che ha appena concluso un progetto, il risultato “tangibile” del quale è stato la creazione di un mazzo di carte ispirato ai personaggi e al racconto della Megillat Ester. Io, peraltro, sto viaggiando con il mio rotolo bello ingombrante e delicato nello zaino, da esso ho letto per me e per il mio amico ungherese e con esso - come ho già raccontato - hanno giocato i bambini profughi nell’hotel il giorno di Purim. Ne ho poi parlato a Ferrara, alla Biblioteca Ariostea, appena tornata in Italia, in dialogo con Giusi Quarenghi, biblista, amica, poetessa e scrittrice di favolosi libri per bambine e bambini, che ha da poco pubblicato un bellissimo suo libro dedicato a Ester.

Ma torniamo a quel treno che da Budapest nella notte viaggiava verso Vienna, dove si sarebbe diviso in due, carico all’inverosimile di profughi che dovevano decidere in quale sezione mettersi: quella che si sarebbe poi diretta a Monaco, oppure a Zurigo? Mentre scrivo proprio da Zurigo, seduta, settimane più tardi, al tavolino di un locale a me caro nella via principale, il più antico ristorante vegetariano d’Europa, penso all’Europa e a quelle persone, ai loro animali domestici e ai loro bambini, a quel mazzo di carte caduto sui binari che ancora porto in borsa, a quella decisione da prendere salendo sul treno, se andare a Monaco o a Zurigo, in Germania o in Svizzera.. in corsa verso un destino ignoto, tutto da fare, tutto da giocare, con negli occhi la distruzione, nelle orecchie il suo rumore, il suo silenzio. Avevo cercato di parlare con alcune di loro, quelle donne in viaggio con bambini e anziani, i mariti e i fratelli lasciati a casa a combattere. Bambini in pigiama che dormivano sul treno, in braccio alle madri che tentavano di tenere una parvenza di routine, quel quotidiano e famigliare che ogni bambino porta con sé nelle piccole cose che tiene in mano, un giocattolo, uno spazzolino da denti piccolo e rosa.

Su quel treno io invece andavo scandalosamente alla festa di compleanno di un amico israeliano, direttore d’orchestra a Vienna, nella casa in cui abitò l’ebreo Erich Wolfgang Korngold, compositore dell’Opera tardo romantica La Città morta, fuggito da Vienna per scampare alla Shoah e approdato a Hollywood, dove morì, in un altro secolo e in nuovo mondo, celebrato compositore di colonne sonore per il grande Cinema... 

Su quel treno io pensavo a quanto imprevedibile è sempre la sorte di chi deve fuggire, a quanto da quel mazzo di carte può pescare una carta alta o bassa, rossa o nera, un due di picche o una regina di cuori, un asso o un jolly. Chissà dove sono ora quelle persone arrivate qui a Zurigo, nella stessa bella città in cui io sono ora, dove stanno pranzando? Dove dormono, ora che piove? Di che cosa hanno bisogno? Un paio di settimane fa mia sorella ha accompagnato sua figlia, mia nipote di 6 anni, a regalare un suo monopattino a una bambina ucraina: mi hanno raccontato che non sapevano che lingua parlare, ma che la bambina non le lasciava più la mano. Mia nipote ne parla ancora.


Miriam Camerini

10 aprile 2022

Ungheria


Non è stata una settimana facile. Mi sento io stessa completamente profuga, non so dove voglio stare, con chi, perché e a fare che cosa. Sto perdendo molto tempo e sprecando molti talenti, temo..

Sono di nuovo allo Zsivago, il caffè di Budapest in stile russo dell’800 che mi ha fatto scoprire Manuel, e di cui ho il bel ricordo di un venerdì pomeriggio di inizio inverno, con la cioccolata calda e i vetri appannati. Oggi è primavera, ancora timida, ma calda, soleggiata e con le gemme sugli alberi. Ho passato il pomeriggio a cercar di capire che cosa posso fare, come posso essere utile, dacché sono venuta fin qui per aiutare i profughi dell’Ucraina. 

Sono in Ungheria oramai da dieci giorni, salvo 24 ore a Vienna per il compleanno di un amico direttore d’orchestra sabato scorso sera, e trovare il da fare è assai difficile: la scorsa settimana ho trascorso qualche ora, per un paio di giorni, in una delle stazioni, dove un banchetto allestito sul piazzale fornisce ai molti che arrivano da est – donne, soprattutto, con anziani e bambini – un primo momento di accoglienza. 

Le persone sono molto generose e gran parte del mio lavoro consiste nello smistare e organizzare e separare lo shampoo dall’omogeneizzato, i pannolini dagli assorbenti e le scarpe dalle coperte, che incessantemente arrivano e vanno via, proprio come le persone. Cerco di usare le mie poche parole di russo (forse una dozzina) per comunicare con i nostri “avventori”, capire di che cosa hanno bisogno, offrire un sorriso di incoraggiamento. 

L’indomani ho un’altra idea: alcune famiglie sono ospitate in quattro alberghi messi a disposizione dall’Agenzia ebraica; alcuni andranno da lì in Israele, altri no, alcuni sono ebrei, molti altri no, ma nel frattempo sono assisti da Israele e instancabili volontarie ventenni mandate qui apposta si occupano di loro. 

Mi avventuro in uno degli alberghi (ho impiegato giorni per capire qual è) il pomeriggio di Purim, la festa ebraica più allegra, con dolci e maschere, travestimenti e il rotolo di Ester, e cerco di radunare un po’ di bambini nella stanza a loro dedicata. Non è facile e non succede subito, anche perché la barriera linguistica è forte, ma a un certo punto il miracolo avviene e i bambini smettono di urlare, picchiarsi, piangere e correre qua e là e si riuniscono invece attorno a me, partecipano al limbo che sto proponendo, cantano con me una canzone, sono incuriositi dalla pergamena arrotolata che ho portato con me per leggere da essa la storia biblica di Ester. Dura poco, meno di mezz’ora, ma vedo che le madri e i pochi padri sono sollevati: per un momento hanno tregua, per un attimo vedono i bambini un po’ più sereni e allegri. C’è un bambino in particolare, Dimitri, di 5 o 6 anni, con dei denti tremendi di cui evidentemente nessuno si è curato mai, tutti neri e un po’ rotti, che viene continuamente a cercarmi, vuole stare in braccio e piange se appena contrariato. “La madre non c’è”, mi spiega il padre, Dimitri anche lui: “è andata in Russia anni fa” e lui è lì da solo con questo figlio e con una ragazzina un po’ più grande, Angelika; forse è per occuparsi di questi due figli senza madre che ha avuto il permesso, uno dei pochissimi uomini sotto i 60 anni, di lasciare il Paese? Difficile saperlo, ora che si è allontanata Ludmilla, l’insegnante di inglese in pensione, anche lei di Kiev, che prima ha percorso la strada verso l’albergo assieme a me e Dimitri, traducendo qualche cosa. Alcuni giorni passano solo facendo la spesa, quantità enormi di scatolame da caricare e scaricare, inscatolare e smistare... 

Sabato sera prossimo ci sarà un nuovo trasporto di cibo di là dal confine: mi commuovo a leggere i bigliettini che alcune bambine e bambini di qui hanno scritto per le loro coetaneee al di là della linea: non posso leggerle, ma sono certa che dicano cose dolcissime. Fra qualche giorno le trasporteremo e il pensiero un po’ mi solleva.


Miriam Camerini

20 marzo 2022


A Oriente


Come scrivere un diario personale, quel che mi è stato chiesto all’inizio di questa rubrica, quando cose che non avremmo mai immaginato di vedere succedono nel mondo, nel nostro mondo, così vicino a casa? 

Quanto è difficile parlare di sé quando in un paio di settimane un milione e mezzo di esseri umani, donne, bambini e anziani hanno perso tutto quel che avevano, casa e routine, vestiti e libri, giocattoli e ricordi nel tentativo di preservare – forse – solo la vita? 

Hanno dovuto lasciare indietro padri, fratelli, mariti e compagni e amici, rimasti a combattere per cercar di salvare, di tutto quel che han perso, qualche cosa. 

Ognuno di noi, ogni giorno di queste due settimane, ha reagito come ha saputo e potuto: Facebook è invaso di messaggi e post di persone che conosco, amiche e amici musicisti, per esempio, che vivono in Ucraina e che ogni mattina ci raccontato della notte passata nel bunker, di chi cerca un passaggio e di chi già è riuscito ad andarsene. 

Molte e molti di noi stanno organizzando passaggi in auto dal confine e ospitalità nelle case, spedizioni di denaro e di generi di prima necessità. Si cercano monopattini e carrozzine, pannolini e coperte, posti letto e posti a scuola. “L’Europa”, mi scrive un caro amico serbo, professore di Storia moderna all’Università di Belgrado, “si sta mostrando molto più unita ora che in tempo di pace, e ne uscirà rafforzata”. Voglio credere a lui e non a quelli che dicono il contrario, ma certo: lui è sempre stato uno molto ottimista.

Nel mio mondo, caldo e felice, questa settimana è stata, tanto per cambiare, piuttosto movimentata: lunedì mattina mi sono svegliata a Madrid, ho salutato gli amici che mi avevano lì ospitata e preso un aereo per Bologna, da dove ho proseguito, in treno, per Pesaro. Un progetto al quale lavoravamo da tempo vedeva finalmente la luce: un concerto e poi un piccolo convegno dedicato al femminile nell’ebraismo, un confronto con una giornalista musulmana e una teologa cattolica, davanti e assieme a una platea di studentesse e studenti del liceo, bravissime, preparatissimi, informate. 

Il concerto è bello: canto ninna-nanne di madri e padri che descrivono al bambino in culla quel che studierà appena sarà grande abbastanza per andare a scuola, canzoni di lotta dedicate a donne rivoluzionarie, la canzone sefardita di una “mal maritata” e un’appassionata canzone d’amore yemenita/israeliana, seguita dal dialogo fra madre preoccupata e figlia innamorata, uguale in yiddish come in dialetto laziale, a dire che certi palpiti non conoscono confini, anzi: li attraversano. 

Difficile stare sul palco - bellissimo, quello della ex-chiesa della Maddalena, spazio vibrante e suggestivo - e sapere che fuori c’è la guerra, che la rivedremo fra solo un’ora, appena finirà il concerto e riaccenderemo il telefono. 

La ballata yiddish di un poeta che ricorda la sorella, “bruciata a dieci anni da un tedesco, a Treblinka”, e Had Gadyah, il canto della Pasqua ebraica cui si è ispirato Angelo Branduardi per la sua Alla fiera dell’Est, entrambe scritte dalla grande cantautrice israeliana-polacca Hava Alberstein, ci parlano di un eterno ritorno della violenza, un ciclico susseguirsi e ripetersi di uccisioni e distruzioni che finisce però con una domanda: quando arriverà la primavera, la Pasqua, la liberazione e la redenzione? 

E allora torniamo - anche noi tre, lì sul palco, Manuel, Rouben e io, ognuno con il suo strumento musicale - all’inizio, alla speranza della nascita e della rigenerazione: la prima canzone che ho cantata in yiddish, da sola, entrando, parlava d’amore e di notti insonni, di palpiti del cuore che in men che non si dica si trasformano in pianti di neonati e preoccupazioni per le figlie adolescenti a loro volta alle prese con i primi amori: com’è come non è, il risultato è che non si dorme comunque mai: “L’amore, ma chi è che l’ha inventato?” mi chiedo cantando, mentre fingo uno sbadiglio rassegnato e ancora, comunque, felice. 

Alla fine di questa nostra rapsodica navigazione - la pedana sulla quale stiamo, al centro della chiesa, pare davvero una zattera in mezzo al mare - ci troviamo sul Mar Rosso, all’inizio di tutto, a celebrare il parto più scenografico della Storia biblica: l’apertura del mare e l’uscita del popolo di Israele verso la vita e la libertà, verso il gioco della Torah e l’età adulta. 

Quelle donne che cantano e danzano, suonano flauti e tamburelli che hanno portato con sé uscendo dalla strettoia dell’Egitto mi ricordano davvero le levatrici ebree che aprono il libro dell’Esodo, promessa di nascite e di miracoli. Canterò al Signore perché si è mostrato grande: ha annegato cavalli e cavalieri ripete - quasi in un mantra ipnotico - la nostra ultima canzone, citando la profetessa Miriàm e le altre (così si chiama infatti il nostro spettacolo) donne di Esodo 15. Per quanto trionfale, il momento non è guerresco: l’intenzione che do, cantandole e scandendole, a quelle parole di vittoria è che i cavalli e i cavalieri annegati rappresentano un sistema di potere e oppressione, gerarchia e schiavitù, un mondo “a piramide” in cui pochi stanno a galla e tutti gli altri sono sommersi. Quel mondo, alla fine della nostra storia, questa sera, vogliamo dimenticare, per uscire verso la Pasqua e la libertà, verso un coro di danza in cui tutte sono uguali. 

Bello celebrare così l’8 Marzo, qui nella chiesa della Maddalena. L’indomani incontro le studentesse e gli studenti e - arricchita dalle loro domande di grande profondità - proseguo il mio viaggio verso Venezia. 

La luna è piccola ma crescente e un po’ sdraiata, come fosse già in Oriente. Passeggio e ceno, risolvo una dolorosa incomprensione con un amico lontano e questo illumina l’intera giornata seguente. 

Un incontro allegro con persone che stimo e con le quali - spero - faremo presto belle cose artistiche dà il tono a una giornata di splendore veneziano; alla sera torno a Milano per celebrare e festeggiare un’amica che compie gli anni. 

Le solite poche e frenetiche ore a Milano per sistemare questioni e vedere due amici ed eccomi nuovamente sul treno, di notte, alla volta di Vienna e da lì verso Budapest: voglio dare una mano con i profughi dove e come potrò: si va a Est. Una nuova avventura inizia oggi, alle porte dello Shabbat.


Miriam Camerini

13 marzo 2022

Giallo e azzurro

Sono state settimane intense

Per me e per il mondo

Ho compiuto 39 anni, li ho festeggiati a Milano - al sole - con buone amiche e amici e con un po’ di famiglia, a casa mia, nel mio quartiere, che oramai mi pare un luogo “di passaggio”, ma al quale ogni tanto torno volentieri per un giorno o due. Ho ricevuto mazzi di fiori bellissimi e il mio primo pensiero è stato: non starò qui il tempo sufficiente a vederli sfiorire, meglio godermeli finché ci sono e poi passarli ad altri, più stanziali, che li portino a casa loro. Alla fine li ho dati ai miei genitori, un paio di giorni più tardi, partendo. Mia madre è uscita da casa mia con le braccia cariche di rose, tulipani e altre delizie... Mi è piaciuto immaginarli nel suo salotto.

Ho lavorato, come quasi sempre, insegnato e scritto e organizzato nei ritagli del tempo.

Studiato e sostenuto un esame, proprio il mattino del mio compleanno, una domenica.

Ho fatto - proprio l’indomani del mio compleanno - una cosa che volevo fare da mesi, che mi ha richiesto più impegno e più energie, e di conseguenza più tempo, anche, di quelli che avevo previsto, il che è stato complesso, visto che io organizzo sempre tutto al millimetro, senza margini. Sono poi volata a Madrid, come da accordi, perché avevo preso un impegno di lavoro e non lo potevo né volevo rimandare nonostante fossi ancora un po’ provata dalla cosa che avevo voluto fare e che era stata più lunga del tempo che le avevo concesso in agenda. 

Nel mezzo è iniziata la guerra alla quale tutti noi pensiamo tutto il tempo, che occupa le nostre menti, i cuori e le conversazioni. 

All’aeroporto, qualche sera fa, partendo da Milano per Madrid, ho incontrato un gruppo numeroso di atleti ucraini, donne e uomini, tutte e tutti disabili: una squadra in partenza per la Cina per competere nelle Paralimpiadi invernali di Pechino 2022, ho scoperto poi, parlando con alcune di loro. 

A convincermi a fermarmi e chiedere erano stati i colori giallo e turchese che indossavano, ai quali fino a poche settimane fa non avevo mai neppure pensato, e che ora sono nella mia coscienza al punto che, uscendo dal portone di casa la mattina del mio compleanno in cappotto azzurro, mi sono gettata ridendo fra le braccia dell’amico che era venuto a prendermi e mi aspettava in strada - per caso - in montgomery giallo. Ci siamo abbracciati, abbiamo riso ancora e poi ci siamo scattati un milione di foto in tutte le posizioni, anche sdraiandoci per terra una sull’altro (fortuna che il giallo sta sotto, nella bandiera, e che il mio amico è bello grosso) in riva al Naviglio, sulla Darsena, al sole, proprio come nella bandiera, il grano dorato che cresce sotto al cielo limpido. 

È  stato, tutto sommato, un buon compleanno: una zia mi ha scritto suggerendomi - o meglio: augurandomi - che quest’anno mi insegni a saper scegliere che cosa è importante e interessante e che cosa non lo è, che cosa voglio e che cosa posso lasciar perdere. Ringrazio e metaforicamente sorrido. Dentro di me penso: “Ma come si fa a pensare di sapere che cosa prova davvero qualunque altro essere umano, specie se lontano? Ognuno di noi è in fondo così irrimediabilmente solo e il mondo è tanto immenso, vario e diverso... Come si può davvero scegliere?”.

A Madrid ho incontrato e condotto gli studenti degli ultimi due anni del liceo ebraico attraverso il tema della tzedakah, ossia la giustizia o carità, o meglio quell’unico termine ebraico che unisce entrambe le idee in una sola espressione, a indicare che elargire carità, distribuire danaro, cibo o qualsiasi altra cosa serva a chi ne ha bisogno è in realtà un gesto di giustizia, riparare un torto. Con le ragazze e i ragazzi del liceo Ibn Gabirol, dedicato al poeta andaluso ed ebreo del secolo XI, abbiamo studiato una leggenda talmudica sul Messia, discusso il valore e il significato del tempo, che in ebraico divide la radice con la parola invito, come un invito a fare, a rendersi responsabili e attivi, a usarlo al meglio, per fare del bene. Le ragazze e i ragazzi recitano e giocano, immaginano di essere già a capo di una organizzazione di tzedakah “da grandi” e ne presentano ai compagni il funzionamento, gli scopi e i metodi. Ci lasciamo con la promessa di scriverci fra un paio di mesi per controllare lo stato dei progetti, l’impatto di questa giornata sul desiderio di usare il proprio tempo e le proprie risorse a favore del prossimo. Nell’istante in cui chiudo il seminario della giornata mi chiama un’amica che non sento da anni: sta cercando un appoggio in Ungheria per un amico in fuga da Kiev con la famiglia; la rete si attiva, i contatti si muovono, capisco che negli scorsi giorni sono stata tanto impegnata con il mio corpo e i miei impegni da non rendermi pienamente conto di tutto quel che da una settimana succede in Europa. Ora sono pronta, invece, per fare la mia minuscola parte. I giorni seguenti li dedico al riposo e al recupero ma anche già alla pianificazione delle prossime mosse; a est, dappertutto, c’è bisogno di mani e cuori, vestiti, coperte e voci e sorrisi: cerco l’organizzazione alla quale unirmi, il luogo in cui provare a fare qualche cosa. Vedremo.

Nel frattempo la luna è nuova, Adar, il mio mese ebraico preferito, inizia al momento più opportuno, quando proprio c’è bisogno di lui, che ci invita ad “aggiungere gioia” (così richiede la tradizione): si va verso l’allegra festa di Purim, quella in cui ci si traveste, si beve, si legge la storia della regina Ester e si allestiscono spettacoli: la data ebraica del mio compleanno, in poche parole. Un verso in particolare risuona in me: quello in cui l’ebreo Mordechai spara l’ultima cartuccia per convincere la nipote regina Ester a presentarsi ad Achashverosh, di lei marito e re di Persia, nel tentativo di convincere – a sua volta – il re a non sterminare tutti gli ebrei dell’impero, come decretato dal ministro Haman. “Se ora tu tacerai, la salvezza e la liberazione verranno per gli ebrei da un’altra parte, ma tu e la casa di tuo padre sarete perduti, e chi sa se per un momento come questo sei giunta al regno” (Ester 4:14). La frase sortisce il suo effetto, Ester capisce che è il momento di agire e anche il come farlo, tutto in un colpo solo. Da lì innanzi la salvezza è in cammino. La menzione della casa paterna, del legame con il padre, mi giungono in un momento significativo, trovano terreno fresco e zolle recentemente rivoltate nel mio cuore: la luna è nuova e anche io non mi sento poi così vecchia.. Sento come una quiete fresca che mi pervade, come di tempesta passata, di una zavorra lasciata in mare. 

Lo Shabbat come sempre sigla il tempo del riposo, delle letture, dello studio e della preghiera, dello stare con gli amici a tavola e passeggiando: riaccendo il telefono all’uscita delle stelle e scopro che Bennet, il primo ministro israeliano osservante, ha saputo interpretare la Legge che impone di infrangere lo Shabbat quando è in gioco una vita umana: Bennet è volato a Mosca a parlare con Putin, perché le vite in gioco qui sono milioni. 

La domenica vado - con gli amici che mi hanno invitata e con i loro figli piccoli - al Museo Reina Sofia: voglio guardare in faccia per la prima volta Guernica, e voglio farlo ora, con loro, oggi, sentire che cosa mi dice. Mi concentro, chiudo gli occhi nella bella sala affollata ed ecco lo sento: agire ora, fare il pochissimo che si può fare. Farlo ora, subito.


Miriam Camerini

6 marzo 2022

Materiale e immateriale


Questa settimana è quella del Vitello d’oro: la porzione di Torah che leggiamo questo Shabbat, Esodo 30:11 e seguenti, è un brano che tratta di materiali di costruzione e di misurazione; essa parte dall’argento con il quale i figli d’Israele devono riscattarsi per essere stati contati, per aver “alzato la testa” nel guardarsi attorno ed essersi resi conto del loro numero e della loro forza, potenziale sempre pericoloso, specie quando si è tanti. La parola usata in loco per “riscatto, espiazione” è kofer, ossia la stessa con cui si indica la pece, il bitume, quei catrami che foderano tanto l’arca di Noè in Genesi quanto la culla-cesta di Mosè in Esodo: le bibliche imbarcazioni che servono a salvare uno perché salvi tutti gli altri sono accomunate dalla doppia fodera - “dentro e fuori”, ci informa il testo - nera di pece, che le fa galleggiare. Se la pece è doppia, l’argento invece è mezzo, ossia bisogna darne un mezzo siclo, e in questo caso il povero non ne dà meno e il ricco non ne dà di più: mentre tante altre tasse sono proporzionali al reddito, questa – che è una tassa sulla tracotanza – è uguale per tutti.

Sabato scorso, all’uscita dello Shabbat - come varie altre volte mi è capitato in queste settimane - sono uscita anche io al volo da casa, una valigia preparata alla rinfusa e senza molto pensiero, per correre in stazione e saltare su un treno. Questa volta il treno è per Padova, dove devo cantare in un concerto di canzoni ebraiche sul tema del danaro, appena arrivata. Il mio amico chitarrista Rocco ha già montato i microfoni, il pubblico è poco, ma caldissimo e affettuoso, la felicità di stare in scena e cantare e sentir suonare è sempre grande. Finito il concerto Rocco e io ci concediamo quattro passi e altrettante birre nelle belle vie del centro di Padova. Parliamo di vita, della sua bambina e di progetti artistici futuri, andiamo a dormire tardi e un po’ sbronzi nell’albergo anni ’50 a noi destinato. 

L’indomani ho lezione con Gerusalemme, siamo nelle ultime settimane del primo semestre, e in contemporanea cerco di seguire una riunione importante, per i prossimi colloqui ebraico-cristiani di Camaldoli: assieme faccio anche colazione, la valigia e saluto un amico. La giornata è limpida e calda, Padova festosa sa già un po’ di Carnevale: a mezzogiorno passeggiamo e pranziamo. Nel pomeriggio tengo la mia relazione su Torah ed economia, parlo del Vitello d’oro, di come - dopo l’argento e la pece - compaiano in scena altri due materiali: il rame del catino con il quale i sacerdoti si purificano le mani e la pietra delle Tavole del Patto, con le parole incise che significano libertà, perché solo dove c’è un accordo scritto e reciproco consenso c’è vera libertà. La radice charut in ebraico significa scolpito, inciso ed è la stessa di libertà, perché il patto “scolpito nella pietra” deve servire la libertà, non imprigionare: solo così il popolo di Israele può passare da essere schiavo di Faraone a servo della Divinità, guadagnando lo spazio vuoto che sta fra la mano dell’Eterno che lascia la Torah e Mosè che la riceve, il Legislatore in cielo, ma il più in basso possibile, e il Profeta sul Sinai, nel punto più alto della Terra, il monte.

Lo spazio mediano che rimane vuoto serve a evitare il fanatismo, deve lasciare spazio di manovra, misura di interpretazione della Parola e facoltà di scelta, è necessario per non essere schiacciati dalla pietra, bensì liberati dalle Parole.

Cito il Maharal di Praga, considerato il creatore del gigante d’argilla chiamato Golem, un quadro di Marc Chagall e l’ebraista Elena Loewenthal con il suo recente libro Dieci (Einaudi, 2019).

La fine del pomeriggio è uno di quei momenti in cui mi ricordo perché partecipo a questi incontri, perché voglio esserci io qui a parlare; il pregiudizio, i luoghi comuni, un certo sospetto.. Tutto è ancora presente e salta fuori quando meno te lo aspetti: è necessario essere pronti e forti e calmi. Io forse lì per lì non lo sono molto, né forte né calma, perché per un momento perdo un po’ le staffe e poi me ne dispiaccio. Spiegare con pazienza, continuare a credere che si possa allestire una lingua comune anche solo per un momento, per poi smontarla, magari, e tornare ognuno a casa propria, ma arricchito dall’aver per un’ora o un giorno condiviso un linguaggio, è il massimo che possiamo chiedere a noi stessi, ma questo poco va fatto. L’allestimento di un luogo temporaneo, destinato a essere smontato e poi semmai ricostruito altrove, mi ricorda chiaramente il mishkan, il Tabernacolo la cui costruzione viene descritta e prescritta minuziosamente in questo brano di Torah che leggiamo oggi e nei seguenti: “E però osserverete i Miei Sabati” è il verso (Esodo 31:13) che sancisce definitivamente la superiorità del tempo sacro dello Shabbat sullo spazio sacro del Tabernacolo, o quanto meno la necessaria alternanza fra questi: qualunque opera deve cessare durante il settimo giorno, anche quella più importante di tutte: la consacrazione dello spazio. Il Talmud impara dunque da qui le azioni proibite durante il Sabato: “Sei giorni lavorerai” (Esodo 20:9) rimane però fondamentale e forse anche fondante di una certa etica ebraica del lavoro che tradurrei semplicemente in lavorare molto e bene: servire Dio è anche questo: prestare al mondo la propria opera con serietà. Spero, oggi, di averlo fatto.

Quando esco nella sera padovana limpida e stellata mi coglie il richiamo della Mitteleuropa e una voglia mi pervade di tornare a Budapest, lavorare a un progetto che è lì in attesa e forse seminarne anche un altro. Senza pensarci - guidata solo dal desiderio e dalla felicità della mia libertà scolpita su pietra - salto sul primo treno per Venezia e compro un posto in vagone letto per il mio amato Venezia – Vienna in notturna.

A Venezia ho anche un paio d’ore per godere della città – da un po’ non ci passo, credo prima della pandemia – cenare a casa di due nuovi amici e lasciar loro in deposito una dozzina di copie del mio Ricette e Precetti che a Padova non ho venduto, purtroppo, e ora mi appesantisce in questo viaggio così imprevisto. Lascio i libri in ghetto a Tally e Moshe, dedico ovviamente loro una copia, domani è Purim katan, un Purim (festa ebraica in cui ci si traveste, si allestiscono banchetti e spettacoli, si beve e si legge il Rotolo di Ester) minore, un anticipo di quello “vero”, che sarà fra un mese esatto: la luna già splende piena in questo anno embolismico, ovvero gravido, a tradurre fedelmente il termine ebraico. Cammino felice per le calli di Venezia, godo ogni minuto di questa inaspettata avventura che mi sono appena regalata. Sul notturno per Vienna dormo bene, mi sveglio l’indomani nella campagna austriaca, ordino in stazione centrale il mio libro Rezepte und Gebote, tradotto in tedesco ormai da un paio di mesi, ma arriva domani: nemmeno questa volta farò in tempo a procurarmelo.

L’ultimo metallo che compare nella pericope della settimana è finalmente il più atteso e temuto: quell’oro del vitello eponimo che i Figli d’Israele impazienti costringono il povero Aronne, sacerdote, a plasmare per loro, fondendo i gioielli trafugati in Egitto, per sostituire Mosè, “l’uomo” che li ha tratti dalla schiavitù e che, come tale, temono morto sul monte. La fine è nota: dopo pietra e pece, argento e rame e oro, ecco che tutto finisce in polvere; l’idolo viene tritato, la polvere sciolta in acqua e l’acqua fatta bere a chi ha commesso il rito pagano.

La morale è abbastanza chiara: meglio un uomo, ancorché in ritardo, che una divinità liofilizzata.


Miriam Camerini

20 febbraio 2022

“Il tuo sogno è buono e sarà buono”


“Una persona che vede un sogno e la sua anima ne è turbata, lo migliori di fronte a tre che hanno compassione di lui/lei (che gli o le vogliono bene); dica di fronte a loro: - ho visto un buon sogno - e quelli/quelle diranno: “Ecco, è buono e sarà buono”. 

Così recita una fonte rabbinica dei primi secoli dell’era comune, e il Talmud - testo di qualche secolo successivo - lo commenta ed espande così: “Disse Rabbi Yochanan - chi vede un sogno e la sua anima ne è turbata, vada e lo interpreti/risolva davanti a tre persone. Disse Rabbi: - Lo interpreti? -  E disse Rav Chisda: un sogno non interpretato è come una lettera non letta; lo migliori di fronte a tre (amici): dica davanti a loro: ho visto un buon sogno e loro diranno: è buono e sarà buono, la divinità lo renderà buono”.

Sono sempre stata affascinata da questo passaggio del Talmud babilonese, trattato delle Benedizioni, pagina 55 e seguenti (disponibile anche in italiano, per Giuntina), che celebra il sogno e lascia a noi sognatrici e sognatori la forza e la creatività, la libertà e la responsabilità di prendere un sogno brutto, che ci preoccupa e turba e “migliorarlo”, renderlo buono, letteralmente. Per farlo ci servono però delle amiche e degli amici, persone che hanno cura di noi e ci vogliono bene, perché senza un piccolo beit-din, una “corte rabbinica” di umani che hanno compassione di noi, questo miracolo non si può fare.

Questo sogno non interpretato, che è come una lettera non letta, poi mi ha sempre fatto impazzire, in senso positivo: davvero è possibile che il mio inconscio, la divinità o chiunque mi stia mandando un messaggio e io lo ignori? E poi, quanto è vero che l’interpretazione sta a noi, ed essa è – in fondo – ciò che fa il sogno?

Ho da sempre fatto molto caso ai sogni, me ne sono sempre presa grande cura e loro mi hanno curata. Ne parlavo con un amico che sta a Budapest, al mio risveglio, qualche giorno fa, all’inizio di questa settimana.

Lo stesso amico, ieri, mi ha mandato proprio il passaggio talmudico che ho citato in apertura: segue un corso di studi che ogni mattina gli propone un brano normativo e proprio ieri, dopo una settimana non facile per entrambi, e dopo aver parlato di sogni appena un paio di giorni prima (io del mio, lui della sua difficoltà nel ricordarne, invece, che molto lo turba), ecco comparire proprio questo brano nel suo programma: Tzufal iz a treyf vort! Recita il proverbio yiddish: Caso è parola impura, eccome!

Io poche notti prima avevo sognato che stavo passeggiando per Gerusalemme in cerca di un concerto al quale volevo partecipare ma non trovavo la strada e mi rivolgevo agli studenti di una yeshiva, una scuola rabbinica molto tradizionalista, per soli uomini dalle lunghe barbe e col cappello nero, che però era aperta da dietro, come una casa di bambole che guardavo in sezione da fuori. Chiamavo e chiedevo la strada, ma nessuno rispondeva perché non volevano parlare con una donna, come era stato loro insegnato, per modestia. Fingevano anche - così almeno credevo io - di non comprendere la lingua in cui stavo parlando loro, che fosse italiano o ebraico non so, e allora io ne provavo altre, ma con lo stesso risultato. A quel punto decidevo di entrare imperiosamente e da dietro percorrevo tutto il corridoio fino a davanti, per andare a cercare il rabbino, l’insegnante dell’accademia. Lo trovavo seduto che studiava alla sua “cattedra”: era un rabbino italiano, anziano, che ben conosco e stimo; era vestito all’italiana, elegante, tutto diverso dai suoi studenti in camicia bianca e pantaloni neri, lui con una bella giacca di lana, la cravatta, un orologio classico, sbarbato e ben curato. Gli chiedevo seccata: “Ma qui non insegnate ai vostri studenti a rispondere se qualcuno chiede aiuto?” e lui mi diceva: “Che ci vuoi fare? Io ci provo, ma così va ora...”. Poi parlavamo di altre cose, mi raccontava di aver appena finito di studiare – da solo – un trattato del Talmud dedicato ai digiuni, fra cui - pensavo io nel sogno - anche il digiuno che è tradizionalmente prescritto per chi ha un sogno che lo turba e che teme sia ammonimento per qualche colpa su cui deve riflettere per redimerla. Mi chiedeva poi, il vecchio rabbino, che ne era di un prete amico mio con il quale per anni ho organizzato a Milano un festival dedicato agli alberi, e anche qui c’era un legame con il Talmud, perché nello stesso trattato si parla di digiuni per piogge che non vengono, che poi vengono ma sono troppo forti, che vengono a tempo o fuori tempo, si parla di alberi e del Capodanno a loro dedicato, la festa ebraica di TuBishvat, in occasione della quale per anni abbiamo fatto il nostro festival, io e il mio amico prete. 

“Ora”, spiegavo al rabbino, “il prete è a Roma, in Vaticano, e il festival purtroppo non lo facciamo più da un paio d’anni, ma chissà, magari prima o poi riprenderemo...”. 

Poi uscivamo per strada – io e il rabbino – e camminavamo assieme in piccole strade che potevano essere quelle del quartiere ebraico di Budapest (da Gerusalemme a Budapest sono andata nel mio sogno: non so se Theodor Herzl sarebbe proprio felice, ma magari anche sì) e mentre camminavamo mi chiedeva se avevo dello yogurt o altro da mangiare: io rispondevo che il giorno prima, sabato, ero stata in sinagoga fino alla fine dello Shabbat per poter portare via del cibo alla fine del terzo pasto della giornata festiva, offerto in sinagoga, e avevo preso degli yogurt. Gliene offrivo uno, ma era acido e cagliato e ci dispiacevamo; allora ne aprivo un altro, e questa volta era buono. 

Buono come il sogno migliorato, come una relazione redenta, come un legame risanato: per farlo servono però tre che di te hanno “compassione”, ossia che ti amano e di cui ti devi fidare, per mettere il tuo sogno nelle loro mani. Ecco: forse io questa settimana ho imparato questo, e non è poco.


Miriam Camerini

6 febbraio 2022



Dopo Shabat: Blues


Potrebbe essere un modo per combattere la raskha, parola usata dagli ebrei francofoni dei paesi arabi, sensazione nota anche come “end of shabbat blues”, ossia quello sconforto che pervade i più alla fine del Sabato, quando il giorno di festa si dilegua e la settimana ricomincia. 

La havdalah, separazione, è la breve cerimonia domestica che aiuta a ritornare pienamente padroni dei cinque sensi, annusando spezie profumate, bevendo vino e accendendo un lume, come abbiamo fatto per accogliere lo Shabbat, la sera precedente, cantando un inno al profeta Elia che presto arriverà ad annunciare la venuta del Messia, magari già questa settimana. 

Nel frattempo, però, casomai dovesse tardare ancora un momento, ci auguriamo che la settimana porti benedizioni e ricchezze, che siano soddisfacenti le opere delle nostre mani, il nostro lavoro, gli incontri e le unioni di ogni genere, i nostri viaggi. 

Ecco, io questa cosa dei viaggi la prendo come sappiamo abbastanza sul serio e dunque è già il secondo sabato sera in cui, appena uscito il Sabato e mentre ancora aspiro le spezie e bevo il vino della havdalah, già sto anche facendo rapidamente assai una piccola valigia e mi preparo a (ri)partire. 

Lo scorso sabato ero a Budapest. Arrivata da Gerusalemme appena un paio d’ore prima dello Shabbat, di venerdì pomeriggio, lì ho trascorso un giorno di festa e di riposo meraviglioso, dolcissimo e di una serenità rara, complice il mio amico ungherese e un clima delizioso: freddo ma sereno e soleggiato. 

Alla fine del Sabato abbiamo ricomposto la mia valigia, preso con noi una coperta - poi subito persa da qualche parte - e siamo saliti su un treno notturno (la mia vera casa, oramai lo so) dove una cuccetta tutta per noi con tanto di bagno ci avrebbe dolcemente cullati per tutta la notte fino alla Svizzera. Domenica mattina abbiamo visto l’alba dal finestrino, la luce rosa che si rifletteva sulla neve bianca dei monti e dei laghi mentre facevamo colazione sdraiati e felici come due bambini nella culla oscillante e viaggiante. Al volo siamo scesi dal treno a Zurigo, abbiamo depositato i bagagli negli efficienti armadietti e sono corsa a casa di mia sorella, la quale non aveva detto ai bambini che la zia stava per arrivare, così che la sorpresa fosse perfetta. Ci siamo coccolati e raccontati le prime cose e poi tutti fuori a mangiare nell’unico locale quasi kasher - ossia completamente vegetariano - della città. Ricomincia finalmente il piccolo tour di Caffe Odessa, il progetto musicale che oramai da anni portiamo a spasso per l’Italia e l’Europa, i miei amici-collaboratori-musicisti e io, per raccontare la musica ebraica delle molte diaspore, la sua molteplice e variegata ricchezza. A Bellinzona ci attende una bella sala con un’ottima acustica e un sole radioso: in poco tempo allestiamo il palco e i suoni e ci apprestiamo a partire per quel “viaggio” che tante volte abbiamo percorso e che pure ogni volta ci sorprende, emoziona e diverte: da Sefarad al Marocco, da Varsavia a Parigi a Istanbul, attraccando per un po’ a New York, a Genova e Odessa,  sulle rive del Danubio e del Mar Rosso, sostando nei kibutzim della Galilea e del Negev, percorrendo la Podolia e tornando dai Balcani in Babilonia. 

Mi commuovo ogni volta che canto una delle più recenti aggiunte al nostro repertorio, l’unico “omaggio” che ci concediamo in questa occasione legata alla memoria della Shoah: Mayn Shvester Khaye poesia struggente di Binem Heller dedicata alla sorella “bruciata a Treblinka da un tedesco”, la sorella Khaya che si occupava dei fratellini, ma che si dimenticava di giocare con loro. Per essa scrive Heller in yiddish la sua canzone in questi tempi così oscuri, sicuro che presso Dio siede alla destra come una figlia prediletta. 

Gli amici venuti da Milano e da Budapest e da Lugano sono felici e partecipi, la serata è magica. In preda all’entusiasmo ci lanciamo fino a Lugano per una cena che ha molti aspetti artistici, sorprendenti ed emozionanti; il ritorno a Milano nella notte è a precisamente due mesi da quando l’ho lasciata alla fine di novembre: il divano letto resta sempre la miglior garanzia di vincere l’insonnia che sempre mi prende quando torno a “casa”. 

L’indomani è frettoloso ma un po’ attutito dalle gioie della sera prima, nel pomeriggio mi attende a Genova una lezione a Palazzo Ducale sulla donna nelle Scritture bibliche e nella società ebraica oggi: una amica di mia madre mi sorprende con la sua presenza e mi sento subito a casa. Genova è una città con la quale ho sempre avuto un rapporto di fascinazione e repulsione, attrazione e timore: decido di trascorrervi ancora un paio di giorni, che passano in piacevole compagnia e con una visita alla bella mostra di Escher. 

Le due giornate seguenti sono ancora dedicate alla Memoria, con una performance allestita all’Accademia di Brera assieme a talentuosi allievi di pittura che si prestano – voci e corpi – al teatro per leggere Brecht, Terrore e Miseria del Terzo Reich, un testo che ho tirato giù dagli scaffali in casa dei miei genitori: ci avevo lavorato a fine liceo e ancora ricordo l’emozione di una prima quasi-regia mia. Anche questa volta l’emozione c’è, canto il Moritat di Makie Messer e Manuel mi accompagna alla chitarra. Video e presenza si mescolano, la mattina - dal mio divano, sempre - ho parlato a studenti universitari e liceali della serie TV israeliana Shtisel, ambientata nel quartiere “ultraortodosso” di Geulla, a Gerusalmme. 

Lo Shabat trascorre calmo, con genitori e un paio di amiche e amici: avevo bisogno di questa sosta casalinga. Sabato sera sono già di nuovo sul treno per Genova, la signora del chioschetto aperto tutta la notte vicino alla stazione Principe ormai ha capito il mio via-vai e mi saluta con calore quando attraverso la piazza per la II volta in soli 3 giorni. 

Domenica è giorno di concerto: gli amici di Caffe Odessa arrivano a Genova, io ho appena finito di studiare con Gerusalemme il Talmud, ci troviamo in teatro, proviamo i suoni, un rapido aperitivo nei carruggi e si va in scena! Anche in questo caso il teatro è pieno e chi non c’è può seguire su youtube da casa (https://www.youtube.com/watch?v=kS4yLsLk54Y). L’energia è forte, la serata è dedicata a chi l’ha pensata e voluta, che ci ha lasciati proprio un mese fa, all’inizio dell’anno solare. 

Dopo lo spettacolo andiamo a mangiare pesce e brindare “lechaim!” alla vita. Non c’è nulla da fare: stare sul palco, cantare e condividere con gli amici amati l’emozione e la musica sono fra le cose più belle della mia vita, e ogni volta che lo rifaccio dopo una pausa capisco quanto mi è mancato.


Miriam Camerini

30 gennaio 2022

Ricorda, Osserva, Onora. Dai peso, dai tempo, dai spazio


Un mese e quattro giorni, da un venerdì a un venerdì: sono arrivata a Gerusalemme a metà Dicembre e me ne vado oggi, 5 Sabati più tardi. Sono state settimane molto belle, le prime con mia madre, padrona di casa impeccabile, pasti cucinati, spesa fatta, radio accesa su buona musica, non un cuscino fuori posto, letto rifatto dieci minuti dopo averlo lasciato: come tornare all’adolescenza, insomma. 

Bello passeggiare con lei in città vecchia la sera dopo Natale e scoprire - fra il Muro del pianto e il santo Sepolcro - i nuovi mercatini con le lucine, il sachlav, budino di latte caldo e speziato di pistacchio e cannella, che sostituisce per tutti, ebrei e cristiani qui in terra d’Islam, il vin brûlé delle notti del Nord; bello tornare a cercare il panettone del pasticciere arabo che ha studiato a Milano, incontrato per caso anni fa, un altro Natale a Gerusalemme. 

Bello andare a un concerto di Mozart padre e a una rassegna di commedie italiane degli anni ’50, con Sofia Loren e Franca Valeri nel loro splendore. 

Bello tornare a casa da scuola e trovare le luci accese, l’acqua per il the già calda, qualcuno a cui raccontare la giornata: non sono abituata e a volte mi piace. 

Altre invece preferisco avere il tempo e il silenzio (fra le due cose più preziose a cui posso pensare in generale) per starmene da sola, digerire tutto quel che ho sentito, appreso, compreso o non compreso, pensato e discusso in yeshiva, alla mia scuola rabbinica.

Un intero anno dedicato allo studio del Sabato, dello Shabbat, con le sue norme e i suoi concetti meta-normativi di una profondità arcana e futurista assieme: che cosa definisce una azione? L’attività o il motivo? L’obiettivo o l’intenzione? Il risultato o la partenza? Sono 38 anni che “osservo” lo Shabbat, nel senso che lo studio e che ne applico i divieti e gli obblighi, ricordo e consacro il giorno di sosta e di festa... e tuttavia più mi inoltro in questo anno - che per di più è “sabbatico”, poiché la Terra di Israele quest’anno riposa come da comandamento biblico - meno mi pare di aver “afferrato” questo mistero, l’invenzione più geniale di tutta la creazione: il non-creare. 

Cessare, togliersi, guardare senza fare, aspettare, respirare, stare zitti dopo aver costruito mondi con la parola, e averli distrutti... Questo è shabbat, fra tante altre cose. 

Un tempo recintato e invalicabile, dove le necessità del fare non entrano, davanti al quale si arrende la fretta, l’ansia, il bisogno di usare e spremere ogni minuto. 

Di Shabbat precetto è dormire, bere e mangiare, cantare e pregare, passeggiare, studiare, leggere e parlare, stare con chi si ama. 

Questo sabato si legge la porzione di Torah che contiene il Sinai, la “rivelazione”, i Dieci Comandamenti (tutte parole approssimative, espressioni usate in modo convenzionale per abitare un temporaneo linguaggio comune, ognuna delle quali meriterebbe molta più profondità, ma si sa: la lingua è convenzione, fa il meglio che può, che in questo caso è ben distante dal perfetto) e il “patto” tra la Divinità e il popolo di Israele, da poco redento dall’Egitto e già bello faticoso col suo “collo duro”.

Mentre lo leggo penso al mal di collo col quale sono arrivata qui un mese fa, a quanti giorni e arnica e massaggi sono serviti prima che smettesse di farmi male, il collo duro dell’ansia e dell’insonnia.

Lo Shabbat è il IV dei comandamenti e in questa fase ci viene chiesto di ricordarlo (più tardi, nel Deuteronomio, si comanderà di “osservarlo” o “conservarlo”), renderlo speciale, sacro, separato, diverso, di festa. 

La riga successiva sulle due Tavole, la V, comanda il rispetto dei genitori, ordina di dar loro peso (come se fosse davvero possibile fare altrimenti): il mio compagno di studi mi ha appena mandata una bella riflessione che ha scritto per questo shabbat in cui collega le due “parole”, la quarta e la quinta, il Sabato e i genitori: l’abitudine, imparata in casa, di sostare a riflettere, la libertà e il tempo di far domande che solo il giorno di festa concede, con il suo scorrere così diverso, “garantito”, già un po’ messianico.  

Un commento chassidico che abbiamo studiato questa settimana anche collega il Sabato ai genitori, invita a prendere responsabilità dei nostri errori e delle nostre difficoltà, non attribuirli a chi ci ha creati, che è poi l’unico modo per riconoscerci anche la capacità di fare meglio: “Arriva un’età in cui non conta più che cosa ti hanno fatto, ma che cosa tu sei stata in grado di farne”, mi cita spesso il mio psicoterapeuta, non ricordo mai da dove, ma sicuramente non da un Maestro chassidico, motivo per cui sobbalzo nel ritrovare qui lo stesso insegnamento. Chi ha sbagliato porta al Tempio un’offerta e poi ricomincia, e cerca di fare meglio, dice il pietista di fine ‘700, pensando a un Santuario che non esiste più da 17 secoli.. “L’olocausto che noi portiamo oggi sono i soldi, il tempo e le lacrime che spendiamo in terapia! Questo offriamo a quella relazione”, suggerisco io in un momento di illuminazione, e il mio rabbino ride di cuore, con l’aria di uno che ci è passato anche lui. 

Un mio amico ha appena ricevuto le bozze del suo primo libro, una raccolta di poesie meravigliose che ha scritto mentre studiava per diventar rabbino e durante il suo primo lavoro in una comunità in Australia all’inizio della pandemia. Viene a cena da me una sera che nevischia e tira fuori il libro “provvisorio”, stampato alla buona, da sotto la giacca, dove l’ha nascosto per proteggere l’opera delle sue mani dall’inclemente tempo di Gerusalemme oggi: passiamo la sera a leggere e mi spiega fra le parole ebraiche quelle che non so: l’emozione di leggere l’opera prima di una persona a cui voglio tanto bene riempie l’aria e lo spazio fra noi, la sua felicità la conosco anch’io, è quella che Petrarca descrive così: “La penna stretta tra le dita dà piacere, posata dà compiacimento, e dona godimento non soltanto a quelli che sono presenti, ma anche a quelli che sono lontani e ancora ad altri che nasceranno”.. Una frase che ho letto al liceo e mai più scordato. Solo una ferita e basta si chiama il libro, i panni stesi in copertina sono un disegno del fratello dell’autore, cui è anche ispirata la poesia su Esaù e Giacobbe. “La cosa non dipende che da te”, recita una citazione dal Talmud Babilonese, trattato delle Benedizioni, che apre la sezione dedicata alle poesie “famigliari”, e torniamo alla frase del Maestro chassidico.

Sono state giornate piene e calme al tempo stesso, queste, per me. Con un ritmo mediorientale, notti silenziose, soprattutto più quiete dentro, che era ciò di cui avevo disperato bisogno. Il ritmo preciso e sereno dato alle prime giornate mie qui da mia madre ha avuto un impatto benefico e sano anche sul resto del soggiorno, la sua musica e il profumo del suo cibo, con le ore dei pasti regolari, il sonno e la veglia ben scanditi, sono rimasti nella casa anche dopo che lei è partita e io di nuovo ho avuto per me tutto lo spazio e tutto il tempo. 

Sono stata in grado di sentire e studiare, pensare e scrivere, incontrare amici e amiche con calma e attenzione, avere conversazioni di una densità tangibile, momenti di musica e preghiera come da tempo non avevo. 

Mentre volo verso l’Europa, verso nuovi giorni di treni e lezioni e concerti, palchi e microfoni e telefoni mi auguro solo che il collo possa restarmi così com’è ora: morbido.


Miriam Camerini

23 gennaio 2022


Cabaret Esodo


Una domanda lanciata in una mail alla fine dello Shabbat, qui a Gerusalemme, che invece in centro Europa ancora è in corso per un’oretta: “Qual è secondo te il mio verso preferito della parashà (brano di Torah) che si è letto in sinagoga oggi?” 

Un gioco che non ho mai giocato e che mi è venuto in mente nella prima ora della settimana nuova, pretesto e voglia di sentirsi un po’ bambini con un uomo che bambino non è e che sta da un’altra parte, come quasi sempre, nella mia vita. 

Se indovina vuol dire che mi conosce bene (difficile: ci conosciamo poco e da poco), oppure che ha grande intuito, o molta fortuna. 

Se non indovina posso dirgli che si è appena (mal) giocato chissà quale seducente premio, peccato. 

Il gioco prosegue nella notte, a distanza di chilometri e col grande mare di mezzo, l’amico indovina al quarto colpo, che in fondo non è male: ripeto, ci si conosce da poco. Il verso è in Esodo 14:11 e a me fa proprio ridere ogni volta che lo ascolto o che lo leggo. 

I figli d’Israele - appena fuggiti dall’Egitto dopo secoli di schiavitù, molte trattative e dieci piaghe - sono intrappolati fra il Mar Rosso che hanno davanti e i carri “armati” egiziani che li hanno chiusi alle spalle; la loro scelta sembra ristretta a un paio di opzioni, magari tre: annegare, farsi uccidere dai soldati del faraone, forse arrendersi e tornare in Egitto, di nuovo schiavi. Nessuna pare particolarmente divertente, eppure in quel preciso momento quel che viene loro in mente è una battuta sarcastica, un paradosso che rovescia per un attimo la realtà, offre una prospettiva opposta: “Forse perché non ci sono abbastanza sepolcri in Egitto ci hai portati a morire nel deserto?” chiedono - mugugnando - al povero Mosè che li conduce.

Ora, io non so a quanti di noi in una situazione simile verrebbe tanto da scherzare, ma ogni anno quando sento questa domanda retorico-ironica è come se la sentissi per la prima volta e ogni volta di nuovo rido e mi compiaccio del senso dell’umorismo, della prontezza di spirito, finanche del saggio distacco di quei miei antenati e delle mie trisnonne, laggiù nel deserto del Sinai. 

Ogni volta mi pare di leggere un racconto di Kafka, una commedia di Sholem Alechem o la sceneggiatura di un film di Woody Allen o dei fratelli Coen: la battuta, il witz, quel sovvertimento della tragedia che per un secondo diventa commedia e strappa una risata là dove non ci resta che piangere... 

Ecco, a me questo, ieri sera, scrivendo all’amico (assai ironico lui stesso), è venuto da chiamarlo: “la ricetta della pervicace e ostinata sopravvivenza ebraica”, e speravo che da questo laconico indizio lui potesse subito indovinare come questo è uno dei versetti della Torah che più mi divertono, più riempiono d’orgoglio, di - posso dirlo? - gioia nell’appartenere a un popolo che non rinuncia all’arguzia nemmeno nei momenti più spaventosi, ma che anzi proprio in essi trova le proprie migliori invenzioni umoristiche. 

Rovesciare l’immagine dell’Egitto come di un luogo in cui “difettano i sepolcri” non è poi casuale, dato ciò che ognuna di noi, bambina, ha letto e visto sui libri: piramidi, tombe, necropoli, divinità infere... 

L’Egitto, almeno come ce lo insegna(va?)no a scuola, è tipo l’IKEA dell’aldilà: tutto quel che serve per l’oltretomba; difficile pensare che si debba andare a morire altrove, e per questo il paradosso riesce bene. 

Nello stesso momento, mentre ci scambiavamo queste mail con l’amico lontano, per il quale lo Shabbat era appena finito, commentavo via Zoom per la Giornata del dialogo ebraico – cristiano  - a due voci con un biblista cattolico, in Italia - il capitolo 29 del libro di Geremia, quella Lettera agli esiliati nella quale la divinità - tramite il profeta – suggerisce o piuttosto comanda al popolo ebraico di “mettersi comodo” in Babilonia, costruire case e abitarle, concepire e partorire, sposare e far sposare, generare insomma, seminare e mietere, coltivare e raccogliere e mangiare, perché l’esilio durerà 70 anni, un tempo lungo cioè, e non un giorno di meno di quello che l’Eterno ha stabilito e calcolato. Non serviranno falsi messia e sogni di profeti; chiunque cerchi di portare a casa gli esuli prima che la diaspora sia compiuta è un ciarlatano: tanto vale mettersi comodi e fare il meglio per il Paese in cui si è ora, far fiorire Babilonia e perseguirne la pienezza, lasciare che Gerusalemme “riposi” vuota, vedova, come Geremia stesso la chiama nel primo verso delle sue Lamentazioni; tornerà a riempirsi di vita e di uomini, ma prima devono compiersi dieci volte sette anni, un grande sabbatico: anche la città, non solo la terra, a volte riposa per rigenerarsi? Nel frattempo l’ebreo fertilizza e coltiva la diaspora, così sarà per i successivi duemila anni, e il ritorno a Sion rimane “come un sogno” (Salmo 126).

La risposta di Dio a Mosè che parla a nome Suo (Esodo 14:15) assicurando il popolo che la divinità combatterà per esso e loro devono solo stare tranquilli è anche parte del “cabaret”: “Che cosa gridi a Me? Parla con i figli d’Israele, e che inizino a muoversi!”, insorge l’Onnipotente, che ogni tanto vorrebbe anche vedere i Suoi figli prendere un minimo d’iniziativa nel salvarsi: va bene fidarsi e attendere e sperare, ma ogni tanto occorre anche fare. 

E loro fanno: ascoltano ed entrano in acqua, nel mare che ancora non si è aperto, dice il midrash, e in effetti a leggere semplicemente i versi non è chiarissimo che cosa avvenga prima, se l’apertura del mare o il coraggioso tuffo del popolo in fuga. 

Forse la risposta sta proprio lì, come in un buon gioco di seduzione, in cui non è chiaro chi inviti per primo, come nelle maree chiamate dalla luna, nella indistinguibile quasi simultaneità delle azioni salvifiche: l’umana che precede la divina e la facilita, l’invita, la chiama necessaria.

L’Eterno dell’Esodo non redime gratis, aspetta una chiamata, a volte un grido, come all’inizio dell’Esodo, altre - forse - basta una risata.


Miriam Camerini

16 gennaio 2022

Sulla luna


C’è una melodia di Lecha Dodi, “andiamo amato”, pyut, composizione poetico-liturgica che si canta per accogliere lo Shabbat che non mi esce più dalla testa e dalle orecchie. La conoscevo già, ma l’ho sentita come fosse la prima volta due settimane fa, la sera del Sabato che era anche vigilia di Natale, a Gerusalemme in una delle sinagoghe più musicali e spirituali del quartiere in cui vivo quando sono qui, Katamon. Il testo, scritto a Safed da un cabalista nel ‘500, ha conosciuto nei secoli decine, forse anche centinaia di melodie diverse trovate, inventate e adattate per accompagnarlo nel canto. La tradizione continua e la melodia che mi segue in questi giorni è recente, composta dal rabbino fondatore della comunità di Katamon, Rav Rosen, scomparso una dozzina di anni fa. È una di tante, bella, ma non più di moltissime altre, e però in questi giorni è proprio “la mia”. Venerdì scorso toccava a me condurre la funzione della sera, accogliere lo Shabbat in un’altra sinagoga, poco distante, fra le poche che concedono questa responsabilità anche alle donne. Volevo usare quella melodia: l’ho ascoltata su youtube tutto il pomeriggio, ho chiesto a mia madre che era con me di impararla anche lei per potermela sussurrare se – nell’emozione del momento – non me la fossi ricordata in sinagoga. Sono uscita molto presto per essere fra le prime ad arrivare, ho camminato in un piccolo boschetto (chiamato ironicamente foresta della luna perché molto spoglio) che collega casa mia alla sinagoga, e mentre camminavo fra gli alberi e le rocce “lunari”, ho pensato che, essendo anche l’ultimo giorno dell’anno solare, una piccola parte della liturgia, a mo’ di “scherzo”, avrei potuto adattarla al canto scozzese di fine anno Auld Lang Syne, tanto caro al mondo anglofono cui la maggior parte delle persone nella mia sinagoga appartiene.

Emersa dal boschetto, nuovamente sulla strada, mi sono resa conto che avevo scordato lì la melodia: il mio Lecha Dodì era rimasto sulla luna! Senza tempo da perdere, mi sono guardata attorno in cerca di una soluzione: naturalmente avrei potuto decidere di ripiegare su una qualsiasi altra melodia fra le decine che so a memoria e tenere l’amata per una prossima occasione, ma prima di cedere qualche tentativo lo volevo fare comunque; al posto di un ippogrifo ho visto nei paraggi una grossa auto famigliare: l’Astolfo che la stava parcheggiando davanti a casa era un ragazzino non più che diciottenne, impegnato con una mano a mano-vrare e con l’altra a scrivere messaggi su whatsapp. Io ero uscita senza telefono perché di lì a poco sarebbe entrato lo Shabbat, in cui non si può usare alcun dispositivo elettronico.

In quel momento liminale, però, il sole ancora non era tramontato, il Sabato stava sulla soglia, ma – ancora per poco – era pur sempre venerdì e il ragazzo stava infatti portando a casa l’auto, parcheggiandola, salutando gli ultimi amici prima della giornata intera e completa di quiete e silenzio.

Silenzio e quiete e tramonto rosa in effetti stavano calando rapidi su Gerusalemme e la frenesia degli ultimi preparativi lasciava di minuto in minuto spazio e tempo al giorno di sosta: Shabbat.

Mi sono avvicinata all’auto e al ragazzo che in essa era seduto e gli ho detto tutto d’un fiato come faccio di solito in queste circostanze: “Ciao, scusa, sto andando a Shira Chadasha” (cantica nuova, letteralmente: il nome della mia sinagoga e l’uso del femminile nel nome non è casuale) “e devo condurre io la funzione, ma ho dimenticato la melodia che volevo usare e non ho già più con me il cellulare, ovviamente: possiamo un attimo andare su youtube dal tuo?”

Il ragazzo era tutto felice, ha smesso un attimo di chattare e senza scomporsi ha detto qualcosa come: “Certo, la prendo come la mia missione di oggi” e si è messo su youtube a cercare il “mio” Lecha Dodì. Siamo rimasti lì qualche minuto, nel silenzio che cresceva, due sconosciuti con 20 anni di distanza, seduto in auto il giovane, in piedi fuori l’anziana (che in questo insolito caso sarei io), ad ascoltare una musica bellissima e canticchiarla a occhi chiusi via via che tornava. Quando l’ho avuta abbastanza salda in mente, l’ho salutato e ringraziato, augurato Shabbat Shalom e lui ha continuato a stare lì con il telefono in mano e ascoltare. Io mi sono incamminata verso Shira Chadasha: un caro amico sfrecciava in quel momento con l’auto per raggiungere casa di suo padre negli ultimissimi minuti in cui gli era consentito guidare: ha fatto per inchiodare, ma la moglie gli ha gridato: “Quasi Shabbat!” ci siamo salutati con la mano finché è scomparso all’orizzonte.

Sono entrata, alcuni amici e amiche erano venuti apposta per cantare assieme a me, mia mamma anche è arrivata al momento giusto, il mio compagno di studi alla yeshiva, tenore professionista, stava saldamente accanto a me, ancorché dall’altra parte della tenda che separa uomini e donne, acusticamente ben distinguibile e pronto a suggerire.

Ho iniziato, cantato tante altre melodie, niggunim, salmi vari, il Lecha Dodì italiano che ovviamente lì non conosce nessuno… Giunta al momento di ricordare la misteriosa melodia nuova mi sono accorta che era ancora una volta volata sulla luna, tornata lì dove non la potevo più acchiappare per il momento. Né mia madre, né gli amici se la ricordavano: era tornata lì per tutti.

Il mio amico cantante mi ha rapidamente soccorsa suggerendone un’altra, e così è stato: un bellissimo altro Lechà Dodì è sorto quasi spontaneamente dal momento e nel momento, ma il “mio amato” aveva deciso di non farsi trovare e così ha fatto, giocando a comparire e scomparire fino all’ultimo. Ancora una volta ho sentito che Shabbat è il tempo in cui non decidiamo noi, ed è questo che lo rende tanto necessario.


Miriam Camerini

9 gennaio 2022


Fra Gaza e Berlino, o fra Genesi ed Esodo

Eccomi di nuovo a Gerusalemme, seduta al tavolino di un caffè di Rechavia, uno dei quartieri più “europei”, nel tempo liminale fra la settimana che si conclude e il Sabato che arriva, fra la festa nostra consueta e settimanale dello Shabbat e quella eccezionale e unica – a me straniera – del Natale. Anche lo spazio è di confine: Medioriente e Mitteleuropa si incontrano in questa via che porta il nome di Aza, Gaza, e fa angolo con una via intitolata Berlin, non in onore della città quanto di un rabbino importante che aveva quel nome. Un locale storico, però, da sempre gioca sull’equivoco e si chiama Bein Aza leBerlin, tra Gaza e Berlino, ma con un menu che rimane saldamente radicato da questa parte del Mediterraneo (la terza entità geografica “di mezzo” che nomino in poche righe): humus e kubbe, pita e falafel non cedono un millimetro a strudel e wurstel, giusto a rimarcare che poi alla fine qui siamo e questo mangiamo. In questo spazio - tempo di mezzo incontro dopo anni un vecchio amico, Yuval, che mi faceva la corte ai tempi in cui studiavamo entrambi tedesco al Goethe Institut, qua poche strade più sopra. L’ultima volta che l’ho visto credo fosse a Berlino, molti inverni fa, dove entrambi eravamo finiti per un periodo a praticare la lingua faticosamente imparata (diciamo: studiata). Rechavia è davvero una piccola Germania/Austria piantata nel cuore di Gerusalemme, città doppia e duale, come il suo nome Jerushalaim - dove il suffisso aim in ebraico indica il duale dei sostantivi – suggerisce: questo mi ha scritto un amico cattolico ed ebraista in risposta agli auguri di Natale che ieri da qui gli ho mandato: “..Città tanto cara perché segno a un tempo di quello che c'è e di quello che manca,  coerente in ciò alla sua forma duale”: “Di quel che ancora manca”, ho aggiunto in cuor mio, perché comunque li si legga e celebri questi giorni così brevi e così bui (anche qui in Oriente) sono per forza germoglio e promessa di redenzione, di luce che conquista le tenebre tenacemente r-esistendo, semplicemente esistendo.

A questa dualità fra morte, nascita e redenzione, penso anche - in questo spazio tempo prima dello Shabbat in cui si inizierà a leggere il II libro della Torah, l’Esodo - perché Mosè e Gesù sono due infanti miracolati, scampati entrambi alla strage degli innocenti perpetrata dal tiranno di turno, Faraone o Erode che sia, per impedire la nascita e la sopravvivenza di un bambino che, divenuto adulto, causerà non pochi problemi, così predicono gli astri e chi li sa leggere. Questa settimana ho sentito una lezione bellissima alla mia scuola rabbinica su come Genesi sia un libro “maschile”, quella verga del comando che “non si dipartirà di tra le gambe di Giuda” (Genesi 49:10) mi ha fatto quasi ridere - leggendolo lo scorso Sabato, ultima lettura di Bereshit - da tanto è fallicamente esplicita nel suo patriarcalismo, mentre Esodo è libro femminile per eccellenza: si apre con la descrizione di parti e nascite amministrati con saggezza e ironia femminile dalle due semplici levatrici che menano per il naso nientemeno che il re d’Egitto e si manifesta apertamente con l’apertura del Mar Rosso, nascita di un intero popolo libero, celebrato e danzato da Miriàm la profetessa, che guida le donne e canta la salvezza.


Miriam Camerini

26 dicembre 2021

A Budapest e a Gerusalemme

A Budapest c’è un ponte – un tempo chiamato Franz Josef, oggi Ponte della Libertà, che collega il mercato coperto di Pest con i bagni termali Gellért di Buda.

Mi ci sono fermata a lungo negli scorsi giorni, in diversi momenti del giorno e della notte a guardare di volta in volta l’acqua verde del Danubio, il traffico di auto e di barche, le luci degli addobbi natalizi o il castello illuminato.

La storia talmudica che avevo appena insegnato e fatto mettere in scena a un gruppo di giovani educatori - assieme a ottim i colleghi: teatranti e talmudisti - trattava, nemmeno a farlo apposta, proprio di queste tre istituzioni: mercati, bagni e ponti. Per i tre rabbini del Talmud che troviamo assorti in discussione all’inizio della storia narrata nel trattato di Shabbat, a pagina 33b, i romani hanno costruito e introdotto nella Palestina da poco conquistata ponti, mercati e bagni solo per futili motivi, o ancora peggio, immorali e disdicevoli: i bagni servono solo per la vanità del corpo, i ponti per ricavarne un profitto esigendo un pedaggio e i mercati addirittura sarebbero unicamente sede di prostituzione. Tutta la storia si svolge nell’apprendere di uno di essi, Rabbi Shimon, uno dei più grandi Maestri talmudici, che non esiste nulla che sia tutto bene o tutto male: in ogni persona, scelta, luogo e situazione si possono trovare sacro e profano, puro e impuro, bene e male: la parabola ha tre conclusioni, in ognuna delle quali uno degli oggetti condannati viene riabilitato: un anziano che corre sul limitare del tempo, al confine fra giorno sesto e settimo, con in mano due rami di mirto, mostra la necessità dei giorni di lavoro, spiega l’importanza di coltivare la terra per procurarsi il nutrimento e onorare lo Shabbat con il suo doppio precetto di “Ricorda” e “Osserva”, simboleggiato dai due rami di mirto profumato. Dentro al bagno il genero di Rabbi Shimon discute con lui gli insegnamenti ricavati da tutta la vicenda, un ponte viene “creato” dal riconoscente Maestro che decide di controllare e dichiarare pura – cioè non contaminata da sepolcri – un’intera area che dovrebbe altrimenti essere faticosamente evitata dai sacerdoti (tenuti a un livello supplementare di purità) a costo di una lunga strada da percorrere.

Sono stati giorni magici, questi di Budapest: ho frequentato amici e amiche che non vedevo da tempo, mangiato e bevuto, passeggiato e studiato, visto una prova e una prima nel nuovo teatro ebraico aperto da un regista cui da sempre guardo con ammirazione.

Staccarmi da lì non è stato facile: avrei voluto rimanere ancora e ancora.

Giovedì notte però ho sentito che il tempo era concluso, poco più di una settimana dopo essere arrivata, e che forse sarà il caso di tornare più a lungo.

Senza molto pensarci avevo comprato un posto sull’aereo del venerdì mattina prestissimo per Tel Aviv e – sempre senza molto pensarci – ci sono salita.

Prima ancora di rendermene conto ero in Israele, fra le palme e quella pioggia un po’ tropicale che fa qui d’inverno.

Sul taxi collettivo che mi portava a Gerusalemme la consueta esotica fauna che ti fa venir voglia di tornare subito in Europa, ma oramai sono qui e un po’ ci rimango, soprattutto per andare alla mia yeshiva, scuola rabbinica, finalmente “dal vivo” per qualche settimana.

Attraversando uno dei quartieri haredim di Gerusalemme, Geulla, quello – per intenderci – in cui è ambientato Shtisel, vedo ragazzi e bambini che corrono con dei rami di mirto in mano e mi do anche io, come Rabbi Shimon, un po’ di pace.


Miriam Camerini

19 dicembre 2021

La vasca da bagno del Dottor Zhivago

Di nuovo in treno, questa volta di lusso vero. Da Firenze a Vienna ho preso un vagone letto singolo (col Covid costano meno) e di quelli belli, con la doccia “in camera”.

Per la prima volta, dopo la Transiberiana in cui dovevi infilare un dito dentro al rubinetto per far uscire l’acqua (col risultato che è impossibile – per esempio – lavarsi le due mani contemporaneamente), dopo il mitico notturno Khiva – Tashkent con l’uomo che tagliava l’anguria e ne distribuiva fette a tutti i passeggeri dello scompartimento aperto, ai miei amici del notturno Vienna – Milano con cui ancora mi scrivo, di viaggi notturni in treno ne ho fatti tanti e belli, anche quello – da favola – fra Berlino e Malmö, col treno sul traghetto in mezzo alla notte sotto la luna piena.

Questa però è la prima volta in cui posso farmi la doccia e sentire contemporaneamente le rotaie sotto i piedi nudi.

A proposito di piedi: ho con me, e leggo illuminata dalla lucina vicino al letto appeso in cima, un libretto di Hermann Hesse che mi ha appena regalato mia zia Mara per Hannuka: si chiama Camminare e la copertina è una bella carta geografica della Svizzera: “Basterebbe questa” ha scritto mia zia come dedica, “...Hesse ci perdonerà”. Dice un sacco di cose che condivido, sull’immaginare la propria vita in ogni casa che si incontra, che si vede illuminata da fuori, pensare a come sarebbe la propria vita in qualsiasi - o quasi - città si visiti.

L’indomani mi sveglio sotto la neve della campagna austriaca, col treno in ritardo di un paio d’ore, il che mi dà il tempo di una seconda doccia oltre che di fare una tale colazione - guardando dal finestrino la campagna innevata - che nemmeno il Dottor Zhivago nei suoi giorni più fortunati.

A Vienna ho giusto il tempo di cercare il mio libro Ricette e Precetti, anzi Rezepte und Gebote - appena tradotto e pubblicato in tedesco – nelle due librerie della stazione centrale: il lock-down rende però impossibile l’acquisto immediato, le librerie funzionano solo su ordinazione: me lo farò mandare.

Riparto per Budapest, sempre con Hesse, sempre sotto la neve. Mangio zuppa e bevo the: oramai sono entrata nel personaggio. A Budapest mi aspetta in stazione la mia amica ungherese con la quale - assieme ad altri - da mesi lavoro al progetto che finalmente per la prima volta domenica vedrà la luce: Talmud on Stage, ossia insegnare il Talmud, testo rabbinico complesso e ostico ai più, tramite esercizi e giochi del teatro di improvvisazione.

Stage / Page fright lo abbiamo chiamato, cioè un modo di superare la paura della pagina tramite la paura da palcoscenico, come dire che un problema ne risolve un altro!

Un dolore al collo che mi è iniziato con qualche passeggiata di troppo al gelo sopra il Monastero di Camaldoli la scorsa settimana mi infastidisce ancora, ma la mia amica Borcsa mi trova un appuntamento immediato con una sua angelica insegnante di yoga e massaggiatrice, la quale mi rimette al mondo in tre quarti d’ora. Emergo dalla luce gentile e soffusa e dagli aromi essenziali del suo studio con tutti i sensi all’erta, in comunione con la natura e il mio respiro.

Uno dei miei più cari e vecchi amici, musicista e compagno di scena da quando eravamo ragazzi vive ora qui e questo è il nostro primo giorno a Budapest assieme dal suo recente trasferimento: l’emozione di fare merenda in un localino natalizio con the e palachinke è stata grande, essere portata da lui in auto al mio massaggio mi ha fatta sentire ancora una volta accudita nei bisogni piccoli e importanti della vita.

La sera ceno da sola, studio per l’indomani e vado a letto serena: la camera è bella e ha una vasca da bagno in mezzo alla stanza, proprio come a casa mia.

Venerdì lavoriamo in teatro tutta la mattina per preparare il workshop di domenica. Siamo io, Borcsa e un ottimo attore, insegnante di improvvisazione teatrale e direttore del teatro che ci ospita.

Poi ci prepariamo a Shabbat, comprando vino kasher, aringhe, salmone affumicato e challot, i pani intrecciati del Sabato, in uno dei tanti negozi kasher del quartiere ebraico di Budapest: vado a portare queste cose nella sala-concerti, negozio di antiquariato e caffè dove ceneremo questa sera per non doverlo fare durante lo Shabbat, cioè quando è proibito trasportare oggetti da una proprietà a un’altra.

Corro a casa, faccio il bagno, spengo il telefono, accendo le candele, respiro. Ahhhh. E’ Shabbat, fate spazio al tempo!

Non si può portare (né, ovviamente, usare) il telefono, quindi imparo a memoria la mappa cartacea che trovo nella lobby di un hotel, la lascio lì dov’è e inizio a camminare. In meno di mezz’ora sono al Szerpentin, il locale/negozio di anticaglie varie dove ho appuntamento con Manuel: mi invita a bere una cioccolata calda con zenzero e cannella in un caffè meraviglioso che si chiama proprio Dottor Zhivago, appunto. Gli racconto che non so più dove voglio vivere, che ogni luogo mi sembra un po’ casa e nessuno del tutto. Con lui, qui ora all’entrata dello Shabbat in questo pezzetto di Russia iper-riscaldato con le stufe e i samovar, qui ora nel suo ascolto mi sento a casa quanto non mai.

Vado poi in sinagoga, accolgo lo Shabbat con salmi e preghiere di cui sento un estremo bisogno in questo momento: devo digerire l’enormità e la quantità delle emozioni di questi giorni, farmi dentro un po’ di spazio per i prossimi.

La sera conduco una piccola cena di Shabbat per una quindicina di amiche e amici di amici, assieme a Manuel, nel piccolo negozio-caffè e dopo un concerto di musica classica.

Mangiamo il pesce e beviamo il vino, parliamo e cantiamo.

Cammino fino a casa con uno degli ospiti alla cena, un ungherese che parla un perfetto italiano, non ebreo ed estremamente dotto in ebraismo, tanto sensibile da offrirsi per aprire il portone del mio albergo, che necessita di una chiave elettrica. Gli do la buona notte e salgo felice le scale che girano attorno all’ampio cortile.

Sabato cammino - velocemente e sempre a memoria - verso un’altra sinagoga: la porzione di Torah che si legge oggi è quella in cui Giuseppe finalmente si svela ai suoi fratelli nella commozione e nella paura. Lacrime e gioia sono mescolate che di più non si può, angoscia e rimorso, sorpresa e sollievo: questa è forse la più incredibilmente bella delle parashot (porzioni settimanali di Torah) dell’anno, senza dubbio fra le mie preferite.

Un verso colpisce la mia attenzione questa volta, un particolare a cui non avevo mai posto mente in Genesi 45,15: i fratelli si riconoscono e dopo essersi abbracciati e baciati parlano: l’inizio della vicenda sta nell’odio che i fratelli portano all’arrogante e superbo Giuseppe, tanto che – dice il testo – “non potevano parlargli in pace” (Genesi 37,4): un commento medievale dice che non parlavano affatto, perché sapevano che quando non è possibile parlarsi in pace è preferibile non parlare del tutto, per non mentire.

Le peregrinazioni di Giuseppe, uscito di “casa” una mattina per andare in cerca dei suoi fratelli, per tentare di essere come loro, proprio lui che è così diverso, così sognatore, finiscono quel giorno in Egitto, con Giuda che gli parla nell’orecchio costringendolo finalmente a piangere come tutti gli altri, a esprimere un dolore troppo a lungo soffocato e rimosso. Giuseppe trova i suoi fratelli quando impara a soffrire, gridare, commuoversi e lamentarsi come loro, all’occorrenza, ossia quando la vita lo richiede. Sono felice di aver raccontato davvero ieri sera a Manuel come mi sento, spaesata e confusa, stanca e preoccupata di star sprecando tempo ed energie: è vero in parte, come sempre, ma ieri ci voleva e oggi sto già meglio.

Dopo la funzione siedo in sinagoga a mangiare kugel e bere whiskey con un rabbino americano e due studiosi, i direttori di due università ebraiche locali, un uomo e una donna: parliamo di Giuseppe come se fosse un nostro conoscente e lo studio della Torah è così vicino a tutti noi che non serve altra lingua in comune.

Il pranzo è allegro e intimo, il tempo dello Shabbat ha una consistenza tutta sua, scorre più morbido, senza alcuna altra preoccupazione che il qui e ora, è un tempo che sa di eternità e infatti parliamo anche del seminario che ho tenuto a Camaldoli, sul tempo della redenzione e il Messia nei testi rabbinici. Alla fine di questo “sessantesimo di era messianica”, come il Sabato è definito nel Talmud, celebriamo la havdalà, o separazione fra il tempo sacro e quello della settimana e subito si ricomincia a creare e a distruggere, si riaccendono i telefoni ed ecco ci sono di nuovo testi da consegnare e articoli da mandare in stampa, telefonate a cui rispondere e mail da scrivere, concerti da organizzare e così via. Torno a casa, il mio amico Yuval è appena arrivato da Vienna per insegnare assieme a me, domani, una delle più complesse e suggestive storie di tutto il Talmud babilonese: fino a tarda notte parliamo in camera mia, sono almeno due anni che non ci vediamo ma è come se ci fossimo lasciati ieri. Prepariamo il testo per domani e andiamo a dormire; domenica è il grande giorno: il Talmud sale sul palco.

Le gambe e le voci, gli occhi e le orecchie, tutto è già all’erta, lasciamo solo che il cervello riposi qualche ora e fidiamoci: andrà tutto bene.


Miriam Camerini

12 dicembre 2021


Afona ai Colloqui


Giovedì 2 Dicembre

Ci sono momenti in cui tutti ti sorridono, regalano cose, sono gentili.

A me hanno appena regalato del gelato al fiordilatte da mettere nella cioccolata calda fondente perché avevo chiesto la panna montata ma l’avevano finita. Seduta davanti a me una famiglia che pare uscita da un film di Verdone discute degli svantaggi dell’euro: la ragazza che fa l’apologia della lira è più giovane di me e – facendo un rapido calcolo – non poteva avere più di 16 anni quando la sua amata moneta è uscita di corso… Mi domando che quantità di lire maneggiasse al liceo per parlarne con tanto rimpianto: faceva la baby-sitter tutti i sabati sera, come me? Io non ricordo le ultime lire, francamente, ma ho un bellissimo ricordo dei primi euro: mia zia Mara ci comprò per sé e per me due biglietti al Berliner Ensemble, il teatro di Bertolt Brecht, e ci vedemmo La resistibile ascesa di Arturo Ui, parodia di Hitler del Bertoldo nostro amatissimo di entrambe. 

Era il Capodanno del 2002 e io scoprivo Berlino con mia zia: stare assieme a lei a un veglione in cui giravano anche delle canne mi era parso atto di grande trasgressione. 

Riapro gli occhi, scompaiono Mitte e il Theater am Schiffbauerdamm e sono invece sempre nella gelateria-caffè di Bibbiena, nel Casentino, sotto il monastero di Camaldoli: sto aspettando che Matteo il monaco mi venga a prendere per percorrere in auto l’ultimo tratto del viaggio che ho iniziato – in treno – questa mattina a Bari: sono in viaggio da quasi 12 ore, ridi e scherza.

 

Domenica 5 Dicembre

Io ora ho solo voglia di stare seduta qui, ferma davanti agli otto lumi che arderanno ancora poco più di mezz’ora nella notte stellata fuori dalla mia finestra sopra il fiume, e godermi l’ultima sera di Hannuka. Non voglio fare altro che fissarle, le otto candele colorate che ho fissato con la loro cera ai piccoli supporti, uno diverso dall’altro e tutti incastrabili a formare un puzzle, la mia super trendy Hanukia da viaggio scolpita nel gesso da un collettivo di giovani artisti ungheresi, regalatami dalla mia amica Borcsa un Hanuka di qualche anno fa, quando ero a Budapest a parlare di come il teatro è normato e considerato nel Talmud e in altre fonti rabbiniche dei primi secoli dopo Cristo. 

Il rapporto con la festa di Hannuka, in cui si celebra la sopravvivenza della cultura ebraica e della sua forte identità monoteista e non-idolatrica sulle culture ellenistiche “del vedere”, è chiaro: il teatro è spettacolo per eccellenza, è scelta di un senso sopra tutti gli altri. È  però buffo allora che di questi lumi non possiamo fare altro, ora, che “guardarli”, così dice anche la breve formula che recitiamo subito dopo averli accesi: contentiamoci di guardarli, non usiamoli in alcun modo, stiamo solo qui con loro, e tanto basti.

Sono state otto sere in luoghi diversi, queste per me: la prima sera, domenica scorsa, avevo appena lasciato Milano; per la prima volta nella vita ho acceso un lume di Hannuka nel vagone letto di un treno, stavo viaggiando verso Lecce, fortunatamente da sola, nella mia carrozza-letto. Il fatto che l’allarme anti-incendio non abbia suonato potrebbe essere un ulteriore miracolo, in aggiunta ai due che già la festa celebra, quello dei pochi che vincono sui molti e quello del poco olio che brucia per otto giorni.

La seconda sera ero nella camera di un albergo a Lecce, di ritorno da un bell’incontro in una biblioteca con un imam, un prete  e il direttore di un teatro, tanto per stare in tema, e ho registrato, alla luce delle due candele, una video lezione su Giuseppe che interpreta i sogni dei suoi compagni di prigionia in Egitto, il capo coppiere e il capo panettiere, nel libro della Genesi. 

La terza sera ero a Bari, appena giunta nella parrocchia che mi ospitava, e così ho accesi i miei tre lumi in un seminario di preti, mangiando una pasta che mi ero preparata lì per lì mentre studiavo per la conferenza dell’indomani, all’Università, sul pane nell’ebraismo: anche qui partecipavo a un incontro interreligioso, con un prete e un imam, in cui ognuno avrebbe detto la sua. 

Giuseppe, che un po’ fa da guida a questi miei pensieri, è colui il quale imprigiona il grano nei silos, permettendo certo all’intera regione di sopravvivere alla carestia, ma anche rendendo tutti schiavi: alla libertà si tornerà solo contando il proprio tempo, non facendo lievitare il pane, non facendone avanzare, raccogliendo la manna, dono gratuito del cielo di cui non si può far moneta: non lo si può avanzare per scambiarlo e commerciarlo, se lo si fa imputridisce. Il fermento, il lievito è ciò che permette alla divinità, che è una, di creare un mondo molteplice, abbondante, plurale: per far ciò ha bisogno dei primi due umani, creati diversi, cui ordina subito di far frutto e diventare molti, e del lievito che è lo spirito di vita, il serpente che seduce la donna, più propensa alla sovversione, alla fantasia, all’inventare dei trucchi. 

Mi viene fatto notare dal sornione Don Angelo, che mi ha invitata qui e ora assiste divertito al mio estrarre dalla borsa taccuini e fogli su cui ho appuntato idee in ordine assai sparso, come anche in questo si veda il mio essere donna, fantasiosa, libera e intrinsecamente creatrice, oltre che artista. E’ questo il III appuntamento cui partecipo da quando sono in Puglia (e l’ultimo “di gruppo”: quello di stasera è unicamente mio) e in tutti sono stata l’unica donna fra preti, imam, direttori di teatri e musei, professori.. Oltre che la più giovane. Il fatto che l’ebraismo sia - finalmente e prima di altri - rappresentato da una donna mi riempie di gioia e di responsabilità che accolgo, cercando di farne il meglio che so.

La IV sera accendo in una chiesa, senza che nemmeno mi venga in mente di chiedermi se si può o no: per l’anno prossimo controllerò, questa sera mi è venuto di getto. La serata è bella: parliamo delle feste ebraiche di Hannuka, Shabat, Purim e Pesach, ancora una volta di contare il tempo e farsi custodi delle proprie ore come via verso la libertà. Parliamo di fare il pane per scandire il tempo.

Così finiscono i miei pochi e bei giorni pugliesi, ricchi di incontri meravigliosi fra cui quello con un ebraista toscano, Furio Biagini, il cui libro su Torah e anarchia - trovato per caso un pomeriggio di venerdì, poco prima dello Shabbat, fuori da una libreria a Otranto, in una cesta di offerte - mi ha fatto da guida nel preparare Messia e Rivoluzione, il mio spettacolo sul Bund, il primo partito socialista ebraico dell’Est Europa. Furio, che a Lecce lavora e vive con la bella moglie e il simpatico figlio, mi invita a pranzo, mangiamo bottarga e giochiamo a far girare la trottola, tipico gioco di Hannuka, che Elia non chiama sevivon in ebraico moderno, bensì dreydel, in yiddish, piccolo ebreo della diaspora quale è cresciuto.

Al termine del lunghissimo viaggio in treno da Bari ad Arezzo, percorsa fino a Bologna tutta la costa adriatica con i suoi trabucchi e le sue spiagge deserte e piovose, a Bibbiena faccio merenda e aspetto. E lì torniamo all’inizio.

I giorni seguenti saranno quelli di Camaldoli, con i loro Colloqui ebraico-cristiani, ai quali, giustamente, dopo tante avventure, piogge e freddi, conferenze e conversazioni, mi trovo completamente afona, che per dialogare non è male. Forse allora è venuto il tempo dell’ascoltare, oltre che del guardare.


Miriam Camerini

5 dicembre 2021


In equilibrio tra dentro e fuori



Eccomi già di nuovo sul treno, senso contrario e Gottardo chiuso, tra l’altro: mannaggia a lui.

La settimana zurighese è stata bellissima e benefica: con il mio nipote più piccolo, intonazione perfetta e molto groove, ho suonato flauti e xilofoni, tamburi, tamburelli e chitarre a più non posso. Oltre a guardare lo spezzone video di “Chi del gitaaano i gioooorni abbella” dal Trovatore (“Verdi? Ma se qui è tutto arancione!” ha commentato mio nipote più grande, essendo la scena del falò in quella produzione effettivamente alquanto rossiccia), ho mostrato ai gemelli anche la scena che adoro da Il Fantasma della libertà, film di Bunuel del 1974, in cui due borghesissime famiglie parigine si trovano in salotto per fare in compagnia i loro bisogni mentre fumano sigarette e commentano un recente Tristano e Isotta dell’Opéra, ma mettono bruscamente a tacere la ragazzina che chiede ad alta voce di mangiare: (“Psss.. non si dice in pubblico!”). Non è mai troppo presto per iniziare a non dare troppo per scontate le convenzioni sociali. Capiscono esattamente che cosa intendo, mi pare.

Usciamo anche nella Zurigo tardo-autunnale e pre-natalizia a mangiare le caldarroste, una nostra tradizione, oramai, sempre a proposito di convenzioni.

In tutto questo ho anche lavorato bene, per un’associazione culturale ungherese e per alcuni giornali, per una università tedesca, per la mia scuola di Gerusalemme e per un altro progetto legato anch’esso alla Mitteleuropa, al Talmud e al Teatro.

Con i gemelli abbiamo anche costruito un paio di burattini, una cosa che vorrei fare sempre e non faccio mai abbastanza, con rotoli di carta da cucina, vecchi giornali e vestiti smessi. Roboerto e Signora Mandala si chiamano, ma prendono anche altri nomi via via che procediamo e ancora una volta finiti e costruiti. La bellezza di fare qualche cosa con le mani, così come di ballare, suonare e cantare... Fare la zia è meraviglioso, ma ne avrei bisogno molto molto più spesso.

Difficile uscire da questa realtà fatata e tornare nel mondo, ora.

Questa settimana finalmente torno a cantare in Caffe Odessa, uno dei miei più antichi progetti musical-teatrali, fermo da due anni, con amici carissimi e bravi. Voglio cercare di portare con me nel lavoro molta di questa atmosfera serena e fattiva, creativa nel senso più vero del termine.

Domenica sera inizia Hannuka, la festa ebraica delle luci, così come del rapporto complesso e mai scontato fra il “dentro” e il “fuori”: una ricorrenza che narra, ricorda e celebra la vittoria del “poco” sul “molto”, così come del “puro” sul “contaminato”: poco olio puro che bastò a illuminare il santuario di Gerusalemme per una settimana e un giorno, il tempo sufficiente a produrne di nuovo, e pochi valorosi (e fanatici?) fratelli “duri e puri” che scelsero di resistere alla conquista materiale e culturale ellenistica dei Seleucidi di Antioco su Gerusalemme, la quale doveva invece restare puramente e solamente “ebraica”. Rimossa la statua di Zeus e ogni altra immagine, il Tempio fu riconsacrato e questo è il significato della parola che dà nome agli otto giorni di festa, Hannuka ... inaugurazione.

Ma quanto è vera questa necessità di purezza? Che significa per noi?

Per otto sere accendiamo candele o lumi a olio, ogni sera uno in più fino a contarne otto, per aumentare la luce proprio nei giorni più bui e nelle notti più lunghe dell’anno, ma questa luce deve brillare all’esterno, motivo per cui è uso e obbligo metterla accanto a una finestra o comunque rivolta all’esterno.

Si parla di miracoli, li si canta e li si racconta, li si gioca con le trottole di origine est-europea e forse medievale tipici della festa.

I miei nipoti oggi pomeriggio già cantavano e ballavano mimando una trottola con le mani in testa.

Giorni di luce, che brilla da dentro ma che per aver valore deve essere visibile fuori, illuminare il mondo.


Miriam Camerini

28 novembre 2021


Del non aver tempo, del non aver luogo, dell’averne molti?


Le ultime due settimane sono state una corsa continua.

Ho accolto il fatto che Milano non è più - almeno per il momento - il mio luogo di residenza fisso, come è stato negli anni passati, e che da esso non viaggio più, come facevo invece fino all’inizio della pandemia, verso le destinazioni del mio lavoro e di tutto il resto per poi tornare “a casa”, starci il tempo necessario per una doccia, una lavatrice, un cambio valigia e ripartire.

Sto - piuttosto - tentando di dar voce e forma e un sistema a ciò che sento oramai da mesi e forse anni (tra poco due) e cioè che forse non ho voglia – in questo momento – di un posto da chiamare “casa”, ma che ovunque io vada quella è la mia casa e non c’è bisogno - non lo sento - di ripassare ogni volta per la città in cui sono cresciuta, fra un viaggio e l’altro.

Correggo: forse non è vero che “non ho voglia di un posto da chiamare casa”: ne ho moltissima, ma non l’ho trovato ancora.

Dentro di me al momento quell’immagine non c’è, credo, e questo rende difficile trovarla fuori. E allora intanto vado avanti così, e cerco di fare il massimo che posso con quel che invece sì ho.

Molti buoni amici e amiche, per esempio. Amiche che mi accolgono in qualsiasi momento io passi per la città, con bambini da accudire e case da rifare, con lavori da chiudere o fidanzati e mariti da frequentare trovano il tempo, anzi: lo cercano per stare con me, ridere, nutrirmi e ascoltarmi, raccontarmi gli ultimi mesi e le loro novità. Amici indaffarati, con vite complicate e lavori impegnativi che mi accolgono in un frammento della loro vita quandunque, per quanto e ovunque io mi manifesti.

In queste due settimane a Milano ho trascorso - come sempre oramai - moltissimo tempo online, seguendo le lezioni della mia scuola rabbinica da Gerusalemme, partecipando a convegni e riunioni, registrando video e scrivendo articoli. L’ho fatto spesso dai tavolini di un caffè o di un altro, quasi sempre vicino a casa, sul Naviglio grande, soprattutto nei bei giorni di sole che ci sono stati. A volte invece dal mio divano-letto, l’unico angolo di casa che sono riuscita a sentire mio e non minaccioso, nel quale ho dormito e dal quale ho lavorato: una vera cuccia, un piccolo angolo di pace nel caos di una casa non abitata. Ho studiato qualche volta con mio padre, andando in bici e in tram a casa dei miei genitori, altro luogo di quiete. 

Finite queste due settimane di corse e insonnie sono salita sul placido treno che attraversa il Gottardo e Zurigo mi ha accolta, come sempre fa, riempiendomi di ossigeno.

Il pensiero di vedere i miei nipoti e la loro madre, mia sorella, mi aveva confortata dall’ansia dei frenetici giorni milanesi ed ora ecco Zurigo: già un po’ natalizia, con le lucine sulla Bahnhofstrasse, ma anche ancora un po’ autunnale, con le ultime foglie gialle e arancioni… una meraviglia.

Casa di mia sorella ha profumo di bambini e di giochi, di vita famigliare e pace domestica, rumore e frenesia, certo, ma anche routine, ore dei pasti, spese, pannolini, storie, bagnetti e pianti notturni.

Una casa.

Entro da sola, loro sono tutti ancora fuori, e sul tavolo del soggiorno c’è una cosa che non c’era mai stata prima, in alcune delle mie visite, e che mi riempie di meraviglia: quaderni e libri di scuola aperti, astucci e matite. 

Certo! 

Che emozione: hanno iniziato la scuola dall’ultima volta che li ho visti, i gemelli sono ora in prima elementare. Tornano a casa, abbiamo pochi minuti per le prime coccole e frettolosi racconti perché io ho già una lezione da dare online: da Zurigo parlo agli americani, per degli ungheresi, di ebrei italiani. Perfetto.

L’indomani i miei nipoti vanno a scuola e io lavoro e poi passeggio con mia sorella, al pomeriggio li vado a prendere, facciamo un picnic improvvisato sulle sedie che qualcuno ha lasciato in mezzo alla strada per buttarle via e poi camminiamo nel parco bevendo cioccolata calda: che felicità!

Finalmente entra Shabbat, il tempo per stare tutti assieme sul divano, accoccolati e accartocciati, leggere qualche cosa, cantare i Salmi che accolgono il Sabato, giocare e cenare con calma.

Respiro.

Dormo.

L’indomani i gemelli si infilano – appena svegli – nel mio letto: li ho invitati io a farlo, dicendo: “A qualsiasi ora ... Hem, nel senso di dopo le 8, giusto?”.

Mio cognato ha riso.

Quando entrano non guardo l’ora, li abbraccio e infilo sotto al piumone e lì mi ricordo di una frase che ho appena letto nel mio bel libro sul Talmud: “Quando il nostro amore era forte potevamo dormire assieme anche sulla punta di una spada” (TB, Sanhedrin 7a).

Credo che noi ci amiamo molto: costruiamo burattini con avanzi di carta e stoffa, cuciamo loro capelli e antenne, leggiamo e guardiamo Il Trovatore su Youtube, spesso mi fanno compagnia durante le lezioni della yeshiva su Zoom: ora che sanno leggere, leggono anche in ebraico con facilità che mi sconcerta e rallegra.

Tutta la settimana - ogni mattina - dormiamo per un po’ assieme abbracciati, noi tre, mia nipote, suo fratello e io e ogni volta io dico: “Perché noi ci amiamo così tanto che possiamo dormire anche...” e loro: “Su una punta di spada!”.

Vorrei che questa settimana non finisse mai.


Miriam Camerini

21 novembre 2021


Il divano


Giovedì mattina ero al mare, ancora.

Dopo un giorno di pioggia - passato a Genova lavorando con gli amici del Centro Primo Levi e vedendo poi un bellissimo, nuovo Faust alla Tosse, scritto e diretto - che coincidenza - dal fratello di una persona che ho conosciuto poche settimane fa a New York, una sera a cena – mi sono svegliata e splendeva un sole meraviglioso.

L’aria era tersa e pulita, gli spruzzi di mare giungevano fino alle finestre di casa. Sull’agenda avevo cinque appuntamenti a Milano per il pomeriggio e la sera, un treno prenotato in tarda mattina: Levanto-Milano. 

Mi sono domandata, facendo colazione, che senso ha tutto questo, come si fa a decidere dove stare, quando pare che tutto valga uguale. Sono stata tentata di cancellare il treno e restare al mare, godere il sole e il vento. Ho iniziato a pensare a come spostare tutti quei 5 appuntamenti nel mondo virtuale in cui puoi essere ovunque, basta ci sia wifi. La banca: ok, quello è facile, c’è l’home-banking, anche se ho già qui parlato di come il mio gentile signor E. della banca non sia sostituibile con un clic, mai. Lo psicoterapeuta: quello riceve anche su Zoom, certo, lo faceva anche prima della pandemia, lo fa certo da un anno e mezzo a questa parte... Forse non vale uguale, ma dopo tanti anni di lavoro in studio, quasi quasi... 

Il prossimo impegno in agenda è una nuova persona da incontrare per un lavoro che forse poi nascerà: un amico e collaboratore comune ci vuol far incontrare, ma molto altro non so. Si può fare su zoom. E via così... 

Sto quasi per restare al mare quando il mio monologo interiore ha una inaspettata chiusura “all’antica”: “Gli impegni sono impegni”, mi dice nell’orecchio la voce di mia madre; “Hai detto che vai e ora vai”. Chiudo casa e salgo la salita per la stazione.

A Milano, dopo settimane e mesi ... Ricominciare a correre è riflesso automatico: appena scendi dal treno a Milano inizi a correre, e allora banca, psycho, e il nuovo incontro: l’amico comune che ci ha messi a contatto mi ha fatto una sorpresa ed è venuto da Vicenza per essere presente oggi: mentre entro in ufficio e lo abbraccio forte il contatto dei corpi mi spiega la differenza tra essere lì e non esserci, e non ho più dubbi. Meno male che sono venuta. 

Proseguo per cena dai miei (fuori programma, ma bene così: se non puoi presentarti a sorpresa a cena dai tuoi dove lo puoi fare?) e poi ancora il mio baretto teatrino club di quartiere: il vino c’è, la musica è bella, gli abbracci lì sono accompagnati da grandi chiacchiere e racconti fino a notte. 

Certo che qua ci devi venire con i tuoi piedi, non c’è domanda. 

A letto la notte non riesco a dormire, un mio grande classico: dormo bene in treno, in barca, in qualsiasi stanza d’albergo, sul divano degli amici... ovunque tranne che a casa mia; nel mio letto sto sveglia, penso. 

L’indomani mi chiama il festival di Modena che mi aveva invitata a Carpi per parlare di ebrei e migrazione ... Ho impiegato un po’ a capire per quale ragione volessero una voce ebraica, e per di più la mia: la famiglia di mio padre è da quelle parti (Modena, Reggio Emilia, Cento, Parma e così via) da secoli, il mio bisnonno Donato è stato Rabbino di Cento e di Parma: di che migrazione stiamo parlando? 

Fossoli è assai vicino, due figlie e due nipotini del Rabbino Donato hanno fatto la stessa triste fine di tutti gli altri che per quel campo sono passati, la sinagoga di Carpi è chiusa dal 1922, quella di Modena ancora attiva grazie all’instancabile lavoro di un rabbino originariamente triestino e della sua moglie israeliana, gli ebrei sono da quelle parti da più di un migliaio d’anni, anzi: fino ad alcuni decenni fa erano decisamente più numerosi di oggi. 

Oggi forse non si sa molto delle loro prassi e norme, perché il festival mi ha invitata a parlare... il venerdì alle 15.30, cioè un’ora prima dell’ingresso dello Shabbat, giorno di festa in cui non posso parlare in un microfono, essere ripresa e trasmessa, viaggiare e tante altre cose. 

Ho spiegato subito che sarei intervenuta volentieri, ma che - non essendo per loro più possibile spostare l’appuntamento a giorno e ora più comodi – dove sarò all’entrata del Sabato venerdì pomeriggio lì resterò fino al buio del sabato pomeriggio. 

Inizialmente hanno proposto, anche loro, un intervento via Zoom per ovviare ai problemi logistici, ma io ho insistito per andare di persona, essere lì, conoscerci e l’anno prossimo eventualmente programmare meglio. Venerdì mattina ricevo la conferma finale (qualche ora prima del mio intervento) che il mio viaggio è pronto: faccio una piccola valigia e parto. 

Il festival/convegno è molto bello, conosco persone dalle storie interessantissime, una donna meravigliosa che è stata per 30 anni delegata dell’alto Commissariato delle Nazioni unite per i Rifugiati cena con me e parliamo dell’essere umani, che detto da una persona che ha visto più o meno tutto il male esistente sulla superficie terrestre e le sue longeve (così le chiama lei) conseguenze, fa una certa impressione; dà anche un po’ di speranza. La mia nuova amica dell’UNHCR mi suggerisce di crearmi in casa una nicchia in cui sentirmi al sicuro: lei che ha vissuto nei posti più pericolosi della Terra non disdegna il mio piccolo sciocco problema di insonnia, anzi: lo prende sul serio e cerca una soluzione. Alessandra parla dopo cena, a una platea che la segue assorta, di Afghanistan e in sala siedono quattro giovani afghani, due ragazzi e due ragazze, appena scappati dai talebani e accolti dalla città di Carpi. Sorridono, parlano inglese, stanno fra noi.

Mentre torno in albergo, accompagnata da tutto quel che ho visto e sentito, lo spirito è quanto mai “sabbatico” e ringrazio me stessa di aver insistito per esserci di persona, trascorrere qui questo shabbat. In hotel dormo benissimo. 

L’indomani visito il bel piccolo museo che Carpi ha dedicato alla II guerra mondiale, leggo parole di quelle che ti entrano sotto la pelle scritte dagli eroi resistenti di tutta Europa – moltissime le donne – e leggo i nomi delle deportate e dei deportati che riempiono un’enorme stanza del castello in cui il museo è alloggiato. 

Alla fine dello Shabbat, quando fa buio, posso tornare a Milano, dove mi aspetta la cena di compleanno del mio 92enne prozio, lui adolescente scampato alla deportazione, nascosto in un seminario, da poco diventato nonno la quinta volta. 

Il tram dalla stazione al ristorante è bloccato dalla manifestazione dei no vax travestiti da deportati, la città è inferocita, io trascino la mia valigia e corro a piedi alla mia cena. 

Fermo un signore di mezza età con cane, cappello e impermeabile coordinati per chiedere indicazioni sulla strada: mi risponde spiegandomi realmente da che parte andare, invece che mostrarmi una mappa sul cellulare come oramai purtroppo fa la maggior parte delle persone. Quando lo ringrazio e saluto fa una cosa che ho visto fare solo a mio padre e pochi ultimi gentiluomini: si tocca il cappello in segno di saluto. 

Ci sono i no vax, penso andando a cena, ma ci sono anche i signori col cane che si tolgono il cappello per salutare. 

Per la gioia compro sette rose rosse che il mio festeggiato prozio offre subito galantemente alla sua compagna di vita.

La sera torno a casa e seguo il consiglio di Alessandra: mi faccio il letto sul divano. Magari lì, fingendo sia il divano letto di qualcun altro, riesco a dormire.


Miriam Camerini

7 novembre 2021


Il sigaro, il Talmud e i gabbiani


Sono in riva al mare. Il mio mare, quello di sempre: Levanto, ossia la mia infanzia e anche quella della mia nonna, di mia madre e di mia zia e di mia sorella… Potrei proseguire, ma avete capito l’idea. Mia nonna ha iniziato a venire qui con la sua famiglia a 6 anni, nel 1928, e gli unici anni di interruzione sono stati – per forza – quelli della guerra e della provvidenziale fuga in Svizzera.

Ho appena finito le quotidiane sette ore di studio (online) con la mia scuola rabbinica a Gerusalemme: ordino un caffè d’orzo (l’insonnia non mi dà tregua nemmeno al mare), e accendo un sigaro, questo almeno vero.

Dopo ben sette settimane, 49 giorni complicatissimi di viaggi e documenti, Canada, Stati Uniti, Israele, tamponi e spostamenti, quarantene e imprevisti di ogni genere, due settimane a casa con il nostro amato virus, lavoro da rincorrere e amici che a volte ci sono e altre no, sono a “casa”, una delle mie case, almeno: forse quella in cui mi sento più al sicuro in assoluto, dove so che nulla di male può davvero succedere.

Questo periodo autunnale è iniziato l’indomani di Rosh-Hashana, il Capodanno ebraico 5782, a Mantova, ed è terminato una settimana fa a Sabbioneta, pochi chilometri più in là.

Nel mezzo ho attraversato l’Atlantico in due direzioni, toccato il Mediterraneo, sofferto per amore e incertezza, solitudine e paura, sentito nostalgia di cose che forse non ho mai vissuto, perso molte speranze in un certo futuro, perso il gusto e l’olfatto, recuperati questi ultimi due, mentre invece sul futuro sono ancora in dubbio.

Forse devo rassegnarmi a non immaginarne uno, quantomeno non come se lo immagina la maggior parte delle persone che conosco: una casa, un compagno o una compagna di vita, dei figli, due gatti, un cane.

Dopo aver fatto tutto ‘sto casino, sono sempre qui, da sola. A Levanto. A guardare il mare.

In una delle notti canadesi in cui ero più triste e angosciata in assoluto, con la pioggia fuori che batteva sulle finestre e io dentro al letto a sentire il cuore che mi batteva come volesse uscire dalla pelle, un’amica cara e sensibile mi ha scritto: “... Cerca delle minuscole cose che ti fanno stare bene e aggrappati a quelle, una chiamata, un libro, una mostra... Anche se ti sembra che non abbiano senso, immagina che ci sia una Miriam persa irrazionale e un’altra che le sta solo ricordando tutte le cose belle che ha, e quante ne ha! Ti voglio bene...”.

A ripensarci ora è tutto vero: di libri ne ho ordinati poi due, che volevo da tempo, ma che in Italia non si trovano: cerco sempre di comprare i miei libri nelle librerie o comunque “dal vivo”, ma a un certo punto mi sono ricordata che dei giovani gentili e corretti per i quali tempo fa avevo fatto un lavoro, non avendo modo di pagarmi per ragioni fiscali, mi avevano invece “regalato” un buono, che ho così usato per comprare online i libri che volevo. Uno dei due si chiama If all the seas were ink (Se tutti i mari fossero inchiostro, citazione da un poema aramaico dell’XI secolo variamente riportato nel Talmud babilonese e nella letteratura rabbinica in genere) ed è il memoir - pubblicato nel 2017 - di una giovane donna ebrea americana, Ilana Kurshan, sola a Gerusalemme a seguito del fallimento di un breve matrimonio, per fiducia nel quale ha abbandonato New York e il suo lavoro di agente letteraria seguendo il marito nella “Terra promessa”. Ilana si unisce “per caso” a quello che lei stessa definisce “il più grande book-club del mondo”: quello del daf yomi, ossia – in ebraico – “pagina quotidiana”, un “circolo di lettura” iniziato in una yeshiva (scuola talmudica) di Lublino, in Polonia, nel 1923 (quando mia nonna aveva un anno, a pensarci) e mai interrotto (mi ripropongo di controllare anche in questo caso che cosa sia successo durante la guerra mondiale). In sette anni e mezzo, ossia 2.738 giorni, studiando una pagina al giorno tutti i giorni, chiunque partecipi al “programma” studia l’intero Talmud babilonese, con i suoi 37 trattati e le sue circa 2.700 pagine. Il bello è che non lo fa da solo, perché sa che – ovunque nel mondo – ci sono persone di ogni età, donne e uomini, ebrei e gentili, studiosi e curiosi, che stanno “rompendosi i denti” (così si dice, per rendere l’idea di quanto difficile sia comprendere una pagina di Talmud) sulle stesse parole aramaiche ed ebraiche, di cui però esistono oggi traduzioni inglesi, francesi, tedesche, in ebraico moderno, e ora, poco a poco, anche italiane. Studiare il Talmud aiuta Ilana a ricominciare la sua vita, un passo dopo l’altro, una pagina alla volta, fino a un nuovo amore, una nuova casa, ben quattro figli. Seguo le sue scoperte e amo il suo modo di collegare tutto ciò che studia, anche le più astruse e astratte “libere associazioni” mentali dei Maestri del Talmud, chiaramente educati in una logica non “occidentale”, alla vita quotidiana: il suo modo di far discutere i due salmoni che sta marinando per il forno come fossero i due saggi le cui dispute normative o narrative ascolta in podcast mentre cucina è qualche cosa che immagino benissimo di fare anche io (anzi: lo faccio).

E allora la Bruna aveva ragione e all’improvviso, qui al caffè della palafitta in riva al mare fra il Talmud e i gabbiani, l’orzo e il sigaro, la lettura e la scrittura, tutto ciò che ho vissuto dall’inizio di questo faticoso 5782 a oggi un po’ mi si placa dentro e nel primo pomeriggio in cui il sole tramonterà “presto”, ecco che respiro e mi viene anche un po’ voglia di qualche cosa di quieto che per oggi chiamerò “autunno”.


Miriam Camerini

31 ottobre 2021

Le noci, i quaderni e i gatti



Me ne ricordo che sono già sull’aereo.

Che fare? L’unica sarebbe alzarmi in frettissima (impossibile durante il decollo, ovviamente)

Andare in bagno (non mi lasceranno mai), lavarli nel mini-lavandino, infilarmeli tutti uno a uno in bocca al volo (ahahaha, scusate il gioco di parole) masticare e deglutire prima che l’aereo si stacchi dalla pista. Troppo tardi: mentre ci penso stiamo già prendendo quota.

Con EasyJet, poi... ti sparano a vista, quelli, mica come una compagnia “vera”, dove almeno ti dicono: “Mi scusi, signora, il capitano chiede di tenere allacciate le cinture… etc etc”. Qua nei low-cost ti buttano giù dal finestrino se non ti comporti a modo. Hai pagato il volo 16 euro? E ora per favore fai come diciamo noi, grazie.

E quindi? Niente, e quindi sono riuscita a trasgredire anche questo, di precetto: ce ne voleva, eh? Bisogna impegnarsi. Però. L’ho fatto, senza neanche molto pensarci.

Sto trasportando, proprio ora mentre vi scrivo sul tavolino dell’aereo, verso l’Italia, una decina di pomodori cherry che ho nello zaino. Sono stati prodotti, coltivati, seminati, innaffiati, raccolti, cresciuti in terra d’Israele. Che male c’è? Nessuno, in generale, anzi: credo che Israele sia forte nell’esportazione di pomodorini cherry, da anni. Ecco, però appunto da anni, ma non tutti gli anni. Perché? Perché quest’anno è sabbatico, ossia proprio prescritto nella Torah (Levitico 25:1-7) un anno - il settimo - in cui in Israele è proibito coltivare la terra, raccoglierne i frutti, venderli e anche farli uscire dalla Terra. Mettersi in borsa una banana comprata a Beer-Sheva per mangiarla come spuntino durante una gita a Eilat o nel Sinai (entrambe non appartenenti alla Israele biblica) è proibito, per dire, per l’intero anno di “shmità”, che è iniziato appena un mese e mezzo fa. Ciò che cresce a Tel Aviv rimane a Tel Aviv, parafraserebbero alcuni, e in fondo anche Las Vegas è città dal nome composto.

Una luna piena stupenda e dorata splendeva questa sera mentre il treno, agli israeliani sembra ancora una cosa esotica, non la luna, quella la guardano da sempre: il treno intendo, si sentono in Svizzera, o sull’Orient Express... Il treno, dunque, correva rapido da Gerusalemme all’aeroporto. È il plenilunio, la metà del mese.

Sono arrivata poco più di due settimane fa, al capomese di Cheshvan, che a me fa sempre pensare... ai pensieri: Cheshvan. Non sono nemmeno certa (e non posso controllare ora, sempre perché sono in aereo) che si scriva con le stesse lettere (l’ebraico ha molte omofonie) ma il suono è uguale a “chashav”, pensare. È il mese che viene dopo il sole dell’estate, il raccoglimento, la tensione spirituale e il pentimento di Elul (una sorta di “quaresima”) e dopo il mese delle feste, del Capodanno, di Kippur, delle Capanne. È un po’ il gennaio dell’anno lunare: finite le feste, le vetrine, le cene, le luci. Un mese “normale”, senza interruzioni, dove la routine si può esprimere in tutta la sua efficienza. Infatti a me sono sempre piaciuti molto entrambi: Gennaio e Cheshvan, che corrisponde poi a Ottobre-Novembre, a seconda degli anni. Sono i mesi per pensare e per fare, per pensare alle cose da fare, quelle normali, quindi, come direbbe il mio psycho: STRA-ORDINARIE… Non so se avete capito, se volete vi faccio risparmiare 80 euro e ve lo rispiego io, gratis: stra-ordinarie, nel senso di molto ordinarie, che però sono anche le più speciali, a volte... Eh? Geniale.

E allora ecco a che cosa penso, in volo sopra la Grecia, dopo un’estate davvero intensa di incontri e viaggi e scoperte, dopo un inizio autunno di nostalgia e malinconia che mi hanno portata ad altri viaggi ancora pazzi e romantici e avventurosi, di una complicatezza che perfino una navigata navigatrice come me a un certo punto crolla, e infatti sono un po’ crollata, colpita dal nostro morbo preferito, ancorché in forma abbastanza leggera grazie ai vaccini e alla giovane età, forse. Penso che adesso ho un po’ voglia di tornare a casa, che oggi pomeriggio mentre vuotavo il frigo della casa a Gerusalemme ho trovato uno yogurt iniziato e un formaggio che non avrei finito e li ho portati a quella famiglia di gatti che avevo visto l’altra sera nella mia stessa via: una mamma giovane e bellissima e 7 cuccioli uno più tenero dell’altro, tre neri e quattro grigi tigrati, tutti affamati. Mi sono seduta lì al sole sul marciapiede e li ho nutriti uno a uno e sono rimasta a guardare che tutti avessero da mangiare e da bere e ho immaginato anche io di essere lì in quella famiglia, con la mamma che li leccava tutti dopo pranzo per ripulirli dallo yogurt nel vasetto del quale si erano infilati con metà corpo, da tanto che sono piccoli. Li ho invidiati un po’, quei gattini al sole con la mamma che li lavava, e ho guardato il più piccolo di tutti leccarla un po’ anche lui, la mamma, così per fare. Mentre ero lì sono passati: un giovane papà americano (su due zampe, questo) con passeggino e bambino a cui spiegava che io stavo dando da mangiare ai gatti e per quello lui aspettava a passare, per non farli scappare dal marciapiede, e una signora vecchissima, tutta piegata con un carretto per la spesa al seguito, che ha tirato fuori il cellulare e li ha fotografati tutti e sette più la mamma, uno per uno, perché “sua figlia ama molto i gatti”. 

Ora, chiunque sia mai stato a Gerusalemme sa che di gatti lì ce n’è talmente tanti che non sono proprio una rarità da Safari, di quelle che ti fermi a fotografare per mostrarle ad amici e parenti, ma evidentemente oggi, in quel mio ultimo pomeriggio israeliano, in quel bel sole regalato di fine ottobre, c’era qualche cosa di un po’ magico, per qualche minuto, lì sul marciapiede dei gatti. Mentre loro facevano la pennica del dopo pranzo, io ho notato delle noci che erano cadute da un albero proprio lì, ma che nessuno raccoglie, sempre per il fatto dell’anno sabbatico, e mi sono ricordata che però a me - che non ne sono proprietaria - è permesso prenderne liberamente, pur col vincolo di consumarle in Israele, e allora ne ho portate a casa un po’, quelle che potevo mangiare prima di partire.

Sono stati pochi e brevi, questi miei giorni israeliani: sono arrivata da New York, via Montréal e Parigi, ammalata e inconsapevole, sviata da un test falsamente negativo. Entrando in casa, una casa chiusa da mesi, non ho sentito alcun odore, e lì ho capito che qualcosa non era giusto. L’indomani - ricevendo notizia del mio obbligo di isolamento - dentro di me ho gioito: ero troppo, troppo stanca per far altro che stare da sola qualche giorno. Sono stata accudita e coccolata da alcune amiche e amici via zoom, per messaggio, ma anche con i bei fiori che qualcuno mi ha fatto lasciare fuori dalla porta, con libri, vino, medicine e cibo. Un paio di intrepidi sono anche passati a trovarmi, quando già ero verso la guarigione: siamo stati seduti in cortile a bere birra e fumare sigari, come faceva Che Guevara durante gli attacchi d’asma, e ora non mi dite che da ragazzini non avete letto i Diari della Motocicletta.

Di venti giorni scarsi che avevo a disposizione in Israele, quindi, più di dieci li ho passati in quarantena e in parte anche a letto, ma non è stato male: avevo voglia e bisogno di riposare, parlare con amiche e amici che avevo perso di vista, tornare a organizzare con calma il mio lavoro per i prossimi mesi, stare con me stessa, scrivere, leggere e perfino guardare una serie TV. Sono stati giorni “sabbatici”, e ci volevano.

In aeroporto questa sera sono riuscita anche ad ascoltare la conferenza zoom trasmessa dalla Biblioteca Nazionale di Israele in occasione dell’acquisizione – da parte di questa – di 60 quaderni del misterioso onnisciente vagabondo Chouchani, maestro di Elie Wiesel, di Levinàs e di altri, e – si scopre ora – anche altrE.

“Chouchani, che è morto in Uruguay”, racconta Rina, la moglie di Shalom Rosenberg, professore di Pensiero ebraico all’Università di Gerusalemme, allievo e amico del sapiente clochard, “...Diceva che da un lato del mondo c’è una domanda, e che dall’altro lato del mondo... c’è anche un’altra domanda, che aspetta; Chouchani ha fatto questo tutta la vita: percorreva il mondo per raccogliere domande, ne sentiva l’eco da un capo all’altro della Terra”.

La Terra è protagonista del convegno di Biblia - associazione laica di cultura biblica -, per il quale sto tornando ora in Italia: “Coltivare la terra e mangiarne i frutti”, lo hanno intitolato, e io parteciperò riferendo delle norme ebraiche attorno al coltivare e al mangiare, al prendere e al lasciare, al consumare e allo sprecare, al riposare e far riposare, appunto.

Penso a Chouchani e penso ai gatti e alle noci della mia via e non è casuale che proprio questa sera in cui io me ne vado i quaderni del personaggio cui ho dedicato anni di studi e ricerche, sogni e pensieri, spettacoli e letture trovino finalmente, almeno loro, dopo decenni di esili, una casa. Saranno in Biblioteca, a Gerusalemme, per chiunque voglia salire il colle e tentare di decifrarli, scritti in 7 o 8 lingue, occupati a confrontare il calendario accadico con quello ebraico e con quello cristiano, impegnati a misurare il tempo per ingannare lo spazio, o a percorrere incessantemente il secondo per vincere il primo.


Miriam Camerini

24 ottobre 2021

 

PS: mentre scrivevo, prima che l’aereo finisse di sorvolare la spiaggia di Tel-Aviv, sono in realtà riuscita a finire i pomodorini, anche grazie al mio vicino di posto cui ho spiegato l’urgenza della situazione.

Ero bella felice e sollevata, quando ho aperto lo sportello a fine volo per prendere la mia borsa a mano e ho trovato delle patatine fritte che mi avevano dato col panino alla partenza e non avevo mangiato. Mi arrendo: Cristoforo Colombo li ha portati di qua dall’Atlantico, io per sbaglio stasera ho fatto sorvolare loro il Mediterraneo. Amen.


The Rabbi is in ...confusione


Sono arrivata un po’ tardi, alla fine della lettura della Torah, in sinagoga: era lo shabbat, il sabato, in cui si iniziava da capo a leggere il rotolo dal Principio, in cui la divinità crea il cielo e la terra, le piante e gli animali, gli astri e i mari e poi gli umani…

Il punto in cui sono entrata io era proprio la fine del brano, in cui gli umani, non paghi di aver mangiato il frutto proibito, nonostante il nome, o forse proprio per quello, iniziano a comportarsi male, commettere ogni sorta di nequizia e malvagità, dispiacere in tutti i modi il loro Creatore.

La divinità per un po’ sopporta, poi si “pente di averli fatti”, ci dice il testo, ed è un pentirsi che però porta nella sua radice anche il germe di una consolazione: nakham: allo stesso tempo pentirsi e consolarsi, in ebraico. L’Eterno si pente di aver fatto gli esseri umani (il termine è proprio quello: non creati, ma fatti, come il pane e come un vaso…) e inizia forse già a pensare di distruggerli, come vedremo poi con il diluvio.

Però il brano, la pericope settimanale, finisce con una nota positiva, non enfatizzata e anzi quasi appoggiata lì un po’ a caso: “E Noè trovò grazia agli occhi del Signore”.

Noè, di cui ancora nessuno ci ha parlato, che nessuno ha nominato, entra in scena così, con quella congiunzione che - è vero - nell’ebraico biblico congiunge o disgiunge, visto che può fungere anche da Eppure, Oppure, Però... ma arriva comunque a sorpresa e un po’ come una inaspettata consolazione, appunto.

L’umanità è corrotta e forse già condannata, “E Noè trova grazia”: qualcuno si salva, qualcuno resterà, sopravvivrà. Non si metterà a discutere con la divinità per salvare gli altri, quello lo fa solo Abramo con Sodoma, e più tardi, e ripetutamente, Mosè per il suo popolo di Israele. Noè forse è un non-salvatore: salva se stesso, e nel suo caso è già tanto: fa sì che il seme umano non anneghi e scompaia fra i flutti, traghetta l’umanità - così irrimediabilmente imperfetta - “dall’altra parte”: dall’altra parte delle acque, dall’altra parte del naufragio totale, diluvio universale. Tiene se e i suoi all’asciutto dentro l’arca e si occupa degli animali: non è idea sua, certo, ma lui la esegue, non pare un compito facile, ma lui lo mette in pratica con cura e – unicorno a parte – con successo.

La consolazione è tutta lì, in una persona, nella sua famiglia, che rende il tutto degno e capace di sopravvivere.

A volte basta così.

Oggi ho parlato con due amiche, lontane da me, su internet. Entrambe erano molto felici di aver passato questa domenica milanese già un po’ autunnale a sistemare camere e case, terrazzi e balconi, soprattutto le camere dei bambini. Raggianti mi hanno mostrato le nuove stanze, i nuovi letti a castello, le piante sul terrazzo che si prepara ad affrontare l’inverno. Il sole del pomeriggio di ottobre filtrava dalle loro finestre e sul mio schermo, e mi ha ricordato di quella finestra, forse un oblò, di cui è dotata l’arca di Noè, perché bisogna poter guardare fuori, saper vedere la luce che poco a poco filtra, rendersi conto che non tutto è buio.

Forse la salvezza sta in una casa da sistemare, camere da riadattare, bambini da far felici con uno sticker a forma di leopardo da incollare alla parete vicino al nuovo letto a castello… Se non è questa un’arca di Noè, allora non so proprio che cosa lo sia.

 

Miriam Camerini

10 ottobre 2021


Sukkah

Festa di Sukkot nel Tempio Emanu-El di Manhattan, New York - foto tratta da commons.wikimedia.org

Ho trascorso quasi l’intera giornata di sabato, Shabbat, in una sukkah, ebraico per “capanna” o “tabernacolo” di quelle che gli ebrei costruiscono e abitano in occasione della festa autunnale di Sukkot, appunto capanne, che si svolge questa settimana: una famiglia molto ospitale aveva organizzato nel proprio cortile in un bel vicolo verde di periferia una funzione religiosa molto canterina all’aperto sotto gli alberi, alla quale sono stata invitata a partecipare, conducendo una parte della liturgia e poi prendendo parte al bel pranzo “potluck” nella capanna, che si è protratto fino al tardo pomeriggio tra vino e canti, frutta e parole di Torah. Mentre pregavo prima, mentre cantavo, benedicevo, bevevo e mangiavo poi, pensavo alla capacità di trovare soluzioni alternative, “piani B”, “ripieghi”, che in realtà sono spesso la vera essenza delle cose: l’intera nostra vita, tutta la storia - biblica e non solo - è una serie di cose che dovevano andare in un certo modo, sono andate diversamente e quella seconda o anche terza scelta, alla fine, sono diventate la cosa vera.

La divinità - pensavo, addentando una mela - crea i primi esseri umani e comanda loro di non mangiare il frutto proibito, che loro mangiano: da allora e per sempre la nostra storia è quella “dell’altro modo”, del modo in cui non doveva andare. Ce ne ricordiamo forse ogni giorno? Ci alziamo ogni mattina pensando che non dovremmo essere qui, consapevoli o quantomeno preoccupati del problema del bene e del male, mentre dovremmo starcene ancora ignari di tutto e felici nel giardino dell’Eden? Ho qualche dubbio.

 

L’intera nostra vita è percorrere delle alternative alla prima cosa che avevamo pensato, pianificato, sognato, immaginato: la casa in cui abitiamo non è quella che non siamo riusciti a comprare perché un altro ce l’ha soffiata in cash mentre noi aspettavamo il mutuo, ma quella che abbiamo comprato davvero, il lavoro che non pensavamo di volere ma che abbiamo trovato dopo che il primo colloquio che non ha funzionato, la torta fatta con gli ingredienti che abbiamo davvero in casa, diversi da quelli che pensavamo di avere e con i quali avevamo immaginato di preparare il dessert stasera.

 

Avevo organizzato questi giorni in un certo modo, fatto piani abbastanza precisi e definiti, ma ho dovuto e voluto cambiarli, all’ultimo e d’istinto. Non saprò mai come sarebbe andata nell’altro modo, ma ora conosco questo, so che cosa è costato e che cosa ha portato, che cosa significa e che cosa implica. L’altra notte pioveva a dirotto: a lungo sono stata sveglia in compagnia della pioggia, sentendomi sola e pensando a che cosa avrei dovuto, forse potuto e voluto fare diversamente, ma l’unica realtà vera e presente era quella notte, quella solitudine. Sono stata un poco meglio, e ho potuto prendere un po’ di sonno, solo quando ho lasciato che tutte quelle sensazioni mi pervadessero, ho smesso di oppormi e resistere, ho accettato e ceduto, sono stata dentro quella pioggia, me ne sono lasciata metaforicamente travolgere e bagnare.

 

Il brano biblico che si legge durante il sabato di Sukkot, tratto da Esodo 33:12 e dai versi seguenti, parla della seconda chance di un rapporto burrascoso e travagliato ma duraturo: quello fra la divinità e Mosè, rappresentante di tutto il popolo ebraico da un lato, personalità assai individuale dall’altro. La conversazione che apre il brano sembra scritta da Beckett e avviene dopo che il popolo di Israele - stanco di aspettare Mosè, ormai da 40 giorni perso sul monte Sinai - si è costruito e ha venerato il famoso vitello d’oro e Mosè, per la sorpresa e la collera, ha fracassato le Tavole dell’Alleanza appena faticosamente ricevute dall’Eterno. Il rapporto fra Mosè e Dio – e l’intera vicenda – potrebbero chiudersi lì. Invece è proprio lì che comincia il bello, è proprio lì che tutto ha un nuovo inizio: Mosè chiede una seconda chance, l’Eterno gliela accorda. Gli dice di tagliare (scolpire, tagliare e legiferare, decretare hanno nell’ebraico biblico la stessa radice) delle nuove tavole di pietra come le prime: non saranno mai le prime, saranno sempre come le prime. E però, è proprio lì che la relazione rinasce o forse nasce davvero: nella seconda chance, nel non morire lì, nel trovare una seconda possibile opzione, che diventa quella vera, l’unica percorribile. Il vero incontro, quello intimo ed emotivo tra il Divino e Mosè avviene lì, in quello sprone di roccia – una sukkah, rifugio e tabernacolo di temporanea e precaria residenza – in cui Dio invita Mosè a soggiornare perché possano fugacemente, brevemente, quasi per caso, incontrarsi, sfiorarsi: “Non puoi vedermi da davanti, perché nessun umano mi vede in volto e vive”, dice Dio al Suo prediletto, “Ma mi potrai vedere da dietro, dopo che sarò passato, perché voglio mostrarti che hai trovato grazia ai Miei occhi”.. Che conversazione. Dolce, forte, mistico-erotico-caotica, come quasi tutti i rapporti. 

Non sarebbe mai avvenuta senza quel terribile incidente in fondo nemmeno troppo accidentale: Mosè ha un raptus di collera incontenibile e fracassa le Tavole: poco professionale, poco responsabile, assai poco moderata, ma è pur sempre una sua scelta.

Eppure, è proprio da quel momento di immediata e profonda connessione con gli istinti più forti, non mediati da alcun timore o reverenza, pura forza e puro dolore, che nasce la relazione vera, quella che per pochi istanti sembra quasi “alla pari”, “faccia a faccia”.

Le preghiere e ogni nostro pasto festivo, soprattutto se condiviso e comune come quelli di ieri – pensavo – sono il “Piano B” che i Rabbini e Maestri del Talmud hanno inventato per sostituire i sacrifici e il culto del Tempio di Gerusalemme, distrutto dai Romani nel 70 dc e da allora finito: pasti e preghiere, preghiere e pasti che possiamo consumare ovunque e con chiunque: questa è la relazione con la divinità che da allora pratichiamo, trasportabile, mobile, proprio come una capanna nel deserto, proprio come un rapporto che ci portiamo ovunque, e forse è meglio così.


Miriam Camerini

26 settembre 2021

Foto

Sei coppie: 12 persone, di cui tre donne in attesa sedute al centro, quindi quasi 15 persone.

Le donne hanno abiti lunghi e caldi, gli uomini sono barbuti, portano gli occhiali e golf di lana spessa.

Sono tutti abbastanza giovani, fra i 30 e i 40 anni, il salotto in cui sono ritratti sembra accogliente, con divani turchesi. Sorridono. Mio padre è un po’ nascosto dietro una tenda, in un gesto tipico suo, anche se è il festeggiato: quella sera compie 37 anni e io sto per nascere: mancano solo due settimane, ma loro non lo sanno, perché nascerò all’ottavo mese.

Mia madre è raggiante nel suo vestito color corallo (così almeno mi pare nella foto): sorride più di tutti gli altri, con la sua prima pancia, dopo aver organizzato una bella cena per festeggiare l’uomo di cui è innamorata.

Siamo nella prima metà di Febbraio e Gerusalemme – come sa chiunque vi abbia trascorso un inverno e/o abbia letto Amos Oz – è gelida: gli appartamenti sono mal riscaldati, gli infissi non isolano, il vento non cessa mai, la pioggia cade per giorni; chiunque pensi al caldo Medioriente a Gerusalemme deve ricredersi, almeno da Dicembre a Marzo.

Sembrano molto felici, al calduccio nelle loro capigliature anni ’80. 

Le altre due signore in attesa le conosco, oggi abitano ancora a Gerusalemme, al contrario della mia, di mamma, che se ne è venuta a Milano, assieme al festeggiato di quella sera, poco più di un anno dopo di quella foto e quella serata.

Ogni tanto immagino come sarebbe stata la mia vita se fossero rimasti lì, i miei genitori, a Gerusalemme, in Israele. Come sarebbe stata la loro, di vita? Come sarebbe stata quella di mia sorella, che invece che nascere a Milano sarebbe “israeliana” anche lei, come me?

Difficile sempre immaginare vite diverse, giocare con possibili alternative: siamo così abituati all’unica realtà che conosciamo.

La festa di Sukkot, delle “capanne”, che inizia domani sera e dura ben una settimana, è - nel calendario ebraico - forse quella che maggiormente ci permette di immaginare una vita diversa: per sette giorni mangiamo, se possibile dormiamo, e comunque trascorriamo tutto il tempo possibile in capanne di frasche costruite sui balconi, le terrazze, nei giardini e nei cortili delle case e delle sinagoghe e delle scuole. 

Dopo le prime feste autunnali dedicate alla scansione e alla misurazione del tempo, il Capodanno, il giorno di Kippur, con la sua qualità di “rinascita”, di nuovo inizio, ecco invece una ricorrenza che celebra lo spazio, che si svolge in uno spazio, anzi: che ne crea e definisce uno apposito. Costruire e abitare la sukkà, ossia la capanna, è uno dei precetti della festa che si chiama appunto Sukkot, plurale di “capanne”.

L’altro precetto – ancora più strano - è quello di acquistare e scuotere un lulav, ossia un mazzo di varie specie di piante, prescritte dalla Bibbia: un ramo di palma, due di salice, tre di mirto e un cedro perfetto, il più bello che possiamo trovare. Il lulav va scosso nei quattro punti cardinali, in alto e in basso: ancora una volta, una pratica legata allo spazio, che crea e definisce un luogo.

Cambiare luogo, spostarci all’aperto, prendere in considerazione tutte le direzioni, uscire di casa, guardare le stelle - che devono restare visibili attraverso il tetto, la temporanea copertura di frasche della sukkà - e la luna, che dopo tanta attesa domani sarà finalmente piena (Sukkot è una delle feste ebraiche del plenilunio), tutto questo ci insegna a essere diversi, a considerare modi e luoghi, tempi e stili diversi di vivere. Iniziare l’anno valutando alternative, cambiando posto: questo il mio augurio per oggi.


Miriam Camerini

19 settembre 2021

L’anno nuovo

Miriam e lo Shofar - disegno di Rodafà Sosteno

Farsi aiutare è importante

Saper chiedere, sapere a chi chiedere, sentirsi autorizzate a chiedere

Saper dare, sapere di aver dato e di essere disposta a dare

Sapere che, come dice mia madre, “La vita è una ruota”, il che non significa che tu dai e chi da te ha ricevuto a te renderà, bensì che tu dai a qualcuno che darà ad altri, i quali daranno ad altre e altre daranno a te, all’infinito e senza bilance, metri, pallottolieri o altre misurazioni; l’amore non si conta: se si conta migra altrove e te lo perdi.

Questa settimana non è stata facile: ho dovuto prendere una decisione importante e difficile (non voglio allarmare nessuno: la salute c’è tutta grazie a Dio e quando c’è quella tutto il resto non è grave) e – una volta presa – ho dovuto iniziare a metterla in pratica, renderla percorribile fra non poche complicazioni.

Ero a “casa”, proprio la casa quella per antonomasia, la casa dei miei genitori; era l’inizio dell’anno ebraico: Rosh-Hashana. Un doppio archè, dunque: un principio alla seconda, di tempo e di luogo.

Sono tornata - dopo mesi di viaggio - alle amiche e agli amici più primari, quelli di sempre, che ho visto e che mi hanno vista in ogni salsa e pettinatura, con le lacrime agli occhi e un sorriso di incredula gioia, disoccupata o angosciata da troppo lavoro, sul palco felice a prendere applausi e incapace di alzarmi dal letto per la tristezza, delusa e innamorata, in pigiama e in abito da sera, felice e incavolata, speranzosa e disperata.

Ho cercato di vederne il più possibile, di amiche e amici: in un paio di giorni quasi una decina.

Con tutte e tutti ho tentato di parlare davvero, con sincerità e senza schermi, perché il tempo è poco e va usato bene: meno ci si vede e più lo scambio dev’essere autentico, senza fronzoli e convenevoli. 

Mi sono sentita ascoltata e non giudicata, ho chiesto vicinanza e supporto, non opinioni, né pareri, non questa volta: la decisione era di quelle che si prendono da soli e basta, almeno nel mio caso. 

Ho ricevuto affetto e vicinanza, aiuto e attenzione in abbondanza, quanto ne avevo bisogno e anche più: mi sono sentita – ancora una volta – fortunata. Ho pensato che fosse un buon momento anche per dare qualche cosa: un amico fra i miei più cari era a casa col morbo che sappiamo e non poteva dunque adempiere all’unico precetto del Capodanno ebraico: ascoltare in sinagoga il suono dello shofar, il corno d’ariete. 

Mi sono incamminata da casa dei miei il pomeriggio del secondo giorno di Rosh-Hashana, mi sono fermata sotto il suo balcone al terzo piano e ho iniziato a suonare lo shofar finché si è affacciato: gli ho detto di recitare la benedizione sul precetto e poi ho dato fiato al corno per le 30 suonate di rito. 

Il momento è stato di quelli grandi, a cui sai già che ripenserai a lungo. Siamo poi rimasti così a parlare per un’ora, lui dalla sua finestra e io dalla strada, a scherzare e ridere, ascoltarci e comprenderci come sempre o quasi sempre noi due facciamo, in ogni circostanza. Avevo anche una cosa importante che volevo dirgli e gliel’ho urlata così a tre piani di distanza, certa che le parole vere e i sentimenti onesti non temano in alcun senso la gravità (sono già gravi loro) e possano salire, volare... Così è stato.

Rosh-Hashana d’altra parte è il giorno in cui la luna è nuova, tutta coperta e invisibile, è un giorno del sentire più che del vedere: è la ricorrenza ebraica il cui unico precetto è “ascoltare”, sentire il suono dello shofar, quel verso animale che legittima la nostra sofferenza e le dà un canale, ci permette di dar voce a un verso primordiale che esce dalle viscere, che dai nostri budelli sale nella gola, passa per l’osso di un animale e sale in cielo, trasformato in suono e preghiera, con durate e pause, lunghezze e scansioni; suonare lo shofar significa organizzare in musica, in suoni rituali i versi animali che ci portiamo dentro, perché possano manifestarsi, esprimersi, uscire non repressi, bensì intellegibili, utilizzabili, sublimati in un suono che la divinità e la comunità possano comprendere, accogliere, medicare, redimere. 

Dare spazio al dolore, alla fatica, alla domanda, all’incertezza, non reprimerla, non respingerla, forse darle un ordine, un tempo e un luogo, perché non tracimi, non travolga tutte e tutto.

Essere ascoltati e ascoltare: solo questo ci può salvare.


Miriam Camerini

12 settembre 2021


Tutto torna


L’ultimo Shabbat dell’anno ebraico: all’inizio della prossima settimana finisce il 5781 e inizia il 5782esimo anno “dalla creazione del mondo”, come ritualmente diciamo in questa occasione, non per negare conteggi storicamente più scientifici, ma per quella capacità tutta ebraica di vivere in diverse realtà contemporaneamente e senza compromettere sulla fedeltà ad alcuna di esse.

Un po’ come quando a una cena o a una festa io seguo tre o quattro conversazioni allo stesso tempo, senza perdere una parola di alcuna: tutto mi interessa e tutto vive nel suo mondo.

Lo scorso anno Rosh-Hashana (capodanno, letteralmente) era nella seconda metà di Settembre, un poco più “basso” (credo sia “alto” quando è presto rispetto a quello solare, ma è una cosa che dicevano le nonne, e andrebbe controllata), io tornavo a Milano essendone partita all’inizio di Marzo, pensando di stare a New York con il mio compagno di allora una decina di giorni per poi tornare ai lavori italiani: nello specifico il primo impegno era una bella residenza artistica a Venezia di quasi un mese. Saltata la residenza per la pandemia avevo deciso di non tornare in Italia, ma andare invece a Montreal, dove vive l’uomo con cui ero a New York. Credevo di starvi una settimana o due, tornare “appena tutto torna normale”.

Sappiamo com’è andata, “tutto normale” non è ancora più stato niente, io sono rimasta in Canada fino alla fine di luglio, quando ho trovato un volo per la Grecia, passato una decina di giorni al mare (quanto mi era mancato il mare!), da lì ho proseguito per la Germania e dalla Germania sono tornata in Italia.

A Rosh-Hashana sono tornata a Milano, per la prima volta a casa in quasi sette mesi: era stato emozionante, aveva il sapore antico di un romanzo pieno di avventure.

Una delle cose più sorprendenti del “tornare” è la sua prevedibilità: quando si torna solitamente si trova tutto esattamente com’era, o quasi: piccoli cambiamenti, percettibili solo a chi in quella casa vive o ha vissuto a lungo, sono lì a ricordarci che il tempo ha compiuto un giro.

Anche quest’anno sono partita per lunghi mesi, ma in modo un po’ più previsto e deciso, ancorché in maniera sempre piuttosto vaga.

Marsiglia, Parigi, Gerusalemme, Zurigo, pochissimi giorni a Milano, lo stretto necessario, poi il mare a Levanto, Genova, Salerno, Vicenza, il Veneto, Camaldoli, Ferrara, Bologna, Trieste, ancora il Veneto, questa volta in montagna, e poi Berlino e da lì Weimar.

Da Weimar sono venuta in treno direttamente a Viterbo, per un week-end appena di lavoro.

Da lì a Istanbul, da Istanbul in Datça, nel sud-ovest della Turchia, di nuovo finalmente al mare!

E ora?

Ora sono qua, con un nuovo anno che si apre davanti, pieno di speranze e promesse, di impegni e progetti, un po’ spaventata di non essere in grado di onorarli tutti. Con un anno che si chiude ricco di tantissimi incontri e moltissimi luoghi scoperti, di lavori diversi dai soliti, di solidarietà e aiuto nuovi.

L’ultimo Shabbat dell’anno lo trascorro a Istanbul, in una delle sinagoghe del quartiere Besiktas in cui sono ospite da amici; per pranzo vengo invitata a casa del rabbino americano che è qui da vent’anni assieme alla moglie e a molti figli nati tutti in Turchia.

Sono una famiglia Lubavitch, ossia di un gruppo chassidico che manda giovani coppie a popolare comunità ebraiche in giro per il mondo.

Quando chiedo loro perché sono qua, mi rispondono: “Perché ci è stato chiesto di venirci”; non fa una piega.

Oltre ai sei figli e figlie più giovani della famiglia, cioè quelli ancora in casa, e alla moglie, alla tavola di Rav Mendy siedono un giovane imprenditore ebreo turco, nato e cresciuto a Istanbul, e due giovani uomini - padre e figlio, ma la distanza fra i due è di vent’anni e sembrano fratelli - appartenenti a un’altra comunità chassidica, molto diversa per provenienza e usanze da Lubavitch: quella di Satmar (gli stessi di Unorthodox, per chi avesse visto la serie TV), che ha oggi il suo centro a Williamsburg, Brooklyn. I due sono in viaggio da New York verso Kiev da dove si recheranno in pellegrinaggio a Uman, città dell’Ucraina dove è sepolto il maestro fondatore di un altro gruppo chassidico ancora: Breslav. Rabbi Nachman di Breslav, considerato l’ispiratore di alcuni racconti di Kafka, è un rebbe chassidico importante e venerato da molti, che si recano sulla sua tomba durante il periodo dell’anno ebraico che sta fra il Capodanno e Kippur, il Giorno dell’Espiazione, dieci giorni dopo.

I due Satmar sono in viaggio verso la tomba del maestro, il padre ci è già stato, per il figlio quattordicenne è la prima volta: oggi è anche il suo compleanno e a tavola festeggiamo la sua emozione.

Si parla yiddish, con pronunce molto diverse perché i Lubavitch sono originari del nord, fra Russia e Paesi Baltici, mentre Satmar era una città dell’Ungheria.

Ricordiamo due parole yiddish che provengono dal turco: quella per copricapo, yarmalka e quella per pregare, daven, da dua, secondo alcuni. Quando esco sono un po’ frastornata, ma anche emozionata come ogni volta che incontro persone tanto diverse e interessanti.

Cammino nel sole del pomeriggio dello Shabbat – ancora alto – e mi dirigo a piedi giù per il parco di Macka fino al Bosforo, attraverso il ponte di Galata (dove un pescatore rugoso mi dice, in italiano: “Gallina vecchia fa buon brodo”: per un minuto considero l’ipotesi di offendermi, poi passo oltre), vado a farmi offrire the, baklava e halva per merenda al mercato delle spezie, visito un paio di moschee e poi proseguo sul mare fino al Fener Balat, quartiere greco sede del bel seminario di mattoni rossi che troneggia e scintilla nel sole delle sei di sera.

La zona è diventata molto trendy ed è piena di baretti e localini dove giovani turchi e qualche raro turista sorseggiano aperitivi e caffè sulle terrazze che guardano il mare.

Al tramonto i muezzin richiamano i fedeli di qua e di là dal Corno d’Oro alla preghiera, dall’Europa all’Asia, da Marmara al Mar Nero. Io inizio a tornare verso casa: lo Shabbat sta per finire e ho già camminato più di sette ore, oggi. 

Riattraverso il Bosforo, il pescatore sfacciato non c’è più: sarà andato a pescare galline altrove. 

Passo dalla torre di Galata, salgo il corso Istiklal, arrivo a piazza Taksim. Lì sono stanca, le stelle scintillano, la luna non c’è: sta infatti proprio finendo il nostro mese di Elul, che anche qui si chiama così. Non è più Shabbat, posso prendere un taxi, ma non ho soldi con me: fermo un giovane, l’unico che parla inglese, e gli chiedo se può aiutarmi a trovare un taxi e spiegare al suo conducente che dovrà aspettarmi sotto casa mentre salirò a prendere i soldi per pagargli la corsa. Il ragazzo è stupito del fatto che io sia a passeggio senza soldi né telefono. Per un momento sono tentata di spiegargli che era Shabbat quando sono uscita e non potevo prendere con me nulla, ma taglio corto e sorrido. Il ragazzo è gentile, dice che è felice di darmi lui le poche lire che servono e certo, mi accompagna a cercare un taxi: iniziamo a chiacchierare, si chiama Yussuf, gli chiedo da dove viene: “Palestina”, mi dice: “Hebron”. “Siamo vicini di casa!” esclamo felice: “Io sono nata a Gerusalemme, siamo vicinissimi!”. “Ah, ecco perché eri senza soldi e telefono: era Shabbat!” dice lui.

Lo saluto e salgo sul taxi, ci scambiamo i contatti: la prossima volta a Istanbul lo cercherò.


Miriam Camerini

5 settembre 2021

The Rabbi is in... quel che resta dell’estate



Questa settimana sono iniziate le mie vacanze, dopo un mese di Yiddish Summer Weimar e un week-end in Lazio, dopo un mese di musica e un week-end di insegnamento e conduzione di preghiere dello Shabbat. 

Sono partita per la Turchia senza averci pensato molto; una coppia di amici che vivono a Istanbul mi ha invitata, ho guardato il meteo: volevo solo il caldo e il sole, sono andata. 

Staccare non è facile, la testa continua incessantemente a macinare, ne sento quasi il rumore. 

Difficile fermarsi davvero, dopo tanti stimoli, emozioni, nozioni, impressioni, incontri. Stare, sostare, non fare. Fare, fare, fare: la lista delle cose che sarebbero ancora da fare è sempre lì, non dorme mai, non fa nemmeno un pisolino al sole, sopraffatta dalla canicola, sedotta dalla siesta, vinta dalla pennica, niente: io cerco di dormire, ma l’imperativo borghese veglia: “lavora!”, dice. 

Le mail non conoscono Ferragosto: anche a metà mese, che pure era domenica, me ne sono arrivate. Forse le persone sono particolarmente accanite di lavoro perché non si sentono di viaggiare, scoraggiate dai test, confuse dai certificati, demotivate dalle quarantene, stancate dalle notizie: per noia, per inerzia, per consuetudine quest’anno non vanno in vacanza nemmeno ad agosto. 

Un po’ il fatto è anche che molti si sentono come se l’intero anno fosse stato talmente straordinario da non meritarsi un’estate. Io discordo: alcune certezze devono rimanere, proprio perché il mondo è ribaltato, le ferie si fanno, perché - come ci diceva mia nonna, asserendo la necessità dei suoi e volendo i nostri tre mesi a Levanto - “... Guarda che poi l’inverno è lungo!”. Sacrosanto.

Sono arrivata a Istanbul domenica al tramonto: dalla Germania all’Italia alla Turchia qui ci si gioca più di un’ora di luce, in questa stagione, ma la brevità delle giornate è compensata dalla loro luce, dall’aria ancora estiva... Quando il sole c’è fa il suo lavoro, insomma. 

Un paio di giorni a Istanbul come fossi tornata a Milano: caffè, parrucchiere, lavatrici, estetista, aperitivo, cena, film. Dopo giorni e giorni “selvaggi” un po’ di urbanità rimette in sesto. A metà settimana sono già pronta per nuove avventure: Lydia, un’amica di mia madre dei tempi di scuola e della facoltà di Medicina a Parma, ebrea turca vissuta un certo tempo in Italia e poi tornata a Istanbul, ha la sua “Levanto”, sulla più grande delle isole dei Principi: Büyükada. Ci ero già stata nel 2018, durante uno dei viaggi più belli della mia vita, da Weimar a Istanbul tutto in treno con Emma, la mia amica francese. In Turchia ci aveva raggiunte Elhanan, mio amico israeliano e giornalista, oltre che rabbino e islamologo - era lì per intervistare un leader di Hamas, tanto per dire - e tutti e tre avevamo trascorso un paio di giorni sull’isola di villeggiatura degli stambulioti, assistendo fra altre cose a un concerto di musica sefardita, ossia giudeo-spagnola nella sinagoga locale. Cantava anche la nipotina di Lydia, all’epoca bambina con occhi azzurri e aureola bionda da angelo quanto la voce. Quest’anno è ragazza: celebrerà infatti il suo bat-mitzvah, ossia la “maggiorità religiosa” in Svizzera, dove vive. Cogliamo l’occasione per studiare un poco assieme la sua parashà, il brano della Genesi che leggerà in autunno, quel Lech-lechà, “vai verso te stesso” che dà inizio alla storia dei monoteismi e forse a quella di ogni essere vivente: lasciare la casa, l’infanzia, la famiglia, il paese natìo... 

Diventare stranieri, farsi altri per trovare sé stessi. Cantiamo assieme brani della liturgia dello Shabat, quel Lechà dodì “andiamo amato” (il verbo è sempre lo stesso: andare, camminare verso) che dà inizio allo Shabat, accogliendo “la sposa”, la sosta. Lo cantiamo nella melodia sefardita che io ho sentito una volta su un taxi alla radio in Israele e che invece lei sa da casa sua, questa casa che pare uscita da La Lingua salvata di Canetti, in cui si parlano francese, turco, inglese, ebraico, italiano e giudeo-spagnolo... Tutto mescolato. La nonna si commuove, per un momento mi pare di vedere la mia, di nonna, nella felicità della matriarca che in estate riunisce tutte le figlie e le nipoti nella comoda vecchia casa di vacanza: lì si ha il tempo di parlare mentre si cucina, a fine estate si prepara già la salsa di pomodoro per l’inverno, si lavano le scarpe da tennis (mie) tornate da viaggi all’altro capo del mondo coperte di fango, si sta assieme, si dorme a lungo, si fa colazione col pane di ieri abbrustolito, il caffè e il latte, si guarda che cosa danno all’unico cinema questa sera: se è all’aperto meglio portare un cardigan, oramai siamo a fine agosto, la sera tira vento. 

Facciamo scorta d’estate e d’amore, perché poi l’inverno è lungo.


Miriam Camerini

29 agosto 2021

The Rabbi is ...drumming?

Foto di Shendl Copitman Kovnatskiy

La mia ultima settimana a Yiddish Summer Weimar l’ho trascorsa così: provando - finalmente - a tenere il tempo battendolo sul tamburo, come la mia profetica e carismatica omonima, e già che c’ero, e che era tutta la vita che aspettavo questo momento, mi sono lasciata sedurre da vari esperimenti: il daf imprestato da un amico curdo (stessa parola dell’ebraico tamburello taf o tof), la poika, tamburi vari. 

Il suggerimento è venuto dal direttore del festival Alan Bern, compositore e musicista meraviglioso che mi ha incoraggiata a stare e a provare.

Ero incerta, indecisa, non sapevo, non lo avevo mai fatto. Eppure quel nome che tanto mi rappresenta, Miriàm, è proprio di una donna che suona il tamburello, nella Bibbia, libro dell’Esodo, capitolo 15, verso 20: una frase o due appena, per raccontare di una donna profetessa, sorella di un profeta, che prende in mano un tamburo, (chissà di che foggia, formato, dimensione?) e inizia a batterlo, scandendo il tempo della gioia, della celebrazione del pericolo scampato, della libertà ancora tutta da meritare e guadagnare, ma già conquistata. L’uscita d’Egitto, almeno quello fisico, è consumata, il Mar Rosso si è aperto per i figli e le figlie di Israele e chiuso sugli egizi, sui loro carri e poveri cavalli innocenti, su una struttura di potere autocratico che deve scomparire tra i flutti, sepolto dalla sua stessa ingiustizia e prepotenza. 

Il commento rabbinico indugia su un particolare che sembra forse marginale, ma mi ha sempre commossa: le donne lasciando in fretta la terra d’oppressione e di lavoro coatto tralasciano, lo sappiamo, la perfetta lievitazione e cottura del pane: l’azzima basterà, non c’è tempo per i manicaretti; però si ricordano di portare con sé gli strumenti musicali, di canto e di danza: per quelli c’è tempo, sì... Un tempo che aspettano da secoli (4, per l’esattezza, secondo i Maestri del Midrash). Portano con sé gli strumenti musicali perché hanno fede, sanno che ci sarà di che gioire, un motivo per far festa. 

La festa arriva, infatti, e Miriàm la profetessa è pronta a guidare le donne che “escono dietro di lei” con tamburi e flauti (o cetre? Chi lo sa..), quel che conta è contare il tempo, tenere il ritmo: d’altra parte sono le donne a tenerlo da sempre, a contare le lune con i propri grembi, a guardare queste e quelli crescere per tornare vuoti e poi di nuovo pieni. 

Secondo una storia rabbinica contenuta nel Talmud, e che racconterò questa sera, shabbat, sotto la luna crescente del mese di Elul, a un gruppo di studenti ebrei di tutta Europa, sono proprio le donne in Egitto a farsi guardiane e custodi della fertilità del popolo d’Israele, seducendo e inducendo alla procreazione quegli uomini prostrati dalla persecuzione che hanno gettato la spugna, che non vogliono mettere al mondo nuovi figli se poi dovranno annegarli nel Nilo come comanda Faraone. Le donne però sentono già battere i tamburi, sanno che la salvezza verrà, che bisogna solo andare a tempo, sentire il ritmo. L’Eterno stesso (o stessa?) d’altra parte lo ha insegnato a Mosè, appena 3 capitoli più sopra: “Questo mese sarà per voi il Capo dei Mesi”... (Esodo 12): da oggi inizia il calendario, iniziate a tenere voi il conto della liberazione, fatevene partecipi, se volete esserne parte: la redenzione richiede collaborazione, il Dio dell’Esodo non “salva gratis”: ai salvandi sono prescritti lavoro e impegno: iniziare un tempo nuovo, contare i giorni, fissare un calendario, attività di mediazione fra natura e cultura, di interpretazione del Creato con misure umane. 

Il Creatore comanda di iniziare a celebrare la luna vuota, dividere il tempo in unità misurabili, separare i giorni e le settimane, attività difficile per chi è abituato da secoli di schiavitù a lavorare senza paga, senza giorni di ferie, senza feste né vacanze, il cui tempo è informe perché senza valore, non retribuito, tutto uguale. 

Misurare il tempo è il primo passo verso la liberazione, l’età adulta: cantare, contare e camminare d’altra parte vanno spesso assieme per un popolo che da sempre narra, danza e suona la propria erranza a tempo di musica, scandendolo su un metro di passo. 

Così il popolo infante impara a camminare e a contare, ossia rac-contare la propria storia. I bambini concepiti dalle donne speranzose e creative (in tutti i sensi), seducenti e testarde sono – sempre secondo il midrash – proprio quelli che per primi canteranno all’apertura del Mar Rosso: “Questa è la mia divinità e La loderò”, perché riconosceranno il miracolo, avendone già fatta esperienza alla nascita. 

Alla fine ho preso il tamburello e sentito la felicità di fare musica con altri, decidere in fretta, lasciarmi andare, trascinare dentro al ritmo.


Miriam Camerini

22 agosto 2021

Foto di Shendl Copitman Kovnatskiy

The Rabbi is still in Weimar



Ancora una settimana di Weimar, la quarta, il quarto shabbat immersa nel klezmer, nello yiddish, nei manoscritti della collezione Kiselgof – Makonovetsky, ossia il risultato della straordinaria spedizione etno-musicologica guidata nei primi anni ’10 del secolo scorso (e interrotta dalla prima guerra mondiale) dal giornalista, rivoluzionario, etnografo e drammaturgo Shlomo An-sky assieme al compositore Joel Engel e altri intrepidi musicisti e intellettuali che si avventurarono nella Zona di Residenza – la regione fra Russia e Polonia cui era concesso risiedere agli ebrei e dove la concentrazione di questi era altissima, per registrare il maggior numero possibile di melodie, canzoni, brani liturgici, niggunim sul loro strumento a cilindri di cera. Per le vicende del ‘900 l’intera raccolta andò perduta fino a ricomparire di recente nella Biblioteca Verndasky di Kiev. 

Avere tra le mani taccuini, note scritte al volo su carta di fortuna e con l’inchiostro che c’era: “Vi trascriverò e manderò tutta la musica che conosco a memoria”, scrisse uno degli interpellati, “ma non con inchiostro nero, perché qua non ne abbiamo più”. 

Il pensiero che tanta musica che era fino ad allora stata tramandata oralmente, suonata di padre in figlio e di maestro ad allievo, imparata per strada, alle feste, nei matrimoni sia stata trascritta e registrata, archiviata e fortunosamente conservata proprio alla vigilia della catastrofe della Shoah e successivamente della sistematica distruzione della cultura ebraica in Unione Sovietica mi dà i brividi e mi porta immediatamente al paragone con la più grande opera di scrittura di una tradizione di tutta la storia ebraica: la Mishnà e successivamente la Ghemarà, i primi due testi rabbinici, redatti fra II e VI secolo d.C., che chiamiamo Talmud e sono la base e forse la ragione della sopravvivenza del popolo ebraico in due millenni di diaspora. Anche nel caso delle interpretazioni rabbiniche al testo della Torah, delle discussioni che si svolgevano nelle accademie rabbiniche e delle norme che si imparavano e tramandavano per strada e di maestro in allievo, l’intuizione di scriverle, di fissare su carta la Torah orale una volta per tutte fu la decisione di Yehuda Hanassì, presidente del Sinedrio, che comprese che di lì a pochi anni il popolo ebraico sarebbe stato disperso ai quattro angoli della Terra e l’unico modo per assicurare la sopravvivenza delle tradizioni era scriverle. 

Così è per questa musica, che si è salvata, è sopravvissuta allo sterminio, alla assimilazione e all’esilio della stragrande maggioranza di coloro i quali la suonavano, danzavano, cantavano, ascoltavano e che per essa ridevano e piangevano, grazie a un’operazione provvisoria e traballante quasi quanto i carri che trasportavano il manipolo di intellettuali socialisti sognatori, incoscienti, idealisti, equipaggiati solo del proprio coraggio che queste melodie e queste musiche ci hanno consegnato. 

Essere qui questa estate con musiciste e artisti di tutto il mondo a studiarle, ascoltarle, eseguirle è un privilegio immenso.


Miriam Camerini

15 agosto 2021

The Rabbi is in Yiddishland ossia in nessun luogo dappertutto e assieme da soli

Foto di Sharon Bar-Kochva 

Siedo nel cortile dell’ostello dove abito da quasi tre settimane, ormai, e ascolto un giovane inglese parlare lituano con la bionda famiglia di musicisti che ogni estate – da anni – macina chilometri in auto per arrivare da Vilnius a Weimar a suonare, imparare nuovi brani e stili canori alla Yiddish Summer, il festival e scuola estiva di musica klezmer, lingua yiddish e tanto altro che qui si tiene e di cui da qualche anno sono parte, fortunatamente.

Il ragazzo inglese ora vive in Belgio, è qui per caso, ha vissuto la sua vita già in tutto il centro ed est Europa, ha una valigia da recuperare a Vilnius che lo attende da quattro anni e assieme ridiamo dicendo che qualsiasi cosa di cui non ci siamo preoccupati per quattro anni probabilmente può restare dov’è. I lituani sono sorpresi e felici di trovare un “occidentale” che parla la loro lingua, così rara, e mi piace guardarli e sentirli conversare, mentre mangio al volo wasa svedesi e salmone affumicato prima di vestirmi per il concerto di fine corso, dove canterò la dozzina di canzoni nuove - brani liturgici ebraici, ballate yiddish e nigunim, melodie meditative o danzerecce chassidiche senza parole - che ho imparato questa settimana al mio workshop di canto. Di fianco a me un altro tavolino: a questo siedono due giovani hipster tedeschi della Baviera e parlano yiddish, esercitando ciò che hanno appena imparato a lezione e ripassato per l’indomani; pronunciano bene, sono divertiti dai suoni simili a quelli del loro dialetto eppure diversi, separati da secoli di storie, di Storia, di migrazione ed erranza, cacciate e pogrom. Sono molto biondi, anche loro, come gli adorabili e talentuosi musicisti lituani, e l’aria è piena di suoni.

Dopo il concerto e la bevuta di rito siedo a lungo con un’affascinante linguista di Strasburgo che sta scrivendo il suo dottorato sui metodi di insegnamento dello yiddish in Europa, oggi, sul rinnovato interesse per questa lingua senza terra, sul suo complicato rapporto con lo Stato di Israele, che è in parte anche il mio e di tutti i goles-yiden, abitatori della diaspora, ebrei erranti, non radicati in un luogo e se anche legati a una terra, non certo a quella di Israele, quanto piuttosto a quella che hanno abitato per secoli, come per me l’Italia.

Incontro una sera l’insegnante di Lettere di un liceo lombardo, venuto qui per vedere una lettera di Manzoni a Goethe, qui esposta, e una traduzione tedesca del Cinque Maggio, dal nostro poeta nazionale fatta appositamente tradurre - ancora non si sa da chi, ma il mio nuovo amico ha in mente di scoprirlo e lo farà - per il genio di Weimar; sediamo in una birreria fino all’ora di chiusura (non serve certo qui essere nottambuli per farlo) a parlare di progetti e spettacoli, attività di insegnamento della storia e della cultura ebraica che potremo proporre ai suoi studenti e colleghi nel lungo autunno della Valtellina, durante mattine nebbiose in cui questa estate e questa serata di birra, klezmer e acquavite saranno un dolcissimo e lontano ricordo.

Con un’altra nuova amica di Strasburgo siedo - sempre nel cortile dell’ostello - un’altra sera fino a tardi a parlare di canzoni popolari e dialetto alsaziano, del Pomul Verde, il primo teatro yiddish dell’era moderna, fondato nel 1876 da Abraham Goldfaden a Iasi, in Romania. Ricordiamo Budapest - dove lei ha vissuto e che io ho spesso visitato - e il suo centro-sociale/sinagoga/casa-occupata: Aurora, un luogo unico in Europa - periodicamente distrutto dai neo-nazisti ungheresi e costantemente ricostruito dai giovani militanti - dove ho pregato, fumato, insegnato, cantato e bevuto con amiche e amici nelle lunghe notti ungheresi, in quel miscuglio originalissimo di rinascita ebraica e controcultura anti-fascista che solo la comunità di Budapest, con i suoi 80.000 ebrei quasi tutti laici, oggi offre.

Weimar ha anche un minuscolo cimitero ebraico, dove crescono alberi di mele e di prugne, sotto a uno dei quali mi addormento dopo aver partecipato a uno strano rito di antiche origini est-europee: percorrere il perimetro del cimitero svolgendo una matassa di filo, che sarà poi conservata e bruciata alla vigilia di Kippur, il Giorno dell’Espiazione. Secondo Annie, la cantante e yiddishista che ci conduce, era una prassi femminile, che serviva a separare i morti dai vivi, assicurando a questi ultimi un anno di pace e guarigione in tempo di sventure e pestilenze: pare adatto anche a questo nostro, di anno pandemico. Alla fine del rito - che evidentemente svolgo con grande partecipazione - sono così stanca che dormo lì nel cimitero sotto un albero finché mi sveglia la pioggia. Alla fine, nonostante tutte le bellissime cose e le persone fantastiche incontrate qui, mi manca il “mio”, di yiddishista, quello rosso e russo, mi manca da morire, perché qui ci siamo incontrati, conosciuti, innamorati, amati. È lontano, in Quebec, ma lo sento come fosse qui con me in ogni strada, in ogni parola della lingua che lui tanto bene conosce e insegna, in ogni canzone che lui suona e canta con tanto sentimento. Mi manca, e passeggio per il parco dove salutavamo assieme le lucciole di notte, immaginando di trovarlo dietro ogni cespuglio, arrampicato su un albero, o sdraiato su un prato, con i capelli rossi al sole. “Nessun luogo è più inabitabile di uno in cui siamo stati felici”, mi scrive mia zia Mara, citando Pavese in risposta alle mie malinconiche lettere.

Forse il segreto di Yiddishland è questo: è un non-luogo, e in quanto tale può essere abitato ovunque, ce lo si porta dietro, come il guscio di una lumaca.


Miriam Camerini

8 agosto 2021

Manifesto ufficiale del Yiddish Summer Festival di Weimar edizione 2021 e foto di Weimar tratta da commons.wikimedia.org

The Rabbi is in Weimar 



La prima volta che ne ho sentito parlare era la primavera del 2016, cinque anni fa.

Yiddish Summer Weimar. Un festival di musica klezmer, una scuola estiva di musica, ma anche di teatro, di danza e di yiddish, la lingua germanico-ebraica degli ebrei del centro ed est Europa. Cercavano artisti e artiste di tutto il mondo e di ogni età: cantanti, strumentisti, burattinai, attrici, giocolieri, danzatori, artiste visive, che lavorassero assieme per tre settimane e al termine delle quali fossero pronti a presentare il frutto - ancora imprevisto - del loro lavoro: uno spettacolo di strada, un po’ circo, un po’ musical e un po’ teatro di burattini basato sul primo testo yiddish stampato in Italia, precisamente a Venezia, nel 1540: il Bovo Bukh di Elyeh Bokher, grammatico, precettore, poeta, “chierico itinerante” sradicatosi dalla nativa Norimberga e stabilitosi a Venezia, da pochi decenni sede del primo ghetto della penisola italiana. 

L’amica che mi aveva girato il bando è Shendy, una fotografa moldava - mentre scrivo ora siede accanto a me nel back-stage del concerto dove io ho appena cantato e lei fotografa – e ci eravamo conosciute l’estate precedente per un lavoro in Svezia. 

Il bando era già scaduto quando lo ricevetti, passata da alcuni giorni la dead-line entro cui mandare CV, lettera di motivazione, raccomandazione da parte di un paio di registi con i quali avevo lavorato, video/foto/audio dei miei lavori teatral-musicali. Tutto fattibile, a saperlo prima! Senza perdermi d’animo, con la mia consueta hutzpe, ossia determinazione mista a creativo spirito d’iniziativa, scrissi allo sconosciuto (ma nella foto abbastanza sorridente da lasciar ben sperare) Dr. Alan Bern - che mentre scrivo ha appena finito di suonare la fisarmonica accompagnandomi mentre cantavo e sta ora suonando il piano sul palco assieme a un violinista – per chiedergli una proroga: potevo ancora candidarmi a questo progetto che pareva immaginato per me? La risposta giunse puntuale e positiva: potevo ancora inviare i miei materiali, purché lo facessi molto in fretta, avevano moltissime candidature e dovevano iniziare a selezionare i partecipanti. 

Passai giorni frenetici nel riunire tutto il materiale, lo mandai, ma dopo appena una settimana la risposta mi gettò nella disperazione: la mia candidatura non era stata accettata. Ancora una volta, il desiderio fortissimo fu l’unica mia guida: scrissi che ero disposta a partecipare a mie spese, come assistente volontaria, uditrice o qualunque altra cosa potessi fare pur di essere lì, parte di questo progetto che sembrava – così scrissi – inventato apposta per me. 

Questa volta la risposta fu di quelle che aprono i cieli, squarciano le nuvole e lasciano brillare un raggio di sole con trombe e cherubini: “Ci abbiamo pensato e crediamo che tu meriti di essere una partecipante a pieno titolo di questo progetto, alle stesse condizioni degli altri artisti selezionati. PS - Complimenti per la tua hutzpe: è una grande qualità!”. L’inizio era promettente. 

Weimar: la città di Goethe, di Schiller, del Bauhaus, di compositori, poeti e architetti, la Firenze dei tedeschi, una piccola città della Turingia, ex DDR. 

Ci ero stata - zaino in spalla - nell’estate dei miei 19 anni, il 2002, quando, dopo la maturità, esploravo l’intera Germania cercando di decidere dove stabilirmi per i miei studi universitari. 

L’estate del 2016 fu spiazzante: difficile passare da essere una dei pochissimi a fare una cosa (musica, teatro, arte “ebraica”, in Italia) ad essere una fra tanti e tante, confrontata quotidianamente per un mese con i migliori artisti e musicisti yiddish, se non del mondo sicuramente d’Europa. Sono esperienze destabilizzanti e anche cariche di sofferenza, ma alla fine sane e produttive. 

Tornai a Milano determinata a fare molto meglio, molto di più, ricominciare a studiare canto, magari provare a suonare uno strumento, sicuramente “darci dentro”. 

Tornai l’estate seguente: solo allieva questa volta, studentessa di canto per una settimana meravigliosa, in cui oltre allo yiddish esplorammo la musica del Medio Oriente, le sue influenze sulla canzone israeliana, il rapporto fra questa e la musica est Europea dei hassidim, i mistici dell’Est Europa che ancora oggi a Brooklyn vivono come a fine ‘700 nella Galizia polacca.

Capii che era necessario imparare davvero lo yiddish, non orecchiare un po’ qua e là mescolando tedesco ed ebraico come avevo fatto fino ad allora. L’estate successiva fu una delle più belle della mia vita (finora): non riuscivo più ad andarmene da Weimar, conobbi un uomo che lì insegnava yiddish suonando la chitarra e me ne innamorai, abbastanza ignorata, peraltro, quell’estate, dall’oggetto del mio amore. Strinsi in compenso amicizie meravigliose, soprattutto femminili, con donne incredibili e di ogni dove: Ungheria, Ucraina, Brasile, California, Parigi, Bruxelles. Con una delle mie nuove amiche, quell’estate, viaggiai da Weimar a Sarajevo, da Sarajevo a Belgrado, e da lì tramite Sofia, sempre in treno, fino a Istanbul; l’itinerario che seguivo a me era chiaro: quello del meraviglioso poema d’amore e morte La Cotogna di Istanbul di Paolo Rumiz. 

L’anno seguente ancora mi fu offerta addirittura la possibilità di dirigere uno spettacolo, un’opera basata sul biblico Libro di Ester, tradizionalmente l’ispiratore di fantasiosi e imprevedibili purim-shpiln, spettacoli allestiti da artisti girovaghi per la festa ebraica di Purim. 

Ancora una volta la felicità di essere incaricata di un lavoro tanto importante, appena tre anni dopo essere entrata in punta di piedi, era mista alla paura, ai dubbi sulla capacità di farcela. 

Fu un’estate faticosa e confusa, ma anche molto emozionante: amore e arte, lavoro e passione si mischiarono come può accadere solo qualche specialissima volta nella vita. 

Quest’anno sono qui a insegnare ebraismo, a cantare in un concerto e – ancora una volta – a imparare nuove canzoni e nuove tecniche vocale, a migliorare il mio yiddish e incontrare nuove persone, fra cui un gruppo di giovani donne e uomini che hanno lasciato l’Iran e ora sono in Germania: venerdì sera abbiamo accolto assieme lo Shabbat su un grande prato, all’aperto: mentre sollevavo il bicchiere e vedevo attorno a me tanti volti felici, spiegavo il significato dello Shabat come giorno di sosta e pienezza, soddisfazione per ciò che si è fatto, pensavo a quanto imprevedibile è la vita, e ringraziavo la mia hutzpe.


Miriam Camerini

25 luglio 2021


Trieste, palazzo ove visse il Poeta Virgilio Giotti e girasoli nella cucina della Casa di Rodafà - Foto di Stefano Sodaro

La Sinagoga di Trieste - foto di Andrzej Otrębski tratta da commons.wikimedia.org

The Rabbi is in Trieste 




Gerusalemme

Vilnius 

Ferrara

Trieste 

Vienna

Berlino

Weimar


Bello è tornare. Erano anni che mancavo da Trieste, salvo una “pinza” con “capo in b” (torta e caffè macchiato, per voi non di qui) al Tommaseo nel cambiare un treno tornando dalla Dalmazia, una sacher comprata alla Bomboniera e mangiata seduta a guardare il mare dal Molo Audace nel riaccompagnare un gruppo di ragazzi di ritorno da un viaggio in Israele, una notte con bagno a Barcola e due alici fritte al Frittolin per spezzare il viaggio in auto verso Vienna o un’ultima cena di pesce a Muggia prima di attraversare il confine verso la Slovenia montanara di Lubiana. Anche questa volta sono di passaggio: scesa dal Monastero di Camaldoli verso la pianura di Ferrara, per la seconda volta in una sola settimana ho avuto il piacere di dialogare con persone più giovani di me e appartenenti ad altre comunità religiose. Al Meis, Museo dell’Ebraismo, a Ferrara, dove è in corso una mostra sul matrimonio ebraico, ho potuto ascoltare uno studente musulmano e altri giovani in una bella tavola rotonda in cui ero invitata a parlare di matrimonio nell’ebraismo, scoprendo - come sempre - che le somiglianze rituali e legali fra noi e l’Islam sono davvero tante, anche – per esempio – quando si parla della cerimonia e del contratto nuziale. Camminando poi per le vie del ghetto di Ferrara, andando verso la cena, sento tre signore che parlano della bella mostra “Mazal-Tov!” (quell’espressione di gioia e speranza, auguri di “buona sorte”, che “vada sempre tutto bene come oggi”, che si rivolge alla nuova coppia appena rotto il bicchiere e dopo aver recitato il verso del Salmo 137: “Se ti dimentico, Gerusalemme, si incolli la mia lingua al palato...”, possa io ammutolire come l’arpa d’or dei fatidici vati che pende muta dai salici del Va’ Pensiero, al Salmo ispirato) che ancora vogliono visitare, tre ragazzi che sentenziano che “...Non sono gli ebrei a governare il mondo, bensì gli ashkenaziti...”, che loro sanno essere gli ebrei americani oggi, ma dell’Europa centro-orientale un secolo o due fa, i più intelligenti e i più cosmopoliti. Perfetto. 

Per riprendere ossigeno mi metto in ascolto di una terza conversazione, fra due uomini più maturi, questa, sulle meraviglie della Sella Ronda e del Passo Pordoi, della seggiovia di Porta Vescovo, della discesa verso Arabba e di altri luoghi amatissimi delle vacanze sciistiche della mia infanzia con la famiglia in Val di Fassa e dintorni... Mi pare che questi signori parlino di escursioni estive, ma poco importa: pur di cambiare aria dopo “gli ebrei ashkenaziti che governano il mondo”, posso fingere per un momento di non essere l’accanita sostenitrice che sono dell’estate solo e sempre al mare. 

E torniamo dunque al mare, a Trieste, dove sono arrivata in treno da Ferrara: probabilmente le due città più intrinsecamente “ebraiche” d’Italia, un po’ la Praga e la Budapest della nostra penisola, luoghi dove anche se oggi si contano poche centinaia di ebrei restano le anime, i libri, la musica, le parole, i cibi a testimoniare di una storia che rimane. 

Riesco a entrare - poco prima che chiudano per la sera - ai bagni Lanterna, detti Pedocìn, dove donne e uomini sono separati da un muro e alle spalle c’è la derelitta stazione del treno che - lo sappiamo dai suoi libri - portava la nonna di Paolo Rumiz a Vienna. Sono alloggiata in una bella casa piena di libri e di quadri, nello stesso edificio di primo ‘900 in cui visse il poeta Virgilio Giotti, all’ultimo piano di una strada in salita. Sento il mare e aspiro il vento, che questa mattina si è svegliato. 

Questo sabato in sinagoga - non vedo l’ora di tornarci, nella bella e solenne sinagoga di Trieste - si leggerà l’inizio del quinto, ultimo libro della Torah, il Deuteronomio: l’anno sembra quasi iniziare a finire, e in effetti le giornate già si fanno più corte. Domenica è anche il giorno di Tisha beAv, digiuno che nel calendario ebraico ricorda la distruzione del Tempio di Gerusalemme ad opera dei Babilonesi di Nabucodonosor (Arpa d’or dei fatidici vati... Ricordate?) nel 586 a.C. e poi definitivamente ad opera dei romani nel 70 d.C.

Io mi appresto a partire per Berlino e da lì per Weimar, dove potrò finalmente insegnare tutte queste cose in un festival di musica klezmer… Ma prima di fare ciò ancora un concerto mi aspetta: il nostro Messia e Rivoluzione, sulla storia del Bund, il partito socialista ebraico nato nell’Impero zarista, che combattè eroicamente animando le due grandi rivolte dei ghetti di Vilna e di Varsavia, nel 1943, e i cui pochi superstiti ancora talvolta si ritrovano nel mondo. Gli ideali di Giustizia e Fratellanza universale rimangono e – ancora una volta – sono onorata, felice e fiera di portarli con me per le strade dell’erranza. 


Miriam Camerini

18 luglio 2021

Respirare



Respirare. Re-spi-ra-re.


Questa settimana, una mattina, nel monastero di Camaldoli nel Casentino, in provincia di Arezzo, dove mi trovo in questi giorni, sono uscita su un prato al sole e ho pensato a quanto mi piacerebbe trovare un modo di combinare la tefillah di shachrit, ossia la bella preghiera ebraica della mattina, ricca di salmi, benedizioni e ringraziamenti, oltre che richieste fra cui quella di renderci studiosi della Torah, capaci di comprenderla e anche di osservarla e custodirla, con lo yoga e con il canto. Non è certo un’idea nuova: tante e tanti prima di me lo hanno fatto, con diversi e vari risultati, e non solo in ambito ebraico, ma anche cristiano: basta dare un’occhiata ai bei libri del genere esposti anche solamente qui, nella Libreria del Monastero, per rendersi conto di quanto vasta sia l’esperienza degli ultimi decenni nei vari mondi religiosi.


Uno dei monaci, un giovane musicista, mi spiega le origini del canto gregoriano; lo fa con semplicità, esemplificando con la sua voce bella e intonatissima: la sera prima lo abbiamo incastrato, Manuel e io, perché cantasse con noi il Salmo 146 in ebraico, composto dall’ebreo italiano Salomone Rossi a Mantova nel 1622: sarebbe quasi un madrigale a quattro voci e noi – temerari come sempre – ci proponevamo di cantarlo in due, con Manuel al soprano e io al contralto, studiato più di dieci anni fa, quando vivevo a Gerusalemme e cantavo in un coro. Emanuele, dunque, viene “ingaggiato” un’oretta prima del concerto, gli viene messo in mano uno spartito e detto: “leggi!”. E lui legge il basso, lo segue col dito e lo canta e io resto estasiata dalla facilità di chi sa leggere la musica, e sono anche un po’ invidiosa: vorrei averla anche io.


Il nostro concerto nel chiostro del monastero sui compositori ebrei italiani e sulla musica degli ebrei d’Italia trascorre lieto, nella sera estiva e fresca: Salomone Rossi lascia spazio a Benedetto Marcello, che ebreo non è, ma che compone per primo musica scritta alla maniera ebraica, cioè stampata da destra a sinistra, per seguire il testo del piyut, componimento poetico para-liturgico di epoca medievale in lingua ebraica. Nello specifico, ciò che eseguiamo noi è il suo Maoz Tzur, inno del XII secolo per la festa delle luci, ossia Hannuka, interpolato da Marcello al suo Salmo 15, in italiano, sulla stessa melodia, dolce e trionfale assieme. Saltando avanti nella Storia raccontiamo la vicenda di Mario Castelnuovo Tedesco, allievo di Ildebrando Pizzetti (che io conosco per il suo Faust) nella Firenze di primo ‘900, costretto all’esilio nel ’39 dalle leggi anti-ebraiche, approdato prima a New York e poi stabilitosi a Los Angeles, dove compone per le due grandi “industrie ebraiche” degli anni ’50: le sinagoghe e Hollywood. Eseguiamo parte di una sua composizione “sacra” che suona molto come una bella colonna sonora di Ennio Morricone (ebreo anch’esso, e gli anni sono poi quelli), il Salmo 92, quello che dà inizio al Sabato, lo Shabat, da sempre a me caro, anche perché citato nella rinascimentale leggenda del Golem di Praga, secondo la quale il gigante d’argilla deve essere addormentato ogni venerdì prima del tramonto dal suo creatore, il Maharal di Praga, pena la perdita del controllo “da parte del Wunderabbi sul suo fantoccio”, direbbe Ripellino. Allora una vigilia dello Shabat il Maharal dimentica di addormentare il Golem, dice la storia, se ne ricorda solo dopo aver


già cantato il Salmo 92 nella Sinagoga vecchia-nuova, risale di corsa, cancella la ALEF dalla fronte del mostro rendendolo MET, cioè “morto” per il tempo dello Shabat, torna di corsa sul pulpito, recita da capo il Salmo e solo allora il Sabato può davvero scendere sul mondo: in ricordo di ciò, ancora oggi, a Praga, il nostro Salmo viene intonato due volte di seguito.


Respirare, prendere fiato: è questo che lo Shabat ci invita a fare, è per questo che il povero Golem di Shabat può solo dormire, perché lui, che pure ha umane sembianze e fattezze, non ha un’anima, quella parola NEFESH che in ebraico è - appunto - la stessa di spirito, spirto, soffio, respiro, insomma: fiato. L’Eterno di Shabat prende fiato e dona a noi, creati e creatori a nostra volta, un’anima aggiuntiva, che se ne andrà con l’inizio dei nuovi sei giorni della creazione. Durante lo Shabat respiriamo, cantiamo, preghiamo. Qui in monastero, sui colli del Casentino, passeggiamo e contempliamo l’infinita bellezza del creato. Emanuele, il monaco musicista, mi spiegherà durante la mattina che alcuni Halleluja del gregoriano sono lunghissimi, pieni di melismi, ossia di note e suoni diversi che stanno tutti sulla stessa sillaba. “Alcuni aggiungono altri testi per ricordare meglio la melodia, che se no se ne sta appesa sul vuoto..” sorrido e penso alla mia difficoltà nel ricordare il niggun, canto chassidico senza parole, appoggiato solo su sillabe che si ripetono, io che con tanta facilità imparo e ricordo una canzone, quando posso associare la melodia alle parole: allora penso all’Ommm dello yoga, a quella capacità di modulare canto e fiato senza ricorrere al testo, alla parte intellettuale del parlare, a quella caratteristica umano-divina che ci eleva e appesantisce assieme (ancora una volta penso al Golem, che un manipolo di rabbini nel Talmud crea e manda ad altri, per scherzo: questi gli parlano, quello non risponde e da ciò questi capiscono lo scherzo: non hanno davanti un vero umano, ma solo un Golem, che rimandano da dove se ne è venuto) (Talmud Babilonese, trattato di Sanhedrin).


Imparare a stare, sostare, cantare, anche senza parole, anche senza altro metro che il nostro passo. Ommmmmmm, Halleluja.


Miriam Camerini

11 luglio 2021


L’erranza, parte 3


L’erranza cresce e si moltiplica


 

“Non puoi dire che Genova è brutta, certo: Milano ha il mare, Genova no, però... va beh, c’è Milano Marittima.” Le conversazioni ormai sono al surrealismo spinto; d’altra parte, è quasi mezzanotte e il treno per il mare si è fermato subito dopo Pavia, cioè troppo vicino a Milano.

Io l’ho preso facendomi quasi venire un infarto, rincorso senza quasi nessuna speranza di prenderlo, avendo deciso dopo poco più di 48 ore che di Milano ne avevo abbastanza: da martedì a giovedì pomeriggio, nonostante la felicità di abbracciare amiche e amici che non vedevo da mezzo anno, la gioia di ritrovare luoghi amati lì dove li avevo lasciati: il signore gentilissimo della mia banca, il cui sorriso nessuno mai potrà convincermi a sostituire con la rigida e grigia chiavetta dell’home-banking, il “mio” parrucchiere, che mi fa ridere talmente tanto che non riesco a star ferma mentre mi spunta i capelli, la torrefazione / pasticceria della mia colazione, dove anche sei mesi dopo non è necessario sforzarsi di aprire la bocca prima di aver bevuto il caffè: quel che mi serve per tornare un umano di mattina lo ricordano anche dopo mesi, con mia consolazione; poi c’è la tintoria alla quale ho abbandonato cappotti e golf partendo in inverno e che ancora li ha lì…

Il baracchino dei frullati e delle insalate dove amo pranzare con mia madre, proprio a metà strada fra casa sua e casa mia, i Giardini di Porta Venezia, il Cinema dove un amico fa in tempo a invitarmi - nella mia unica serata milanese libera - per una bella commedia francese sui profumi, gli odori e la facoltà di percepirli, un film su un senso - l’olfatto - fra quelli da sempre a me più cari e che la pandemia, con il pericolo di perderlo, ci ha istruiti a non dare per scontato... 

E poi la Corte dei Miracoli, il mio amatissimo teatrino/cineclub/baretto del quartiere, luogo di incontri tra i miei più belli di questi ultimi anni, momenti di pura bellezza. Insomma: sono passata due giorni e mezzo a sincerarmi che la “mia” Milano fosse sempre lì, dove e come l’avevo lasciata, anzi: molto meglio, riaperta e felice, quasi risanata, sicuramente pronta all’estate, zanzare e maleducati che fanno feste fino alle 4 di mattina con le finestre spalancate sul cortile compresi.

E allora, in questo miscuglio di gioia ritrovata e fastidio già in agguato, mi prende la voglia di ripartire e il bisogno di organizzare la nuova valigia sì da poterci stare fuori fino a settembre, almeno. Sono molte le tappe, tanti i lavori, gli spettacoli, le lezioni, gli articoli da fare, preparare, scrivere…

Ho bisogno di concentrarmi un paio d’ore buone per preparare il mio nuovo “baule”.

Verso sera è pronto, lo chiudo. Si è fatto tardi, forse troppo anche per l’ultimo treno, ma salto su un taxi e ci provo lo stesso.

Il treno lo prendo, ma dopo meno di un’ora è fermo fra Pavia, Voghera, Tortona... non capisco nemmeno bene, all’inizio. Purtroppo si parla di un ragazzo, forse straniero, appena ventenne, che si è buttato sotto. Come sempre avviene in questi casi le notizie arrivano a pezzi, col contagocce.

Penso alla mamma di quel ragazzo: chissà chi è, chissà dov’è, chissà se c’è? La mia di mamma - appena le scrivo che siamo fermi e chissà quando arriveremo e io, mannaggia a me, che non avevo nemmeno ancora cenato, contando sulle trenette al pesto di mezzanotte a Levanto - subito si preoccupa per la sua 38enne piccina digiuna.. ah, le mamme! Chissà se quel poveretto aveva una mamma che si preoccupava che non andasse a letto senza cena, mi chiedo. Le persone attorno a me reagiscono come purtroppo spesso avviene: “Eh, ma non poteva buttarsi 5 minuti dopo, che intanto passavamo?”… sento. Chiaro che si dice per dire, un modo di sfogare il disappunto e la frustrazione per i piani di viaggio saltati, il sogno di svegliarsi il venerdì mattina già sul mare in stand-by, ma ciononostante non riesco a non rabbrividire del cinismo del “milanese imbruttito”. A proposito di milanese, ci sono anche due ragazzi che rapidamente reperiscono il numero della pizzeria ancora aperta più vicina al paesello sperduto in cui siamo fermi e fanno arrivare pizze e birre per tutti, consegna direttamente… al binario! Ringrazio, addento, sorseggio, avverto la mamma che può andare a dormire serena, almeno lei: noi ne avremo, temo, ancora per ore, ma intanto lo stomaco non è più vuoto.

Passa di lì un mio amico dei tempi dell’università, non ci vediamo da tempo: anche lui era su uno dei treni fermi oramai da ore; abbracciarsi è un momento di felicità pura, come un pezzetto di casa e di tempi antichi donatoci dalla sorte fra la notte e le zanzare.

Arrivo a Levanto alle 6 del venerdì mattina, l’alba è già chiara, la focaccia è appena sfornata, ma in puro stile ligure per averne un pezzetto dovevi prenotarla, quindi per stamattina niente.

È difficile tornare al quotidiano, dopo tanti mesi così pieni, così “forti”… I mesi che verranno anche saranno belli, ma ora bisogna saper sostare. Non ho più il concetto di una casa, chi mi chiede: “Allora, sei tornata?” E: “Quanto stai?” mi innervosisce subito: mi viene da rispondere: “Tornata dove? Ora son qui. Poi andrò da un’altra parte. Punto”.

Un po’ di empatia ci vuole. E di pazienza.


Miriam Camerini

4 luglio 2021


...Voglio vivere così!




Quanto mi piace questa vita qua, quanto l’ho portata nel cuore per mesi (non voglio dire “mi è mancata”, perché non è del tutto vero: ho goduto moltissimo anche questo tempo diverso), ma ero certa che sarebbe tornata, che avremmo ricominciato a vivere così. 

Questa settimana sono tornata a cantare e a parlare in giro per l’Italia, ho ricominciato ad attraversare la penisola che amo, in treno, da sempre uno dei miei mezzi di locomozione prediletti, sparandomi con nonchalance un Milano - Salerno - Vicenza che a me passa via veloce come a un’altra tre fermate di metro. 

E’ stato bello riprendere quella routine di piccole – grandi cose: il volontario col nome al collo che ti aspetta sorridente in stazione, due chiacchiere nel breve tragitto fino all’albergo per sapere come sta andando quest’anno il festival, se c’è gente, come risponde la città, che cosa dicono i giornali. Il trolley da aprire in camera, il vestito “buono” (quello per lo spettacolo” da appendere nell’armadio, l’aria condizionata da spegnere, le finestre da aprire, vedere se danno sul campanile o sul cortile. Guardare il programma, uscire, ritrovare le amiche e gli amici, andare a conoscere la relatrice e l’artista nuovi che ti intrigano, cenare sotto le stelle a tarda sera e fare pranzi lunghissimi e pieni di parole, chiacchiere, idee nuove che poi porterai a “casa”, ovunque essa sia. La promessa di ritrovarsi presto, chissà dove, fare altre cose assieme. 

Questa settimana sono tornata “a casa”, per circa un giorno e mezzo: ho fatto due pomeriggi di prove a Milano con il mio amico e chitarrista di una vita Manuel Buda: pur non lavorando assieme dal vivo da tempo, i video concerti/lezioni ci hanno tenuti vicini, ci siamo poi ritrovati a Zurigo poche settimane fa - non ci vedevamo da Dicembre - ma la sensazione è sempre quella di non essersi lasciati un giorno: il tempo di un abbraccio e si sta già suonando assieme. Venti e passa anni di amicizia e di lavoro sono forti, più forti dei teatri chiusi e dei concerti annullati, della mia partenza per la Francia e poi per Israele, come della sua per Croazia e Ungheria. Avevamo un programma nuovo da preparare per un bel festival letterario a Salerno: avevo deciso di dedicarlo a storie e canzoni di cibo e di seduzione nella Bibbia.. Eva che si lascia facilmente incuriosire dal serpente, spirito di vita e desiderio di azione, più che impulso malvagio. Il frutto non è una mela, ma il desiderio di conoscere, interpretare, scegliere. Non a caso, sapere / conoscere, ossia ladàat, in ebraico significa anche amare, unire le carni e gli spiriti. Il Cantico dei Cantici ci fa – giustamente – da “colonna sonora”: molte delle canzoni che scegliamo per accompagnare la mia narrazione sono tratte da lì, melodie sul testo del Cantico, composte in Israele fra gli anni ’40 e ‘50 – in alcuni casi quindi anche prima della fondazione dello Stato nel ’48, nel tentativo di “inventare” una tradizione musicale “mediorientale” per un Paese che la geografia ha collocato fra Mediterraneo, Negev e Sinai, ma la cui anima musicale pulsa di Bach, Brahms, Schubert, Smetana, Stravinsky...

La serata salernitana è dolce, la luna è piena, la piazza sembra una cartolina di bellezza del Sud. Bello, bello bello stare di nuovo sul palco, in Italia, fra la gente che ascolta e suda, ride e bisbiglia, sogna e guarda il cellulare, pensa al gelato che si prenderà ancora fra poco, in piazza, prima di andare a dormire.

Da Salerno arrivo a Vicenza in tempo per lo Shabbat. In treno Manuel e io ci siamo mangiati pane, pomodori e mozzarelle, scarole cotte con capperi e olive, torte di fiori di zucca: il baccalà già mi strizza l’occhio, ma lasciando il sud uno ha sempre quella tentazione di portarsi via le provviste per una settimana intera, come se altrove non ci fosse da mangiare, non così bene, almeno. 

A Vicenza ritrovo amici che non vedo da un anno o più, che è bellissimo ritrovare... Persone che qui mi hanno sentita cantare o parlare oramai due anni fa, che hanno seguito in video le mie lezioni dell’ultimo anno. Con Davide Assael, amico, filosofo, conduttore del bel programma di Radio 3 (sempre sia lodata!) Uomini e Profeti, parliamo, sotto le stelle, a Shabbat uscito, di che sia la fratellanza nel testo biblico e nei commenti rabbinici: parlo in particolare di Giuseppe che cerca i suoi fratelli, i quali però – come gli dice l’angelo – “sono usciti da questo”, cioè appunto dal senso di fraternità che dovranno reimparare a costo d’esilio. 

L’esilio è d’altra parte da sempre il prezzo della rottura della fratellanza, castigo di Caino che uccide Abele a seguito di quella conversazione fra i due interrotta un giorno nel campo, di quelle parole che non sapremo mai. Anche i fratelli di Giuseppe non sanno più parlargli “in pace”, troppa è l’invidia per quella tunica speciale, troppa la gelosia per l’amore sproporzionato del padre Giacobbe. Il libro dell’Esodo però completa e redime la Genesi, e lì saranno due fratelli e una sorella che invece collaborano e si sostengono, Aronne, Miriàm e Mosè, a trarre il popolo dall’Egitto, ripristinare la fratellanza e forse – finalmente – far tacere quel sangue di Abele che ha gridato scoperto al cielo per tutta la Genesi. “Io cerco i miei fratelli”, dice Giuseppe una mattina uscendo da una casa che non rivedrà più: “Forse allora è solo lasciando la casa che si può inventare una nuova relazione di fraternità vera perché scelta”, mi suggerisce Davide. 

Per me oggi allora tornare a casa è questo; non un luogo fisico, ma una condizione dell’anima: tornare a fare il mio lavoro, dal vivo, con le persone, in giro per il Paese che amo.


Miriam Camerini

27 giugno 2021

L’erranza, parte 2


 


Mi sento come un ombrello: quando sono lì sono aperta, quando ho finito mi chiudo e vado via, pronta a riaprirmi da un’altra parte.

Questi mesi sono stati così: a fine dicembre tutto era grigio, Milano era triste e sospettosa, le persone si guardavano un po’ in cagnesco e un po’ con quell’aria affranta che pare dire: “Io non ce la faccio più, e tu?”.

Io ero entrata un po’ nella stessa modalità, pur tentando di mantenere rapporti caldi e grandi abbracci con le amiche e gli amici più cari, pur tentando di stare in contatto con la mia famiglia e con chi pareva più solo.

La prospettiva di non lavorare – quantomeno non dal vivo - per ancora chissà quanti mesi non migliorava le cose: alla paura concreta della mancanza di entrate si aggiungeva la pesantezza del non sentirsi utili, vivi, presenti. Un artista che non può stare con il suo pubblico è quasi morto, tutto fluttuava in un vuoto, ovviamente il meteo non aiutava: settimane e settimane di pioggia, di grigio, di freddo.

Una sera un’amica fra le mie più care mi ha chiamata: era partita da pochi giorni da Milano per Nizza, dove ha famiglia. Avevano deciso di affittare un appartamento a Marsiglia e passare qualche giorno al mare. Con semplicità mi ha proposto: “Perché non ci raggiungi? Posto ce n’è”. Il tempo di guardare i treni e la decisione era presa: viaggiare in aereo non mi è mai piaciuto e in Europa cerco con sempre maggior perseveranza di evitarlo a ogni costo; in tempo di pandemia poi l’aeroporto è un girone dell’infermo inferno, le stazioni molto meno, in stazione ci si sente ancora quasi sani.

Sono partita prima dell’alba nella neve di uno degli ultimissimi giorni dell’anno solare (anche se il sole non si vedeva da giorni): alla stazione di Milano si aggiravano nella penombra figure malcerte che firmavano auto-certificazioni poggiandosi le une sulla schiena delle altre, come fuori dal liceo, quando si decideva di saltar la scuola. Io mi ero preparata e stampata per tempo una scusa quasi plausibile per lasciare l’Italia già chiusa e avevo chiuso facilmente una valigia piccola ma piena di golf di cachemire, per una settimana o poco più.

Del buio di quella mattina di fine dicembre ricordo la neve che luccicava nella campagna fuori Milano, già verso la Liguria, l’arrivo a Genova, il blu del mare che non vedevo da mesi, il sole su Savona, la scoperta del Ponente, nuovo per me che da quando sono nata passo le vacanze a Levanto (da dove sto scrivendo anche ora).

A ora di pranzo ero già a Nizza, la quiche di verdure durante il cambio treno, fuori dalla stazione in pieno sole, al caldo, finalmente al caldo: il viaggio era iniziato.

Il treno per Marsiglia era bellissimo, vicino a me una famiglia tipicamente francese: molti bambini ma poco rumore, un sogno. A Marsiglia sono rinata: i miei amici mi aspettavano alla stazione e mi hanno portata subito a vedere il porto, respirare il mare, guardare il tramonto all’orizzonte.

Quella mattina a Martigue, un villaggio della costa a ovest di Marsiglia, avevano comprato del pesce direttamente da un pescatore, ancora nella rete: l’abbiamo fatto alla griglia e scoperto che aveva dentro anche le uova, promessa di fertilità e abbondanza per l’anno in arrivo.

Il Capodanno è stato felice: una passeggiata nel pomeriggio della vigilia fra i fiordi fuori città mi aveva ricordato una delle formule che si recitano per il Capodanno ebraico: “Finisca l’anno con le sue maledizioni, inizi l’anno con le sue benedizioni”; semplice e incisivo.

A mezzanotte in casa russavano tutti dopo una cena a base di cous-cous di pesce, che unisce Trapani a Tunisi e per riflesso d’immigrazione anche la Francia del sud-est.

Abituata oramai a pensare in maniera transatlantica, ho brindato su Skype con un amico a Montreal, per il quale erano ancora solo le sei di sera: porto marino chiama porto fluviale e le lingue sono il francese, l’inglese, l’italiano, l’ebraico, il russo e lo yiddish, lingua di erranza.

La mattina del primo dell’anno era un venerdì; io e Margherita ci siamo alzate felici, circondate da un’aria di nuovo, dall’odore pulito che veniva dal mare in tempesta e dalla pioggia fuori, una pioggia da città di porto, caotica, allegra e ribelle.

Siamo andate a fare la spesa per lo Shabbat, il primo dell’anno solare nuovo, nelle molte macellerie del quartiere ebraico di Marsiglia, pieno di ebrei immigrati dal nord-Africa: cous-cous, salsicce piccanti di carne ovina, agnello e bottarga da tutte le parti. The con foglie fresche di menta e pinoli, datteri e dolci di mandorle e di sesamo: il Medioriente era già sulla soglia.

La mattina dello Shabbat sono andata in sinagoga, la stessa dove si erano sposati i nonni della mia amica, in piena II guerra mondiale, nella Francia di Vichy. Quel giorno - il secondo del 2021 - si finiva di leggere il primo libro della Torah, la Genesi, Bereshit, iniziato in autunno: un brano per volta, capitolo dopo capitolo, da metà ottobre a inizio gennaio, ci eravamo portati dal giardino dell’Eden al deserto dei patriarchi, dalla terra di Canaan a quella degli Aramei per poi finire in Egitto con Giuseppe, i suoi fratelli, il grano imprigionato nei silos a seguito del sogno e la carestia.

Per lunghe settimane, in assenza di teatri, di cinema, di mostre e di concerti, mi ero trovata a desiderare con impazienza che giungesse il Sabato per ascoltare, in sinagoga, la lettura cantillata dal rotolo della Torah delle meravigliose storie del libro della Genesi: lì avevo capito la funzione sacra del teatro, o forse, piuttosto, la funzione teatrale del sacro, la nascita del teatro medievale sui sagrati delle chiese, le processioni e i riti tragico-pagani dei greci e dei romani…

Ciò di cui l’umano ha bisogno, in fondo, è sentir raccontare delle storie.

Mesi dopo un amico dei miei genitori, mio professore di Letteratura all’università di Gerusalemme, mi mostrerà un racconto di Borges in cui, mentre Averroè si arrovella nella solitudine della sua stanza per comprendere il significato della tragedia nell’Aristotele che sta traducendo, incomprensibile a lui cui l’Islam ha bandito il teatro, a Cordova, nella corte sotto le sue finestre, tre bambini giocano: uno è il minareto, un altro il muezzin e un terzo il fedele che accorre alla preghiera; il bel gioco dura poco perché nessuno dei tre vuole essere il minareto, e Averroè continua a cercar di tradurre inutilmente, senza comprendere che il teatro è proprio lì.

Quella mattina di inizio anno, nella grandiosa sinagoga del napoleonico Concistorio di Marsiglia, mentre i calorosi ebrei dei paesi del Nord Africa si scambiano proibitissimi abbracci, baci e strette di mano, mentre gli ashkenaziti, ebrei franco-tedeschi e ligi alle regole si disinfettano le mani prima e dopo aver letto dal rotolo della Torah a cauta distanza, le parole dell’ultimo patriarca Giacobbe che prima di morire benedice Giuseppe, ritrovato in Egitto vicerè dopo averlo creduto morto sbranato da una fiera per tristi e lunghissimi anni, mi commuovono fino a farmi piangere: “Di vedere il tuo volto non osavo immaginare/desiderare/pensare ed ecco che l’Eterno mi ha mostrato perfino la tua progenie.” (Genesi 48:11).

A volte bisogna saper immaginare/desiderare/pensare a una realtà migliore, per poi raggiungerla con l’aiuto di Dio. Tutte parole che in ebraico stanno dentro a quel verbo usato da Giacobbe sul letto di morte e da cui deriva l’ebraico per tefillà, preghiera.

L’anno nuovo è iniziato, con le sue benedizioni.

 

Miriam Camerini

20 giugno 2021


Bimeherà beyamenu, Imshallah! 



“Speriamo di invitarti presto a parlare nella nostra Moschea costruita!” Mi dice l’Imam; “Bimeherà beyamenu” (= presto ai nostri giorni) rispondo, con l’ottativo ebraico dedicato alla ricostruzione del Tempio di Gerusalemme in era messianica. “Imshallah!” risponde l’Imam. 

Esco.

Questa è stata la conversazione con cui mi sono accomiatata dall’Imam Tchina una sera di qualche anno fa, dopo aver trascorso alcune ore splendide.

Ma facciamo un passo indietro… 

Io arrivo sempre troppo troppo di corsa alle cose... impreparata, senza aver letto i volantini e le comunicazioni degli eventi, neppure quelli che parlano di me, intendo. Non avevo capito dove stavo andando, che cosa stava per succedere. 

Avevo appena finito di ricordare Rav Laras al Centro Culturale San Fedele a Milano centro, commentando il passaggio del mar rosso come descritto nel Libro dell’Esodo e nei commentari. Assieme a me un gesuita belga, Jean Louis Ska, distinto ed elegante. 

Ho preso la metropolitana al volo, accompagnata da mia madre che tornava a casa, in metro ho scritto a un amico che stavo avventurandomi a Sesto San Giovanni.. 

“Hic sunt leones!”, mi prende in giro l’amico giocando sulla mia scarsa consuetudine con ciò che è fuori dalla cerchia dei Bastioni. 

In effetti al Centro Islamico c’era anche un prete di nome Don Leone, che mi ha accolta e stretto la mano. 

E lì ho iniziato a capire: il Decanato di Sesto e il Centro Culturale Islamico avevano invitato un’ebrea, per di più donna, a studiare con loro, a insegnare a centinaia di convenuti, cattolici e islamici, la figura di Abramo, il patriarca Avraham. 

Le soprascarpe non bastavano perché nel contare le presenze previste nessuno aveva pensato che quelle “presenze” avrebbero avuto due piedi l’una. 

Avevo in mano una rosa bianca, donatami da una signora a San Fedele. L’ho posata sul tavolo dei relatori e chiesto un vaso: qualcuno l’ha portato. Ho piantato la mia rosa lì davanti a tutti e parlato di Abramo, e ascoltata una teologa musulmana e un prete e teologo cattolico. 

Ho volato, ho pensato di essere in una biblica Terra di Canaan, prima di tutto, prima di ogni lite, se mai è esistita una umanità che non litiga. 

Un signore mi ha rivolto una domanda faticosa: che cosa rappresenta per me Israele, e che cosa rappresenta per “l'ebraismo”... Ho spiegato che è una terra che amo, che Gerusalemme è la mia città, che Israele è una terra che “divora i suoi abitanti”, come è scritto nella Torah. Abbiamo poi divorato assieme dolci e delizie di ogni genere, le signore che li avevano preparati mi parlavano delle ricette “israeliane” che sono le stesse di tutto il Mediterraneo, o almeno del Medio Oriente. 

Abbiamo bevuto the alla menta e scambiato sorrisi, anche il signore che mi aveva posto la domanda su Israele è venuto ad abbracciarmi, così una signora cui un mio racconto aveva fatto scendere lacrime di commozione. 

La rosa se ne stava sul tavolo e profumava in silenzio. Sono tornata a casa mia con la sensazione di essere una sorta di Alice nel Paese delle meraviglie che non sempre capisce in che buco si sta cacciando, ma a volte finisce su vette sublimi e può solo ringraziare il Bianconiglio che ha seguito senza far domande.


Miriam Camerini

13 giugno 2021

Gerusalemme, foto tratta da commons.wikimedia.org



Lultimo venerdì



È venerdì e io sono più o meno dove tutto è iniziato, 3 mesi fa: la casa del Rav Hefter, il rabbino per studiare con il quale ho scelto di trascorrere quello che speriamo sia l’ultimo pezzo di pandemia in Israele.

Sono partita da una Parigi piovosa e dolcissima alla metà di Marzo, il novilunio e quindi l’inizio del mese ebraico di Nissan, il primo di primavera. Con tutte le burocratiche traversie che ormai conosciamo, quarantene, test e moduli vari, sono atterrata a Tel Aviv alla fine dello stesso weekend che a Parigi mi aveva cullata nella pioggia, per uscire dall’aeroporto al sole di una domenica di primavera. Un mio cugino con la sua famiglia mi aspettava a El’azar, nei “territori”, fuori Gerusalemme, dove avrei trascorso i 10 giorni di quarantena: avevo accettato il suo invito con riluttanza, perché per me è difficile anche passare una serata in una parte di terra che non ritengo appartenga allo Stato di Israele, e dove in molti e molte oggi abitano “da coloni”. Avevo scelto di starci per superare un pregiudizio, vedere con i miei occhi come si vive “negli insediamenti” e capire, forse, qualche cosa di più.

Mi piaceva il fatto che quella quarantena fosse anche il periodo di preparazione a Pesach, alla Pasqua, alla libertà. Era la primavera, e il Cantico dei Cantici, libro della Pasqua, dell’amore risvegliato “quando lo vuole”.

Ho già raccontato del giorno delle elezioni, l’ultimo della mia quarantena, e del mio voto per un partito di sinistra infilato dentro un’urna piena di voti per la destra.

Sono passati più di due mesi da quel giorno, e pare che stiamo per riuscire ad avere una specie di governo, anche se c’è voluta una specie di guerra assurda in mezzo.

Sono stati 3 mesi pieni di eventi, c’è stata la Pasqua ebraica e quelle cristiane, il terribile incidente di Meron, il Ramadan, gli scontri a Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est, mentre io e il mio amico Elhanan ce ne passeggiavamo tranquilli una sera godendo la festosa atmosfera di fine Ramadan, le luci, i profumi, la musica e le knafe, la pita col zaatar e l’olio di oliva, il succo di tamarindo e il caffè col cardamomo. A pochi metri da noi venivano bruciate automobili, picchiati ebrei chassidici e diffusi gas lacrimogeni. Noi però eravamo nel giardino di un hotel da Mille e una notte e fumavamo il narghilè.

Ho studiato, finalmente seduta davvero nel Beit-Midrash, nella scuola che frequento per diventare rabbino, dopo aver finalmente completato il vaccino stando in piedi per ore e ore un paio di pomeriggi al municipio di Gerusalemme, l’unico posto in cui può vaccinarsi anche chi non ha qui la mutua.

Ho lavorato, preparato l’estate e l’autunno, con tutta la voglia di tornare a girare l’Italia e l’Europa facendo i miei spettacoli, i miei concerti, le mie lezioni. Tornare alla vita “di prima”, che però tanto in realtà sappiamo tutti e tutte benissimo che non sarà la vita di prima e forse nemmeno lo vogliamo. Io, per esempio, ardo dal desiderio e dalla speranza di mantenere un po’ di quel silenzio, di quella concentrazione, di quella solitudine. Mi è piaciuto imparare che siamo deboli e fragili e bisognosi gli uni delle altre, mi è piaciuto re-imparare a dormire, a dormire davvero, otto-ore-per-notte come da bambini, come non potevo, non volevo, non riuscivo, non sapevo da decenni.

Oggi ho passeggiato nella città vecchia di Gerusalemme, ancora una volta in quel dedalo di vie che è il suo shuq, mercato villaggio mondo infinito, sempre uguale e ogni giorno diverso. Ho pensato a quanto era vuoto appena poche settimane fa, alla fine del Ramadan e durante i giorni dei missili e degli scontri, bello anche allora, a suo modo, con quel silenzio mai sentito prima. Oggi sembrava che quelle settimane fossero lontanissime, forse mai neppure avvenute e mi sono trovata a pensare che forse è per questo che Gerusalemme è eterna: perché sa guardare perennemente solo avanti, dimenticare senza necessariamente cancellare: tutto resta, ma non ci si pensa più. Uscita dalla città vecchia dalla porta di Damasco, dove appena poche settimane fa avevo separato 4 ragazzini arabi e due soldati israeliani che stavano per azzuffarsi come se fossi una vecchia maestra di scuola elementare, sono passata a salutare una estetista filippina a Gerusalemme est che la scorsa settimana mi ha fatto una delle migliori pedicure che abbia mai avuto: ho solo messo dentro la testa il suo sgabuzzino, oggi, per sapere come va con il covid la sua famiglia a Manila e dirle che la mia unghia incarnita non è mai stata così bene.

Da Gerusalemme est, senza passare altro confine che una linea immaginaria, si passa dal quartiere arabo a quello haredì, ultraortodosso, e così sono andata a godermi i profumi delle challot, il pane dello Shabat appena sfornato. Mi sono anche fatta urlare addosso da dei ragazzini fanatici perché sono entrata in una panetteria (mitica, compare anche in Shtisel) con una maglietta le cui maniche non mi coprivano i seducenti e proibitissimi gomiti, ma non ci ho fatto troppo caso, anzi li ho insultati di rimando. 

Mentre cala la sera sul Gush Etzion e mi preparo all’ultimo Shabat in Israele, guardo il deserto e i monti della Giudea, sento il fruscio degli olivi, il richiamo serale degli uccelli al tramonto e aspiro i profumi del cibo del Sabato che mi giungono qui fuori in giardino dalla porta della cucina del rabbino e di sua moglie, mi auguro che la tessitura di ordinario e stra-ordinario che ho imparato e vissuto in questi mesi rimanga con me e con chiunque altro lo desideri come un dono prezioso.


Miriam Camerini

6 giugno 2021


Gerusalemme, foto tratta da commons.wikimedia.org


L’erranza 

parte 1 




Quando è iniziata la pandemia io ero la donna più stanca del mondo.

La carta geografica delle elementari oramai per me aveva assunto tutto un suo senso: mi spostavo incessantemente dalle Marche al Veneto, dall’Emilia al Lazio al Friuli, dal Piemonte al Trentino alla Toscana. Tornavo a Milano, facevo un bucato e prima che fosse asciutto ero già di nuovo su un treno.

Mi proponevo di scrivere a Italo, che per un breve tempo aveva offerto carrozze-coiffeur, perché le ripristinasse al più presto: io non ero mai a casa un numero sufficiente di ore per lavarmi i capelli e sarei stata la loro più grata (e una volta tanto pettinata) passeggera. Ogni tanto andavo anche a Parigi, a Belgrado, a Berlino, a Sofia, a Vienna, a Budapest e a Zurigo: un po’ per lavoro, un po’ per piacere, un po’ per vedere delle amiche e degli amici, anche se non è che questa distinzione mi fosse poi mai stata chiarissima. Quando sapevo che avrei trascorso un weekend a Milano lo comunicavo con anticipo a parenti e amiche, così da programmare di vederci, come avrei fatto con chi andavo a trovare in un luogo insolito.

A Milano avevo sì una casa, ma senza cucina e senza armadio, perché mangiare mangiavo fuori e i vestiti li tenevo un po’ in valigia, un po’ in tintoria (quelli che non sapevo lavare da sola) e un po’ in lavatrice.

Perché lo facevo? Perché così era il mio lavoro, e – lo ripeto – era anche fra le cose che mi davano più piacere al mondo: viaggiare, incontrare persone, parlare, cantare, raccontare, insegnare, spiegare.

Partecipavo a convegni, presentazioni di libri e seminari. Allestivo spettacoli, oppure ne ero parte, in scena. L’unico fattore unificante eravamo io e “l’ebraismo”, o meglio: il mio ebraismo, di donna, relativamente giovane, osservante, istruita, aperta al dialogo con l’Altro e allo scambio di idee.

Studiavo per diventar rabbino, dicevo, ma in realtà non studiavo affatto, perché diventar rabbino è difficilissimo e per farlo davvero avrei dovuto smettere di spostarmi e lavorare continuamente, ma invece aprire i libri e ficcarmici dentro giorno e notte.

Quando è iniziata la pandemia io avevo un innamorato che mi mancava sempre perché non lo vedevo quasi mai: lui era russo ma abitava in Canada, ci eravamo conosciuti in Germania ed eravamo stati assieme in Svezia e in Grecia, oltre che ognuno a casa dall’altro. Con lui abitavamo assieme Yiddishland, quel luogo dell’anima e della mente in cui si parla una lingua che non ha mai avuto un suolo suo, ma solo un popolo, errante per definizione: quello ebraico. Lui quella lingua da viaggio, lo yiddish, la insegnava, io di lui mi ero innamorata per impararla, o magari anche il contrario.

All’inizio di questa settimana sono stata - per la prima volta in anni - sulla spianata delle Moschee, o Monte del Tempio che dir si voglia: accompagnavo un’amica che voleva scrivere per il quotidiano di cui è corrispondente da qui sulla riapertura di quel luogo dopo la “guerra” delle scorse due settimane. Io sono ebrea e anche israeliana e credo da sempre nell’importanza della Diaspora, della sua storia, cultura, spiritualità e anche moralità. Non ho mai sentito centrale nel mio ebraismo l’esistenza dello Stato di Israele come entità politica, come “Stato ebraico”, anche se non posso non sentire la santità della Terra, radicata nella Bibbia e nella Letteratura rabbinica post-esilica.

Credo nell’esistenza e nella difficile e non scontata sopravvivenza del popolo ebraico in due millenni di esilio, nel suo assumere forme diverse, eppure consistenti ovunque nel mondo e nella Storia, credo nelle lingue, nelle interazioni, cattive e buone, con tutti i popoli e le realtà con cui il popolo ebraico si è trovato a vivere. Sulla spianata delle moschee, quel luogo che in arabo si chiama – non a caso – “proibito”, l’altro giorno ho sentito forte la necessità che quel luogo resti “altrui”, ho saputo di non aver alcun desiderio di esso come luogo santo dell’ebraismo.

Dalle mie labbra, un po’ ironica, è uscita la parafrasi del Salmo 137, che dice: “Se ti dimentico, Gerusalemme… Si attacchi la mia lingua al palato...”. 

“Se ti dimentico, Diaspora, se dimentico il mio essere ebrea della Diaspora...” ho voluto invece dire, e soprattutto dirmi. 


Miriam Camerini

30 maggio 2021

Foto di Paola Cazzaniga

Il tempo è invito




Finito il periodo dell’Omer, finita la guerra, ricevuta la Torah a Pentecoste, concluso il Ramadan, anche la pandemia sembra avviarsi alla conclusione, con la vaccinazione di quasi tutti e tutte, pare che a Gerusalemme si torni alla vita “normale” e io non so se esserne spaventata o contenta. 

Secondo il Talmud babilonese (TB), principale testo dell’ebraismo rabbinico (V sec d.C.), il Messia nasce il giorno della distruzione del II Tempio di Gerusalemme, ad opera dei romani, nel 70 d.C. 

Da allora siede alle porte di Roma, fra i lebbrosi con i piedi piagati, e aspetta che noi umani ci meritiamo la sua venuta, mentre noi umani - specularmente - attendiamo lui. (TB Sanhedrin 98a e altre fonti).

Catastrofe delle catastrofi, fine di tutto ciò che era stato prima, inizio dell’esilio e della diaspora che caratterizzerà la vita ebraica per i successivi duemila anni, la distruzione del Tempio è uno spartiacque senza ritorno fra il prima e il poi, fra il mondo di ieri e quello del sempre. 

Il fatto che la tradizione rabbinica collochi la nascita del figlio di Davide", del redentore, di colui che realizzerà la promessa divina alla fine dei tempi, ponendo fine alla dispersione, nel giorno della massima catastrofe, è significativo del rapporto che l’ebraismo intrattiene fra fine e inizio. 

Un altro esempio, questo liturgico: appena conclusa la lettura annuale della Torah, il Pentateuco, che viene letto brano dopo brano, settimana dopo settimana, nelle sinagoghe e nelle case di tutto il mondo, da un autunno all’altro, appena conclusa la lettura dell’ultima parola del Deuteronomio, dunque, si riavvolge da capo il rotolo della Torah e senza alcuna interruzione si ricomincia a leggere: Bereshit, In principio Dio creò il cielo e la terra...

Questa è la visione ebraica, circolare, eternamente ritornante, del tempo che si svolge, si compie e si riavvolge, senza interruzione, con saggezza. 

Tutto ciò che fu è ciò che sarà, ciò che si è fatto è ciò che si farà, e non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Succede che si dica di qualcosa: ecco una novità! Ma era già successa in altri tempi, prima di noi. (Qohelet 1:9-10, trad. Amos Luzzatto). Non c’è vita nuova che non sia anche vecchia, antica, già vissuta. 

Ogni morte è anche risurrezione e ogni distruzione è promessa di rinascita. 

Chadesh yamenu kekedem, chiediamo all’Eterno ogni Shabbat, ogni sabato, riponendo il rotolo della Torah nella sua arca: Rinnova i nostri giorni come prima

Il tempo in ebraico è un invito (la parola ebraica per tempo è zeman, che condivide la radice con l’ebraico per invito). 

Il nostro tempo è un invito: a non scoraggiarci, a guardare avanti, a Non disprezzare nessuno e non discriminare nulla, poiché non c’è persona che non abbia la sua ora e non c'è cosa che non abbia il suo posto. (Mishna, Avot 4:3).


Miriam Camerini

23 maggio 2021


Foto di Paola Cazzaniga

Sabato



Però ci sono anche i gruppi di persone che si trovano con cartelli scritti in arabo ed ebraico e ragazzine di 8 o 10 anni che prendono il megafono e intonano: “Arabi ed ebrei rifiutano di essere nemici, il popolo esige cessate il fuoco, A Gaza e a Sderot le ragazze vogliono vivere!” e cose così. 

Questa sera sono stata a una manifestazione del genere davanti al municipio di Herzliya, nel centro di Israele, poco a nord di Tel Aviv, l’altro ieri sera a Gerusalemme. Sono poche le persone e molte le Birkenstock (radical chic di tutto il mondo unitevi: anche io ho le mie, ovviamente: a questo giro infradito verde oliva, color Galilea...); come sempre il vantaggio maggiore è per noi stessi, che forse ci sentiremo meno impotenti e disperati fra un’ora quando saremo a cena davanti al telegiornale.

 

C’è altro da fare? Votare ho votato, quasi sempre, ogni volta che ho potuto, anche quest’anno che pure ero appena arrivata, ero in quarantena a casa di cugini che abitano in una colonia della Cisgiordania, dove probabilmente il mio voto per il partito più a sinistra di tutti ha fatto rumore cadendo nell’urna foderata di voti dal suono assai diverso, forse una marcia militare. Quest’anno, chi era in quarantena perché appena entrato nel Paese, come me, non era tenuto a recarsi al suo seggio, bensì a votare in uno qualunque dei seggi appositi. Così ho avuto l’occasione di infilare un voto a sinistra in un seggio sicuramente molto più nazionalista di me. Ho sorriso nell’immaginare alla sera lo spoglio dei voti e l’addetto che solleva la mia scheda, la guarda controluce (quante volte in questo mese e mezzo ho mimato questa scena da me inventata per divertire amiche e parenti...) e dice: “E questa roba qui come c’è arrivata?”... Questa era la fine di Marzo, sembra passato un secolo.

 

Appena un mese fa, alla vigilia dell’anniversario dell’indipendenza di Israele, la sera di Yom Hazikaron, il giorno che ricorda i caduti e le cadute in tutte le guerre di Israele e negli attentati di terrore da esso subiti, sono andata in piazza, davanti al  municipio di Gerusalemme; come ogni anno si svolgeva lì uno dei miei riti preferiti fra i molti inventati dalla società israeliana laica: Israele ha una quantità assolutamente non paragonabile ad alcuna altra nazione che io conosca di canzoni “popolari” legate alle origini, ai primi kibbutz, ai pionieri, alle prime guerre, agli eroi che non torneranno più a casa ma il cui sacrificio vivrà per sempre in noi etc etc... Sono canzoni solitamente meravigliose e commoventi, note fin dall’asilo a ogni israeliano o israeliana, scritte apposta per essere cantate facilmente in coro da una grande folla riunita apposta, spesso guidata da una chitarrista o pianista. Ho sempre amato questo modo popolare e potente di elaborare assieme il lutto, cantare il dolore di chi ha perso un figlio o un amico facendolo sentire parte di un tutto. Quest’anno ci sono andata anche se sapevo che non mi avrebbero lasciata entrare nello spazio destinato al pubblico, ancorché all’aperto: chiedevano di esibire il certificato di vaccinazione e io non avevo ancora completato il processo. Sono rimasta fuori dalle transenne, sulla piazza grande, arrampicata su un muretto per vedere e sentire e cantare e sentirmi parte, comunque. Un ragazzo stava accanto a me, anche lui senza oltrepassare le transenne, aveva in mano il cellulare su cui leggeva i testi e cantava a squarciagola: mi ha fatto simpatia. Pochi minuti dopo si sono avvicinati due ultraortodossi biondi e giovanissimi, avranno avuto 16 o 17 anni, riccioli sulle tempie, i cappelli neri un po’ piatti dei chassidim di Gerusalemme e i soliti occhiali a fondo di bottiglia. Con le donne sono istruiti a non parlare, quindi io ero fuori dai giochi; si sono rivolti al ragazzo che cantava e gli hanno domandato: “Che succede? Chi suona? Che cosa cantano?” (Gli ultraortodossi non partecipano solitamente ad alcuna delle cerimonie attorno al giorno dell’Indipendenza, essendo di base contrari al Sionismo politico). Il ragazzo li ha scacciati con un gesto della mano come si farebbe come una mosca e ha sibilato un po’ isterico: “E’ tutto dell’altra parte (espressione aramaica rabbinica e mistica che allude a cose diaboliche, malvagie), lasciate perdere...” I ragazzi se ne sono andati subito, non so se più spaventati o mortificati. Io ho iniziato a piangere, così proprio, subito. Fra i singhiozzi mi dicevo: “Siamo qui a piangere i migliaia di morti che ci sono costati i primi 73 anni della vita di questo disgraziato Paese e questo odio fra le persone è il modo di ricordarli?”. Non avevo ancora fatto in tempo a pescare nella borsa un fazzoletto quando ho visto uno degli addetti alla sicurezza dell’evento allontanare in malissimo modo due ragazzi, questa volta arabi, probabilmente venuti da Gerusalemme est - che è a meno di un chilometro dal municipio - dicendo loro: “Tornatevene al vostro Ramadan, che cosa venite a fare qui?”. I miei singhiozzi a questo punto sono diventati un urlo disperato e la consapevolezza di aver appena assistito alla stessa identica scena ripetuta due volte: arabi e ultraortodossi allontanati in malo modo, invitati a “starsene nelle cose loro” ha fatto nascere in me il bisogno di reagire, portare una parola di pace in quel mare di ostilità. Prima mi sono rivolta al ragazzo, e gli ho detto: “Canti bene, peccato aver mandato via così quei due chassidim: una volta tanto che si interessano alle cose “nostre”, meglio avvicinarli, no?” Poi sono andata dall’energumeno della sicurezza e gli ho fatto notare che forse menzionare il Ramadan era assolutamente superfluo e inutilmente offensivo. Non so a che cosa sia servito, forse - di nuovo - solo a sentirmi un po’ meno male un’ora dopo, nel letto, cercando di prendere sonno.

Eppure, esattamente un mese dopo, a Ramadan finito, nell’ultima sera del periodo che ci ha condotti da Pasqua alla Pentecoste che festeggeremo domani, con una guerra in corso e a mezz’ora dai missili promessi da Hamas per la mezzanotte di questo sabato sera poco festoso, sapere che ho provato a parlare non con il “nemico” esterno, ma con quella parte di noi che sembra incastrata nell’odio mi permette di respirare, quantomeno di respirare.


Miriam Camerini

16 maggio 2021


Foto di Alberica Di Carpegna

Domenica

Meron





Tutta la settimana ho tenuto lontano il male: a chi mi domandava come stavo, se avevo accusato il colpo di essere scampata al disastro che ha sconvolto il Paese in cui abito al momento, Meron, di cui ho parlato la scorsa settimana, dicevo: “No, sto benissimo, è stata un’avventura, certo, ma io ero lontano, i 45 che sono morti erano tutti uomini, beh, uomini e ragazzi e anche bambini, sì: è terribile, ma io ero nel settore delle donne, da noi tutto a posto. Certo: ho sentito, e sono stata parte di quella massa disordinata che cercava di scendere dal monte nella notte e ho visto i soccorsi che tentavano di salire e non riuscivano, e ho anche visto un ferito portato giù sulla barella, e a ben pensarci non lo so se era solo ferito, muoversi non si muoveva: forse era... Cioè, io non lo so: non l’ho mai visto... dal vivo, (ops: gioco di parole veramente involontario, come si dice) un m...”.

 

E la radio continua a parlarne, e le persone a scrivermi, amici e conoscenti, anche persone che seguono il mio lavoro, e che non ho ancora mai incontrato, mi scrivono tutta la settimana per sapere come sto. E io a tutti dico: bene, dai. Parlo con giornali e giornalisti, con la TV e con la radio: a tutti dico che non mi sono spaventata, no, semmai indignata, del comportamento incosciente di questi e irresponsabile di quelli. Essere arrabbiati è più facile che dire: “Sono triste, ho avuto paura e non ne ho ancora veramente parlato con nessuno”.

La mia famiglia non è qui, ho voluto solo rassicurarla, non volevo si preoccupassero per me, così a distanza.

Però fatico a dormire e anche a lavorare: mi sento stanca e senza forze, non ho pazienza per nessuno.

 

Martedì alla scuola dove studio per diventare rabbina discutiamo di come possa la alachà, il sistema normativo ebraico, provocare sofferenza nelle persone che ad essa si sentono vincolate: a porre la domanda è una mia collega, giovane, in attesa della prima figlia, intelligente, studiosa, estremamente onesta e rigorosa: secondo lei la alachà è diretta emanazione divina; se la divinità, come lei crede, è buona, e la norma è la sua parola, come può questa parola aggiungere dolore nel mondo, invece che sollevarne?

All’inizio provo fastidio per la domanda, la mia reazione prima è: se queste regole ti creano sofferenza perché le segui? Chi ti obbliga? Io faccio solo le cose che mi fanno stare bene, non seguirei mai una regola che mi peggiorasse la vita, mica credo nel fulmine che scende a incenerirmi, e nemmeno all’aldilà...

Siamo nel XXI secolo. Penso a un ordine cosmico dove tutto è giusto perché ciò che è male per uno è bene per un altro, mi torna in mente una scena de La Danza della realtà di Alejandro Jodorowsky in cui una mareggiata uccide - portandolo in secca - un intero branco di sardine, per la gioia dei gabbiani. Il giovane Jodo capisce lì che la vita è più potente di qualunque misericordia parziale, decide lì e per sempre di stare dalla parte della vita, che è superiore al mare, alle sardine e anche ai gabbiani. Momento hegeliano, faustiano, forse anche un po’ fascista? Eppure, o forse proprio per questo, è una scena che mi ha sempre dato un brivido di piacere vitalista e vagamente immorale: stare con chi vince, andare avanti, non lamentarsi, soprattutto non lamentarsi, mai. Tutto quel che succede è giusto: se ci sei rimasto sotto (ai poveri corpi caduti uno sull’altro a Meron, nella marea dell’Oceano cileno di Jodorowsky) vuol dire che un po’ te lo meritavi, non hai fatto nulla per evitarlo, problemi tuoi che stai con i “perdenti”.

Cito uno dei miei eroi intellettuali, il tardo-illuminista tedesco luterano Gotthold Efraim Lessing, che, dopo aver perso a pochi giorni di distanza la moglie e l’unica figlia, da essa appena messa al mondo, scrive una lettera che ho sempre trovato esaltante, nella sua sublime razionalità che sfiora la pazzia (forse la raggiunge anche). Scrive Lessing, moglie e neonata appena seppellite: “Ho provato anche questo dolore. Mi conforta sapere che non ce ne possono essere di molto più grandi”. Ricordo che quando lessi da ragazza queste poche e asciutte parole provai venerazione per tanta fortezza di spirito.

 

Martedì, mentre discutiamo, qualcuno in classe cita Maimonide, medico e pensatore ebreo fra i più razionalisti del medioevo, il quale scrive che l’uomo che soffre delle sue disgrazie - sta commentando Giobbe - patisce niente altro che la sua propria ignoranza e scarsa intelligenza: fosse più sofisticato saprebbe dare un senso a ciò che gli accade, oppure - facendo l’intero giro del cerchio per tornare al punto di partenza - smettere di cercarlo e vivere in pace. Penso a Lessing e alla mia visione faustiano-jodorowskiana e iper-intellettuale del dolore (soffrire è da poveretti) e sbotto in classe, mentre tutti i miei compagni e le mie compagne sono scandalizzate dall’elitismo sentimentale maimonideo: “Oh, questa è la prima cosa sensata che sento da quando abbiamo iniziato!”.

Poi però mi ricordo che è Lessing stesso, nel proseguimento ideale di quella lettera che è il Nathan il saggio, sua ultima opera e capolavoro, a far dire a un autobiografico Nathan, che ha perso moglie e figli in una sorta di pogrom: “Per giorni mi rotolai nella polvere, finché mi rialzai e dissi a Dio: Io voglio, se Tu vuoi che io voglia!“. Lessing stesso cita Giobbe, lo accosta a sé e al personaggio Nathan, ne ammira forse proprio ciò che lui non ha: la capacità, infine, di lamentarsi, che però anche per Giobbe è un risultato, un punto di arrivo.

Un compagno di classe, a fine lezione, mi mostra una lettura di Giobbe diversa, quasi opposta a quella di Maimonide: lo Zohar, il testo base della mistica ebraica, dice che la “colpa” di Giobbe è proprio l’apparente virtù con cui ci viene presentato nei primi versi: si tiene lontano dal male, presenta all’Eterno solo olot, quel particolare tipo di olocausti che salgono interamente, di cui non si mangia nulla, di cui tutto deve bruciare. Giobbe non mangia, non tiene nulla per sé, è puro, purissimo, non si sporca le mani, non tocca la carne, si tiene lontano dal male. E allora è il male a venirlo a trovare, finché impara a lamentarsi, a chiedere conto.

 

Venerdì sera vado a trovare una famiglia che sta affrontando un dolore indicibile, al quale ho pensato tutta la settimana ma di cui avevo una paura tremenda, tanto che l’idea di stare lì con loro qualche ora mi terrificava, pur sapendo che alla fine lo avrei fatto, perché volevo e perché me lo avevano chiesto. Come avviene quasi sempre in questi casi, le persone coinvolte sono molto più coraggiose di quelle che dovrebbero dar loro coraggio; la mia visita mi arricchisce e mi insegna: a volte non bisogna tenersi lontani dal male, ma immergercisi fino al collo, smettere di aver paura.

 

Sabato mattina vado in sinagoga e finalmente trovo il coraggio di recitare la benedizione pubblica per lo scampato pericolo. Adesso lo posso dire: “Grazie Eterno per non avermi seppellita a Meron”.


Miriam Camerini

9 maggio 2021



Foto di Shendl Copitman Kovnatskiy

Lunedì



A Gerusalemme le cose succedono con una velocità e un’intensità che altrove non c’è. Prendere un momento per scriverle, magari uscendo all’ultimo minuto da Gerusalemme su uno sgangherato autobus che traballa troppo in fretta (pure lui) verso il sud, impaziente di baciare il deserto prima che entri il sabato, lo Shabbat, e fermi tutto e tutti e tutte, è l’unico modo che conosco per preservare un minimo di sanità mentale. Dunque, eccomi.

Questa settimana è andata così:

Lunedì, alla scuola che frequento per diventare rabbino, mi hanno insegnato una cosa preziosa: rispondere a una domanda (in quel caso si parlava di normativa, ma si può - credo - estendere ad altro: consigli, conforto, informazioni) equivale all’esecuzione del precetto biblico espresso in Deuteronomio 22:1, ossia: “Non guarderai il bue o la pecora del tuo fratello andare perduti e resterai indifferente, ma invece li riporterai al tuo fratello”. Difficile la parola che la Torah usa qui, lehitalem: la si usa molto anche nell’ebraico moderno, proprio per disinteressarsi di qualcosa o qualcuno, ignorarla, restare indifferenti.

L’idea mi ha affascinata subito: in generale fatico moltissimo con le persone che non rispondono, che non si fanno trovare, che non ci sono quando hai bisogno di loro.

Da me stessa esigo presenza, certo con dei limiti: bisogna stare bene noi per primi per poter aiutare un altro, quindi è fondamentale porre dei confini, di tempo, di spazio, di forze.

Ma entro quei confini io ci sono: chi mi cerca mi trova e a chi chiede rispondo.

L’ho sempre sentito importante, proprio perché soffro tanto quando non succede a me, ma lo sento come fondamentale ora che studio per diventare rabbino.

Un rabbino ci deve essere, punto.

A volte scherzo con me stessa o con pochi fidati amici e chiamo le ore che spendo ogni settimana nel tentativo di ascoltare, indirizzare, rispondere, a volte anche dirottare verso chi ne sa più di me, se necessario, “The Rabbi is in”: il rabbino c’è, parafrasando quella meravigliosa vignetta di Lucy dei Peanuts che allestiva un minuscolo stand, un gazebino di strada con sopra un cartello: “The Doctor is in” e da lì dava consigli, ma soprattutto ascoltava... Vi ricordate?

L’idea è che c’è un sapere comune e collettivo, ripeto: nel caso specifico, una sorta di innata e istintiva saggezza normativa, un intuito primigenio che ci diceva come comportarci quasi spontaneamente in maniera gradita al Creatore del mondo.

Questo istinto, con tanti altri, lo abbiamo evidentemente perduto da qualche parte nel lungo cammino che ci ha resi umani cervellotici ed evoluti, e allora chi studia, chi dedica il proprio tempo a “toccare nella Torah giorno e notte” (Giosuè 1:8) ha l’obbligo di restituire quel sapere trovato – ritrovato ai suoi proprietari, cioè a chiunque domandi.

La Torah, nella visione ebraica, appartiene a chiunque e tutti ne possiedono una parte: “Dacci la nostra parte nella Tua Torah”, chiediamo svariate volte al giorno nelle preghiere.


Miriam Camerini

18 aprile 2021



Martedì, o la visita del Messia

 

 

 

Martedì qui a Gerusalemme sono successe un paio di altre cose: alla scuola che frequento per diventare rabbino abbiamo studiato un’altra parola, quasi contraria a quel disinteressarsi di cui ho scritto la settimana scorsa; pakod: visitare, andare a trovare, ma anche ricordarsi di, prendere in considerazione, esaudire. Il contesto, anche in questo caso, era strettamente normativo e legato alle specifiche regole che stiamo studiando riguardo i rapporti fra moglie e marito e il ciclo mestruale che scandisce la vita della coppia. 

Secondo il Talmud, un uomo che sta per partire e sa che quando tornerà troverà la moglie già in stato di impurità, ha il dovere di “andarla a trovare” prima di mettersi in viaggio, per non perdere l’ultima occasione di un’intimità fisica che poi potrà essere ripristinata solo dopo circa due settimane. 

Un commento medievale al testo rabbinico (dei primi secoli dopo Cristo) prova a spiegare diversamente questo strano verbo, che più spesso nella Bibbia è attribuito al divino, il quale più che congiungersi carnalmente “visita” o “si ricorda”. Allora il marito più che preoccuparsi di trascorrere un’ultima romantica notte d’amore dovrebbe proprio “passare a salutare” l’amata, renderle visita, congedarsi, segnalare un affetto che possa compensare - nei giorni a venire - la distanza di chilometri prima e di leggi antiche e dure poi. 

Amo questo cortocircuito fra il verbo che nella Genesi è riferito al Creatore che mantiene ciò che ha promesso, sebbene a distanza di anni, rendendo Sara madre, come in Genesi 21:1, o traendo il Suo popolo dall’Egitto, secondo la profezia di Giuseppe sul letto di morte negli ultimi versi della Genesi 50:25 (“Dio si ricorderà di voi sicuramente e porterete via le mie ossa da qui”) e l’immagine cristiana dell’arcangelo Gabriele che visita Maria con il bell’annuncio: anche lei sarà madre, anche per il suo popolo verrà la salvezza. Redenzioni private come quella di Sara, di tutto il popolo in Egitto e di un tempo dopo il tempo, tempo addirittura non ancora venuto per il mio popolo che il messia ancora lo aspetta...

 

C’è dunque qualche cosa di salvifico in questo poked che ora tradurrei come: prendersi cura di, tenere in conto ... avere in nota, direbbe mia madre. 

A casa mia non aver in nota è più o meno la peggior cosa che si possa fare a una persona. Forse è per questo che quando in quello stesso pomeriggio un amico mi porta con sé a visitare un suo conoscente, bell’uomo, colto, capace, brillante, che gestisce uno spazio interessantissimo dedicato alla lingua ebraica, ma anche alla letteratura ebraico-tedesca, insomma un luogo in cui io potrei fare faville, spettacoli, concerti, letture e incontri, e quest’uomo non mi degna di uno sguardo né una parola di ciò che dico pare interessarlo, che pare non sentire nemmeno ciò che propongo, decido di alzarmi e girovagare fra libri e alberi. La mia, di redenzione, questo pomeriggio in mezzo a parole a me tanto care, è non lasciarmi ignorare, non stare dove non mi si vuole, che poi significa più semplicemente (“l’inconscio non conosce il negativo”, mi disse una volta il mio psicoterapeuta): andare verso chi mi vuole, smettere di cercare chi mi rifiuta, accogliere chi mi cerca, per imparare a dare proprio a chi non chiede, ma - come tutti - ha probabilmente bisogno.


Miriam Camerini

25 aprile 2021


Giovedì 

Meron




Vi ricordate quando dicevo che le cose qui in Israele succedono molto in fretta? Ecco, questa settimana anche di più, ma cerchiamo di fare ordine, ché per questo gli dei ci hanno donato la scrittura. (Questo proemio la dice lunga sull’atmosfera pagana dell’intera esperienza: astenersi rigidi monoteisti).

BeMeron, sham rabbi Shimon, adonenu bar yochay ... A Meron, là rabbi Shimon, il nostro signore figlio di Yochay…

Cantavamo in un’estate indimenticabile di qualche anno fa all’Yiddish Summer Weimar, festival di musica klezmer e cultura yiddish nelle selve della Turingia. Suonava un po’ pagano, lo ammetto, ma la musica era accattivante e a insegnarcela era niente meno che Moshe (chiamato dai suoi amici e colleghi musicisti arabi: Mussa) Berlin, uno dei più incredibili clarinettisti klezmer viventi, accompagnato dalla figlia, l’altrettanto meravigliosa Odelya, pianista e cantante israeliana, ortodossa, incredibilmente riccia, punk. Da loro - che da anni ne sono animatori e ospiti - per primi, credo, sentii parlare del festival di Meron, di quella montagna in Galilea dove secondo la leggenda è sepolto l’eroe della canzone, il Maestro del Talmud Shimon Bar (figlio di) Yochay, vissuto nel I-II secolo d.C. in una Palestina già sotto dominazione romana e morto nel 161 d.C, cioè 30 anni dopo la repressione della rivolta anti-romana di Bar Kokhva appoggiata dall’altro grande maestro del Talmud, Rabbi Akiva. La morte di Bar Yochay sarebbe avvenuta durante un periodo particolare del calendario ebraico, in cui - si può dire - ogni giorno conta, oppure si conta ogni giorno: ne parlerò più sotto. Durante quel periodo, o poco prima, erano morte decine di migliaia di studenti di Rabbi Akiva, a causa di una tremenda pestilenza scatenata – sempre secondo la leggenda, dall’Eterno – allo scopo di punire questi studenti che non “si rispettavano a vicenda”.

Ma facciamo un salto avanti di quasi 2000 anni.

Lo scorso giovedì pomeriggio verso le 16 finisco una riunione qui in uno dei caffè-giardini più idilliaci di Gerusalemme, chiudo il computer e – d’impulso – decido di partire per la Galilea nella speranza di arrivare entro sera al Monte Meron, meta di pellegrinaggi da parte della popolazione haredi-hassidica di Israele, i cosiddetti Ultraortodossi, per usare un termine improprio e condiviso. Non farò qui la storia di questo luogo, dello strano “culto”, né delle sue ragioni e radici (in questi giorni, purtroppo, trovate tutto su qualunque giornale), ma vi dirò che – da parte mia – desideravo da tempo vederlo, respirarne l’aria, sentirne i suoni, proprio in questa misteriosa giornata di Lag BaOmer, ossia il 33esimo giorno dell’Omer.

Il periodo dell’Omer congiunge Pesach, la Pasqua, a Shavuot, o Pentecoste: per 7 settimane è precetto contare ogni sera il nuovo giorno in ricordo della misura di orzo (l’omer, appunto) che la Bibbia in Levitico comanda di presentare al Tempio, giorno dopo giorno, un po’ come per pagare a rate quella libertà che la divinità elargisce a credito, liberando dall’Egitto il popolo ebraico e sperando che poi - una volta libero - sia anche in grado di meritarselo; è un periodo da sempre delicato, in cui l’orzo è già mietuto, ma il grano ancora cresce, in cui il precario clima della ragione va sorvegliato con cura particolare, nella speranza che non faccia troppe follie rovinando il prezioso raccolto. È forse il periodo in cui maggiormente il contadino invoca l’aiuto della Divinità creatrice - e per questo si sente ad essa anche molto vicino: mentre si esce dalla primavera e si marcia verso l’estate tutto è sospeso e tutto dipende dalla bontà eterna. Secondo la tradizione, questo periodo, che nella Bibbia è un periodo di festa, ancorché di tensione, in epoca rabbinica divenne un periodo di lutto a causa delle persecuzioni romane e della già ricordata pestilenza, che si interruppe proprio nel giorno LaG (in ebraico i numeri, e quindi le date, si scrivono con le corrispondenti lettere dell’alfabeto, in un sistema semplice e intelligente di decine e unità: 33 è dunque pronunciato LaG), ossia lo stesso della morte di Bar Yochay che non è giorno di lutto ma di festa, poiché in esso, per i seguaci di Rabbi Shimon, la sua natura di grande maestro si rivelò definitivamente nella morte. In suo onore si accendono fuochi, attorno ai quali si canta e si balla tutta la notte. L’intreccio tra festa e lutto, tra morte e vita, è dunque particolarmente evidente in questa circostanza.

Prendo l’autobus, raggiungo Tiberiade, salgo su un altro autobus: è - appunto - quasi notte, la notte di Lag Baomer, quando arrivo a Meron; la folla è già immensa e sale come un serpente umano sul monte, sempre più su. La musica sta iniziando allora e io cammino fra tutte le tende e i barbeque e i falò delle famiglie e dei gruppi che da giorni campeggiano nei boschi. La luna è poco meno che piena: siamo al 34esimo giorno dall’inizio di Pasqua, quindi sta calando.

Mi aggiro da un palco a un altro, ascolto musiche diverse, salgo perfino, con una scala di fortuna - fatta con la rete di un letto - su un tetto di lamiera, per sbirciare gli uomini che ballano nella sezione dedicata solo a loro, mentre le donne si accalcano con i bambini e seguono l’evento su uno schermo, e sentono la musica e vedono il fuoco che sale al cielo dall’enorme falò acceso dalla parte degli uomini. Un gruppo di ragazze ama la mia idea: salgono anche loro sulla lamiera e iniziano a ballare sul precario tetto; cerco di dire che non mi pare il caso, non ascoltano, scendo io, sperando in bene per loro.

Ci sono troppe, troppe, persone, ovunque, e ognuno e ognuna sembra preoccupata solo del proprio spazio vitale: parlandone due giorni dopo con l’amica Livia Levine scoprirò che il Talmud babilonese (nel trattato di Yebamot, pagina 62b) dice che durante il periodo dell’Omer morirono decine di migliaia di studenti di Rabbi Akiva “perché non si conducevano con rispetto l’uno con l’altro”: il rispetto – mi fa notare Livia – è prima di tutto garantire e riconoscere a ognuno un giusto spazio in cui possa respirare e sentirsi sicuro. Rispetto, onore in ebraico è kavod, ossia letteralmente peso: la base del rispetto è dare a ognuno il proprio peso, che in un periodo come quello dell’Omer, dove ogni giorno si conta il tempo in un’unità di misura solida, di peso, fa riflettere.

Chissà se le persone a Meron, quando le ambulanze già cercavano di aprirsi un varco, i paramedici correvano sul monte con le barelle in spalla e gli altoparlanti strillavano: “Attenzione, è questione di vita o di morte, lasciate passare, date kavod!” (di nuovo quella parola pesante)... Chissà che cosa pensavano quei pii pellegrini, chissà se sentivano come la responsabilità di quelle ambulanze fosse su ognuno di loro, se riuscivano a capire che ognuno conta, che l’azione di chiunque in una situazione del genere può salvare o condannare una vita? Sapevano che ogni vita conta e pesa come un mondo intero? E sì che, appena un’ora prima, un gruppo di chassidim aveva aperto un varco per il suo rebbe, il venerato maestro e rabbino del loro gruppo, con poche parole sussurrate e alcuni cenni della mano: la folla si era aperta come un mare, obbedendo a una legge non scritta, ma vecchia di 300 anni: davanti al rebbe si sgombera il passaggio, si libera la via, come per un re del medioevo.

E allora – mi chiedo un’ora più tardi, mentre le barelle salgono a spalle perché le ambulanze faticano troppo a fendere quel mare – non conta forse ogni vita umana come quella del re-bbe?

Ci dovrò pensare ancora, ci dovremo pensare tutti e tutte.

Per oggi mi fermo qui, sono ancora molto affaticata.


Miriam Camerini

2 maggio 2021




















Lo Shabbath di tutti - Foto di Clara Mammana

Rivista online di liturgia del quotidiano