ENRICO BERLINGUER


VOLTI DELLA STORIAANDREA BERNABALE

«Come vedi, fare il filosofo giova poco, e conviene meglio darsi all'ippica. Eppure, certe cose le possono sapere soltanto i filosofi»

(E. Berlinguer)

Berlinguer coglieva la realtà e alimentava un sogno”, dirà Eugenio Scalfari trent’anni dopo la morte del leader comunista. La figura di Enrico Berlinguer, effettivamente, può ritenersi quella di un sognatore, un autentico fautore del cambiamento politico e ideologico: a lui si devono, tra le tante, la proposta del compromesso storico, la teorizzazione di un comunismo democratico distante dall’ortodossia sovietica o, in tempi di crisi, un incompreso pauperismo basato sul rifiuto degli sprechi e del nascente e sfrenato consumismo, denunciato a gran voce anche da alcuni intellettuali dell’epoca. Fu, politicamente, un sognatore del cambiamento, un teorico di idee che all’epoca parevano andare in direzione opposta allo status quo, quello status quo che a Berlinguer non piaceva proprio.

Nato a Sassari nel 1922, secondo le memorie del fratello Giovanni, il giovane Enrico sognava di diventare un filosofo, pur non eccellendo particolarmente negli studi. Lui stesso confermerà molti anni più tardi in un’intervista che “se mi chiede che cosa volevo fare da ragazzo e cioè prima di darmi alla politica, le rispondo il filosofo”. Altri ricordano invece il suo spirito ribelle, propugnatore del cambiamento e di come fosse “guidato da un sentimento naturale di ribellione che investiva gran parte di ciò che lo circondava”. Tuttavia, gli anni del fascismo non contemplavano alcuna forma di dissenso e l’anti-fascismo, Berlinguer non se lo tolse più di dosso.

Dopo la militanza antifascista giovanile, Berlinguer conobbe Palmiro Togliatti - all’epoca leader del PCI - che divenne per lui un modello da seguire e una sorta di idolo giovanile, nonostante Togliatti fosse un comunista alla “vecchia maniera”, riluttante alle aperture di Chruscev esternate nel famoso congresso del PCUS nel 1956. La diversa linea togliattiana rendeva difficile anche la leadership di partito, in quanto Togliatti rimase restio ad accettare la denuncia del mito staliniano e la necessità industrialista, considerate da Togliatti come eresie ideologiche. Nasceva, così, all’interno del partito una nuova “generazione” nelle cui file vi era lo stesso Berlinguer, ma anche e soprattutto i vari Lama, Napolitano, Natta e Cossutta, invitati a convogliare nelle correnti riformiste di Ingrao e Amendola.

Nonostante l’ammirazione per Togliatti, sullo stalinismo Berlinguer fu sempre critico e contrario, definendolo sostanzialmente un regime tirannico e criminale. Criticò altresì il leninismo, la dittatura del proletariato e l’identificazione del partito comunista con lo Stato. D’altronde Berlinguer credeva in un comunismo democratico e già nel 1969, prima di diventare segretario di partito, alla conferenza dei partiti comunisti e operai di Mosca indicò nella democrazia e nella libertà gli elementi irrinunciabili del comunismo italiano.

Nel 1972 fu invece scelto da Luigi Longo, che nel frattempo era succeduto a Togliatti, per la sua successione alla segreteria del PCI, tagliando fuori sia Amendola che Ingrao, all’epoca alla guida di due correnti all’interno del partito. Berlinguer sarebbe stato scelto proprio in funzione del suo ruolo di collante tra le due ali.

Divenuto segretario del PCI, significativa fu la promozione del compromesso storico, un riavvicinamento tra DC e PCI che trovò, come interlocutore, il democristiano Aldo Moro, favorevole ad ampliare la legittimazione dell’esecutivo e le sue basi di rappresentanza, includendovi persino i comunisti finora esclusi dall’esercizio del potere tramite una tacita conventio ad excludendum. Tuttavia, il rapimento e l’assassinio di Moro ne resero impossibile l’applicazione.

Altro cavallo di battaglia fu la “questione morale”, resa celebre in un’intervista di Scalfari, nella quale il leader comunista poneva l’accento sul carattere clientelare dei partiti, causa di disonestà e illegalità ma, soprattutto, dell’occupazione delle istituzioni dello Stato, che dovrebbero invece essere al servizio dell’interesse generale e, dunque, autonome dai partiti.

Negli ultimi anni di vita Scalfari ricorda Berlinguer come un uomo immerso nella solitudine politica, alla quale seguì un’inaspettata morte nel giugno 1984, durante un comizio a Padova in vista delle elezioni europee. Colpito da un ictus pronunciò dinnanzi alla folla le ultime parole: «Compagni, lavorate tutti, casa per casa, strada per strada, azienda per azienda». Al suo funerale accorsero oltre un milione di persone, compresi avversari politici che ne riconoscevano il rigore morale.

Fu soprannominato il “più amato” ed è probabilmente grazie alla sua personalità, la sua onestà, il suo rigore, la sua politica “umana” che durante gli anni della segreteria Berlinguer, al PCI militarono anche persone che non erano ideologicamente comuniste. Citando una celebre canzone di Giorgio Gaber, “qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona”.

LETTURE E APPROFONDIMENTI:

- Chiara Valentini, “Enrico Berlinguer”, Feltrinelli, 2014

- Enrico Berlinguer, “La passione non è finita”, Einaudi, 2015

- “Quando c’era Berlinguer”, film di Walter Veltroni, 2014

- Guido Liguori, “Berlinguer rivoluzionario. Il pensiero politico di un comunista democratico”, Carocci, 2014