di Lorenzo Bonaguro

Stalin e il Comintern


La morte di Lenin segnò una svolta decisiva nella storia della neonata Unione Sovietica, del Comintern e del movimento comunista internazionale. Alla sua morte seguì, infatti, una lotta fra i suoi potenziali “eredi”, al termine della quale Stalin emerse come leader indiscusso. Quest’ultimo, iniziò a imporre la propria guida anche all’interno dei lavori del Comintern fin dal 1925, al V° Congresso, dove fu abbandonata definitivamente l’idea di “rivoluzione mondiale” in favore della rivoluzione in solo paese, posizione sostenuta anche da Bucharin e Zinovev. In questo modo, Stalin pensò di rendere più compatto il fronte comunista internazionale proteggendo il bastione che era l’URSS. Le conseguenze sui partiti comunisti europei furono devastanti: il supporto per ogni tipo di attività rivoluzionaria fu sospeso, la leadership del partito bolscevico divenne più pesante, il Comintern fu burocratizzato fino a risultare un organo direttivo di Mosca.

La situazione si radicalizzò ulteriormente a seguito del VI° Congresso del 1928. La guida del Cremlino, e quindi di Stalin stesso, divenne indiscussa e indiscutibile, il partito bolscevico infallibile. Ogni peculiarità culturale, ogni divergenza di analisi sulla situazione locale, ogni divergenza dal modello sovietico fu ostracizzato e relegato ai margini, spingendo all’insofferenza e all’abbandono molte personalità di spicco. L’ostilità nei confronti di qualunque posizione non ortodossa fu ancora più violenta rispetto ai tempi di Lenin. Serrare i ranghi della compagine comunista era visto all’epoca come l’unico modo per arrestare l’ondata di fascismo che si diffondeva in Europa: bisognava recidere ogni legame con i gruppi non fedeli alla linea moscovita per arginare la marea. I socialisti non alleati erano percepiti come dei venduti alla borghesia e al suo cane da guardia, il fascismo: il nemico era il socialfascismo.

Questa situazione riflette appieno la condizione psicologica di Stalin, capo del partito all’inizio degli anni Trenta: una tendenza patologica a vedere nemici ovunque, a non fidarsi neppure dei collaboratori stretti, a eliminare qualunque minaccia, anche se minima, con un violento colpo di mano. A cadere vittime di queste ossessioni furono gli stessi esponenti europei del Comintern, costretti ad allontanarsi, a cadere nell’anonimato, a perdere potere e prestigio; ma il peggio arrivò nel biennio precedente la guerra. Neppure i membri del Comintern furono risparmiati dalle grandi purghe. Da quanto risulta da documenti e memorie, Stalin prese parte in prima persona nelle repressione di figure “pericolose” all’interno dell’organizzazione.

Il Comintern cambiò completamente politica durante il VII Congresso, che nel 1935 consacrò la politica del “Fronte popolare”: ossia rinuncia alle ostilità verso le formazioni di sinistra non comuniste, rompendo con una linea che risaliva fino agli anni di Lenin. Dalla lotta contro i socialfascisti al corteggiamento delle forze democratiche più progressiste nel tentativo di contenere l’ondata di fascismo in Europa. Anche l’appoggio dei trockisti andava bene. Però, questa nuova linea creò non pochi problemi e contraddizioni per i comunisti europei: ad esempio, i comunisti francesi dovettero rinunciare all’opposizione al riarmo francese da sempre osteggiato; questo perché all’URSS serviva una Francia forte in previsione di un conflitto con la Germania. Ancora una volta gli interessi di Mosca avevano la priorità sulle necessità e la coerenza ideologica dei partiti locali. Nel documento finale del settimo e ultimo Congresso del Comintern, il messaggio rimase vago e impreciso: da un lato i comunisti avrebbero dovuto rifiutare il militarismo borghese, ma al tempo stesso erano invitati a difendere la nazione dagli attacchi di un’altra potenza imperialista.

Ulteriori esempi di questa svolta sono i partiti tedesco e cinese. Il nuovo messaggio rivolto al popolo tedesco aveva un chiaro sapore nazionalistico e batteva sui medesimi punti della propaganda hitleriana: annullamento del trattato di Versailles e abolizione del corridoio polacco. In Cina invece il partito di Mao Zedong era invitato a schierarsi affianco del Kuomintang senza alcuna riserva per combattere l’aggressione giapponese. Anche qui l’interesse di Mosca era “personale”: dall’inizio del Novecento l’espansionismo del Giappone rappresentava una minaccia alla Russia in Estremo Oriente. Le spinte, indirette, al riarmo dei potenziali nemici di Hitler coinvolgono tutti tranne il Regno Unito. Questo perché i sovietici avevano il terrore di un impero britannico forte come all’apice della sua potenza e sapevano che la marina di Sua Maestà avrebbe potuto chiuderli facilmente e anche minacciare la stessa Leningrado.

Anche, e soprattutto, negli ultimi anni della sua esistenza il Comintern non svolse il ruolo di cabina di regia della rivoluzione mondiale. Lenin prima, e Stalin poi, asservirono anzi le energie dell’organizzazione ai bisogni politici e geopolitici dell’Unione. Stalin fu ancora più decisivo in questa tendenza, arrivando a trasformare il Comintern in uno dei suoi tanti campi di battaglia per l’egemonia sul partito e sul mondo comunista.


LETTURE E APPROFONDIMENTI:

Adam Ulam, “Stora della politica estera sovietica (1917-1967), Rizzoli, 1973

Kevin McDermott, “Stalinist Terror in the Comintern: New Perspectives”, Journal of Contemporary History, Jan., 1995, Vol. 30, No. 1 (Jan., 1995)