STORIE EUROPEE

LE GUERRE RUSSO-CECENE


ANDREA BERNABALE

IL PRIMO CONFLITTO RUSSO-CECENO

LA GUERRA DI ELTSIN

Dopo alla dissoluzione dell’URSS del 1991 e agli anni di caotico assestamento che seguirono, nel 1994 la neonata Federazione Russa si trovò per la prima volta a combattere una guerra dopo la ritirata dall'Afghanistan di cinque anni prima. Questa volta però, il conflitto era interno ai confini e si combatteva contro un aspirante Stato di esigue dimensioni e popolazione: la Cecenia, regione montuosa del Caucaso settentrionale popolata da secoli dal gruppo etnico ceceno, tradizionalmente organizzato in tribù e clan (teip). Tale etnia, seppur frammentata politicamente, presenta tuttavia un forte senso di unità culturale, condividendo religione islamica, la lingua cecena (di ceppo caucasico, molto distante dal russo), le stesse tradizioni socio-culturali. Inoltre, la popolazione cecena, è stata sovente unita politicamente ed ideologicamente dalla guida di importanti figure carismatiche locali - spesso signori della guerra - come l’Imam Shamil nel XIX secolo o Dzhokhar Dudayev, deceduto nel recente 1996.

Le aspirazioni indipendentiste cecene risalgono all’epoca zarista e, nonostante la brutale repressione messa in atto in epoca stalinista, sono sopravvissute al periodo sovietico. Per comprendere l'entità del tentativo di soppressione dell'indipendentismo locale, è significativo l'esempio dell'Operazione Lentil, quando, nel 1944, 480.000 ceceni vennero deportati verso l'Asia centrale e 200.000 persero la vita durante l'esodo, in ceceno “Aardax”. Dispersi tra Asia centrale, Siberia e Kazakistan, i ceceni poterono tornare nella loro terra natia solamente dopo il 1956, quando Chruščëv avviò la destalinizzazione.

Durante gli anni Ottanta invece, grazie clima riformista dell’era Gorbačëv, si organizzò un vero e proprio movimento nazionalista ceceno guidato dall’ex-aviatore sovietico Dzhokhar Dudayev che, nel 1991, approfittando del vuoto di potere conseguente alla dissoluzione dell’URSS, dichiarò la Cecenia Stato indipendente con il nome di Repubblica Cecena di Ichkeria, sperando che date le difficili circostanze la Federazione Russa non avrebbe voluto né potuto reagire militarmente per impedire la secessione. Tuttavia, le previsioni di Dudayev si rivelarono sbagliate.

Nonostante, in un primo momento, Gorbačëv ed il suo successore Boris Eltsin, si dissero contrari ad un intervento armato e si dichiararono invece in favore dell’autodeterminazione di ogni ex-repubblica sovietica - tanto che dalla dissoluzione dell’URSS nacquero ben 15 nuovi Stati - successivamente Eltsin mutò opinione e garantì alla repubblica caucasica soltanto l’autonomia fiscale e amministrativa. La Cecenia indipendente, seppur priva di riconoscimento internazionale, stava infatti diventando un problema: il crimine organizzato dilagava nella regione mentre i gasdotti e oleodotti russi erano sotto attacco. Oltretutto, Eltsin si rivelò intenzionato a dimostrare che nessuno, nonostante le difficoltà politiche ed economiche, avrebbe potuto sfidare Mosca senza rimanere impunito. Inoltre, gli attriti con la Cecenia permisero a Eltsin la costruzione di un nemico nazionale, un avversario esterno, un diversivo mediatico che distogliesse l'attenzione della popolazione civile dal problema del collasso economico e riducesse il crescente malcontento diffuso tanto tra la popolazione quanto tra le fila dell'esercito.

Dopo la dichiarazione unilaterale d'indipendenza, l’intervento armato era solamente questione di tempo: date i numerosi altri problemi interni alla Federazione, Eltsin temporeggiò per qualche anno, sperando in un rovesciamento interno dei secessionisti da parte della stessa popolazione cecena. Anche le previsioni di Eltsin si rivelarono sbagliate: Dudayev godeva di un ampio e crescente supporto popolare.

Nel dicembre 1994, il presidente russo ordinò l’invasione costituendo un nuovo corpo militare, che in realtà, altro non era che una frazione della vecchia Armata Rossa, poco attrezzata, poco finanziata e soprattutto mal preparata. In poco tempo, la campagna rievocò gli spettri del pantano afghano.

L’impreparazione russa si notò già prima dell'inizio del conflitto: l’invasione venne ritardata dal 7 all’11 dicembre a causa dell’impreparazione delle truppe ed i tre contingenti che dovevano invadere la Cecenia vennero inaspettatamente divisi in 6. Lo stesso Eltsin cancellò le apparizioni pubbliche per diversi giorni, così da evitare domande scomode ed imbarazzanti. Nonostante le difficoltà, i carri armati russi entrarono nella capitale cecena Grozny il 31 dicembre (5 giorni dopo la data prevista) e credettero erronaemente che la conquista della città avrebbe significato la fine della guerra. In realtà fu solo l’inizio. A Grozny non c'era nessuno ad attendere l'entrata dell'esercito, se non un'organizzata e sanguinosa guerriglia urbana. La stessa situazione si replicò in tutte le città minori, Shali, Gudermes e Argun. La guerra proseguì sulle montagne, dove i guerriglieri locali ebbero costantemente la meglio sui russi, sino alla riconquista cecena della capitale e alla firma di un trattato di pace - favorito dall’OSCE - che vide il ritiro delle truppe territorio alla fine del 1997.

La Cecenia uscì distrutta dal conflitto sotto ogni punto di vista. All’indomani della guerra, oltre alla distruzione degli edifici tanto pubblici quanto privati e all'uccisione di circa 100.000 persone, si registrò un tasso di disoccupazione pari all'80%, mentre il governo si rivelò incapace di elargire qualunque minima forma di servizio alla cittadinanza. A ciò si aggiunse una pericolosa frammentazione politica in clan armati che non rispondevano agli ordini di Maskhadov, successore di Dudayev e presidente formalmente riconosciuto. Nel caos generale, iniziò a farsi largo il fondamentalismo islamico, che ebbe come principali riferimenti Fathi Mohammed Habib ed Emir Khattab, entrambi veterani della guerra russo-afghana in stretti rapporti con al-Qaeda. Per quest’ultimi, l’obiettivo non era una Cecenia indipendente quanto l’instaurazione di un califfato caucasico. Per ovviare alla situazione, il presidente Maskhadov, dopo aver subito un attentato, dichiarò nel luglio 1998 lo stato d’emergenza a causa della totale incapacità di controllare gli oltre 300 gruppi armati in aperto conflitto presenti nel territorio.

In seguito alla sconfitta, la Russia non tolse mai lo sguardo dalla Cecenia ribelle: Vladimir Putin, qualche anno più tardi, si trovò pronto a servire la vendetta.

Il presidente russo Boris Eltsin
Soldato della prima guerra cecena

il secondo conflitto russo-ceceno

LA GUERRA DI PUTIN

«Noi perseguiteremo dappertutto i terroristi, e quando li troveremo, mi perdoni l'espressione, li butteremo dritti nella tazza del cesso»

(Vladimir Putin, 1999)

La Russia del 1999, che intraprese la seconda guerra in Cecenia, era un paese completamente diverso da quello che soli 5 anni prima ne condusse la prima fallimentare invasione. Lo era a partire dal suo leader, un volto nuovo che l’ex-presidente Eltsin aveva personalmente scelto per la sua successione: Vladimir Putin, ex-spia al servizio del KGB che per anni aveva lavorato in Germania Est.

Divenuto Primo Ministro nel 1999, Putin non fece segreto della sua intenzione di riappropriarsi della Cecenia e di riportare la Russia ai fasti di un tempo, riconsegnandogli il suo naturale ruolo di grande potenza, venuto meno durante la presidenza Eltsin post guerra fredda.

Tuttavia, pur godendo di ottima fama nel KGB, Putin non era all’epoca certamente una figura d’alto profilo, essendo relativamente sconosciuto al pubblico. Necessitava un trionfo politico, un’opportunità che potesse coronarlo come uomo-forte alla guida di una rinata superpotenza. La Cecenia era quello che aspettava.

Il secondo conflitto russo-ceceno, che potremmo ribattezzare come la guerra di Putin, ha in realtà origine nel Daghestan, regione confinante con la Cecenia e parte della Federazione Russa. Nell’agosto 1999, ceceni e separatisti daghestani unirono le forze: le truppe cecene, congiuntamente a gruppi di fondamentalisti islamici, varcarono il confine tra le due regioni in soccorso dei separatisti daghestani che, come la Cecenia cinque anni prima, lottavano per l’indipendenza da Mosca.

In realtà, agitazioni nel Daghestan vi erano già dal 1997, quando i guerriglieri ceceni e daghestani riuscirono a prendere il controllo di alcuni paesini dichiarando la propria indipendenza dal Daghestan russo e creando un’altra “piccola Cecenia” all’interno della Federazione Russa.

L’incursione cecena nel Daghestan dell’agosto ‘97 sembrò, quindi, un ulteriore passo verso la costituzione di uno Stato Islamico ceceno-daghestano come auspicava il generale islamico Khattab, se non fosse che la Russia non rimase a guardare e rispose, con un attacco aereo e terrestre, all’invasione del Daghestan.

A differenza della prima guerra cecena, la guerra di Putin ebbe un’ampio supporto da parte della popolazione russa per via del suo apparente carattere difensivo e soprattutto per una serie di attacchi terroristici che si erano verificati a Mosca, nel Daghestan e a Volgodonsk. In particolare, l’attentato a Mosca fu percepito come un 11 settembre russo e, nonostante i responsabili non furono mai accertati, i sospetti ricaddero, naturalmente, sui ceceni.

Designato come Primo Ministro, Vladimir Putin rassicurò Eltsin di riportare l’ordine nel Daghestan e che un paio di settimane gli sarebbero bastate per risolvere la situazione. Forte del supporto popolare, Putin decise di portare letteralmente l’inferno nel Daghestan e, di fatto, a metà settembre 1999 i guerriglieri ceceni erano già in fuga dalla regione.

Di certo, le ambizioni di Putin non si limitavano alla liberazione del Daghestan ma andavano ben oltre, fino alla riconquista dell’intera Cecenia.

Dopo le operazioni militari nel Daghestan, Putin inviò quindi un ultimatum al presidente ceceno Maskhadov nel quale chiedeva: la condanna degli atti terroristici in Russia; lo smantellamento dei numerosi clan armati che controllavano realmente la Cecenia e che ne facevano un “failed State”; l’estradizione dei “criminali” artefici degli attacchi terroristici in Russia e dell’invasione del Daghestan. A queste richieste, Maskhadov fu messo con le spalle al muro: non poteva in alcun modo adempiere alle richieste del presidente russo, per il semplice motivo che egli, pur essendo il presidente formalmente riconosciuto, non controllava effettivamente il territorio ceceno, invece in mano ai clan e ai signori della guerra, il cui arresto, oltretutto, sarebbe risultato fortemente impopolare a autolesionistico.

All’incapacità di far fronte a tali richieste, Mosca dichiarò che non riconosceva più né il governo di Maskhadov, né l’indipendenza della Cecenia. Il giorno dopo, i carri armati russi entravano in Cecenia. Ai carri armati seguirono i bombardamenti a tappeto. L’inferno in Cecenia aveva inizio.

I drastici metodi di Putin generarono anche una crisi di rifugiati: circa 124mila ceceni lasciarono il paese cercando rifugio in Russia ma, una volta al confine, venivano letteralmente rispediti in Cecenia finché quest’ultima non si fosse arresa accettando di riconoscersi come territorio russo. Allo stesso tempo, in Russia, migliaia di cittadini venivano espulsi per avere discendenze cecene, pur avendo il passaporto russo. Per la Federazione Russa, essi erano ora “stranieri”.

Nonostante la brutalità dell’attacco russo, la guerra di Putin in Cecenia non fu questione di “due, tre, forse quattro mesi”, come lui stesso promise. Né tantomeno fu un conflitto senza troppe perdite. Nel 2001 si registravano tra i soldati russi circa 4mila decessi e 13mila feriti.

L’ultima volta che si erano registrate perdite di tale portata coincide con il conflitto decennale in Afghanistan degli anni ‘80.

Ad ogni caso, la Russia riuscì a conquistare un generale controllo sulla Cecenia attorno al 2000, quando fu costituito anche un governo parallelo filo-russo in Cecenia, senza tuttavia mai conquistare le impenetrabili montagne difese alla stregua dai ceceni in scontri di guerriglia.

La guerra in Cecenia continuò su scala minore, assumendo invece i connotati di una guerra contro il terrorismo, anziché quelli di una guerra di aggressione o di conquista, essendo ormai la Cecenia pressoché riconquistata.

Nel marzo 2007, il filo-russo Ramzan Kadyrov divenne presidente ceceno, mentre la maggior parte dei signori della guerra e dei capi-clan erano deceduti nel corso del conflitto. Khattab, tra i principali responsabili dell’invasione del Daghestan, morì nel 2002 per mano dei servizi segreti russi. Nel 2004, Yandarbiyev morì in esilio in Qatar. Nel 2005 toccò all’ex-presidente Maskhadov, definito il “generale senza armata”. E ancora, nel 2006 la stessa sorte toccò a Shamil Basayev e così molti altri. Il movimento indipendentista era rimasto decimato, diviso e senza un leader. La popolazione cecena era altrettanto esausta.

Da anni ormai, il movimento indipendentista seminava terrore solo attraverso attentati terroristici: tra i più noti, la crisi del teatro Dubrovka nel 2002, la strage di Beslan nel 2004 o l’attentato ferroviario di Mosca nello stesso anno.

Gli ultimi separatisti hanno continuato per anni a negare la fine del conflitto ma è da considerare significativa la dichiarazione del 16 aprile 2009 della Commissione Nazionale Antiterrorismo russa che dichiarava terminate le operazioni di anti-terrorismo in Cecenia e l’inizio di una fase di “normalizzazione, di ricostruzione e sviluppo della sua sfera socio-economica”. Attraverso questo banale comunicato stampa, la Russia dichiarava vittoria.

LETTURE E APPROFONDIMENTI:

- Anna Politkovskaja, “Proibito parlare. Cecenia, Beslan, Teatro Dubrovka: le verità scomode della Russia di Putin”, Mondadori, 2007

- W. Jagielski, “Le torri di pietra. Storie dalla Cecenia”, Mondadori, 2007

- J. Littell, “Cecenia, anno III”, Einaudi, 2010

- M. Evangelista, “The Chechen Wars”, Brookings, 2002