Dubcek: il socialismo dal volto umano

LORENZO BALMA
LA DOTTRINA E IL PENSIERO

DUBCEK

IL SOCIALISMO DAL VOLTO UMANO

Alexander Dubcek

«Che differenza c’è tra Gorbacev e Dubcek? Venti anni».

Nella sua autobiografia Alexander Dubcek confessa di ascoltare, amaramente divertito, la nuova facezia che circola di bocca in bocca in Cecoslovacchia riguardo la somiglianza di fondo tra le riforme del suo Programma d’Azione del 1968, la perestrojka e la glasnost, entrate in vigore in Urss tra il 1986 e il 1987 per volere del neo segretario del PCUS Gorbacev, succedendo ai brevi “regni” di Andropov e Cernenko, che avevano proseguito immobili la precedente linea di Breznev.

Perestrojka e glasnost, rispettivamente “ricostruzione” e “trasparenza”, dovevano rappresentare agli occhi del mondo intero il definitivo superamento delle pratiche staliniste a livello economico, di organizzazione statale e di gestione dell’opinione pubblica, soprattutto della libertà di stampa.

Lo stesso Dubcek le definì “tisane insipide”, se paragonate alla portata del Programma d’Azione che godette di larghissimo eco e sostegno da parte della stragrande maggioranza della popolazione cecoslovacca quasi vent’anni prima. Le riforme varate da Gorbacev comunque, non riuscirono a tamponare le emorragie del sistema sovietico ormai da lungo tempo in lento declino.

Il maggiore problema adesso sembrava trovare una soluzione per far conciliare i presupposti filosofici del socialismo dentro i confini di un sistema politico socialista che rispettasse l’armonia sociale dei propri membri.

Il periodo di studi alla scuola politica a Mosca, rappresentò per Dubcek un momento di profonda riflessione circa la dottrina marxista-leninista che costituiva il vangelo del Pcus, oltre che il completamento della sua formazione da dirigente nei quadri del Partito comunista slovacco.

La grande riflessione che darà un forte contributo alla formulazione dell’idea di un socialismo differente, dal "volto umano" rispetto al paradigma sovietico, viene generata dal confronto tra le opere di Marx e Lenin, che secondo l’ortodossia sovietica camminavano di pari passo verso la stessa direzione. Dubcek invece realizza che esistono differenze.

La prima è l’assunto marxista secondo cui la rivoluzione, l’abbattimento dei vincoli capitalistici e infine la dittatura del proletariato, darebbero i giusti frutti se applicati in un paese già industrializzato, a differenza dello scenario russo della rivoluzione d’ottobre, ovvero un paese arretrato rispetto a quelli europei.

La seconda e più netta differenza è la concezione della “dittatura del proletariato”. Diversamente da Lenin, Marx non sembra abbandonare l’idea di un governo della maggioranza (appunto composto da proletari lavoratori) all’interno di una cornice democratica, in cui non avviene il divorzio con la possibilità di convivenza con altri assunti politici.

Incontra durante le sue letture un’interessante considerazione negli scritti leniniani secondo i quali una volta che il modello della rivoluzione socialista avesse attecchito in un paese più avanzato della Russia, esso sarebbe diventato la nuova guida del movimento socialista internazionale.

La domanda era audace: avrebbe potuto l’Unione Sovietica seguire un paese come la Cecoslovacchia, una volta diventata faro del socialismo internazionale?

Occorreva intervenire nei domini di esistenza controllati interamente dal Pcc, che dettava le linee guida sul piano economico e culturale.

Se inizialmente la causa della debolezza del sistema economico poteva essere attribuita a scarse capacità di gestione, iniziò a farsi strada l’idea, nella mente di Dubcek, che esattamente come il capitalismo, anche il modello economico sovietico poteva raggiungere un livello di saturazione massima. Questo però non intaccava l’idea che questo modello non potesse essere adeguatamente riformato per farlo ripartire, cominciando dal coordinarlo con maggiore elasticità e quindi abbandonando alcuni dei tradizionali assunti economici.

Il socialismo dal volto umano aveva il compito storico di conservare la bontà morale della costruzione di una società socialista, opponendosi al dogmatismo sovietico.

Maggiori promotori di queste riforme furono gli economisti Ota Sik e Karel Kouba, che convinsero Dubcek della necessità del decentramento e fecero iniziare i contrasti aperti con Mosca che etichettò le riforme cecoslovacche come “nazionaliste” e “borghesi”.

Dubcek aveva infatti incominciato a ragionare su aspetti come l’autonomia aziendale, che avrebbe agevolato la crescita dell'iniziativa e delle ambizioni di ogni lavoratore cecoslovacco.

Tuttavia, portare avanti la riforma del “nuovo meccanismo economico” significava l’inizio di una lotta politica promossa dall’ala riformista del PCC, che diventava sempre più numerosa e godeva sempre più di un ampio consenso.

Situazione ben diversa era quella delle riforme culturali. Dopo la denuncia del culto della personalità staliniana, Chruscev aveva fatto ben sperare gli intellettuali, i giornalisti e tutta la popolazione dei paesi dell’Europa orientale in una censura più morbida e in condizioni più favorevoli per esprimere critiche e dissenso, seppur in maniera sempre prudente.

Infatti negli anni di Chruscev e Breznev il regime del terrore staliniano cessò, ma non le istituzioni e le pratiche utilizzate, dato che i gulag continuavano contare migliaia di prigionieri politici.

La combinazione tra riabilitazioni pubbliche , riconoscimento delle colpe di Stalin e prospettive di ulteriori riforme economiche aveva aperto la discussione sulla stretta del partito sulla vita pubblica.

Il ruolo degli intellettuali in Cecoslovacchia ebbe un’importanza cruciale per dare ancora più slancio all’entusiasmo popolare.

Grandi autori colsero l’occasione del clima più disteso per pubblicare scritti riguardanti la generazione staliniana, spesso di richiamo autobiografici come il romanzo di KunderaLo scherzo”, oppure racconti come “Sekyra” di Ludvik Vaculik che si basa sugli ideali comunisti trasmessi dai padri e il successivo disincanto dei figli. Il periodo della generazione staliniana era chiaramente il momento più trattato e più spesso oggetto della critica intellettuale.

Il “Programma d’azione” combatteva i tre problemi del paese: economia, cultura e rapporti istituzionali tra cechi e slovacchi, riconoscendo loro uno status paritario, l’autonomia per la Slovacchia (le cui sorti erano care a Dubcek in quanto Slovacco), la riabilitazione delle vittime del passato e la democratizzazione del sistema economico e politico.

Il Programma stesso definiva ciò che il PCC stava sottoscrivendo come un “esperimento unico di comunismo democratico”: esperimento che venne comunemente chiamato il “socialismo dal volto umano”.

L’idea che esistesse una “terza via” al socialismo, diverso rispetto alla socialdemocrazia e al comunismo ortodosso sovietico, generò entusiasmo tra la popolazione cecoslovacca. Studenti, intellettuali e lavoratori furono rapiti dalla possibilità di una società socialista alla quale venissero congiunti principi democratici quali istituzioni libere e il rispetto delle libertà individuali.

La disputa verteva su come salvare il socialismo. Da un lato l’idea che la salvezza del socialismo si potesse trovare nella libertà individuale, svincolandosi da un sistema che vegetava e impediva i cambiamenti, dall’altra la restaurazione del ruolo forte e accentratore del partito unico che facesse da guida nella vita pubblica.

Mentre il popolo cecoslovacco credeva che il Pcc potesse salvare il socialismo dalla propria tragica storia, la leadership del Pcus si convinse di poterlo fare senza perdere il controllo del paese.

La svolta era colossale: ora anche i russi che studiavano, lavoravano o visitavano Praga, potevano leggere fatti e opinioni non ammesse in patria, il ché faceva di Praga una pericolosa finestra aperta sull’Occidente.

LETTURE E APPROFONDIMENTI:

• A.Dubcek, "Il socialismo dal volto umano. Autobiografia di un rivoluzionario"

• R.Gatti, "Praga 1968, le idee della primavera"

• L.Gori, "Praga 1968, socialismo e libertà"