Ali Shari'ati e il marx-islamismo


di Andrea Bernabale

Considerato il teorico della rivoluzione islamica iraniana del 1979, Ali Shari’ati concepiva sé stesso come metafora del cambiamento, della ribellione; messaggero di giustizia, eguaglianza e libertà. Intellettuale iraniano formatosi in Europa, tornato in patria fu presto bollato come “individuo pericoloso” dallo Shah Reza Pahlavi, che lo considerava un marx-islamista nemico del regime. Altresì, la sua personalità e il suo pensiero ispirò, negli anni ‘70, la celeberrima rivoluzione islamica che segnò una cesura fondamentale della storia contemporanea, senza tuttavia poterla vedere realizzata, assassinato dai servizi segreti iraniani nel 1977.

Il pensiero politico di Shari’ati riprende da Marx l’idea di storia come processo dialettico, ovvero l’idea che il cambiamento sociale avviene solo come conseguenza di contraddizioni e di conflitto tra classi e non, quindi, tramite processi armoniosi e consensuali tra i vari gruppi presenti nella società. In altre parole, la rivoluzione precede il cambiamento.

Pur non avendo letto i classici del marxismo e Marx stesso, Shari’ati condivide appieno la lettura dicotomica della storia e ne formula una teoria ad hoc capace di integrare il potere rivoluzionario della religione, non considerato invece da Marx.

Nelle formulazioni teoriche di Shari’ati sarà quindi Dio, che assume natura rivoluzionaria, a guidare la comunità sciita al cambiamento, dando vita allo sciismo rivoluzionario o “sciismo rosso”.

Occorre dunque comprendere come mobilitare le masse, come renderle rivoluzionarie. Secondo Shari’ati, dal ruolo di guida delle masse devono esimersi gli ulama, ovvero i cosiddetti “dottori della legge”, coloro che sono chiamati ad interpretarla. Per Shari’ati, gli ulama non sono altro che un’elite che tende a monopolizzare l’interpretazione coranica attraverso il proprio potere, quando invece ogni credente dovrebbe avere il diritto di “ijtihad”, di interpretazione. Tale prassi è da ritenersi difficilmente accettabile e, pertanto, altamente innovatrice, essendo l’esoterismo islamico un ostacolo non poco rilevante alla comprensione testuale per un comune musulmano. Generalmente, infatti, ogni musulmano sciita sceglie un marja al-taqlid (una “fonte di emulazione”) e ne segue le indicazioni. Nonostante la sua avversità per il clero islamico, successivamente si ricrederà e sarà infatti l’Ayatollah Khomeini a guidare la rivoluzione da lui auspicata anni prima.

Influenzato dagli scritti anticolonialisti di Franz Fanon, Aimè Cesaire e Che Guevara, Shari’ati svilupperà anch’egli una visione delle relazioni internazionali tra gli Stati di tipo marxista, fondati sulla dipendenza e subalternità del Terzo Mondo rispetto agli Stati più industrializzati. Tuttavia, come già fatto nella lettura dicotomica della storia, Shari’ati anche qui integra l’influenza marxista con la religione, asserendo che quest’ultima può assurgere al ruolo di liberazione dei popoli oppressi dal colonialismo. Da Lenin riprende invece l’idea che l’imperialismo costituisce la fase più acuta del capitalismo ed è pertanto necessario porre fine al capitalismo - colpevole di relazioni coloniali e semi-coloniali tra gli Stati - a livello internazionale.

In ultima istanza, il terzomondismo di Shari’ati, intrecciato all’influenza marxista, teorizza una lotta di classe mossa dalla natura rivoluzionaria dello sciismo che porterà alla società senza classi e che realizzi la giustizia sociale.


LETTURE E APPROFONDIMENTI

- J. Esposito & E. Shahin, “Key Islamic political Thinkers”, Oxford, 2018

- M. Campanini, “Il pensiero islamico contemporaneo”, il Mulino, 2016

- R. Cristiano, “Tra lo Scià e Khomeini. Ali Shariati: un’utopia soppressa”, Jouvence, 2015