Il capitalismo digitale

di Francesco Mele

Con il termine capitalismo digitale o capitalismo delle piattaforme intendiamo una nuova modalità di business incentrata sull’acquisizione, gestione, analisi, raffinazione e compravendita dei dati. Questi ultimi, per poter creare un reale profitto, hanno infatti bisogno del lavoro svolto dalle piattaforme e dalla loro capacità estrattiva. Erroneamente si tende ad accomunare il capitalismo digitale solo ed esclusivamente al mondo degli affari riguardanti il settore tecnologico, che, pur essendo in costante espansione, rappresenta ancora una parte relativamente piccola dell’economia: basti pensare che negli USA il suo contributo economico è pari solo al 6,8%, lontanissimo dalle percentuali del settore manifatturiero, che nonostante la pesante deindustrializzazione rappresenta una fetta maggiormente consistente dell’economia americana. Invece il fenomeno del capitalismo digitale è qualcosa di più ampio e più complesso e che riguarda tutte quelle imprese che per il proprio modello di business si servono di Internet e dei dati, compresi quei settori “tradizionali” dell’economia come appunto la manifattura, i trasporti, le telecomunicazioni, che hanno subito gli effetti della digitalizzazione.

Alcune interessanti interpretazioni accademiche leggono il capitalismo digitale come il figlio delle tre grandi crisi economiche che si sono abbattute in Occidente tra gli anni '70 del Novecento e il primo decennio del 2000. La crisi "petrolifera" degli anni '70, che pose fine all’età dell’oro del settore manifatturiero americano e aprì il veloce declino per i movimenti operai e i sindacati, impose un nuovo modello di produzione: il cosiddetto “toyotismo”, caratterizzato dalla diffusione di software sempre più sofisticati pensati per velocizzare enormemente i ritmi della filiera, e dall’utilizzo di un numero di operai minimo, così da eliminare ogni elemento superfluo ed aprire un nuovo capitolo del lavoro operaio fatto di deregulation ed outsourcing. La seconda crisi in questione è quella occorsa tra la fine degli anni '90 e il 2001, periodo in cui si assiste all’ascesa vertiginosa e poi all'esplosione della bolla delle Dot-com. Con questo nome venivano indicate le prime aziende che utilizzavano Internet per il proprio business, ed è proprio questo il punto su cui concentrarsi: l’ascesa delle Dot-com trasformò Internet in uno strumento a portata di tutti, dando avvio alla rivoluzione informatica e telematica che trasformò le città, le aziende, le case. Era iniziata una nuova età dell’oro, tutti volevano investire nelle Dot-com, e le azioni di queste aziende moltiplicavano il loro valore molto rapidamente garantendo ingenti guadagni. La pacchia durò fino a fine 2000/inizio 2001, quando si creò una bolla azionaria che ridimensionò drasticamente gli investimenti fatti in questo settore. La terza crisi a cui si fa riferimento è chiaramente quella 2008, legata ai mutui subprime, che partì dagli USA e contagiò velocemente i mercati internazionali, portando al collasso colossi societari come Lehman Brothers, e imponendo misure drastiche di austerity per gli Stati coinvolti. In questa apocalisse economica le uniche realtà che godevano di ottima salute erano le società del settore tech (Apple, Google, Microsoft), capaci di sfruttare al meglio le politiche monetarie accomodanti e i paradisi fiscali. Ecco serviti i tre ingredienti che hanno dato vita al capitalismo digitale: riduzione della manodopera e aumento della meccanizzazione e digitalizzazione del lavoro; centralità di Internet e del mondo informatico; potere economico delle società tech.

Tuttavia, le vere protagoniste di questo nuovo modello di business erano e sono tutt'ora le "piattaforme". Per "piattaforme" si intendono infrastrutture digitali che permettono a due o più gruppi di interagire tra di loro (es. clienti, fornitori, produttori, inserzionisti). Le piattaforme producono e contemporaneamente sono dipendenti dagli effetti di rete: più il numero di utilizzatori di una piattaforma cresce, più quest’ultima aumenta il suo valore. Inoltre, si servono delle sovvenzioni incrociate per aumentare il numero dei propri utilizzatori. Questa strategia consiste nel ridurre il prezzo di un servizio e per rientrare nelle spese, alzare contemporaneamente il prezzo di un altro servizio (es. Google concede ai propri clienti il servizio mail gratuito, ma aumenta costantemente il prezzo per l’inserimento di pubblicità sulla propria piattaforma).

Le tipologie principali di piattaforme sono cinque: piattaforme di advertising; piattaforme cloud; piattaforme industriali; piattaforme prodotto; piattaforme lean.

Le piattaforme di advertising sono le più anziane, e sono figlie della bolla delle Dot-com. Google è la piattaforma di advertising più famosa e tra le più ricche al mondo, ma quale è il suo business? Come tutte le piattaforme di advertising, anche Google deve la maggior parte dei suoi introiti alle inserzioni pubblicitarie. In breve Google, in quanto motore di ricerca gratuito, traccia, raccoglie ed analizza una quantità di dati mostruosa che gira alle aziende interessate a pubblicizzarsi sulla piattaforma in cambio di denaro. Insomma Google, in virtù dei dati raccolti ed analizzati, garantisce alle aziende che vogliono comprare uno spazio pubblicitario sulla piattaforma, “di mettere in contatto” queste stesse aziende con clienti altamente interessati ai prodotti pubblicizzati su Google.

Le piattaforme cloud, tra cui la più famosa è sicuramente Amazon Web Services (AWS), nascono invece inizialmente nell’ambito dell’e-commerce. Anche qui un esempio concreto può essere utile per comprendere: Amazon nel momento in cui si trovò a gestire una logistica sempre più complessa, capì che c’era bisogno di sviluppare una piattaforma interna, appunto AWS, per far fronte a questa nuova sfida. AWS non solo risolse i problemi di Amazon, ma fu talmente efficace che si pensò di trasformarla in una piattaforma da concedere in noleggio ad altre società che necessitavano per i loro affari di servizi di cloud computing, e che non avevano né tempo né denaro per sviluppare una piattaforma propria. Ciò significa che Amazon attraverso AWS ha accesso ad una quantità enorme di dati, rendendola il settore di Amazon che cresce e che rende di più (8 miliardi di ricavi nel 2015).

Le piattaforme industriali, sono invece da collegare al mondo dell’industria manifatturiera tradizionale. In questo campo si parla di “internet industriale”, cioè di progetti riguardanti sensori e chip, dialoganti tra loro tramite internet, da inserire nel processo di produzione al fine di velocizzarlo e di ridurne i costi. Si tratta della cosiddetta Industria 4.0, capace di promettere una riduzione del costo del lavoro del 25%, e una riduzione di consumo energetico del 20%, e verso la quale hanno mostrato un serio interesse realtà come la General Electric e la Siemens.

Infine veniamo ai due ultimi tipi di piattaforme: le piattaforme prodotto (Zipcar, Spotify) e le piattaforme lean (Uber, Airbnb), molto simili tra di loro, in quanto entrambe offrono un servizio in cambio di un pagamento di un canone. Ma allora cosa le differenzia? La risposta è semplice ed anche in questo caso un esempio può essere risolutivo: Zipcar ed Uber si occupano entrambe di “offrire passaggi” ai propri clienti, ma lo fanno in maniera completamente diversa, in quanto Zipcar, essendo una piattaforma prodotto, è proprietaria dei veicoli che noleggia; Uber invece, in quanto piattaforma lean, non è proprietaria di alcun veicolo e cerca quindi di delocalizzare quasi tutti i possibili costi. Ovviamente entrambe, in quanto piattaforme, sfruttano i servizi che offrono per raccogliere quanti più dati possibili sui propri clienti e sui territori in cui agiscono, al fine di migliorare sempre di più i propri affari.