Nel 1905 il Giro d'Italia non esisteva ancora, il Tour de France aveva due anni, le marce erano una tecnologia all’avanguardia e Daniele, un ventisettenne di Itri, un paesino arroccato nelle campagne in provincia di Latina, non era di certo un ciclista professionista.
Faceva il sarto e aveva una smisurata passione per l'opera, tanto che quasi due decenni dopo avrebbe chiamato le tre figlie come le Valkirje di Wagner, Siglinda e Brunilde, e come la tragica eroina di Amleto, Ofelia (la mia nonna paterna).
Nel 1905, di norma, un uomo di 27 anni avrebbe dovuto pensare a cose ben più importanti che la bicicletta: mettere su famiglia, avere un introito sicuro, sfamare i figli.
Non lui. Lui era un poeta, un eccentrico, un pioniere dell'odierna wanderlust.
Avida viaggiatrice, ciclista tuttalpiù amatoriale, scrittrice.
Da quando ho lasciato la natia Genova nel 2010, ho vissuto e viaggiato in mezza Europa, vari paesi in Africa orientale, negli Stati Uniti e in Asia, spostandomi spesso e fermandomi poco.
Da quando ho scoperto la storia di Daniele, mi è parso di sentire la sua sete di avventura, l'amore per il viaggio, la forza di non fare necessariamente quello che gli altri si aspettano da te, come parte integrante di me. E dell'impulso che mi ha fatto partire e ripartire da luoghi che pure chiamavo casa.
Voglio e devo sentire i muscoli bruciare, i polmoni scoppiare, il sudore gocciolare sulla schiena e asciugarsi al vento. Per capire chi era lui, e da dove vengo io. Forse, anche, per capire dove andare e quando fermarmi.