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Francesco Caracciolo

già prof. ord. dell’università di Messina

Possibili effetti della rivoluzione tecnologica

di Francesco Caracciolo


All’Associazione “Libera i libri” che il 18.08.2012 gli chiede di collaborare con un contributo obiettivo sul Mezzogiorno, sui suoi rapporti con il governo italiano e con il Nord del Paese e su avvenimenti come il brigantaggio, Francesco Caracciolo risponde:

La caotica ribellione, il brigantaggio, sconvolse specialmente il Sud d’Italia nell’Ottocento. Innumerevoli sono gli studi che ne cercarono le cause e ne descrissero i caratteri. Non aggiungiamo ad essi altri dati e altri particolari. Ma ci sembra utile rioccuparsene confrontando il brigantaggio che imperversò prima e dopo l’unità d’Italia proclamata nel 1861 con l’altrettanto caotica ribellione che imperversò nei secoli precedenti. Dal confronto potrebbero emergere spiegazioni nuove che sottraggono al brigantaggio il carattere di novità e di originalità che gli si è attribuito. La caotica ribellione delle numerose bande di briganti e la conseguente cieca repressione attuata dal governo italiano ebbero analoghi precedenti nel passato. Il brigantaggio e la sua repressione nell’Ottocento trovano riscontro nel banditismo e nella cieca sua repressione che imperversarono nel Mezzogiorno nei secoli precedenti. Vedremo se e fino a che punto le loro cause e i loro caratteri possono ritenersi identici nei due diversi momenti storici. E qualora risultassero analoghi se non uguali, svanirebbero i requisiti di novità e di originalità che si attribuirono al brigantaggio. È pertanto utile occuparci del brigantaggio che infestò specialmente il Mezzogiorno nell’Ottocento partendo dall’esame del banditismo che infestò le stesse regioni nel Cinquecento e nel Seicento. Da quei secoli all’epoca pre e post unitaria è mutato ben poco. I banditi dei secoli XVI e XVII possono essere, nella sostanza, identificati con i briganti dell’Ottocento; il governo vicereale spagnolo di Napoli con il governo italiano di Torino, di Firenze e di Roma. La repressione fu cieca nel Cinquecento e nel Seicento e fu cieca dopo l’Unità nazionale. I metodi della repressione sono mutati tra il Cinquecento e il Seicento come sono mutati nei decenni che seguirono al 1861. Le condizioni del Sud erano arretrate, povere, conflittuali e caotiche nel Cinquecento e nel Seicento, come continuarono ad esserlo nell’Ottocento e dopo l’Unità. I rapporti sociali, le disfunzioni nell’amministrazione pubblica, la corruzione, le malversazioni, gli arbìtri di ufficiali, di magistrati e di giudici, gli abusi e gli arbìtri dei detentori della ricchezza e del potere erano nei primi due secoli dell’età moderna come quelli che si riscontrano dopo l’Unità. Si può dire che non dissimili furono la ribellione e la repressione nelle due epoche. 

Certo, nell’Ottocento non c’era il feudo, che fu abolito nel 1806. Ma persistevano, e anzi erano aumentati, gli abusi e il prepotere delle famiglie dei ceti abbienti su quelle della massa degli indigenti. I rapporti sociali erano pressoché immutati. L’arbitrario ruolo delle minoranze dominanti e la connessa conflittualità sociale persistettero anche dopo l’eversione della feudalità (1806) e dopo l’Unità d’Italia (1861). I loro effetti si manifestarono anche nel brigantaggio che, nella seconda metà dell’Ottocento, era diffuso come lo era stato il banditismo nel Cinquecento e dopo. Le condizioni della massima parte della popolazione, comprendente i ceti meno abbienti, peggiorarono pure. L’inosservanza delle leggi e le prevaricazioni sussistevano e, in una realtà sociale alquanto mutata, producevano effetti non dissimili da quelli che erano stati evidenti nella società feudale dell’antico regime. 

Nel corso della prima rivoluzione industriale l’introduzione delle macchine nel processo produttivo creò disoccupazione che poi fu riassorbita nonostante la moltiplicazione delle macchine. La celere crescita dell’industria andò riducendo l’importanza che avevano fino allora avuto gli altri due settori produttivi, specialmente quello agricolo. Si diffuse il timore che l’eccessiva crescita dell’industria e la conseguente perdita del primato dell’agricoltura potessero accrescere la diffusa miseria della popolazione. Quanto stava accadendo destò l’interesse e le preoccupazioni di molti. Il profondo mutamento in atto divenne oggetto di accese discussioni in ambito politico e accademico e alimentò varie teorie che furono formulate da economisti e intellettuali di diverso e opposto orientamento.

Negli ultimi decenni alla meccanica cresciuta enormemente si è aggiunta e in certa misura sovrapposta la tecnologia, con il suo corteo di elettronica e di digitale. Questo suo apporto ha potenziato, sviluppato e rivoluzionato la funzione delle macchine e minaccia di sostituire del tutto il lavoro dell’uomo. Gli effetti sono sorprendenti e non sono solo economici, ma sociali e culturali: influenzano la condotta umana e incidono sul costume e il modo di vivere. Si fa insistente pertanto il timore che la tecnologia renderà superfluo e sostituirà il lavoro umano. E ci si domanda come e quale sarà e come si evolverà la vita dell’uomo. Quale e come sarà nel futuro la sua esistenza se la disoccupazione diviene generale? È possibile la vita umana senza lavoro, come teorizzano alcuni sociologi e benpensanti? È possibile un’esistenza di ozio, mantenuti dalla tecnologia che provvederà, facendo le veci dell’uomo, a produrre le necessarie risorse e l’indispensabile reddito?

Azzardiamo qualche spiegazione.

Nei secoli la ricchezza di pochi e poi il diffuso benessere hanno generato eccessi e vizi. Se la tecnologia producesse ricchezza e benessere per tutti e se tutti potessero, beneficiandone, dedicarsi all’ozio, sarebbe questo l’otium degli antichi Romani o non diverrebbe invece un moltiplicatore degli eccessi e dei vizi? Si sarebbe l’uomo dato alla lettura, al riposo, alla cura del corpo e dello spirito, come richiedeva l’otium degli antichi, o si scatenerebbe nel malcostume, negli eccessi e nei vizi?

In passato, con l’importanza dei settori produttivi, mutarono anche i loro reciproci rapporti e il ruolo che ognuno di essi svolgeva. Un confronto tra l’esperienza fatta allora e quella odierna potrebbe forse giovare a farci capire quale sarà lo sbocco di quanto sta avvenendo. Quel che avvenne in passato potrebbe esserci d’ausilio. L’esperienza fatta allora si potrebbe utilizzare forse solo sostituendo gli strumenti allora usati e i loro ruoli allora svolti con strumenti e ruoli odierni. Riducendo il campo, a mo’ d’esempio, si potrebbe sostituire il ruolo allora attribuito alla meccanizzazione nel determinare disoccupazione e povertà con quello che oggi si attribuisce alla tecnologizzazione e alla digitalizzazione nel causare disoccupazione e sconvolgimento del costume.

All’indomani della prima rivoluzione industriale la crescita dell’industria e specie del suo eccesso destò allarme. A preoccuparsi furono anche gli stessi sostenitori dell’industrializzazione, i protezionisti. Si temeva che l’eccessiva crescita dell’industria potesse generare aumento della disoccupazione e della povertà. Sappiamo che questo timore si andò dileguando nel tempo. La disoccupazione che crebbe nei primi decenni dell’industrializzazione, andò diminuendo in seguito fino a stabilizzarsi entro limiti fisiologici per la crescita della domanda di lavoro che provenne non solo dal settore industriale. Con la produzione crebbe la popolazione e andò crescendo il consumo di beni anche voluttuari.

Inoltrandosi il secolo ventunesimo si constata che la tecnologia si sta espandendo senza sosta. Se ne temono gli effetti che possono essere radicali e sconvolgenti, più di quelli della prima rivoluzione industriale. Si può prevedere che essa possa produrre crescendo gli stessi effetti che generò l’industrializzazione, cioè il riassorbimento della disoccupazione che aveva creato nella sua prima fase. Al contrario, prevale il timore che la tecnologizzazione generi e accresca sempre più disoccupazione. E anzi si teme che la disoccupazione possa crescere più di quanto fosse aumentata durante la prima fase dell’industrializzazione e che la sua crescita vada aumentando insieme con la tecnologizzazione. Non tutti condividono questo prevalente timore. Alcuni sociologi sostengono che l’era tecnologica non è da temere ma è anzi da auspicare perché sgrava l’uomo dal peso della fatica e del lavoro e lo rende libero.

Nei secoli la ricchezza di pochi e poi il diffuso benessere hanno generato eccessi e vizi. Se la tecnologia producesse ricchezza e benessere per tutti e se tutti potessero, beneficiandone, dedicarsi all’ozio, sarebbe questo l’otium degli antichi Romani o non diverrebbe invece un moltiplicatore degli eccessi e dei vizi? Si sarebbe l’uomo dato alla lettura, al riposo, alla cura del corpo e dello spirito, come richiedeva l’otium degli antichi, o si scatenerebbe nel malcostume, negli eccessi e nei vizi?

Possiamo ipotizzare che si verifichi quanto costoro sostengono.

Certo la tecnologia potrà crescere fino a giungere a progettare e a riprodurre se stessa e a sostituire il lavoro dell’uomo. Non dovendo più lavorare, nemmeno per progettare, l’uomo si dedicherebbe ad altro. Ma a che cosa? Non dovendo faticare per vivere, si dedicherebbe soprattutto all’ozio, alla cura di elevate esigenze spirituali. Tuttavia, il facile accesso ai beni prodotti in abbondanza dalla progredita tecnologia, non soddisfarrebbe tutti i bisogni. Uno di questi sarebbe il bisogno sessuale. Per poterlo soddisfare acquisendone i mezzi, il possesso dei beni e il potere, si renderebbe necessario procurarseli proseguendo la lotta. Non sarebbe il solo bisogno insoddisfatto. La facile e abbondante produzione di beni potrebbe far aumentare la popolazione, il consumo, i rifiuti, l’inquinamento e l’insufficienza di altri beni come l’acqua. Certo, il crescente consumo sarebbe alimentato dalla superproduzione tecnologica. Ma il resto? E la lotta per il possesso di beni e per il potere come si eviterebbe? E gli effetti del consumismo, cioè i rifiuti, l’inquinamento, l’insufficienza d’acqua, come si potrebbero eliminare? Cos’altro si può immaginare come prodotto di un mondo tecnologico che cresce all’infinito?

Si potrebbe dunque temere che l’aumento del disimpegno e dell’ozio genererebbe aumento dei vizi, disaffezione al lavoro, incapacità di sopportare la fatica, prevalente dedizione alle aberrazioni. Aumenterebbero certo, con la popolazione e il consumo, i rifiuti, l’esaurimento dello spazio vitale, la crescita della conflittualità e, a lungo termine, il decadimento fisico, la diminuzione della procreazione e della popolazione e la fine della specie umana.

In qualche secolo l’umanità si potrebbe così disporre a sottoporsi al giudizio universale.

Questa è una spiegazione inverosimile data in risposta all’ipotesi di un timore e di un auspicio forse infondati. Non è superfluo qualche confronto. Con la prima rivoluzione industriale crebbero la produzione e il consumo e, nonostante l’aumento dell’occupazione che seguì, i vizi e le aberrazioni. Quanto è avvenuto suggerisce che con la tecnologizzazione potrebbero aumentare la produzione e i consumi, e l’occupazione che diminuirebbe sgraverebbe l’uomo dal peso del lavoro e della fatica. Ma quanti più vizi e aberrazioni emergerebbero e si moltiplicherebbero in un’umanità disoccupata e disabituata a sottoporsi al lavoro e a sopportare la fatica?

Se quanto alcuni sostengono si verificasse, non è peregrino credere che forse, con la disoccupazione, la tecnologizzazione potrebbe generare sovrapproduzione, consumismo, degenerazione e morte.


Francesco Caracciolo

già prof. ord. dell’università di Messina

www.francescocaracciolo.it