Prendete Leonardo
e tagliatelo a metà,
perché sua madre era russa

Promette di far discutere il romanzo “Il sorriso di Caterina – La madre di Leonardo”. Carlo Vecce riscrive, in parte, la storia dell’artista e genio del Rinascimento. Grazie a nuovi documenti, infatti, fa luce sull’identità della misteriosa donna che diede alla luce l’autore della Gioconda…


È il sorriso più famoso ed enigmatico della storia dell’arte e, forse, della storia tout court. Ogni giorno, nel museo del Louvre, lo scrutano quarantamila persone provenienti da ogni parte del globo.


Secondo lo studio di un gruppo di ricercatori olandesi e americani, pubblicato qualche anno fa su New Scientist, l’enigmatico sorriso di Monna Lisa esprime felicità per l’83 per cento, disgusto al 9, paura al 6 e rabbia al 2. Nel 1950 il cantante americano Nat King Cole la mise in musica: “Sorridi per sedurre un amante, Monna Lisa? / O è il tuo modo di nascondere un cuore spezzato?”.


Mai sorriso fu tanto analizzato, vivisezionato, stigmatizzato: dipinto pop, scomodo modello psicanalitico, oggetto di marketing, simbolo esoterico. Secondo il padre della psicanalisi Sigmund Freud, che all’infanzia di Leonardo dedicò un celebre saggio pubblicato nel 1910, la Gioconda altro non è che l’immagine onirica di sua madre, Caterina.


Sì, ma chi era questa donna? Una schiava araba o cinese, come ipotizzato da due studiosi come Alessandro Vezzosi e Martin Kemp qualche anno fa? Sicuramente, è il punto sul quale quasi tutti concordano, era una straniera.


Chi, tra questi studiosi, non credeva affatto all’ipotesi dell’origine esotica era Carlo Vecce, docente all’Università di Napoli L’Orientale, uno dei massimi studiosi del Rinascimento e di Leonardo sul quale ha pubblicato diversi saggi, tra cui Il Libro di pittura (1995) e il Codice Arundel (1998) con Carlo Pedretti e, nel 2021, La biblioteca di Leonardo.


È proprio scrivendo questo libro che Vecce s’imbatte in un documento, proveniente dall’Archivio di Stato di Firenze, che attesta la liberazione di una schiava che viveva in città di proprietà di Ginevra d’Antonio Redditi, moglie dell’industriale della moda e del lusso Donato di Filippo di Salvestro Nati. Il notaio è ser Piero da Vinci, il padre di Leonardo. La donna è identificata come “filia Jacobi eius schiava seu serva de partibus Circassie”, figlia di un certo Jacob e proveniente dall’altopiano del Caucaso settentrionale dove vive la popolazione dei circassi.


L’atto data 2 novembre 1452, sei mesi dopo la nascita di Leonardo, il 15 aprile, ed è il documento chiave della storia. I dettagli in questa vicenda sono importantissimi. La data è cancellata più volte e riscritta, rivela errori di penna. Forse al notaio tremavano le mani mentre sanciva, con la sua autorità di pubblico ufficiale, l’affrancamento dalla schiavitù della donna che aveva dato alla luce suo figlio.


Vecce ipotizza il furtivo concepimento di Leonardo “nel palazzo dei Castellani, notabile famiglia fiorentina di cui ser Piero era notaio: qui Caterina era stata chiamata a fare da balia alla figlia di Francesco di Matteo Castellani, che cita la ragazza nelle Ricordanze, una sorta di diario. Significa dunque che la ragazza era già madre, magari per schiavitù sessuale”.


“Non ho mai dato troppo credito alla storia che la madre di Leonardo fosse una schiava di stanza a Firenze nello splendore del Rinascimento“, ammette Vecce, “questo documento mi ha fornito il destro per iniziare una ricerca tra i documenti d’archivio. Volevo dimostrare che non era così e invece mi sono dovuto ricredere”.


Ne è nato un romanzo, Il sorriso di Caterina – La madre di Leonardo (Giunti), presentato martedì nella storica sede della casa editrice a Villa La Loggia a Firenze prima del tour che toccherà anche Milano e Parigi, che promette di far discutere, in Italia e all’estero, perché riscrive, in parte, la storia di Leonardo e racconta dinamiche che sono anche di oggi: una donna profuga che arriva nel nostro paese su un barcone, senza voce né dignità, e mette al mondo il genio universalmente riconosciuto di Leonardo, lo allatta, lo accudisce per dieci anni prima che le loro strade si separino e lei vada in sposa a un contadinotto di Vinci, tale Antonio Buti, detto Accattabriga, con cui vive quarant’anni insieme mettendo alla luce altri cinque figli, quattro femmine e un maschio.


Leonardo, dunque, è italiano per metà, solo per parte di padre. La madre, forse, era una straniera, schiava, che non sapeva né leggere né scrivere e a malapena parlava l’italiano. In che lingua gli avrà cantato la ninna nanna? Che cosa gli ha raccontato delle sue origini e del suo viaggio rocambolesco per giungere in Italia?


Come un detective, Vecce, per dare un’identità a Caterina e svelarne il più possibile il vissuto, ha passato ai raggi X tutti i personaggi coinvolti in questa vicenda. A cominciare da Donato di Filippo, che viveva a ridosso della chiesa fiorentina di San Michele Visdomini e commerciava in battiloro e broccati per la cui lavorazione, a Venezia, ci si serviva di schiavi circassi importati. Caterina era diventata sua domestica a circa 15 anni. Era poi stata presa in prestito come balia di Maria, figlia di ser Piero Da Vinci. Era pagata 18 fiorini all’anno, un prezzo molto alto che solo le famiglie più ricche potevano permetterselo. Secondo Vecce, Caterina era sostanzialmente la schiava sessuale di ser Piero. Questo Donato, quando muore nel ‘66, lascia tutto al Monastero di San Bartolomeo di Monte Oliveto, per il quale Leonardo dipinge l’Annunciazione (ora conservata agli Uffizi e ritrovata nella cappella della famiglia Castellani in quel monastero), che quindi forse si lega alla memoria della madre Caterina, schiava di Donato il cui notaio di fiducia è sempre ser Piero. Una coincidenza?


Sullo sfondo di questo quadro – altra coincidenza? – Leonardo dipinge una montagna, che richiama forse la doppia cima dell’Elbruz, la vetta più alta della catena del Caucaso, sull’altopiano di Kislovodsk, nell’antica Kabardia, terra d’origine di Caterina, e una fervida città di mare, con il porto, il traffico delle navi, un paesaggio non toscano ma orientale, forse ispirato ai racconti che Caterina può avergli fatto, forse la colonia veneziana della Tana alla foce del Don, l’odierna Azov, in Ucraina, da dove partivano le navi di schiave dirette in Italia. Qui inizia il viaggio di Caterina nel mar Nero e poi nel Mediterraneo. Condivide la sorte con altri schiavi, mercenari, pirati e soldati. E vede le cupole d’oro di Costantinopoli al tramonto dell’impero bizantino e prima della conquista turca, vede Venezia con i suoi traffici e la bellezza che si rivela dal mare, e infine vede Firenze nello splendore del Rinascimento.


Il sorriso di Caterina, come ha spiegato l’autore, non è un saggio scientifico (esce infatti senza note) ma la biografia romanzata della madre di Leonardo costruita con i documenti d’archivio e colmata, nei buchi che i documenti non colmano, dalla fantasia del romanziere, come il fatto, immaginato dall’autore, che Jacob fosse un principe del Caucaso: “La bellezza della letteratura sta nel riuscire ad andare oltre la storia fino ad arrivare al punto cieco della vita”, sottolinea Vecce, “nel mio libro la fiction interviene per colmare le lacune, come fa la filologia che Vico chiamava la “scienza del certo”“.


Sulla copertina del libro c’è il sorriso, solo abbozzato, di una profuga afghana dei nostri giorni che nell’ammiccare (ovvio) a quello misterioso della Gioconda, e sul quale Vecce concorda con la lettura di Freud, rimanda anche alla cronaca di oggi: “La storia di Caterina non è una storia bella, non ha niente di esotico e fascinoso“, dice l’autore, “è la storia della schiavitù, dello sfruttamento del lavoro a opera di mercanti senza scrupoli. È la storia di una ragazza alla quale è stato rubato tutto, la libertà, i sogni, il futuro e anche il nome, perché queste schiave quando arrivavano in Italia venivano battezzate con un nome cristiano. Quella di Caterina è, anche, una storia di oggi e che ognuno di noi ha davanti agli occhi sui giornali e in tv. Anche per questi rimandi, ho sentito l’urgenza di raccontare la storia di Caterina in questo modo, a cavallo tra storia e fiction“.


E poi c’è Leonardo, l’artista ma soprattutto l’uomo. Caterina che l’ha dato alla luce, allattato e accudito per dieci anni, nota l’autore, “gli ha dato lo spirito di libertà assoluta che noi rivediamo nella sua ricerca scientifica e intellettuale che non si ferma davanti ai pregiudizi e ai principi d’autorità. Forse questo stile del Leonardo artista e scienziato deriva dall’idea di libertà assoluta che gli ha inculcato sua madre la cui aspirazione massima era di tornare libera. Caterina, inoltre, provenendo da un paesaggio selvaggio e aspro gli avrà trasmesso anche l’amore per la bellezza della natura. La vicenda di questa donna rafforza l’idea di Leonardo uomo universale. Non a caso, Nietzsche diceva che non gli sembrava tanto europeo e occidentale e lo definì “super europeo”“.


L’ultima tappa di questa vicenda intrigante ci porta a Milano, dietro la Basilica di Sant’Ambrogio, dove duranti i lavori di scavo per la nuova sede dell’Università Cattolica, lo scorso autunno è riemersa la cappella dell’Immacolata Concezione della Chiesa di San Francesco Grande, distrutta nell’Ottocento, per la quale Leonardo aveva dipinto la Vergine delle rocce, uno delle sue opere più celebri. Sono venuti alla luce il muro al quale era addossato l’altare, il pavimento della cripta, i frammenti del cielo stellato dipinto sulla volta dagli Zavattari. E alcuni resti umani di antiche sepolture. Tra questi ci potrebbero essere anche quelli di Caterina, rimasta vedova e morta di malaria a Milano il 26 giugno del 1494 “tra le braccia del figlio”, finito intanto al servizio di Ludovico il Moro, e lì sepolta. Per l’addio, Leonardo volle una cerimonia principesca come emerge dal Codice Foster II su cui, l’anno dopo, annota le spese del funerale: 120 soldi. Tantissimo. Un catafalco, quattro chierici e quattro preti, un sontuoso pallio nero. Una lista apparentemente fredda, nota Vecce, ma che rivela un “grande dolore” e l’amore del figlio per quella donna sfortunata e caparbia che, nonostante tutto, ce l’aveva fatta.


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