Palestina e Afghanistan
tra continuità e discontinuità dell'imperialismo Usa

Finora abbiamo analizzato i movimenti di politica internazionale statunitense rispetto Cina e Russia, ponendo in evidenza gli elementi di frizione della contraddizione interimperialista tra questi paesi. Adesso rivolgiamo lo sguardo al settore mediorientale dove risulta evidente come la contraddizione imperialismo e popoli oppressi cambia quelle che sono le strategie e le azioni dei paesi imperialisti (sulla contraddizione imperialismo americano e popoli oppressi, è interessante anche capire cosa accade in Sud America32). Nell’area mediorientale e centro-asiatica gli eventi che hanno caratterizzato gli ultimi mesi sono l’eroica Resistenza del popolo palestinese all’entità sionista e il ritiro/fuga da Kabul dell’esercito Usa.

Nella Palestina occupata la Resistenza palestinese si è dimostrata capace di contrastare i piani di Israele, avvallati dal governo Usa, che procedono nel perseguimento della pulizia etnica, del confinamento in bantustan e nell’aggravamento del colonialismo di insediamento sionista. Con gli undici giorni di conflitto nella battaglia della “Spada di Gerusalemme” i resistenti palestinesi sono scesi in campo dalla Cisgiordania a Gaza, dai profughi in Siria a quelli in Libano e con la partecipazione alla lotta degli arabi dei territori del 48, formalmente cittadini israeliani, combattendo contro i progetti del colonialismo sionista che mirava a cacciare alcune famiglie palestinesi che vivono nell’area di Gerusalemme est. Sono riusciti anche ad ampliare la lotta raccogliendo la solidarietà di movimenti popolari con manifestazioni in tutte le aree del mondo, Usa compresi. La capacità di mobilitazione e di risposta militare dimostrata dalla Resistenza palestinese ha affossato i piani di aggressione israeliana e i tentativi di normalizzazione imperialista del Medioriente33. Quest’ultima verte sull’appoggio storico alla colonia sionista da parte dell’imperialismo statunitense, che ora si concretizza con l’appoggio ai cosiddetti Accordi di Abramo spinti da Trump e portati avanti da Biden. Gli Accordi di Abramo prevedono la stabilizzazione dei rapporti tra il regime sionista ed alcune monarchie reazionarie arabe (Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Marocco) con la prospettiva di un’alleanza strategica di carattere politico-militare, una sorta di Nato mediorientale guidata da Israele, con la funzione di contenimento delle potenze regionali come Iran e Turchia e di assoggettamento dei popoli oppressi dell’area di Libano, Siria, Yemen. Tra l’altro gli accordi prevedono il riconoscimento, provocatorio per le popolazioni arabe, di Gerusalemme come capitale dello stato sionista.

Gli eventi in Afghanistan di fine agosto scorso hanno dimostrato come la ventennale dominazione imperialista a guida Usa sia stata incapace di contrastare la resistenza del popolo afghano alle mire imperialiste. La precipitosa fuga da Kabul delle truppe Usa e atlantiche, dopo che il presidente fantoccio Ashraf Ghani se ne è scappato in Qatar pieno zeppo di soldi ed i soldati dell’esercito afghano addestrati dall’imperialismo Usa si sono liquefatti sotto gli attacchi dei talebani, è emblematica di come gli Usa non siano stati capaci di uscire dal pantano afghano. Il ritiro dei soldati Usa e Nato dal territorio afghano era già stato programmato (anche se non in questa maniera poiché l’intelligence americana riteneva che il governo Ghani e l’esercito afghano avrebbero resistito per più tempo contro i talebani) dal febbraio 2020, con gli accordi di Doha avvallati dall’allora presidente Trump. Il governo Biden non si è discostato da questi accordi poiché gli Usa non sono riusciti a sfruttare l’occupazione a loro vantaggio, a causa della Resistenza del popolo afghano che ha comportato costi eccessivi per il mantenimento delle truppe e degli armamenti (1000 miliardi di dollari in 20 anni). Non era più possibile mantenere un livello di intervento militare di questa entità nell’area, nonostante l’importanza di questo territorio vicino a Russia e Cina, perché non rappresentava una base di appoggio sicura per gli Usa, ma, invece, una continua spina nel fianco. La fuoriuscita dell’imperialismo Usa nell’area può rappresentare un’occasione per i suoi rivali imperialisti, soprattutto per la Cina, di intessere relazioni con il nuovo governo talebano, grazie alla propria potenza economica e all’interesse per le riserve minerarie come rame, litio e cobalto (valutate in tremila miliardi di dollari) presenti nel paese dell’Asia centrale34.

Nell’area mediorientale gli Usa devono fare i conti anche con l’influenza e l’espansionismo regionale di paesi come l’Iran e la Turchia. Rispetto all’Iran la politica della nuova amministrazione Biden sta mirando a riprendere le trattative sul nucleare con l’accordo denominato Jcpoa, introdotto nel 2015 durante la presidenza Obama, sul quale il nuovo presidente iraniano, Ebrahim Raisi, insediatosi il 5 agosto scorso, si è dimostrato disponibile alla trattativa, puntando all’annullamento delle sanzioni in vigore nei confronti del paese iraniano e dando il consenso a nuove ispezioni in alcuni siti nucleari da parte dell’Agenzia internazionale energia atomica (Aiea)35. D’altra parte, però, l’imperialismo Usa sostiene le iniziative militari che Israele attua in Siria e in Libano, con periodici attacchi contro postazioni di gruppi militari filoiraniani, considerando l’Iran e le formazioni alleate come Hezbollah e lo stesso governo di Damasco, gravi minacce alla sua integrità territoriale, alla sua influenza nell’area, temendo anche l’appoggio di queste forze alla Resistenza Palestinese. Ad esempio, nel settembre scorso l’aviazione israeliana ha attaccato installazioni usate da forze filoiraniane a Damasco, ma le difese aeree siriane, con armamenti russi, sono riuscite ad intercettare la maggior parte dei missili lanciati dagli aerei israeliani36. Ma non mancano attacchi, sabotaggi e provocazioni da parte di Israele direttamente sul suolo iraniano: nel luglio scorso droni militari israeliani hanno attaccato una fabbrica che produce centrifughe per il nucleare a Karaj in Iran37.

La politica del governo Usa deve fare anche altre iniziative di contenimento verso l’espansionismo regionale e il protagonismo della Turchia del governo Erdogan, paese membro della Nato e che costituisce numericamente il secondo esercito dei paesi aderenti all’alleanza atlantica. In questi anni la Turchia si è ritagliata un ruolo di protagonista regionale inserendosi in diversi fronti di guerra come quello siriano e libico, urtando non poco con gli interessi Usa nell’area, soprattutto nel periodo di più stretta cooperazione con la Russia di Putin e più recentemente con l’appoggio militare all’Azerbaijan nel conflitto contro l’Armenia, per la zona contesa del Nagorno-Karabakh. Un protagonismo turco che sta spingendo su rivendicazioni nel Mar Egeo, ricco di giacimenti gasiferi, scontrandosi con gli interessi della Grecia (altro paese Nato) e del principale partner statunitense nell’area ovvero Israele38. Nell’incontro al vertice Nato del giugno scorso, prima occasione di incontro del presidente Biden con l’omologo turco, la Turchia si è proposta come fornitrice di droni BayraktarTb2, già sperimentati in teatri di guerra come Libia e Nagorno-Karabakh, alla Polonia e all’Ucraina, impegnata nel Donbass contro la resistenza popolare della regione39. Il pragmatismo del premier Erdogan che continua a giocare di sponda con Usa e Russia, lo rendono un “alleato” non completamente affidabile per gli interessi dell’imperialismo degli Stati Uniti, capace di destabilizzare dall’interno la stessa Nato.

Le contraddizioni dell’imperialismo sono irrisolvibili

Da questa esposizione che ha cercato di delineare gli elementi di continuità e di discontinuità tra le due amministrazioni dell’imperialismo Usa degli ultimi anni emerge come, nonostante vi siano differenze nell’affrontare le questioni strategiche principali, la sostanza non cambia: continua a svilupparsi la tendenza alla guerra tra potenze imperialiste, principalmente tra Usa e Cina.

La ricerca continua del profitto, che è la legge fondamentale del sistema capitalista, è la guida nelle decisioni e negli scontri degli Usa con gli altri Stati imperialisti e delle guerre di aggressione contro i popoli. Questo sistema economico sta dimostrando sempre più come condurrà il mondo ad un vicolo cieco fatto di guerra e barbarie. L’esempio dei popoli oppressi in rivolta, però, ci indica la strada da seguire per contrastare questi progetti di dominio e sopraffazione, come accade per l’eroica Resistenza del popolo palestinese che da decenni combatte contro l’oppressione sionista e imperialista. Sostenere le lotte dei popoli che resistono, intrecciare reali percorsi di solidarietà con essi e costruire nel proprio paese la resistenza alle politiche del nostro imperialismo, legandosi al proletariato ed alle masse popolari: questa è l’unica strada possibile per contrastare i piani di guerra dell’imperialismo e per uscire, con la rivoluzione proletaria, da questo sistema di sfruttamento.


NOTE

32 vedi machette Non proprio un cortile di casa

33 Sulla Resistenza palestinese vedi Note di fase primavera 2021, della redazione di Antitesi, tazebao.org, 25.6.2021

34 C. Paudice, Perché gli Usa non sono riusciti a sfruttare le miniere afghane, huffington-

post.it, 24.8.2021

35 Il capo dell’Aiea a Teheran, accordo su alcune modalità di sorveglianza del programma

nucleare iraniano, repubblica.it, 12.9.2021

36 Siria: attacco israeliano presso Damasco, contraerea replica, ansa.it, 3.9.2021

37 D. Raineri, Israele ha attaccato un altro sito atomico in Iran, ilfoglio.it, 8.7.2021

38 Sulla questione dei giacimenti nel mar Egeo e le rivendicazioni turche vedi articolo successivo Di chi è il mare nostrum? a p. XX

39 Turchia verso il dopo Erdogan, realpolitik Nato-Usa e il despota utile, remocontro.it, 15.6.2021



Tratto da ANTITESI - n°11 | OTT 2021

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Non è più un pianeta per tigri