Pensare...

La Nuova Europa,  22.2.2023 - Mauro Lepori, Elena Žemkova, Mario Mauro, Dmitrij Strocev

Riprendere e riprendersi

Corriere della Sera, 5.9.2022 - Alessandro D'Avenia

Il valore spirituale della tecnologia

Avvenire, 7.7.2021 - Giuseppe Tanzella-Nitti

Provati dal Covid, non smettiamo di cercare un senso

Il Sussidiario.net  1.4.2021 -  Felice Achilli

La pandemia da Covid-19 ha determinato nel nostro Paese più di 108.000 morti. Nel 2020 il totale dei decessi per il complesso delle cause di morte è stato il più alto mai registrato dal secondo dopoguerra: 746.146 decessi, 100.526 in più rispetto alla media 2015-2019 (15,6% di eccesso), a indicare che il Coronavirus, altamente letale per sé, ha prodotto anche un eccesso di mortalità per patologie non Covid, attraverso lo sconvolgimento del sistema delle cure del SSN, travolto dall’intensità della pandemia.

Il vaccino costituisce l’unica strada percorribile per superare questa drammatica situazione. Ma dopo un anno, ci troviamo ancora per molti aspetti, al punto di partenza: scarsa conoscenza della malattia e nessuna terapia eziologica, ospedali pieni e impreparati a reggere l’ennesima ondata di malati. Con una differenza: siamo più stanchi, quasi rassegnati e divisi tra la ricerca di un “positivo” a ogni costo e la tentazione di cavarcela, alla faccia degli altri.

Nessun evento come il Covid-19 ha posto davanti a noi ciò che tutti ci ostiniamo a non voler vedere: la fragilità della condizione umana e della sua ultima precarietà. Per la prima volta le persone hanno la percezione che una malattia grave, spesso letale, può venirci incontro e sorprenderci indipendentemente dai nostri comportamenti. Possiamo trovarci a dover affrontare un carico di sofferenze fisiche e psicologiche (nostre o altrui) che ci appare drammaticamente senza significato. Non siamo padroni di noi stessi, e ancor più gravemente, non troviamo in noi la capacità di resistere, una ragione, una speranza “affidabile” in grado di farci affrontare la fatica dell’oggi.

Come di recente ha detto papa Francesco aprendo la Settimana Santa, la pandemia che un anno fa ci aveva “scioccati”, oggi “ci ha provati”, cioè ha messo ognuno di noi alla prova: credente o non credente. E la prova più dura consiste nel non smettere di cercare un senso a tutto quello che sta succedendo, perché ogni giorno la realtà che incontriamo un senso lo urge, lo chiede, lo grida pena uno smarrimento che rende sempre più difficile reggere il presente.

È vero per tutti, ma molto più per chi, come medici e infermieri, ogni giorno entra in rapporto con i malati, in una condizione di isolamento e assenza di rapporti che amplifica ancora di più la sofferenza, o con i loro familiari impossibilitati a essere presenti.

È sempre più evidente che non basta il posto letto, non bastano le terapie di supporto, quello che gli occhi dei malati chiedono da dentro il casco è qualcosa di più: una speranza, la certezza che quello che stanno passando non è senza significato, e lo chiedono innanzitutto a chi li assiste, a chi è con loro oggi.

Questo compito, per alcuni aspetti dimenticato e “nuovo”, ci fa paura, eppure, quando accettato, diventa misteriosamente la strada che ci permette di ritrovare ragioni, energia, motivazione all’impegno nella cura. Occorre accettare fino in fondo di accompagnare gli uomini nella sofferenza, per sorprendere al fondo delle ferite di ognuno il mistero di una carità che rende nuovo tutto. Solo la carità vissuta, può ridestare in noi e nei nostri malati la speranza.

È una sfida resa ancor più vera dall’irrompere nel tempo della Pandemia della Pasqua cristiana, con l’annuncio della resurrezione, cioè come dice papa Francesco, “in questa situazione Dio cosa fa? Prende la croce. Si fa carico del male. E noi cosa dobbiamo fare? Come Maria prendere la nostra parte di sofferenza di buio e smarrimento. Lungo la via Crucis quotidiana incontriamo i volti di tanti fratelli e sorelle in difficoltà: non passiamo oltre, lasciamo che il cuore si muova a compassione ed avviciniamoci”.

Solo questa esperienza vincerà la pandemia e permetterà una nuova costruzione.

Sulle orme di Abramo

L'Osservatore Romano, 4.3.2021 - Andrea Monda e Emmanuel Levinas 


Papa Francesco prende e parte. Dopo 15 mesi di pausa forzata si alza, esce dal Vaticano e si dirige in Iraq, il viaggio che forse in modo più potente rappresenta il suo pontificato giunto all’ottavo anniversario. Sono infatti quasi otto anni che il Papa invita il popolo dei cattolici a realizzare una Chiesa “in uscita”. E questo viaggio, “sulle orme di Abramo” è l’incarnazione di una Chiesa che esce. 

Abramo è l’uomo che riceve la chiamata e l’ascolta sul serio, prontamente, senza tentennamenti o discussioni, prende quello che ha e si mette in cammino da Ur dei Caldei verso “il paese che ti indicherò”. Con questo gesto il testo biblico dona al mondo qualcosa che prima non aveva: il futuro. E quindi la speranza. Nel mondo antico, impregnato dalla saggezza greca, il futuro non era molto frequentato, perché coincideva con il ritorno del passato. Il fato in modo ineluttabile tornava ruotando ciclicamente su se stesso: l’eterno ritorno dell’identico. Già il mondo latino segna un distacco rispetto a questa visione così intrisa di nostalgia: da Ulisse, l’eroe greco, si passa ad Enea di cui Virgilio canta l’avventuroso viaggio non verso la vecchia casa ma alla ricerca di una nuova terra da scoprire per poter ripartire. Enea con il padre e il figlio “sulle spalle” e la compagnia dei Lari e i Penati, la religione.

Da Abramo, passando per Enea, il tema della promessa entra nel mondo e con esso anche l’idea di avvenire, di progresso, se vogliamo anche di “millenarismo”. Questo passaggio dal mondo greco al mondo biblico è ben illustrato dalla riflessione del filosofo ebreo Emanuel Levinas nel testo che pubblichiamo qui di seguito, dedicato alle figure di Abramo e Ulisse, una buona lettura per accompagnare il viaggio del Papa che sta per cominciare. (A.M.)

 

Ulisse parte. Abramo parte. Un viaggio e un esilio. L’uno con la speranza di ritorno, l’altro verso un’altra terra, una terra straniera che diventerà sua. Uno ritorna, l’altro non cessa di camminare. Uno a casa sua, l’altro altrove. Uno verso l’ambiente famigliare dell’isola natale, l’altro verso l’incognita di un paese di cui non è originario. L’uno e l’altro certamente trasformati dalla strada, la polvere, le prove e gli incontri. Tuttavia, il loro cammino può essere identico? Il primo fa l’esperienza del ritorno alle stesse cose, e il secondo l’esperienza di un’alterità infinita che, alla fine, non è tanto quella della meta quanto quella di Dio. Due partenze. Poi, un ritorno e una chiamata.

Non si valuta allo stesso modo quello che si è lasciato, né il cambiamento avuto lungo il cammino, rispetto a un ritorno o rispetto a Dio. Perché Abramo, più di Ulisse, richiama la figura del pellegrino? Il viaggio di Ulisse è circolare; egli ritorna a quello che conosce, ed è appagato da questo ritorno. Abramo è libero riguardo ai luoghi: qui o là, quello che importa è Colui che guida. Il cammino di Abramo è desiderio; non ha mai finito di lasciarsi sorprendere dall’inaudito di Dio, e non vuole un luogo dove fissare Dio. Il cammino di Abramo ci insegna che Dio stesso è nomade, giacché non si lascia delimitare da nessuna nostra parola o rappresentazione: non si può dire “eccolo qui” o “eccolo là”. Dio chiama altrove. Abramo è condotto al di là di quello che pensava, di quello che avrebbe potuto prevedere ascoltando la promessa che l’ha messo in cammino. Poiché Dio stesso è sempre ancora al di là di quanto scopriremo su di lui in tal luogo o in tale passaggio: Dio è sempre più grande.

Sui passi di Abramo, il cammino ci trasforma veramente se ci lasciamo condurre al di là delle nostre attese — buone o giuste che siano —. Se non cerchiamo di tornare al già conosciuto, né di ripetere quello che fu bello in altre occasioni. Partire è perdere, perdere senza aspettare un contraccambio, senza sapere quello che si troverà o che sarà dato. Osare di essere sconfitto, rischiare di perdersi, per lasciarsi plasmare da Colui che sorprende, piuttosto che preferire la comodità delle certezze, delle tracce segnate dalle boe.

Perdere ciò che si era previsto, lasciare quello che si conosce senza la volontà di tornare indietro: è forse la condizione necessaria per “guadagnare il mondo intero”: guadagnarlo non per sé, ma lasciarsi offrire da Colui che invia. Lasciarsi inviare, per esplorare la terra intera, per cercarvi, in ogni cosa, in ogni incontro, Colui che ha promesso la sua presenza su tutta la terra. Facendo eco alla promessa che mette in cammino Abramo, il pellegrino, oggi, ascolta l’appello di Gesù “ad andare per il mondo intero” amando questo mondo come lo ama Dio.

(Dal racconto Con o senza biglietto di ritorno del filosofo ebreo Emmanuel Levinas) 

Perché trattate i medici come eroi e il vaccino come un esorcismo?

Il Sussidiario.net ,5.1.2021 - Carlo Bellieni

L’annus horribilis si è chiuso e le sue tragedie pare abbiano trovato un solo contraltare: l’impegno dei sanitari. “Medici eroi” è stato lo slogan che è ricorso in lungo e in largo, con cittadinanze onorarie, premi, menzioni, titoli, copertine ai medici del Covid, molto più di quanto era stato dedicato agli “eroi del fango” della nefasta inondazione di Firenze del ’66. Quanta gloria! E quanta gloria, emersa come una fiorire di minuscoli funghi nati dall’oggi al domani, che deve far riflettere. Già, perché questa “santificazione dei sanitari” cela invece due paure, due grandi paure.

La prima è la paura della morte, nella quale ci serve che qualcuno faccia da eroe, mostri una forza e un disinteresse sovrumano per garantirci che “tutto andrà bene!” (vi ricordate, il mantra del primo lockdown). Come diceva Bertold Brecht, “Sfortunato il popolo che ha bisogno di eroi”, perché significa che deleghiamo a Batman e Superman quello che non sappiamo o non possiamo fare; o che il grigiore della vita ha incartapecorito in noi. Avere degli angeli incarnati accanto ci consola nel terrore, ma è un solatium fragile e caduco perché in realtà anche i suddetti angeli hanno paura eccome. Solo che per un contingente effetto hanno trovato come fare quello che la loro vocazione di caregivers significava nel profondo: fare “il miglio in più” richiesto dal viandante che trovi affaticato. Ma questo tema, della reale paura della grande nemica, non lo ha voluto affrontare nessuno; era il leit-motif della pandemia, ma il tema è stato censurato, annacquato, rassicurato, divelto. Quindi interiorizzato, represso e reso più orrendo, se possibile. Ma la paura della morte è un tratto umano che il bambino impara verso i dieci anni di vita, che l’essere umano ha imparato dalla notte dei tempi. Ma non ci vogliamo pensare. E crediamo agli esorcismi, riducendo i grandi progressi scientifici a riti scaramantici, come se il vaccino non fosse solo un’arma efficace e buona contro un virus, ma un rituale apotropaico contro la morte.

La seconda paura è ancora più orribile: è quella di guardare a noi stessi e vederci paurosi, inetti e bisognosi di delegare ai “bravi” la nostra forza ormai persa nel lavoro routinario, nei protocolli cui deleghiamo le responsabilità. Allora nasce il bisogno di eroi, nelle cui mani rimettiamo le nostre responsabilità timide, i nostri destini atrofizzati, le nostre responsabilità impaurite. Il tratto distintivo di oggi è la mancanza di responsabilità, di presa coraggiosa d’atto che qualcosa nell’immediato del nostro lavoro, della nostra famiglia va fatto e farlo. Ma tutto tace a risvegliare questa presa d’atto e restiamo a “bouche bée”, imbambolati, capaci di attingere il “panem et circenses” che ci dà la società irresponsabilizzata, ma non di fare in realtà qualcosa. Crediamo di “fare”, ma in realtà non facciamo. E abbiamo paura di vedere questa realtà, di renderci conto che seguiamo la corrente, che siamo degli inetti esistenziali. La società di massa crea distrazioni di massa, ci fa sentire forti e attivi se gridiamo allo stadio o se passiamo di livello in un gioco della Play Station; ha abolito le differenze di classe perché oggi poveri e ricchi vogliono entrambi la stessa cosa: la tecnologia, il gioco, il pulsante da premere in una corsa ai beni posizionali che ti facciano sentire un passetto più in alto del vicino. Sotto questo c’è il vuoto; sotto questo vestito c’è il nulla. E la paura. E il bisogno di immedesimarsi nell’altro-coraggioso perché noi non lo sappiamo essere.

Fa bene a medici e infermieri questo clima di santificazione? Proprio no. Perché li idealizza e nasconde i loro veri problemi. In primo luogo quello della motivazione, anche loro ridotti nella routine di protocolli, burocrazia e procedure operative. Nasci con un “duende”, direbbero gli spagnoli, cioè con uno spiritello dentro che ti dice di fare grandi cose, con uno spirito dionisiaco che ti slancia verso l’alto e ti ritrovi nella hybris-orgoglio di sentirsi narcisisticamente superiori al malato o nella phthysis-consunzione di un lavoro insoddisfacente perché gli ospedali sono stati trasformati in aziende, i malati in clienti e i medici e gli infermieri in “operatori”, tutti legati al cartellino da timbrare. La luce per medici e infermieri viene dal fare le pulizie nella casa della sanità e riportarla semplice e linda alla schiettezza delle sue mura e dei suoi arredi essenziali. Riscoprire il rapporto di fiducia col paziente e uscire dal rapporto contrattualistico in cui la sanità è dare il massimo che può garantire il minimo impegno. Il rapporto di fiducia, il visitare, parlare, misurare: la parola “medico” viene dal latino “medeo” che significa “misuro”, prendo le misure cioè guardo, tocco, parlo, cosa difficile da capire dove un “effetto Suv” (sentirsi falsamente garantiti dalla tecnologia come dentro un Suv) spinge ad abbassare l’attenzione sulla persona, e ad affidare il rapporto di cura alle risposte del laboratorio prima che allo sguardo, alle mani, al tempo passato a conoscere, alla “care” del medico.

Che il 2021 porti a una svolta non è pensabile, ma può essere un’occasione per i singoli di pensare  queste paure, farci i conti, decensurarle, aggredirle o socializzarle; e valorizzare nel giusto senso medici e infermieri, perché anche chi si prende cura degli altri ha bisogno di una cultura che si prenda cura di loro.


Il bene nella pandemia

Il Foglio, 24.11.2020 - Amedeo Capetti

Il vicino che offriva una canzone anni Sessanta dal balcone per risollevare l’animo di tutti ora non si sente più. E così il riflesso di molti è di tornare con il ricordo a quei giorni di sofferenza, eppure di novità come qualcosa che ha toccato il vero fondo della nostra vita ma che non si può ripetere, Glory Days, come cantava Bruce Springsteen. Questo è umano e ha caratterizzato anche la mia adolescenza prima che una ventata di novità investisse la mia vita. Nonostante la giovane età vivevo rivolto al passato nella nostalgia dei tempi gloriosi e nella domanda lacerante di potervi tornare o di poter incontrare qualcosa che permettesse il permanere dello stupore e del gusto che non riuscivo a ritrovare. Ma è proprio vero?

 

Intanto non si può generalizzare. I nostri Glory Days sono stati per molti un inferno e in quei giorni il tasso di suicidi in Italia è salito come pure il livello di povertà. Le famiglie con persone handicappate o psichiatriche hanno sofferto e molte persone sole o depresse hanno vissuto un incubo. L’educazione scolastica ne ha risentito pesantemente. E oggi, dove è sparito tutto questo? Qualche giorno fa un gruppo di amici medici di Torino mi ha chiesto: di fronte a questa situazione di stanchezza, di sfiducia nei medici, degradati dal ruolo epico di “eroi” a quello di “falsificatori”, di perdita dell’unità nei reparti, come stai tu? Come hai visto cambiare i rapporti con pazienti, parenti e colleghi in questi mesi?


Nel mio ospedale la seconda ondata ha portato una novità: molti tra medici e infermieri ci siamo ammalati, qualcuno con conseguenze gravi. Io sono stato ricoverato una settimana con una polmonite di media gravità. Noi che per formazione, dotazioni e strutture come centro di riferimento infettivologico ci sentivamo protetti ora venivamo contagiati comunque. Qual è la novità? La scoperta che il collega con cui magari per anni c’erano stati motivi di ruggine ora, ammalato, suscitava un’affezione rivelatrice. Abbiamo intuito quanto siamo importanti gli uni per gli altri e quanto ci perdiamo a trascurare l’umanità di ognuno. Così in modo diverso e forse più radicato rispetto alla prima ondata si è ricostituita l’unità.

 

Durante il ricovero e la quarantena sono stato ricoperto di attenzioni da tutto il personale, al mattino mi arrivavano così tante brioches che chiedevo agli infermieri di offrirle agli altri ricoverati. Rientrato al lavoro ho trovato tutti premurosi verso di me, mi invitavano a una prudenza e a una gradualità che nei fatti ho visto impossibile, offrendomi il loro appoggio, e io sapevo che in mia assenza si erano sobbarcati il mio lavoro. Il terzo giorno ho ripreso a fare le guardie, che aumentate in termini di impegno, fatica e drammaticità. Ieri una collega è scoppiata a piangere per la stanchezza. Domando: non è che con le nostre analisi, pur corrette, noi aumentiamo il clima di disperazione in cui siamo immersi?

 

Occorrono occhi per vedere il bene che nasce, coltivarlo, desiderare che ci contagi. Come i pazienti che riusciamo a mandare a casa in quarantena grazie a realtà (parrocchie, gruppi di studenti) che si sobbarcano l’impegno di fare la spesa per loro. In preparazione della nuova modalità della Colletta alimentare sono andato a visitare due supermercati, in uno già ad aprile erano stati scoperti piccoli furti da parte di poveri e anziani, che non erano stati denunziati, anzi aiutati. A un anziano colto in flagrante il direttore ha detto: “Se hai fame non rubare, vieni da me” e gli ha pagato di tasca sua la spesa. La notizia è finita sui social ed è nata l’iniziativa “Corvetto solidale”, un conto aperto in quel supermercato a cui ognuno può contribuire a favore dei poveri della zona.

Quando la realtà stringe rende evidente che, più ancora della salute, ci è necessario trovare una ragione che resista alle avversità, perché la vita è seria e ci è data una volta sola, una ragione che ci faccia vivere con gusto ogni istante. E solo ciò che è reale resiste, non una teoria ma una presenza, qualcuno da guardare, non perché particolarmente generoso ma perché vive con un’intensità invidiabile, operosa e capace di amare e valorizzare tutto. Qualcuno da cui ci sentiamo amati.

 

Contribuire con la nostra generosità e fantasia è un modo per uscire dal lamento e tornare a guardare i poveri intorno a noi, il nostro vicino, gli anziani e le famiglie in difficoltà, i ragazzi che crescono e imparano e spendono il fiore della loro vita in questa condizione. Impegnandoci con la realtà di oggi ci è offerta la possibilità di ritrovare quel bene e quello stupore che il nostro cuore desidera, come un dono che ci viene dato ogni giorno, sempre nuovo. È l’esperienza della mia vita ormai da oltre trent’anni. E’ il mio augurio per tutti.


No alla generazione Covid

La Repubblica, 23.11.2020  - Massimo Recalcati

Non ci siamo mai accorti così tanto dell'importanza della Scuola come da quando siamo stati costretti dall'emergenza sanitaria a chiuderla. Si poteva fare di più? C'erano altre possibilità? Constato che la Scuola ha continuato ad essere aperta nonostante sia stata di fatto chiusa. Questa apertura coincide in primo luogo con la cosiddetta didattica a distanza.

A rigore, com'è ben noto a tutti gli insegnanti, si tratta di una contraddizione in termini perché la didattica implica come tale la relazione, la presenza dei corpi, lo stare insieme in una comunità vivente senza l'asettica mediazione assicurata dalla tecnologia. Si potrebbe certamente indugiare, lato docenti e lato allievi, sugli innumerevoli limiti di questa didattica. Evidentemente essa non è affatto, come si dice, l'ideale. Implica, infatti, uno sforzo supplementare rispetto alla didattica in presenza senza però raggiungere gli stessi risultati.

Ma, proviamo a chiederci: quando mai un processo di formazione avviene seguendo una traiettoria ideale? Chi si occupa a diverso titolo di formazione sa bene che quello che dà davvero forma alla nostra vita non è mai nell'ordine dell'ideale. I maggiori effetti formativi si generano non a partire dai successi o dalle gratificazioni, dalle prestazioni mirabili o dalle affermazioni senza intoppi, ma dalle cadute, dai fallimenti, dalle sconfitte, dagli smarrimenti.

Ebbene non è quello che sta accadendo sotto il terribile magistero del Covid 19? I nostri figli non si trovano forse confrontati con l'asprezza del reale invece che con il mondo sempre un po' ovattato dell'ideale? Ogni processo autentico di formazione non è mai un percorso lineare, privo di interruzioni o di avversità, non è mai come percorrere un'autostrada vuota. Il movimento proprio di ogni formazione è spiraliforme e riguarda innanzitutto la capacità di rispondere alla ferita e al trauma: come ci si rialza dopo essere caduti? Come si riparte, come si riprende il cammino dopo essersi smarriti?

Ogni formazione è fatta di buoni e di cattivi incontri, di buona di cattiva sorte. I genitori contemporanei (ben prima del Covid) vorrebbero invece escludere per i loro figli l'esperienza dell'ostacolo e dell'impatto aspro con il reale, la sofferenza e la frustrazione. Per questo essi oggi possono apprensivamente gridare al trauma, preoccuparsi di tutto il tempo irreversibilmente perduto dai loro figli, maledire le rinunce alle quali essi sono stati ingiustamente sottoposti. Ma in questo modo correranno l'inevitabile rischio di vittimizzare i loro figli e una intera generazione.

Se i nostri ragazzi non hanno potuto beneficiare di una didattica in presenza nel corso di quest'anno, se hanno perduto una quantità di ore e di nozioni significative e di possibilità di relazioni, questo non significa affatto che siano di fronte all'irreparabile. Il lamento non ha mai fatto crescere nessuno, anzi tendenzialmente promuove solo un arresto dello sviluppo in una posizione infantilmente recriminatoria. A contrastare il rischio della vittimizzazione è il gesto etico ed educativo di quegli insegnanti che spendono se stessi facendo salti mortali per fare esistere una didattica a distanza.

Insegnare davanti ad uno schermo significa non indietreggiare di fronte alla necessità di trovare un nuovo adattamento imposto dalle avversità del reale testimoniando che la formazione non avviene mai sotto la garanzia dell'ideale, ma sempre controvento, con quello che c'è e non con quello che dovrebbe essere e non c'è.  Si tratta di una lezione nella lezione che i nostri figli dovrebbero fare propria evitando di reiterare a loro volta la lamentazione dei loro genitori.

Insegnare ora è insegnare che anche nelle difficoltà si può costruire con quello che c’è: questa è la lezione che i nostri figli possono imparare ora.

Non ci sarà nessuna generazione Covid a meno che gli adulti e, soprattutto, gli educatori non insistano a pensarla e a nominarla così lasciando ai nostri ragazzi il beneficio torbido della vittima: quello di lamentarsi, magari per una vita intera, per le occasioni gli sono state ingiustamente sottratte. Coraggio ragazzi, siete sempre in tempo anche se siete in ritardo! E, in fondo, nella vita, sempre così per tutti: siamo sempre ancora in tempo anche se siamo sempre in ritardo.

Covid, non si può “tenere” da soli 

Il Sussidiario.net, 23.10.2020 - Giorgio Vittadini

Dal deserto di marzo alla palude di ottobre. Mi sembra di poter descrivere così gli ultimi mesi vissuti, segnati indelebilmente dalla pandemia. Dopo un primo shock iniziale, ci si era lasciati prendere dall'”ottimismo della volontà”, dall'”andrà tutto bene”. Ma è durato poco, già a marzo era chiaro che non sarebbe servito stare un po’ “in apnea”, che non sarebbe bastato uno scatto di volontà e di intelligenza perché tutto potesse tornare “normale”, praticabile. Le sirene delle ambulanze, e soprattutto il dolore dei tanti che perdevano parenti, amici, conoscenti, occupazione, certezze e speranza non potevano non occupare ogni giorno mente e cuore.

Presto si è poi affacciata l’angoscia per la situazione sociale ed economica. Sapere che durante il lockdown il 30 per cento di bambini e ragazzi non si è mai collegato alle lezioni, che gli interventi assistenziali del Governo potevano solo in parte tamponare situazioni di povertà e disagio crescenti, che settori interi del tessuto produttivo venivano messi in ginocchio, che tanto disagio psicologico esplodeva, ha dato la sensazione di inoltrarsi in un deserto, in un luogo dove non c’è la vita.

Quel senso di disagio, di vuoto, di mancanza è divenuto per tanti la possibilità di guardare dall’alto l’esistenza, di percepire senza frastuono il rumore del cuore, di cercare con più determinazione cosa poteva veramente dare conforto all’inquietudine personale, vecchia e nuova.

Poi è venuta la fine del lockdown e l’estate. La vita sociale ricominciava in modo pressante e, come convalescenti, ci si è affrettati a tornare a una sorta di normalità, convinti che, in fin dei conti, il peggio fosse passato, che bisognava solo tornare a costruire, buttarsi dentro le cose, immaginare il domani.

L’allarme però è tornato con l’arrivo dell’autunno. I contagi hanno cominciato a risalire di giorno in giorno e a oggi non si sa dove si andrà a finire.

Quello che in primavera era un deserto, ora è diventata una palude. Nella palude la vita c’è, ma è insidiosa, si rischia di finire da un momento all’altro nelle sabbie mobili, in un gorgo improvviso o rimanere imprigionati nelle canne e negli arbusti che escono dall’acqua. Tutto è più confuso e incerto rispetto allo stesso deserto.

Per ora il sistema sanitario tiene, ma le scuole devono già ripiegare sulle lezioni online. Si erano appena ripresi convegni, incontri, frequentazioni de visu, ma già sono vietati o sconsigliati o resi impossibili per il coprifuoco serale. E anche nel mondo del lavoro si sente tutta la pesantezza che una prolungata lontananza fisica comporta.

Ci si illude che norme pubbliche più chiare possano diminuire il senso di incertezza, di confusione, di mancanza di terra sotto i piedi. E in tanti ci si agita per capire se un incontro programmato sia da considerare un convegno pubblico vietato, un incontro sconsigliato, o un’attività essenziale permessa. Come è forse normale nei momenti di confusione, si rischia di agitarsi disordinatamente, di vagare senza meta, di cercare ancora il proprio ruolo in un attivismo superficiale. In una parola, di scappare dal punto in cui siamo chiamati ad essere.

Don Giussani raccontava spesso che nel Medioevo le persone si muovevano in continuazione per sfuggire agli invasori e alla loro distruzione. E aggiungeva che adesso per molti aspetti la situazione è simile: tanta gente fa fatica a stare là dove è chiamata perché non ha la forza di resistere di fronte alle contraddizioni.

Adesso siamo tutti come quei monaci medioevali, chiamati a stare. Stare, vivendo e basta. Semplicemente a vivere dove siamo chiamati. Per attraversare la palude e affrontare non una ma tre emergenze, quella sanitaria, quella economica e quella psicologica abbiamo bisogno di recuperare il nostro “stare” che ricostruisce. Così come devono fare dottori e infermieri, di nuovo sotto l’emergenza, insegnanti che, in presenza od online, abbiano voglia di educare, imprenditori e lavoratori disposti ad affrontare nuove difficoltà, famiglie che non saltino tra smart working e convivenza forzata in spazi ristretti, politici che cerchino la collaborazione e non il protagonismo o il loro vantaggio. E tutti noi siamo chiamati a stare di fronte a condizioni non chiare e frustranti senza demoralizzarci, appiattirci, stancarci, incattivirci.

Paradossalmente, adesso che ritorna difficile vedersi, possiamo scoprire che non si può “tenere” da soli: ma solo rinsaldando i legami, guardando quei volti che danno respiro, stando con più verità insieme a quelle persone che infondono speranza, fiducia, energia.

L'uomo nuovo della Digital Age

cMc, venerdì 26 giugno 2020 ore 21:00

un narratore e uno scienziato si incontrano

scopri chi sono

guarda il video dell'incontro

Teologia e COVID-9: cristianesimo e 2000 anni di epidemie

DISF, Documentazione Interdisciplinare di Scienza e Fede  - Claudio Tagliapietra

In Italia da troppe settimane piangiamo ogni giorno la scomparsa di centinaia di persone per COVID-19. Insieme ai lutti, ci prepariamo alle conseguenze della pandemia globale, e vediamo all’orizzonte un periodo di crisi economica probabilmente senza precedenti.

In queste settimane di lockdown ho pensato a lungo a cosa potessi imparare da questa situazione inedita per tutti. Devo confessare che convivo con un forte senso di contrasto interiore: convivono in me il desiderio di obbedire alle indicazioni che mi impongono di ridurre la mia attività, e allo stesso tempo il desiderio di fare di più per aiutare e accompagnare molte persone in un momento tanto difficile. Ma so che quella che stiamo vivendo non è affatto una situazione nuova nella nostra storia.

Ricordando la peste ad Atene (431 a.C.), Tucidide affermava che «non bastavano a fronteggiarla neppure i medici i quali, non conoscendo la natura del male, lo trattavano per la prima volta […]. Tutte le suppliche fatte nei luoghi sacri e ogni rivolgersi ai vaticini e a cose del genere risultò inutile, e alla fine gli uomini abbandonarono questi espedienti, sopraffatti dal male» (Tucidide, La Guerra del Peloponneso, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1985, libro II, 51-53, pp. 345-349).

 I cristiani hanno convissuto con epidemie per 2000 anni: dalle epidemie dell’epoca classica, alle pestilenze dell’epoca medievale e moderna, a quelle contemporanee come ad es. HIV, ebola, ecc. Non è una situazione affatto inedita. Qual è stato il “segreto” dei cristiani in tempo di pandemia? Come possiamo aiutare l’umanità a uscirne vittoriosa, anche se ferita?

Ho letto con piacere l’articolo di Lyman Stone, “Christianity Has Been Handling Epidemics for 2000 Years”, Foreign Policy, 13 marzo 2020. Ho rivisto con altrettanto piacere il saggio del sociologo delle religioni statunitense Rodney Stark, Ascesa e affermazione del cristianesimo (or. inglese Rise of Christianity del 1996, pubblicato in italiano da Lindau nel 2007). Quest’ultimo testo contiene un intero capitolo sul perché le epidemie siano state un fattore di espansione del cristianesimo, quando per la demografia del mondo classico sono state invece un fattore implosivo. I cristiani in tempi di pestilenza non solo sono sopravvissuti curiosamente in misura maggiore rispetto al resto della popolazione, ma sono addirittura aumentati di numero. Tutto ciò curando non solo i malati cristiani, ma anche i non-cristiani allontanati e abbandonati dai loro sodali. Insomma, una lettura interessante in tempi di quarantena.

Il testo propone tre tesi suggestive, ben documentate. Riporto per brevità solo la seconda, che mi ha fatto molto riflettere: «Sin dall'inizio, i valori cristiani dell'amore e della carità erano stati tradotti in norme di solidarietà sociale all'interno delle comunità. Di conseguenza, i cristiani erano più preparati ad affrontare le calamità, e questo determinò i loro tassi di sopravvivenza notevolmente più alti» (Stark, cit., 107).

Dionisio, vescovo di Alessandria, in una sua lettera ricorda che durante l’epidemia dell’anno 260: «La maggior parte dei nostri fratelli, dunque, senza avere alcun riguardo per sé stessi, per un eccesso di carità e d'amore fraterno, accostandosi gli uni agli altri, visitavano senza preoccupazione gli ammalati, li servivano meravigliosamente, li soccorrevano in Cristo e morivano assai gioiosamente con loro; contagiati dal male degli altri, attiravano su di sé la malattia del prossimo e ne assumevano volentieri le sofferenze. Molti poi, dopo aver curato e ridato forza agli altri, morirono essi stessi […]. Dunque i migliori dei nostri fratelli persero in questo modo la vita, alcuni presbiteri, diaconi e laici, furono grandemente lodati, al punto che anche questo genere di morte, frutto di grande pietà e fede coraggiosa, non sembrò per nulla inferiore al martirio. […] Completamente opposta era la condotta dei pagani: essi allontanavano coloro che cominciavano ad ammalarsi, evitavano le persone più care, gettavano per le strade i moribondi, trattavano come rifiuti i cadaveri insepolti, cercando di sfuggire alla diffusione e al contagio della morte, che non era facile allontanare, nonostante prendessero tutte le precauzioni» (Lettera di Dionisio vescovo di Alessandria, citata in Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica, Città Nuova, Roma 2001, libro VII, 22, 113-115).

Riflettevo sulla seconda di queste tesi e sulle parole di Dionisio, e al fatto che oggi non incoraggiano affatto i cristiani a comportamenti imprudenti. Stark stesso ci invita a prendere con cautela le affermazioni di Dionisio, che richiedono una probatio diabolica: bisognerebbe dimostrare che i cristiani prestarono veramente soccorso ai malati mentre la maggior parte dei pagani non lo fece, e che da questo comportamento siano derivati tassi di mortalità diversi in misura statisticamente significativa (Stark, cit., 117).

Quelle di Dionisio sono comunque notizie esemplari: ricordano l’abnegazione di uomini che hanno assistito i propri fratelli, assumendosene eroicamente rischi e responsabilità. Quali sono questi rischi e responsabilità? Quelle che derivano dalla norma del quinto comandamento del decalogo, non uccidere (cf. Es 20,13).

Oggi questo comandamento sembra interrogarci in modo diverso. Questo precetto non ci dice solo di non togliere la vita a nessuno. Ci chiede di custodire la vita nostra e altrui, perché è sacra. E perché? Il Genesi ci dice che l’uomo è imago Dei (Gen 1,26). E questa sacralità possiamo sfortunatamente metterla a repentaglio con comportamenti sia positivi che omissivi.

Il quinto comandamento in questi giorni di epidemia è stato invocato da molti a sostegno della cura che dobbiamo avere nel seguire le norme per ridurre le probabilità di contagio. Non è medicina, ma statistica. Anzi, è civiltà. E questa civiltà passa dalle piccole cose: dall’usare un fazzoletto di carta, dall’uso diligente di una mascherina, dal saper stare in coda rispettando le distanze di sicurezza, dal saper tossire o starnutire “nel gomito”, dal rinunciare a un abbraccio o un bacio.

La cura che abbiamo nel rispettare le indicazioni che ci arrivano dalle autorità di sanità pubblica è un modo concreto che abbiamo per tutelare la vita nostra e altrui. Questo è un precetto che si è sempre dimostrato il “segreto” del caso cristiano. Afferma Lyman Stone nell’articolo prima citato: «Il motivo cristiano per l'igiene e la sanitizzazione non si basa sull'autoconservazione, ma su un'etica di servizio al prossimo. Vogliamo prenderci cura degli afflitti, il che significa innanzitutto non contagiare i sani. I primi cristiani crearono i primi ospedali in Europa come luoghi igienici per fornire cure durante i periodi di peste, con la consapevolezza che la negligenza che diffondeva ulteriormente la malattia era, di fatto, omicidio». (Stone, cit., mia traduzione)

Incertezza scientifica davanti al male, e senso di insufficienza e inadeguatezza spirituale. È quello che molti, anche cristiani, stanno provando in questi giorni con reazioni molto diverse. I richiami irenisti al buonumore e le esortazioni a una visione soprannaturale “di precetto” contribuiscono certamente a mantenere l’ordine domestico, ma stridono fortemente con i lutti e il sacrificio di molti. Aiuta poco cercare consolazioni economiche negli studi che ricordano che alle catastrofi, come ad esempio le pandemie, storicamente segue la riduzione delle diseguaglianze economiche (Scheidel Walter, The Great Leveler: Violence and the History of Inequality from the Stone Age to the Twenty-First Century, Princeton University Press, 2017). Nessuno in questo mondo avrebbe voluto aggiungere una sola pagina a questi studi.

Vale però la pena interrogarci se il nostro comportamento è conforme al comandamento della custodia della vita umana. Questo può richiedere talvolta dei comportamenti eroici, ma ordinariamente impone il semplice rispetto di quanto abbiamo imparato dalla scienza per la custodia della vita nostra e altrui. Perché è sacra, e perché è sensato da un punto di vista evolutivo. Sembra essere questo un chiaro esempio, pratico nella sua essenza, in cui scienza e fede vanno d’accordo in tempo di COVID-19.

Arriva dagli Usa un’altra epidemia: migliaia di morti per mancanza di senso

Il Sole 24 Ore, 16-8-2020   Vittorio Pelligra

La ricerca di un senso profondo per la nostra vita, le relazioni, il lavoro, rappresenta il bisogno più fondamentale che ogni essere umano cerca consciamente o inconsciamente di soddisfare. Riuscire a costruire una narrazione logica e coerente della propria vicenda esistenziale, sentirsi utili agli altri, capaci di fare la differenza, consapevoli di operare in vista di un fine che riteniamo giusto e degno di valore; sono questi gli elementi che ci aiutano ad attribuire significato alle nostre azioni. Ne stiamo parlando ormai da varie settimane, qui su “Mind the Economy”, anche in ambito economico. Poi, naturalmente, c'è il contesto, l'ambiente nel quale ci muoviamo, il microcosmo e il macrocosmo che abitiamo e che è determinante nel facilitare o ostacolare questo processo di costruzione del senso.

Arrivano dagli Usa, storica avanguardia delle tendenze che poi invaderanno gran parte del mondo economicamente avanzato, segni nefasti relativi all'evoluzione di questo ambiente. Uno dei più tragici è legato alla diffusione delle “morti per disperazione” (deaths of despair). Una vera e propria epidemia che ha visto, solo negli Stati Uniti, nel 2017, morire 158.000 persone di suicidio, overdose o malattie correlate all'abuso di alcool. È come se ogni giorno di quell'anno tre Boeing 737 MAX si fossero schiantati, causando la morte di tutti i passeggeri. Una tragedia di dimensioni enormi che ha la sua radice in “una società che non riesce più a offrire ai suoi membri un ambiente nel quale essi possano vivere una vita dotata di senso”. Così si esprime il premio Nobel per l'economia Angus Deaton che, con Anne Case, ha appena pubblicato un corposo studio sul tema (“Deaths of Despair and the Future of Capitalism”, Princeton University Press, 2020). Questa ‘”epidemia” è selettiva, colpisce infatti in maniera prevalente americani bianchi della classe media o operaia e con un livello basso di istruzione. È a queste persone che, progressivamente ma inesorabilmente, la vita appare sempre meno degna di essere vissuta. Questo è il primo dato anomalo.

Nel suo classico studio sul suicidio, il sociologo Émile Durkheim aveva, infatti, ipotizzato che il fenomeno riguardasse principalmente le classi istruite e ricche. Oggi assistiamo invece a un fenomeno differente: una diffusione crescente del dolore cronico – sia fisico che psicologico – tra coloro che vengono lasciati indietro, che non riescono a stare al passo di un modello di vita che viene narrato come l'unico degno di essere perseguito, ma che inevitabilmente gli è precluso a causa delle condizioni economiche, educative e di salute, che negli anni sono andate peggiorando. Come i “deboli - che nella ‘fiumana del progresso' di cui parla Verga nella prefazione a ‘I Malavoglia' - restano per via, i fiacchi che si lasciano sorpassare dall'onda per finire più presto, i vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti”. Coloro che restano per via, gli scarti, i sofferenti di una sofferenza che trova origine sempre più spesso nella “lenta disintegrazione della vita sociale ed economica” della classe operaia americana che, da questa sofferenza, viene spinta sempre più frequentemente verso la dipendenza e il suicidio.

Il fattore economico è certamente presente e importante, ma non è l'unico. Case e Deaton sono, infatti, convinti che “la sofferenza non deriva solo da ciò che capita al lavoro, ma dalla perdita di status e di senso associati a certi lavori, e dalla perdita della struttura sociale che era connessa ad un lavoro ben pagato in una città sindacalizzata”. Il dolore sociale, per esempio quello derivante dal senso di esclusione o di inutilità, e il dolore fisico attivano nel nostro cervello molte aree comuni rendendo il primo non meno tangibile e debilitante del secondo e, infatti, gli stessi antidolorifici che curano il dolore fisico sono efficaci anche per quello sociale.

Ci sono fattori protettivi contro questo dolore sociale, come, per esempio, l'avere un lavoro cui attribuiamo un significato e un'utilità sociale, buone relazioni familiari con il partner e i figli, l'appartenenza a una comunità che possa aiutare e rispondere anche a bisogni di natura spirituale. Tutti elementi che sono, in questi ultimi anni, diventati relativamente scarsi per i più colpiti dalle “morti per disperazione”. E allora la prospettiva del gesto estremo si fa più concreta o altrimenti ci si getta nell'abuso di alcool o di droghe, soprattutto quando queste diventano legali, sono fortemente pubblicizzate e, inoltre, capaci di originare enormi profitti per chi le produce e le vende. Ecco il cortocircuito che rende questa epidemia di disperazione e le morti ad essa connesse un frutto maturo dell'”economia della manipolazione e dell'inganno”, per usare la nota espressione di altri due Nobel per l'economia, George Akerlof e Robert Shiller.

 “Il capitalismo – e questo non lo si dirà mai abbastanza – continua a produrre gli ‘scarti' che poi vorrebbe curare […] Una grave forma di povertà di una civiltà è non riuscire a vedere più i suoi poveri, che prima vengono scartati e poi nascosti […] Le società dell'azzardo finanziano campagne per curare i giocatori patologici che esse creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è l'ipocrisia!”. Così si esprimeva Papa Francesco rivolgendosi a mille imprenditori durante l'udienza del 3 febbraio del 2017, mettendo a nudo il cortocircuito di un certo capitalismo predatorio, fatto di imprese che producono moltissima ricchezza per pochi, distruggendo, al contempo, vero valore per molti.

Occorre cambiare rotta, se ne sono accorti in tanti, ma non ancora abbastanza da fare una massa critica capace di agire per cambiare. Occorre salvare il capitalismo dai capitalisti, per parafrasare il titolo del bel libro del 2003 di Raghuram Rajan e Luigi Zingales. La diagnosi di Case e Deaton sull'origine del cortocircuito e la diffusione dell'epidemia è categorica: “l'industria [della salute] è un cancro al cuore dell'economia, diffusamente metastatizzato, che ha prodotto la riduzione dei salari, la distruzione di buoni posti di lavoro, che ha reso sempre più difficile per gli stati e il governo federale potersi permettere ciò di cui i cittadini hanno bisogno. La finalità pubblica e il benessere dei cittadini sono stati subordinati al guadagno privato dei già ricchi”. Questo processo, naturalmente, origina dall'industria, ma coinvolge la politica acquiescente con i grandi interessi economici, così come le agenzie di regolamentazione e in molti casi anche la professione medica - si parla, non a caso, sempre più spesso di morti “iatrogene”, causate cioè dalle terapie prescritte dai medici curanti.

 

Robin Hood è sparito dalla scena ed ora la redistribuzione del reddito è gestita dallo sceriffo di Nottingham e il suo strumento principe è la “rendita di posizione”, l'esatto contrario di ciò su cui dovrebbero fondarsi i mercati, liberi e ben funzionanti. Si sa che aliquote fiscali molto alte non farebbero aumentare significativamente il gettito fiscale dato l'esiguo numero di chi dichiara un reddito elevato. Allo stesso tempo, invece, vediamo che la sottrazione anche di piccole quote di ricchezza dai poveri ai ricchi funziona benissimo, proprio grazie all'elevato numero di coloro che hanno un reddito basso. “Questo è quello che sta avvenendo oggi e dovremmo fermarlo” sostengono sempre Case e Deaton.

In questo senso il caso dell'industria farmaceutica è davvero paradigmatico. Nel 2015, un terzo di tutti gli adulti, negli Usa, ha ottenuto una prescrizione di medicinali a base di oppioidi. Stiamo parlando di 98 milioni di persone. Non tutti questi, fortunatamente, sono morti di overdose, ma nel 2000 si sono registrate quattordicimila vittime e si sa che, per ogni morte di questo tipo, ci sono almeno cento altre persone che sono in serio pericolo a causa dell'abuso regolare. Dal 2000 al 2017 sono morte per overdose, negli Usa, più persone di quante ne siano morte complessivamente nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale.

Questi e molti altri dati mettono in evidenza la natura profonda di questo fenomeno. Se, da una parte, esso è legato alla accresciuta domanda di una cura per la perdita di senso e di connessione sociale, dall'altra, a completare l'opera, vediamo una offerta invadente e spregiudicata di questi sostituti, alcool e, soprattutto, medicinali a base di oppioidi.

In questa epidemia di morti per disperazione l'agente patogeno non è un virus, ma, almeno negli Usa, sono state accertate le responsabilità delle imprese farmaceutiche, e del loro marketing diretto e aggressivo, di quei politici che hanno spuntato le armi dell'anti-droga impedendole di perseguire le pratiche legate alla sovra-prescrizione dei farmaci, la stessa Dea, che ha consentito l'importazione della materia prima dalle piantagioni della Tasmania e, infine, la Fda, l'agenzia di controllo sui farmaci, che ha spesso approvato l'uso di certi principi attivi senza considerarne le conseguenze sociali oltre che quelle mediche.

Sugli elementi centrali di questa vicenda Case e Deaton sono molto chiari: “Questa è una storia basata sull' offerta, nella quale si sono generati immensi profitti rendendo dipendenti e uccidendo delle persone, il tutto con la protezione del potere politico”. Per convincersi di quanto questa tragica vicenda sia legata alla crescita spropositata dell'offerta di medicinali che hanno invaso negli ultimi anni tutti gli Stati Uniti, dovrebbe bastare questo semplice dato: in due anni, la Tug Valley Pharmacy di Kermit, un paesino di 358 anime nel West Virginia, ha ricevuto nove milioni di pillole di antidolorifici a base di oppioidi. Eppure la diffusione del dolore cronico, in questi anni, non si è certo arrestata, nonostante il massiccio uso di antidolorifici, così come non si è certo arrestata la crescita dei profitti delle case farmaceutiche produttrici.

Il caso delle morti per disperazione è una vicenda tragica che ha coinvolto e che continua a coinvolgere milioni di persone in tutti gli Stati Uniti e, quindi, merita attenzione di per sé stessa; ma la vicenda è, forse, ancora più importante perché è un esempio lampante di quel cortocircuito che parte del capitalismo contemporaneo sta mettendo in atto concentrandosi esclusivamente e ossessivamente sul profitto a qualunque costo, anche al costo di innumerevoli vite umane.

Un cortocircuito che diventa ancora più evidente se si pensa alla commercializzazione di farmaci capaci di “curare”, attraverso protocolli di “medication-assisted treatment”, più o meno efficaci, quelle stesse dipendenze che altri farmaci, prodotti dalle stesse case farmaceutiche, hanno contribuito a creare. “E' come se – chiosano Case e Deaton - chi, dopo aver avvelenato le riserve d'acqua e aver fatto ammalare e ucciso decine di migliaia di persone, ora chiedesse un enorme riscatto per la diffusione dell'antidoto”. Può essere morale? Può essere legale?

La domanda di fondo, allora, diventa questa: com'è successo che l'economia americana, nel suo ethos ancora prima che nei fatti, sia passata dal voler servire l'interesse di ogni cittadino e consumatore ad assumere come unico obiettivo rilevante gli interessi delle imprese, dei manager e degli azionisti. È questo processo che ha eroso alle fondamenta la classe operaia, che ora minaccia la classe media e che ha portato alla diffusione di lavori pagati peggio di quanto non lo fossero anche solo pochi anni fa, più insicuri e socialmente inutili e che, come epifenomeno, ha finito per alimentare l'epidemia di disperazione e tutte le morti ad essa associate. Sempre Case e Deaton concludono: “La storia degli oppioidi si inserisce bene in questo quadro più generale ed è solo più evidente di altre, perché è raro che le corporations possono beneficiare in maniera cosi diretta dalla morte”.

“E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine” diceva Papa Francesco il 3 febbraio del 2017.

La storia delle morti per disperazione mostra, ancora una volta, quanto vicini siamo ormai a quel culmine.

Incertezza e responsabilità, intervento di Mario Draghi al 41° Meeting

Il testo integrale dell’intervento di Mario Draghi al  Meeting di Rimini 2020 Special Edition 

12 anni fa la crisi finanziaria provocò la più grande distruzione economica mai vista in periodo di pace. Abbiamo poi avuto in Europa una seconda recessione e un’ulteriore perdita di posti di lavoro. Si sono succedute la crisi dell'euro e la pesante minaccia della depressione e della deflazione. Superammo tutto ciò.

Quando la fiducia tornava a consolidarsi e con essa la ripresa economica, siamo stati colpiti ancor più duramente dall'esplosione della pandemia: essa minaccia non solo l'economia, ma anche il tessuto della nostra società, così come l'abbiamo finora conosciuta; diffonde incertezza, penalizza l'occupazione, paralizza i consumi e gli investimenti.

In questo susseguirsi di crisi i sussidi che vengono ovunque distribuiti sono una prima forma di vicinanza della società a coloro che sono più colpiti, specialmente a coloro che hanno tante volte provato a reagire. I sussidi servono a sopravvivere, a ripartire. Ai giovani bisogna però dare di più: i sussidi finiranno e resterà la mancanza di una qualificazione professionale, che potrà sacrificare la loro libertà di scelta e il loro reddito futuri.

La società nel suo complesso non può accettare un mondo senza speranza; ma deve, raccolte tutte le proprie energie, e ritrovato un comune sentire, cercare la strada della ricostruzione.

Nelle attuali circostanze il pragmatismo è necessario. Non sappiamo quando sarà scoperto un vaccino, né tantomeno come sarà la realtà allora. Le opinioni sono divise: alcuni ritengono che tutto tornerà come prima, altri vedono l’inizio di un profondo cambiamento. Probabilmente la realtà starà nel mezzo: in alcuni settori i cambiamenti non saranno sostanziali; in altri le tecnologie esistenti potranno essere rapidamente adattate. Altri ancora si espanderanno e cresceranno adattandosi alla nuova domanda e ai nuovi comportamenti imposti dalla pandemia. Ma per altri, un ritorno agli stessi livelli operativi che avevano nel periodo prima della pandemia, è improbabile.

Dobbiamo accettare l'inevitabilità del cambiamento con realismo e, almeno finché non sarà trovato un rimedio, dobbiamo adattare i nostri comportamenti e le nostre politiche. Ma non dobbiamo rinnegare i nostri principii. Dalla politica economica ci si aspetta che non aggiunga incertezza a quella provocata dalla pandemia e dal cambiamento. Altrimenti finiremo per essere controllati dall'incertezza invece di esser noi a controllarla. Perderemmo la strada.

Vengono in mente le parole della ‘preghiera per la serenità’ di Reinhold Niebuhr che chiede al Signore:

Dammi la serenità per accettare le cose che non posso cambiare,

Il coraggio di cambiare le cose che posso cambiare,

E la saggezza di capire la differenza

Non voglio fare oggi una lezione di politica economica ma darvi un messaggio più di natura etica per affrontare insieme le sfide che ci pone la ricostruzione e insieme affermare i valori e gli obiettivi su cui vogliamo ricostruire le nostre società, le nostre economie in Italia e in Europa.

Nel secondo trimestre del 2020 l’economia si è contratta a un tasso paragonabile a quello registrato dai maggiori Paesi durante la seconda guerra mondiale. La nostra libertà di circolazione, la nostra stessa interazione umana fisica e psicologica sono state sacrificate, interi settori delle nostre economie sono stati chiusi o messi in condizione di non operare. L’aumento drammatico nel numero delle persone private del lavoro che, secondo le prime stime, sarà difficile riassorbire velocemente, la chiusura delle scuole e di altri luoghi di apprendimento hanno interrotto percorsi professionali ed educativi, hanno approfondito le diseguaglianze.

Alla distruzione del capitale fisico che caratterizzò l'evento bellico molti accostano oggi il timore di una distruzione del capitale umano di proporzioni senza precedenti dagli anni del conflitto mondiale.

I governi sono intervenuti con misure straordinarie a sostegno dell'occupazione e del reddito. Il pagamento delle imposte è stato sospeso o differito. Il settore bancario è stato mobilizzato affinché continuasse a fornire il credito a imprese e famiglie. Il deficit e il debito pubblico sono cresciuti a livelli mai visti prima in tempo di pace.

 Aldilà delle singole agende nazionali, la direzione della risposta è stata corretta. Molte delle regole che avevano disciplinato le nostre economie fino all'inizio della pandemia sono state sospese per far spazio a un pragmatismo che meglio rispondesse alle mutate condizioni.

Una citazione attribuita a John Maynard Keynes, l'economista più influente del XX secolo ci ricorda “When facts change, I change my mind. What do you do sir?’’

Tutte le risorse disponibili sono state mobilizzate per proteggere i lavoratori e le imprese che costituiscono il tessuto delle nostre economie. Si è evitato che la recessione si trasformasse in una prolungata depressione.

Ma l’emergenza e i provvedimenti da essa giustificati non dureranno per sempre. Ora è il momento della saggezza nella scelta del futuro che vogliamo costruire.

Il fatto che occorra flessibilità e pragmatismo nel governare oggi non può farci dimenticare l’importanza dei principii che ci hanno sin qui accompagnato. Il subitaneo abbandono di ogni schema di riferimento sia nazionale, sia internazionale è fonte di disorientamento. L'erosione di alcuni principii considerati fino ad allora fondamentali, era già iniziata con la grande crisi finanziaria; la giurisdizione del WTO, e con essa l’impianto del multilateralismo che aveva disciplinato le relazioni internazionali fin dalla fine della seconda guerra mondiale venivano messi in discussione dagli stessi Paesi che li avevano disegnati, gli Stati Uniti, o che ne avevano maggiormente beneficiato, la Cina; mai dall’Europa, che attraverso il proprio ordinamento di protezione sociale aveva attenuato alcune delle conseguenze più severe e più ingiuste della globalizzazione; l’impossibilità di giungere a un accordo mondiale sul clima, con le conseguenze che ciò ha sul riscaldamento globale; e in Europa, alle voci critiche della stessa costruzione europea, si accompagnava un crescente scetticismo, soprattutto dopo la crisi del debito sovrano e dell’euro, nei confronti di alcune regole, ritenute essenziali per il suo funzionamento, concernenti: il patto di stabilità, la disciplina del mercato unico, della concorrenza e degli aiuti di stato; regole successivamente sospese o attenuate, a seguito dell’emergenza causata dall’esplosione della pandemia.

L’inadeguatezza di alcuni di questi assetti era da tempo evidente. Ma, piuttosto che procedere celermente a una loro correzione, cosa che fu fatta, parzialmente, solo per il settore finanziario, si lasciò, per inerzia, timidezza e interesse, che questa critica precisa e giustificata divenisse, nel messaggio populista, una protesta contro tutto l’ordine esistente.

Questa incertezza, caratteristica dei percorsi verso nuovi ordinamenti, è stata poi amplificata dalla pandemia. Il distanziamento sociale è una necessità e una responsabilità collettiva. Ma è fondamentalmente innaturale per le nostre società che vivono sullo scambio, sulla comunicazione interpersonale e sulla condivisione. È ancora incerto quando un vaccino sarà disponibile, quando potremo recuperare la normalità delle nostre relazioni. Tutto ciò è profondamente destabilizzante.

Dobbiamo ora pensare a riformare l’esistente senza abbandonare i principi generali che ci hanno guidato in questi anni: l’adesione all’Europa con le sue regole di responsabilità, ma anche di interdipendenza comune e di solidarietà; il multilateralismo con l’adesione a un ordine giuridico mondiale. Il futuro non è in una realtà senza più punti di riferimento, che porterebbe, come è successo in passato, si pensi agli anni 70 del secolo scorso, a politiche erratiche e certamente meno efficaci, a minor sicurezza interna ed esterna, a maggiore disoccupazione, ma il futuro è nelle riforme anche profonde dell’esistente. Occorre pensarci subito. Ci deve essere di ispirazione l’esempio di coloro che ricostruirono il mondo, l’Europa, l’Italia dopo la seconda guerra mondiale. Si pensi ai leader che, ispirati da J.M. Keynes, si riunirono a Bretton Woods nel 1944 per la creazione del Fondo Monetario Internazionale, si pensi a  De Gasperi, che nel 1943 scriveva la sua visione della futura democrazia italiana e a tanti altri che in Italia, in Europa, nel mondo immaginavano e preparavano il dopoguerra. La loro riflessione sul futuro iniziò ben prima che la guerra finisse, e produsse nei suoi principi fondamentali l’ordinamento mondiale ed europeo che abbiamo conosciuto. È probabile che le nostre regole europee non vengano riattivate per molto tempo e certamente non lo saranno nella loro forma attuale. La ricerca di un senso di direzione richiede che una riflessione sul loro futuro inizi subito.

Proprio perché oggi la politica economica è più pragmatica e i leader che la dirigono possono usare maggiore discrezionalità, occorre essere molto chiari sugli obiettivi che ci poniamo.

La ricostruzione di questo quadro in cui gli obiettivi di lungo periodo sono intimamente connessi con quelli di breve è essenziale per ridare certezza a famiglie e imprese, ma sarà inevitabilmente accompagnata da stock di debito destinati a rimanere elevati a lungo. Questo debito, sottoscritto da Paesi, istituzioni, mercati e risparmiatori, sarà sostenibile, continuerà cioè a essere sottoscritto in futuro, se utilizzato a fini produttivi ad esempio investimenti nel capitale umano, nelle infrastrutture cruciali per la produzione, nella ricerca ecc. se è cioè "debito buono”. La sua sostenibilità verrà meno se invece verrà utilizzato per fini improduttivi, se sarà considerato "debito cattivo". I bassi tassi di interesse non sono di per sé una garanzia di sostenibilità: la percezione della qualità del debito contratto è altrettanto importante. Quanto più questa percezione si deteriora tanto più incerto diviene il quadro di riferimento con effetti sull'occupazione, l'investimento e i consumi.

Il ritorno alla crescita, una crescita che rispetti l’ambiente e che non umili la persona, è divenuto un imperativo assoluto: perché le politiche economiche oggi perseguite siano sostenibili, per dare sicurezza di reddito specialmente ai più poveri, per rafforzare una coesione sociale resa fragile dall'esperienza della pandemia e dalle difficoltà che l'uscita dalla recessione comporterà nei mesi a venire, per costruire un futuro di cui le nostre società oggi intravedono i contorni.

L’obiettivo è impegnativo ma non irraggiungibile se riusciremo a disperdere l'incertezza che oggi aleggia sui nostri Paesi. Stiamo ora assistendo a un rimbalzo nell’attività economica con la riapertura delle nostre economie. Vi sarà un recupero dal crollo del commercio internazionale e dei consumi interni, si pensi che il risparmio delle famiglie nell’area dell’euro è arrivato al 17% dal 13% dello scorso anno. Potrà esservi una ripresa degli investimenti privati e del prodotto interno lordo che nel secondo trimestre del 2020 in qualche Paese era tornato a livelli di metà anni 90. Ma una vera ripresa dei consumi e degli investimenti si avrà solo col dissolversi dell’incertezza che oggi osserviamo e con politiche economiche che siano allo stesso tempo efficaci nell'assicurare il sostegno delle famiglie e delle imprese e credibili, perché sostenibili nel tempo.

Il ritorno alla crescita e la sostenibilità delle politiche economiche sono essenziali per rispondere al cambiamento nei desideri delle nostre società; a cominciare da un sistema sanitario dove l'efficienza si misuri anche nella preparazione alle catastrofi di massa. La protezione dell'ambiente, con la riconversione delle nostre industrie e dei nostri stili di vita, è considerata dal 75% delle persone nei 16 maggiori Paesi al primo posto nella risposta dei governi a quello che può essere considerato il più grande disastro sanitario dei nostri tempi. La digitalizzazione, imposta dal cambiamento delle nostre abitudini di lavoro, accelerata dalla pandemia, è destinata a rimanere una caratteristica permanente delle nostre società. È divenuta necessità: negli Stati Uniti la stima di uno spostamento permanente del lavoro dagli uffici alle abitazioni è oggi del 20% del totale dei giorni lavorati.

Vi è però un settore, essenziale per la crescita e quindi per tutte le trasformazioni che ho appena elencato, dove la visione di lungo periodo deve sposarsi con l'azione immediata: l'istruzione e, più in generale, l'investimento nei giovani.

Questo è stato sempre vero ma la situazione presente rende imperativo e urgente un massiccio investimento di intelligenza e di risorse finanziarie in questo settore. La partecipazione alla società del futuro richiederà ai giovani di oggi ancor più grandi capacità di discernimento e di adattamento.

Se guardiamo alle culture e alle nazioni che meglio hanno gestito l'incertezza e la necessità del cambiamento, hanno tutte assegnato all'educazione il ruolo fondamentale nel preparare i giovani a gestire il cambiamento e l'incertezza nei loro percorsi di vita, con saggezza e indipendenza di giudizio.

Ma c'è anche una ragione morale che deve spingerci a questa scelta e a farlo bene: il debito creato con la pandemia è senza precedenti e dovrà essere ripagato principalmente da coloro che sono oggi i giovani. È nostro dovere far sì che abbiano tutti gli strumenti per farlo pur vivendo in società migliori delle nostre. Per anni una forma di egoismo collettivo ha indotto i governi a distrarre capacità umane e altre risorse in favore di obiettivi con più certo e immediato ritorno politico: ciò non è più accettabile oggi. Privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza.

Alcuni giorni prima di lasciare la presidenza della Banca centrale europea lo scorso anno, ho avuto il privilegio di rivolgermi agli studenti e ai professori dell'Università Cattolica a Milano. Lo scopo della mia esposizione in quell'occasione era cercar di descrivere quelle che considero le tre qualità indispensabili a coloro che sono in posizioni di potere: la conoscenza per cui le decisioni sono basate sui fatti, non soltanto sulle convinzioni; il coraggio che richiedono le decisioni specialmente quando non si conoscono con certezza tutte le loro conseguenze, poiché l’inazione ha essa stessa conseguenze e non esonera dalla responsabilità; l’umiltà di capire che il potere che hanno è stato affidato loro non per un uso arbitrario, ma per raggiungere gli obiettivi che il legislatore ha loro assegnato nell’ambito di un preciso mandato.

Riflettevo allora sulle lezioni apprese nel corso della mia carriera: non avrei certo potuto immaginare quanto velocemente e quanto tragicamente i nostri leader sarebbero stati chiamati a mostrare di possedere queste qualità. La situazione di oggi richiede però un impegno speciale: come già osservato, l’emergenza ha richiesto maggiore discrezionalità nella risposta dei governi, che non nei tempi ordinari: maggiore del solito dovrà allora essere la trasparenza delle loro azioni, la spiegazione della loro coerenza con il mandato che hanno ricevuto e con i principi che lo hanno ispirato.

La costruzione del futuro, perché le sue fondazioni non poggino sulla sabbia, non può che vedere coinvolta tutta la società che deve riconoscersi nelle scelte fatte perché non siano in futuro facilmente reversibili.

Trasparenza e condivisione sono sempre state essenziali per la credibilità dell’azione di governo; lo sono specialmente oggi quando la discrezionalità che spesso caratterizza l’emergenza si accompagna a scelte destinate a proiettare i loro effetti negli anni a venire.

Questa affermazione collettiva dei valori che ci tengono insieme, questa visione comune del futuro che vogliamo costruire si deve ritrovare sia a livello nazionale, sia a livello europeo.

La pandemia ha severamente provato la coesione sociale a livello globale e resuscitato tensioni anche tra i Paesi europei.

Da questa crisi l'Europa può uscire rafforzata. L’azione dei governi poggia su un terreno reso solido dalla politica monetaria. Il fondo per la generazione futura (Next Generation EU) arricchisce gli strumenti della politica europea. Il riconoscimento del ruolo che un bilancio europeo può avere nello stabilizzare le nostre economie, l’inizio di emissioni di debito comune, sono importanti e possono diventare il principio di un disegno che porterà a un Ministero del Tesoro comunitario la cui funzione nel conferire stabilità all'area dell'euro è stata affermata da tempo.

Dopo decenni che hanno visto nelle decisioni europee il prevalere della volontà dei governi, il cosiddetto metodo intergovernativo, la Commissione è ritornata al centro dell’azione.

In futuro speriamo che il processo decisionale torni così a essere meno difficile, che rifletta la convinzione, sentita dai più, della necessità di un’Europa forte e stabile, in un mondo che sembra dubitare del sistema di relazioni internazionali che ci ha dato il più lungo periodo di pace della nostra storia.

Ma non dobbiamo dimenticare le circostanze che sono state all’origine di questo passo avanti per l’Europa: la solidarietà che sarebbe dovuta essere spontanea, è stata il frutto di negoziati. Né dobbiamo dimenticare che nell’Europa forte e stabile che tutti vogliamo, la responsabilità si accompagna e dà legittimità alla solidarietà.

Perciò questo passo avanti dovrà essere cementato dalla credibilità delle politiche economiche a livello europeo e nazionale. Allora non si potrà più, come sostenuto da taluni, dire che i mutamenti avvenuti a causa della pandemia sono temporanei.

Potremo bensì considerare la ricostruzione delle economie europee veramente come un'impresa condivisa da tutti gli europei, un'occasione per disegnare un futuro comune, come abbiamo fatto tante volte in passato.

È nella natura del progetto europeo evolversi gradualmente e prevedibilmente, con la creazione di nuove regole e di nuove istituzioni: l’introduzione dell’euro seguì logicamente la creazione del mercato unico; la condivisione europea di una disciplina dei bilanci nazionali, prima, l’unione bancaria, dopo, furono conseguenze necessarie della moneta unica. La creazione di un bilancio europeo, anch’essa prevedibile nell’evoluzione della nostra architettura istituzionale, un giorno correggerà questo difetto che ancora permane.

Questo è tempo di incertezza, di ansia, ma anche di riflessione, di azione comune. La strada si ritrova certamente e non siamo soli nella sua ricerca.

Dobbiamo essere vicini ai giovani investendo nella loro preparazione. Solo allora, con la buona coscienza di chi assolve al proprio compito, potremo ricordare ai più giovani che il miglior modo per ritrovare la direzione del presente è disegnare il tuo futuro.

"Testimoni della bellezza di Dio"

Messaggio di Papa Francesco per l’apertura del Meeting di Rimini 2020  

Eccellenza Reverendissima,

il Santo Padre desidera far giungere attraverso di Lei il suo augurio per la buona riuscita della XLI edizione del Meeting per l’amicizia tra i popoli, che si svolgerà prevalentemente in modalità digitale. Agli organizzatori e a quanti vi parteciperanno Papa Francesco assicura la sua vicinanza e la sua preghiera.

Chi non si è scoperto accomunato agli altri dall’esperienza drammatica della pandemia? «Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati. La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita» (Francesco, Momento straordinario di preghiera, Sagrato della Basilica di San Pietro, 27 marzo 2020).

Il titolo di quest’anno: «Privi di meraviglia restiamo sordi al sublime» (A.J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, Torino 1969, 274), offre un contributo prezioso e originale in un momento vertiginoso della storia. Nella ricerca dei beni più che del bene, tanti avevano puntato esclusivamente sulle proprie forze, sulla capacità di produrre e guadagnare, rinunciando a quell’atteggiamento che nel bambino costituisce la stoffa dello sguardo sulla realtà: lo stupore. A tale proposito, G.K. Chesterton scriveva: «Le scuole e i saggi più ermetici non hanno mai avuto la gravità che alberga negli occhi di un neonato di tre mesi. La sua è la gravità dello stupore di fronte all’universo, e questo stupore non è misticismo, bensì buonsenso trascendente» (L’imputato, Torino 2011, 113).

Viene alla mente l’invito di Gesù a diventare come i bambini (cfr Mt 18,3), ma anche la meraviglia di fronte all’essere, che costituì il principio della filosofia nell’antica Grecia. È questo stupore che mette e rimette in moto la vita, consentendole di ripartire in qualunque circostanza: «È l’atteggiamento da avere, perché la vita è un dono che ci dà la possibilità di ricominciare sempre», ha detto Papa Francesco, insistendo poi sulla necessità di riacquistare stupore per vivere: «la vita, senza stupore, diventa grigia, abitudinaria; così la fede. E anche la Chiesa ha bisogno di rinnovare lo stupore di essere dimora del Dio vivente, Sposa del Signore, Madre che genera figli» (Omelia, 1° gennaio 2019).

Nei mesi scorsi abbiamo sperimentato quella dimensione dello stupore che assume la forma della compassione in presenza della sofferenza, della fragilità, della precarietà dell’esistenza. Questo nobile sentimento umano ha spinto dottori e infermieri ad affrontare la grave sfida del Coronavirus con strenua dedizione e ammirevole impegno. Lo stesso sentimento ricco di affetto per i propri studenti ha permesso a molti insegnanti di accogliere la fatica della didattica a distanza, assicurando la conclusione dell’anno scolastico. E ugualmente ha consentito a tanti di ritrovare nei volti e nella presenza dei familiari la forza per affrontare disagi e fatiche.

In questo senso, il tema del prossimo Meeting costituisce un potente richiamo a calarsi nelle profondità del cuore umano attraverso la corda dello stupore. Come non provare un sentimento originario di meraviglia davanti allo spettacolo di un paesaggio di montagna, o ascoltando musiche che fanno vibrare l’anima, o semplicemente di fronte all’esistenza di chi ci ama e al dono del creato? Lo stupore è davvero la strada per cogliere i segni del sublime, cioè di quel Mistero che costituisce la radice e il fondamento di tutte le cose. Infatti, «non solo il cuore dell’uomo si presenta come un segno, ma anche l’intera realtà. Per interrogarsi di fronte ai segni è necessaria una capacità estremamente umana, la prima che abbiamo come uomini e donne: lo stupore, la capacità di stupirsi, come la chiama Giussani. Solo lo stupore conosce» (J.M. Bergoglio, in A. Savorana, Vita di don Giussani, Milano 2014, 1034). Perciò J.L. Borges ha potuto dire: «Tutte le emozioni passano, solo lo stupore rimane» (Il deserto e il labirinto).

Se un tale sguardo non è coltivato, si diventa ciechi davanti all’esistenza: chiusi in sé stessi, si resta attratti dall’effimero e si smette di interrogare la realtà. Anche nel deserto della pandemia sono riemerse domande spesso sopite: qual è il senso della vita, del dolore, della morte? «L’uomo non può accontentarsi di risposte ridotte o parziali, obbligandosi a censurare o a dimenticare qualche aspetto della realtà. Dentro di sé egli possiede un anelito di infinito, una tristezza infinita, una nostalgia che si appaga solo con una risposta ugualmente infinita. La vita sarebbe un desiderio assurdo, se questa risposta non esistesse» (J.M. Bergoglio, in Vita di don Giussani, cit., 1034).

Diverse persone si sono spinte alla ricerca di risposte o anche solo di domande sul senso della vita, cui tutti aspirano, anche senza esserne consapevoli. Così è accaduto qualcosa di apparentemente paradossale: invece di spegnerne la sete più profonda, il confinamento ha ridestato in alcuni la capacità di meravigliarsi di fronte a persone e fatti dati prima per scontati. Una circostanza tanto drammatica ha restituito, almeno per un poco, un modo più genuino di apprezzare l’esistenza, senza quel complesso di distrazioni e preconcetti che inquina lo sguardo, sfuoca le cose, svuota lo stupore e distoglie dal chiederci chi siamo.

Nel pieno dell’emergenza sanitaria il Papa ha ricevuto una lettera firmata da diversi artisti, che lo ringraziavano di avere pregato per loro durante una Messa a Santa Marta. In quella occasione aveva detto: «Gli artisti ci fanno capire cosa è la bellezza, e senza il bello il Vangelo non si può capire» (Meditazione mattutina, 7 maggio 2020). Quanto sia decisiva l’esperienza della bellezza per raggiungere la verità lo ha mostrato, tra gli altri, il teologo Hans Urs von Balthasar: «In un mondo senza bellezza anche il bene ha perduto la sua forza di attrazione, l’evidenza del suo dover essere adempiuto; e l’uomo resta perplesso di fronte ad esso e si chiede perché non deve piuttosto preferire il male. Anche questo costituisce infatti una possibilità, persino molto più eccitante. In un mondo che non si crede più capace di affermare il bello, gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica: il processo che porta alla conclusione è un meccanismo che non inchioda più nessuno, e la stessa conclusione non conclude più» (Gloria I, Milano 2005, 11).

Per questo il tema che caratterizza il Meeting lancia una sfida decisiva ai cristiani, chiamati a testimoniare la profonda attrattiva che la fede esercita in forza della sua bellezza: «l’attrattiva Gesù», secondo un’espressione cara al Servo di Dio Luigi Giussani. Ne ha scritto, a proposito dell’educazione alla fede, il Santo Padre, in quello che si suole ritenere il documento programmatico del suo pontificato: «Tutte le espressioni di autentica bellezza possono essere riconosciute come un sentiero che aiuta ad incontrarsi con il Signore Gesù. Se, come afferma Sant’Agostino, noi non amiamo se non ciò che è bello, il Figlio fatto uomo, rivelazione della infinita bellezza, è sommamente amabile, e ci attrae a sé con legami d’amore. Dunque si rende necessario che la formazione nella via pulchritudinis sia inserita nella trasmissione della fede» (Esort. ap. Evangelii gaudium,167).

Il Papa vi invita perciò a continuare a collaborare con lui nel testimoniare l’esperienza della bellezza di Dio, che si è fatto carne perché i nostri occhi si stupiscano nel vederne il volto e i nostri sguardi trovino in lui la meraviglia di vivere. È quanto disse un giorno San Giovanni Paolo II, di cui abbiamo da poco ricordato il centenario della nascita: «Vale la pena di essere uomo, perché Tu, Gesù, sei stato uomo» (Omelia, 15 aprile 1984). Non è forse questa stupefacente scoperta il contributo più grande che i cristiani possono offrire per sostenere la speranza degli uomini? È un compito a cui non possiamo sottrarci, specialmente in questo tornante angusto della storia. È la chiamata a essere trasparenze della bellezza che ci ha cambiato la vita, testimoni concreti dell’amore che salva, soprattutto nei riguardi di quanti ora maggiormente soffrono.

Con questi sentimenti, il Santo Padre invia di cuore la Benedizione Apostolica a Vostra Eccellenza e all’intera comunità del Meeting, chiedendo di continuare a ricordarlo nella preghiera. Unisco il mio cordiale saluto, mentre mi confermo, con sensi di distinto ossequio,

 

dell’Eccellenza Vostra Reverendissima

dev.mo

Pietro Card. Parolin

Segretario di Stato

Storie “ordinarie” corrispondenti al desiderio del nostro cuore

     Brescia Medica, Tracce,  maggio 2020 

Ne abbiamo sentiti tanti dire che non sono eroi (noi magari non siamo d’accordo…). In questo periodo di postlockdown vogliamo ascoltare storie “ordinarie”, tra tante, per aiutarci nella vicenda inedita del mondo a riflettere e non dimenticare. 

Storie “ordinarie” ma che in verità sentiamo corrispondenti al desiderio del nostro cuore di umanità e di significato. Storie che vengono dalla Lombardia: un Medico di base fa il bilancio umano di due mesi(1), un Medico ospedaliero si fa domande per le quali non trova risposte (2), un giovane Specializzando, subito in prima linea (3), un’Assistente sanitaria, che si ritrova, lei, in rianimazione (4). E poi una storia da New York, di un medico italiano che non ha fatto una carriera brillante ma si trova al posto giusto (5). Grazie. A loro, e a tutti, ai sanitari e tanti altri operatori“non eroi”ignoti ma veri. 

PER NON LASCIARE INDIETRO NESSUNO

In una lettera al presidente dell’Ordine, un medico di famiglia traccia il bilancio di due mesi in prima linea contro Covid-19. Tra intuizioni diagnostiche, telefonate ai pazienti confinati a casa che diventano, esse stesse, una modalità di cura. Tra la lotta contro una burocrazia senza volto e le segnalazioni di malati diventati invisibili. Per continuare a "Curare tutti, non lasciare indietro nessuno".

di Caterina Taglietti, Medico di famiglia

da Brescia Medica

Egregio Presidente,

sono il medico di medicina generale che a inizio epidemia riprendesti, con i modi che la tua intelligenza e la tua gentilezza ti impongono, per avere prescritto due Tac torace a pazienti sospetti per Covid-19 (il richiamo era per una sola... non osai confidarti che ne avevo prescritte già due, entrambe risultate poi positive). Il paziente in questione ha fatto in questi giorni sierologia (+) e tampone (-), con la moglie, ammalatasi subito dopo, stessi risultati. L’altro ieri mi hanno mandato questo messaggio: "Grazie a lei per la presenza e anche per la pazienza. Ora possiamo finalmente guardare avanti".

Dopo di loro ne sono venuti molti altri. Moltissimi. Telefonate su telefonate, febbri su febbri, casi su casi. Alcuni paucisintomatici o che comunque guarivano in fretta, altri più gravi, le cui febbri non passavano mai, o che al telefono parlavano con fiato sempre più corto. Non sapevi mai chi sarebbe andato bene e chi sarebbe potuto precipitare da un giorno all’altro. Ma non mi dilungo, sono storie che sai già.

Li ho curati tutti con telefonate bis in die, tutto il buon senso che avevo, confronti compulsivi con colleghi affezionati, qualche farmaco senza grosse evidenze e tante, tantissime preghiere.

Credo sia stato il punto più basso della mia professionalità medica.

Mi è andata "bene". Tre morti, tutti in ospedale. Tutta gente che prima stava bene, che non doveva morire, che non sarebbe mai morta senza il Covid-19. Gente che lavorava, che teneva i nipoti, che ribaltava la casa e il giardino, che era la colonna della propria famiglia. Ma anche di queste storie ne avrai già sentite moltissime.

Non ho più prescritto Tac diagnostiche. Lotto ogni giorno con la burocrazia ottusa, con le circolari che si susseguono, con le regole che non servono e l’assenza totale di quelle che servono, con le segnalazioni che spariscono e che continuo tenacemente a rifare, come il mare sugli scogli, nella speranza che prima o poi qualcuno, questi miei poveri pazienti senza diagnosi e senza terapie, li veda. Perché non voglio che si sentano, come mi dicono, abbandonati dal Servizio Sanitario Nazionale, l’Idea in cui credo, per cui lavoro, che è semplice e potente: "curare tutti, non lasciare indietro nessuno".

Grazie perché ti ho sentito vicino, con la fatica, con la disperazione che credo abbia toccato tutti noi in alcuni momenti, con la speranza che trionfa, nonostante tutto, sull’esperienza.

 

QUANDO NON TROVI LE RISPOSTE

Non c’è tempo di fermarsi e riflettere nelle ore più acute dell’emergenza. Nemmeno per piangere. Si va avanti come treni, tenendo a bada la fatica, l’angoscia e il senso di impotenza. Poi, una mattina, è la purezza di un dialogo breve a trovare la via: e il nostro mondo segreto si apre.

di Angela Cassinadri, medico

Fondazione Poliambulanza - Brescia


Sabato mattina, sono ormai due settimane che lavoro in reparto Covid.

Mi alzo presto perché oggi e domani sono di turno. Faccio colazione e mi trucco (sì mi trucco, perché la normalità e l’abitudine dei gesti ti fa sentire normale) e una delle mie figlie mi segue in bagno. “Mamma?”. “Dimmi Laura”. “Vai in opedale?”. “Sì amore”. “Nooo… ancoa?”. “Sì, amore mio, la mamma deve lavorare”. “Alloa bon lavoo mamma dottoe”.

E, dopo questo breve scambio di battute con una bimba di due anni e mezzo, capisco e sento in un istante la fatica, l’angoscia, il dolore e il senso di impotenza di questi giorni. La fatica di lavorare senza sosta, l’angoscia per i tanti, troppi morti, il dolore, anche fisico, per i DPI[1] e il senso di impotenza quando vedi le immagini radiologiche e i volti sofferenti dei pazienti.

Sono andata avanti come un treno, fermandomi a riflettere e a piangere solo un momento. Quando ho constatato la morte di un paziente che aveva l’età di mio padre, e scuotendo la testa e asciugandomi le lacrime mi sono imposta di pensarci solo quando questo cataclisma sarebbe finito.

Ma vedere gli occhi di mia figlia mi ha fatto riflettere e, in macchina, per andare al lavoro, ho pianto. Ho pianto le lacrime che non avevo pianto prima.

Ho visto tante persone morire, ho parlato con parenti al telefono che mi chiedevano “perché” e non sapevo dare risposte, io che le riposte ho sempre cercato di trovarle, almeno nel mio lavoro. Ho fatto turni massacranti, ricoverando senza sosta, ho corso per i tanti pazienti che avevano bisogno di un intervento urgente o anche solo di un conforto. Ho risposto alle domande di infermiere che non sapevano come gestire le urgenze, cercando di infondere loro calma e serenità. Ho visto infermiere piangere, davanti ai primi pazienti deceduti e chiedermi anche loro “perché? Perché questa sofferenza?”

Ricordo quasi tutti i nomi dei pazienti che ho visto morire e a cui ho tenuto la mano negli ultimi istanti.

Mi sono resa conto di quanto fosse importante la vista. Vedere un medico tranquillo e sorridente, o anche un infermiere, è come vedere una hostess su un aereo, come mi spiegava mio papà: se loro sono tranquille, l’aereo non cade. E così è il lavoro di una corsia, anche quando c’è un’emergenza. Ma adesso non c’è possibilità di vedere l’espressione, solo gli occhi, e allora si ricacciano le lacrime e si va avanti.

Ho pensato a tutte queste cose nel breve tragitto che mi separa dall’ospedale dove lavoro, la Poliambulanza.

Scendendo dalla macchina, ho ripensato alle parole di mia figlia e mi sono chiesta dove mai avrei potuto essere in un momento come questo.

La risposta è stata semplice: a fare la “mamma dottoe”.


NOI, ALL’ESORDIO NEL MEZZO DI UNA PANDEMIA

I neolaureati in Medicina, subito abilitati, lavoreranno in appoggio ai medici in prima linea nell’emergenza Coronavirus. Paolo Belotti è uno di loro, e racconta in questa intervista le aspettative di un inizio speciale. «Abbiamo esempi da seguire e tanto da imparare. La paura? Se guardassimo solo a quella non faremmo più nulla».

Intervista a Paolo Belotti – Lisa Cesco

 

Esordire nella professione nel mezzo di una pandemia non è da tutti. E’ toccato ai ragazzi con in tasca una laurea in Medicina e il tirocinio ultimato, in attesa dell’esame di abilitazione. L’emergenza Coronavirus ha dissolto anche quel passaggio, dopo che il decreto “Cura Italia” dello scorso 17 marzo ha stabilito che per l’iscrizione all’Albo dei Medici Chirurghi è sufficiente il giudizio di idoneità nel corso del tirocinio pratico valutativo.

Sono 173 i laureati in Medicina dell’Università degli Studi di Brescia prossimi all’abilitazione, insieme a 10 mila colleghi in tutta Italia. Risorse umane preziose, che potranno da subito essere impiegate in appoggio e complemento alle “prime linee”, i medici che in ospedale e sul territorio fronteggiano l’avanzata del Covid-19 al fianco dei malati.

Paolo Belotti è uno di loro. Originario della Valle Camonica, una laurea in Medicina a Milano e un futuro da chirurgo come sogno nel cassetto, è stato il primo dei neolaureati bresciani ad avviare le procedure per l’abilitazione.

Dottor Belotti, inizierà a muovere i primi passi nella professione in un momento cruciale. Come sta affrontando questo passaggio?

«Anziché fare le cose gradualmente, come succede di solito, ci troviamo coinvolti da zero a cento in un tempo molto limitato. Ma affrontare l’epidemia in corso non mi spaventa, perché questo non è il momento di tirarsi indietro, altrimenti non avrei prestato il giuramento di Ippocrate».

In Lombardia c’è estrema necessità di nuovi medici per garantire la tenuta del sistema alla prova del Covid-19 e assicurare a tutti il diritto alla cura. In che ruolo si immagina?

«Daremo una mano dove c’è maggiore necessità. Parteciperò al bando aperto dalla Regione Lombardia e offrirò la mia disponibilità dove sarà richiesta la nostra presenza: immagino soprattutto sul territorio, per sostituzioni negli studi dei medici di medicina generale, consulenze o triage. Non nascondo che mi piacerebbe essere destinato direttamente alla “prima linea”, nelle corsie degli ospedali, ma sono consapevole di non avere ancora le armi giuste per combattere su quel fronte, dove si fa assistenza intensiva e bisogna avere esperienza per prendere decisioni rapide ed efficaci. Meglio, in questo momento, rendersi utili per sgravare dalle molteplici incombenze i medici più esperti».

Si stima i che medici e operatori sanitari infettati da Covid-19 siano il 10% del totale dei positivi. Non ha paura di essere contagiato?

«Questa epidemia è quasi fuori controllo, e non possiamo abbassare la guardia. Certo che c’è la paura di essere contagiati, ma se guardassimo alla paura non faremmo più nulla. Bisogna andare avanti, cercando di aiutarsi l’un l’altro».

Cosa si aspetta da questa esperienza inattesa?

«Abbiamo esempi da seguire dal punto di vista clinico e personale, persone che rischiano la vita per salvare gli altri. E sono sicuro che noi giovani non verremo abbandonati. Certo, in momenti come questi il tempo di spiegare non c’è, bisogna sapersi arrangiare. Non dobbiamo essere un ostacolo ma un aiuto. Non rallentare la catena di cura, ma portare un valore aggiunto per vincere il virus. Per noi sarà un’esperienza sul campo unica, abbiamo tanto da imparare se sapremo guardare e ascoltare il più possibile chi ha il mestiere nelle mani». 

Quale sarà il valore aggiunto che come giovani potrete offrire?

«Il “qualcosa in più” della nostra generazione è la capacità di gestire le nuove tecnologie – che avanzano anche in medicina – nel modo migliore. Penso alle nuove procedure a distanza favorite dall’informatizzazione, alla possibilità di reperire le bibliografie in modo più efficiente, alla ricettazione elettronica».

Il Coronavirus sta cambiando anche l’immagine dei medici da parte dell’opinione pubblica: da categoria ritenuta privilegiata ad eroi.

«La dedizione e l’impegno dei medici ci sono sempre stati, tutti i giorni, e non solo in questa pandemia, che ha naturalmente esasperato tutti i ritmi. Nella sanità italiana, che è un orgoglio per il Paese, non prevale il ritorno economico, ma il benessere del paziente: in ospedale e in ambulatorio non si bada all’orario di uscita».

Cosa ricorderà di questi momenti, quando sarà un chirurgo esperto?

«Ricorderò di avere esordito col botto, e di aver fatto esperienza di una situazione del tutto eccezionale, che la maggior parte dei medici non ha mai affrontato in una lunga carriera. Catapultarci nel pieno di una pandemia sarà formativo perché potremo affrontare tanti aspetti mai considerati in tempi di “pace”. Ma mi auguro anche che il mio percorso successivo, verso la specialità, sia noiosamente normale: vorrebbe dire che siamo usciti dall’emergenza».


DALL’ALTRA PARTE

Cosa succede quando un operatore sanitario si ammala, ritrovandosi improvvisamente dall’altra parte della barricata?

Lo racconta una paziente speciale, tra paure, attese e voglia di farcela.

di Alberta Ardenghi,

Assistente sanitaria

da Brescia Medica

Siamo ai primi di febbraio e da circa tre settimane stiamo lavorando in un clima di grande incertezza: il Covid-19 geograficamente è ad un passo da noi, è sicuro che non tarderà ad arrivare anche a Brescia.

Ah…. dimenticavo: sono Alberta, 51 anni il 21 marzo prossimo, assistente sanitaria dal 1993. Sono dipendente dell’ASST Spedali Civili. Da 5 anni lavoro presso gli Ambulatori Infettivi, occupandomi di prevenzione e counselling.

Tornando alla mia storia, ora siamo circa a metà febbraio, la situazione è molto seria: i nostri telefoni “bollono”, sia da parte di nostri pazienti che di privati cittadini in cerca di informazioni ed i reparti sono quasi saturi. Il IV piano Infettivi, dismesso in attesa di ristrutturazione, in due giorni viene reso adeguato all’accoglienza dei pazienti Covid-19+. Lavoriamo ben più dell’orario previsto e tutti facciamo qualsiasi cosa serva, a prescindere dalla specifica qualifica.          

I primi giorni di Marzo inizio ad accusare sintomi: febbre (38°C), rinorrea, spossatezza, gusto ed olfatto alterati, tosse, leggera dispnea sotto sforzo. Dopo 5 giorni, il 6 Marzo, in circa due ore, la temperatura sfiora i 40°C e la dispnea a riposo si fa via via più intensa, fino a fare respiri superficiali, sentendomi confusa. Contatto il numero di riferimento, arriva l’ambulanza e mi trasportano direttamente in Pronto Soccorso, dove mi sottopongono ad Rx Torace (polmonite bilaterale) ed EAB arterioso. Vengo ricoverata agli infettivi CMT (che bello, penso. Sono fortunata perché sì, sto male, ma è un po’ come essere a casa…).

Seguono 3 giorni di continuo graduale peggioramento, fino al 9 marzo quando viene deciso il trasferimento in Rianimazione Cardiochirurgica durante la notte: è necessario intubarmi per agevolare l’ossigenazione dei miei organi. Faccio ritorno agli infettivi 2 giorni dopo e vi rimango fino al 14 marzo, quando vengo trasferita in 2° Medicina Covid-19/CMT Infettivi. Io ricordo come ultima cosa il rianimatore che mi fa firmare in ambulanza il consenso informato all’intubazione…  poi il 15 marzo il risveglio in Medicina: ho un CVC dalla giugulare destra (che mi strappo due notti dopo!), maschera in reservoir, terapia endovenosa in pompa, catetere vescicale, sfigmomanometro e saturimetro; interrogata dai medici so declinare le mie generalità, ma dichiaro che siamo al 20 aprile! Usciti i medici dalla stanza la mia vicina mi mostra il cellulare che reca 16 Marzo: sono basita. Chiedo il mio cellulare, verifico la data (che sciocca!!!) e noto che Whatsapp ha 382 messaggi che non ho letto. Controllo la cronologia e devo constatare che l’ultima volta che ho usato il cellulare è stato l’8 marzo. Ma se oggi è il 16. che fine hanno fatto gli ultimi 8 giorni, cosa è successo? A parte i primi due che, trovandomi in rianimazione ero certamente sedata, restano ancora 6 giorni che non trovano spiegazione

Ma da quanto non vedo mio marito? Qualcuno l’ha tenuto al corrente delle mie condizioni? Come sta? Ha contratto anche lui il Covid-19? Mia sorella e mia zia (settantenne con insufficienza respiratoria e altre patologie) come stanno?

Accuso dispnea, probabilmente per le scoperte e le domande che mi sto facendo, e quindi riesco ad impormi di respirare con calma per poter ragionare più lucidamente. Quando sta male un componente della mia famiglia (come accadde per i miei genitori) sono io che parlo con i medici e gli infermieri e poi riferisco e spiego a tutti gli altri le condizioni del nostro malato. Chi sta facendo questo adesso? Decido allora di contattare mio marito, che mi rassicura sulla buona salute della famiglia e mi dice che ogni giorno ha avuto un colloquio telefonico con uno dei medici che via via mi hanno seguito.

La mia vicina di letto mi racconta che nei giorni compresi tra la Rianimazione e l’arrivo in Medicina, quando ero al CMT per la seconda volta, le hanno raccontato che ero sveglia ma non presente a me stessa (in seguito i colleghi mi racconteranno che ho combinato di tutto: volevo essere dimessa, ho cercato di scavalcare le spondine del letto, pretendevo che una collega mangiasse la mia minestra, ho provato a posizionare il saturimetro in una narice…. ed altre cose che è meglio omettere!).

Nei giorni successivi necessito sempre meno di ossigeno, sino a sospenderlo completamente e quindi ad avere finalmente il permesso di alzarmi dal letto: caspita!!! Cosa sta succedendo? Aiutata dagli operatori di supporto mi alzo dal letto, ma non riesco a camminare: le gambe non rispondono e avverto un dolore/intorpidimento strani. Solo per aver provato ad alzarmi mi sento sfinita. Poi alcuni esami ematochimici portano alla decisione di rimandarmi al CMT, in uno dei nuovi reparti convertiti Covid-19: è il 20 marzo.

Con mia grande felicità il 22 marzo vengo dimessa, solo perché sono un sanitario e i medici si fidano che starò a dieta leggera, ogni giorno cercherò di muovermi un po’ di più fino a fare la cyclette e che ogni 15 giorni ripeterò gli esami per monitorare la funzionalità epatica.

Oggi è il 16 aprile, sono a casa da 25 giorni e, se tutto va bene rientrerò in servizio il 4 maggio. Fisicamente sono ancora in difficoltà: un piano di scale significa dispnea per 5 minuti, le telefonate devono essere brevi, persino la cura della mia persona mi affatica, anche se ogni giorno mi impegno a fare qualcosa di più per recuperare tonicità agli arti inferiori.

Psicologicamente è tutt’altra cosa: ho recuperato quei giorni di “buio” facendo domande ai colleghi che mi hanno assistito e ai miei familiari, ma non è questa la cosa più difficile.

La “disavventura” mi sta facendo riflettere su molteplici aspetti.

- Il primo è il senso/tempo della vita, la sua precarietà, l’importanza di utilizzare il tempo in modo soddisfacente, di non trascurare i rapporti con le persone cui teniamo, di prendere del tempo per noi stessi, per le nostre passioni. In breve: smettere di correre come dei forsennati, senza mai fermarsi a riflettere su chi siamo, cosa desideriamo, cosa vorremmo cambiare in relazione ad un qualsiasi aspetto della nostra vita.

- Il secondo aspetto mi sta facendo molto riflettere su Alberta, assistente sanitaria e paziente Covid-19 positiva. Più ci penso e più mi convinco che per chi esercita professioni sanitarie è molto complesso fare il paziente “paziente”, soprattutto in caso di patologie gravi acute per le quali ti rendi conto di essere in pericolo di vita (non sono un medico, ma le conoscenze che ho sono state più che sufficienti per rendermene conto). Siamo abituati a prenderci cura dell’altro, acquisire la fiducia del paziente e stabilire un rapporto empatico, siamo pronti ad infondere forza e coraggio, ad aiutare il paziente nell’ultimo tratto della sua vita, a parlare con i parenti. Ma cosa succede quando il paziente sei tu e in ambulanza ti sollecitano a firmare il consenso all’intubazione, “Perché, signora, non c’è tempo da perdere, lei sta respirando molto male”? Firmi e poi pensi: “Mi risveglierò? Speriamo. E se mi sveglierò, in quali condizioni?”. Poi arriva la sedazione e si fa tutto oscuro.

Io sono stata molto, molto fortunata. Sono sopravvissuta, la neuropatia periferica sta lentamente migliorando, ho rivisto mio marito e ho ripreso i contatti con parenti ed amici (solo per via telefonica o telematica) e ogni volta che penso a chi non è più tra noi ritengo di essere stata “molto, molto fortunatissima”. Ovviamente non basta la buona sorte: posso affermare in tutta sincerità che tutti i professionisti che mi hanno assistito sono stati il meglio che potessi desiderare, nella cura, nell’assistenza di base, nei rapporti e nella grande pazienza nonostante orari di lavoro, complessità organizzative e il grandissimo impegno fisico e psicologico che viene loro richiesto.

Questa è stata la mia esperienza: spero che possa risultare utile a chi la leggerà, magari riconoscendo in sé alcuni sentimenti che ho provato oppure per prendere atto della difficoltà dei professionisti della sanità nel momento in cui divengono pazienti, con necessità, soprattutto relazionali, molto diverse da tutti gli altri pazienti.


NEL POSTO GIUSTO

di Luca Fiore 

A New York, per il numero di vittime, è un nuovo “11 settembre”. Francesco Rotatori, cardiologo, passa giorno e notte con i pazienti Covid. Qui racconta cosa sta succedendo con loro e con i suoi colleghi. 

Tracce, 5 maggio 2020 

«La parte gratificante del mio lavoro era sempre stata vedere le persone guarite. Curi e guariscono. Ora non è così. Muoiono quasi tutti. Tanti vengono dalle case di riposo. L’80% degli intubati muore. Viviamo quello che avete già visto in Italia. Quelli che se la cavano magari sarebbero sopravvissuti comunque. Questa notte ne ho visti cinque andarsene. Una era una donna a cui avevo promesso che sarebbe andato tutto bene». Francesco Rotatori, di Fano, sposato, quattro figli, è cardiologo interventista al Richmond University Medical Center di Staten Island, a New York. Oggi l’attenzione mondiale si è spostata dalla Lombardia alla Grande Mela dove, come alcuni hanno detto, per il numero di vittime, ogni giorno è un nuovo “11 settembre”. Il suo pane quotidiano, fino alla pandemia, erano le angioplastiche e gli infarti acuti. Ora che il suo ospedale è stato riconvertito alla cura dei pazienti Covid, anche lui passa giorno e notte in reparto a far fronte all’emergenza. Lo raggiungiamo al termine del turno di notte. E il racconto della sua storia è un tutt’uno con quello di questi giorni: «Sono arrivato negli Stati Uniti nel 2005 e ho avuto un percorso particolare. A differenza di molti colleghi italiani, che sono approdati in università o ospedali prestigiosi, io non ho fatto una carriera accademica brillante. Almeno così mi pare. E spesso mi sono chiesto che cosa ci faccio io qui in America. Che cosa ci faccio qui a Staten Island?». 

Che cosa ti rispondi? 

In un momento come questo capisci che cosa ci stai a fare al mondo. Nel 2001 ho visto morire mia mamma per un tumore al polmone. L’ho seguita istante per istante, anche la notte in cui se n’è andata. Ora ogni giorno rivivo quel momento. Vedo gli ultimi respiri di queste persone. Provo un forte senso di rabbia. Ma percepisco anche una chiamata. Un compito. 

In che senso? 

Che forse sono la persona giusta nel posto giusto. Che non sono stato messo qui a caso. Non so. Alcuni miei colleghi si sono tirati indietro. Io sono qui. Anche se la notte potrei starmene a casa. 

Perché resti? 

Ieri sera ho incrociato un giovane specializzando che finiva il turno. Aveva gli occhi stanchi, l’espressione stravolta. Non è facile per nessuno vedere così tanti morti, ma per loro è un trauma. Gli ho detto: «Io la notte resto qui per poter essere insieme a te nel momento in cui un paziente muore». Mi sento chiamato a stare accanto alle persone nella loro sofferenza. Ai pazienti, ma anche a questi giovani medici. 

Che cosa ti aiuta? 

Mi trovo addosso una positività che non mi do io. Non so, sarà l’educazione ricevuta dalla famiglia e dalla fede. Però vedo che questo atteggiamento fa breccia in tutti. E qui c’è gente di ogni nazionalità e religione. È come se questa posizione di fondo fosse desiderata da tutti, o quasi tutti. 

Da cosa te ne accorgi? 

L’ospedale aveva 17 posti di terapia intensiva. La città di New York ci ha chiesto di metterne a disposizione 70. E noi abbiamo solo un medico di terapia intensiva. Quindi abbiamo dovuto reinventare tutto. E vedo che, quando faccio delle proposte, la gente mi viene dietro. Io non avrei l’autorità per farlo, ma quando propongo che lì va tirata su una parete di plexiglas, dall’amministrazione fanno arrivare il materiale. La cosa, in un certo senso, mi mette un po’ in imbarazzo. Ma è così. 

Perché è così? 

Noi vediamo che la maggior parte dei pazienti muore. Gli sforzi sembrano inutili. Perché vale la pena dare tutto comunque? E io mi rispondo: perché nella mia vita ho visto che partire da un’ipotesi positiva rende più intelligenti e fattivi. E la cultura americana apprezza questo. 

E il positivo dove si vede nella situazione in cui sei? Chi o che cosa guardi perché questo positivo non sia solo un’idea? 

Penso a mia moglie. Penso al fatto che sono voluto bene. È una pace interiore che viene fuori da me e che è misteriosa. Non è un autoconvincimento, perché non reggerebbe a ciò che sto vedendo. 

Se la medicina può fare poco o niente, un medico che cosa può fare? 

C’era un paziente Covid malato di Parkinson che mi ha chiesto di bere un bicchiere d’acqua. Si era messo in testa che lo voleva bere da solo. Ma la mano tremava e non riusciva. Rifiutava di essere aiutato. Mi dicevo: «Io avrei anche altro da fare...». Poi ho pensato: «Però potrei essere l’ultima persona che vede». Così mi sono messo da parte e, senza farmi notare, con un dito dirigevo il bicchiere nella direzione giusta. Ci ha messo dieci minuti. Dal punto di vista medico sono stati dieci minuti persi. Nulla che potesse dargli una speranza in più di salvarsi. Però, in quei minuti, gli ho voluto bene. 

E dentro l’ospedale chi ti sta aiutando a mantenere questa posizione? 

È molto strano. Staten Island è una zona in cui la società assomiglia a quella di Desperate Housewives o di Jersey Shore. Situazioni difficili. È la zona con il tasso più alto di abuso di oppioidi. E da qui viene tanta gente che lavora in ospedale. In particolare mi colpiscono alcune dipendenti del mio ambulatorio che, sentendomi raccontare dei primi giorni di emergenza, si sono offerte volontarie. Ora lavorano con me con i pazienti Covid. Sono giovani che si sono lasciate affascinare dal mio entusiasmo. Ma ora sono io a guardare stupito loro. 

Che cosa ti stupisce? 

C’era un giovane malato che, per mancanza di ossigeno, come spesso capita, stava delirando e cercava di togliersi la maschera. Se ti distrai e il paziente si toglie la maschera rischia di morire in pochi minuti. Due di queste ragazze, per un’ora intera, hanno tenuto, accarezzato e massaggiato le mani di quel ragazzo. Conosco le storie di queste giovani. E un gesto così mi ha commosso. Il fatto di non essere soli è fondamentale. Sia nel rapporto con il paziente, sia tra colleghi. E sempre di più mi è evidente che non è una questione di provenienza culturale o religiosa. È una cosa dell’uomo. 

Da che cosa lo capisci? 

L’altro giorno il cappellano dell’ospedale è andato al microfono di servizio del reparto e ha detto: «Uniamoci in preghiera in questo momento di difficoltà. Ognuno, al proprio Dio, chieda che ci aiuti e ci accompagni». A fianco a me avevo una collega cinese e una iraniana. È sceso un silenzio assoluto in tutto il reparto. È stato chiaro che tutti avevamo bisogno di guardare a qualcosa di più grande della morte. Il fatto che questo livello tocchi tutti, mi fa capire che la risposta di Gesù non è qualcosa di buono per me e i miei amici. Ma è una risposta al cuore di tutti. 

Ex infermiere malato di Covid «che paura ho avuto di finire in ospedale» 

Corriere della Sera, 5 maggio 2020, Giacomo Poretti

Doveva venire a Melzo in aprile, al Teatro Trivulzio, a presentare il suo spettacolo “Chiedimi se sono di turno” e invece…. il Teatro ha chiuso e lui il turno l’ha fatto a casa con la Covid19. Superata la malattia, ha raccontato l’esperienza vissuta in diverse occasioni, come in questa intervista al Corriere della Sera che riproponiamo. 

La tempesta perfetta si è accanita più o meno così: prima l’avventura di un teatro da gestire, un film ancora lanciato nelle sale d’Italia, uno spettacolo con 35 date davanti. E poi il coronavirus. Che non solo ha cancellato programmazioni e incassi. Ma che lo ha colpito in pieno: «Andavo a letto alla sera con la febbre e l’angoscia di dover andare in ospedale. Perché io che ho fatto l’infermiere lo so bene cos’è una terapia intensiva...». Giacomo Poretti adesso sta bene. Da cinque settimane i sintomi sono scomparsi, il tampone è negativo e con grande cautela ha messo il naso fuori casa dopo giorni «davvero terribili». 

Insomma si è spaventato davvero? 

«Moltissimo. Per fortuna nel mio palazzo abitano alcuni medici e mi hanno fatto sentire molto protetto. Anche se tutti ripetevano: “L’importante è che tu non abbia problemi a respirare”. E così avevo quest’angoscia del respiro che mi assaliva soprattutto alla sera». 

Lei aveva fatto l’infermiere prima di iniziare la carriera di autore e comico: che effetto le hanno fatto le immagini di tutti gli operatori con i volti segnati dalle mascherine?

 «Ovviamente mi hanno molto impressionato e li pensavo di continuo. E mi ha colpito come questa vicenda ha fatto cambiare anche la nostra percezione dell’ospedale: di solito vai all’ospedale e lo vedi comunque come un posto sicuro. Invece in quei giorni l’ospedale pareva diventato l’anticamera di una cosa orribile e dovevi sperare di non arrivarci». 

A casa come è andata? 

«Mia moglie Daniela si è ammalata qualche giorno dopo di me, ma la sua febbre è sparita nel giro di poco. Nostro figlio fortunatamente non ha avuto sintomi. Io mi sono chiuso nel mio studio, dopo la fase acuta ho cominciato ad uscire ogni tanto stando molto lontano da loro per cercare di mangiare qualcosa». 

La cosa più difficile? 

«Quella che mi pesava di più era rispondere ogni giorno a tanti amici formidabili e preziosi che si preoccupavano per la mia salute e mi mandavano messaggini: ma ogni volta dovevo scrivere quelle due parole “ancora febbre”. Terribile». 

Come passava le giornate? 

«Dormivo perché ero sempre stanco e poi mi ha fatto compagnia la tivù: mi sono guardato Italia-Francia credo 27 volte e ho vinto con l’Inter almeno 53 Champions...». 

Ma ha avuto poco da ridere. 

«Proprio niente. E poi fra lo stereotipo del comico sempre allegrone in casa, forse è più vicino al vero quello del comico un po’ malinconico». 

Avevate iniziato l’avventura del Teatro Oscar. E adesso? 

«Con Luca Doninelli e Gabriele Allevi avevamo deciso di prendere in gestione questo spazio per dire qualcosa di nostro e stava andando benissimo. Certo, adesso è un problema enorme: ma penso che sia molto peggio per tutti quelli che nel nostro mondo stanno giù dai palchi, che sono rimasti senza lavoro e senza rete. Speriamo che qualcuno si ricordi di loro». 

Pensate alla riapertura? 

«Certo e apriremo con il mio spettacolo “Chiedimi se sono di turno”, che aggiorneremo sulla base di questa vicenda. Il nostro modo anche per omaggiare tutte le persone che sono state così forti nelle corsie degli ospedali». 

Nel frattempo? 

«Abbiamo iniziato a usare i social, per non perderci di vista e magari tenere compagnia a chi è a casa. Con Aldo e Giovanni abbiamo messo sul nostro canale youtube due dei nostri spettacoli e ne arriveranno altri. Con gli amici del Teatro Oscar stiamo leggendo “Pinocchio”, ci sono le pillole di psicologia di Daniela Cristofori. Insomma: facciamo di necessità virtù e inventiamo». 

Come immagina il futuro di Milano? 

«Difficile dire come ne usciremo e nessuna delle scuole di pensiero diffuse mi convince fino in fondo. Di certo il Covid ha minato le nostre certezze e la superbia di chi pensava di poter controllare tutto». 

Anche le certezze e la superbia di Milano? 

«Milano non è una città superba. E una città fatta di persone operose, innovative e generose e si è meritata tutto quello che ha avuto. Certo, all’inizio anche io facevo gli aperitivi di #Milanononsiferma. Ma abbiamo dovuto fermarci e troveremo una strada per ricominciare».

 Come? 

«Facendo ciascuno la propria parte senza troppi proclami. Con il Teatro Oscar stiamo preparando un progetto che metteremo a disposizione del sindaco Sala. Sarà il nostro piccolo contributo per aiutare la città: il modo per dire che se è ora di ripartire noi, umilmente, ci siamo». 

Elisabetta Soglio 

Corriere della Sera, 5 maggio 2020 

Dopo la pandemia: rinascere per non morire

Vita e Pensiero, 2.5.2020, Vittorio Emanuele Parsi

Per cercare di immaginare come stanno cambiando e potrebbero ancora cambiare gli scenari internazionali, occorre considerare tre dimensioni.

La prima è quella costituita dall’estrema fragilità delle reti che hanno strutturato l’interdipendenza nell’era dell’iperglobalizzazione. All’insegna della mobilità, della velocità, e dell’efficienza il sistema nervoso del mondo si è progressivamente assottigliato, sottovalutando in maniera clamorosa un elementare principio. Ovvero che la resilienza totale di qualunque sistema è dettata dalla vulnerabilità del suo elemento più fragile: nel nostro caso il fattore umano. Un po’ come accade a bordo, dove la sopravvivenza dell’equipaggio è il punto fondamentale per la progettazione, la manutenzione e l’efficienza del “sistema-nave”.

La seconda è rappresentata dal tempo: la situazione è in continua evoluzione. Si parla di fase 1, di fase 2, addirittura di fase 3, ma il passaggio dall’una all’altra non avviene per nette cesure, né è sincrono tra aree geografiche, settori economici, segmenti di popolazione e neppure è irreversibile.

La terza, che forse è la più negletta, riguarda il fatto che la possibilità di qualunque cambiamento non passa solo per l’indebolimento dell’assetto vigente, per la mera dispersione del potere, ma anche per una sua nuova concentrazione, su un punto di equilibrio diverso. Questo è il motivo per cui, nonostante la gravità che la pandemia potrebbe assumere (e probabilmente assumerà) in Africa o in America Latina o in alcune aree dell’Asia, questo articolo non tratterà di quelle regioni: assumo cioè che anche la modifica dell’attuale distribuzione del potere non produrrà una sua  concentrazione sufficiente a fare di quelle aree l’epicentro di significativi cambiamenti sistemici.

Fatta questa doverosa premessa, e provando a combinare le tre dimensioni appena introdotte, a me pare che gli scenari possibili siano sostanzialmente tre (ne ho scritto più diffusamente in un ebook uscito per Piemme il 21 aprile scorso,

Vulnerabili: come la pandemia cambierà il mondo, a cui rimando per una trattazione più esauriente).

Il primo è quello della Restaurazione, nel quale, esattamente come avvenne nel 1815, prevarrà l’illusione di poter tornare a ricostituire l’ordine del sistema politico ed economico (tanto domestico quanto internazionale) “come se” quello della pandemia sia stato un lungo, drammatico incidente di percorso. Ovviamente non sarà presentato esplicitamente così, non foss’altro perché la crisi sociale ed economica, che in parte seguirà e in parte si sovrapporrà a quella sanitaria, sarà inevitabilmente molto profonda e seminerà ulteriori e copiose diseguaglianze, oltre che accrescere la sensazione (corretta) di profonda iniquità. Farà invece leva su modesti e temporanei cambiamenti, contraddistinti dal richiamo alla straordinarietà della situazione e dalla superficialità della loro natura.

Per coagulare il consenso, questa reazione restauratrice si appoggerà su due elementi entrambi insidiosi: da un lato la voglia di “normalità” che opinioni pubbliche prostrate da una innaturale e intenibile condizione di distanziamento sociale

metteranno in campo. Il ritorno a una vita decente, fatta di incontri e socialità privata sarà esattamente il punto su cui insisterà la comunicazione, a mano a mano che la dimensione emergenziale della “pestilenza” potrà perdere centralità nella struttura del suo racconto. Per socialità privata intendo qualche cosa di analogo al fenomeno del “riflusso nel privato” che in Italia abbiamo vissuto della seconda parte degli anni ’80. Il secondo elemento sarà costituito proprio da quello della narrazione, con una convergenza – che già si può osservare – sulla necessità di una ripresa dell’attività economica, alla quale le stesse esigenze sanitarie di “distanziamento fisico” e “monitoraggio degli spostamenti” offriranno la possibilità di indurre un ulteriore disciplinamento del malcontento e di emarginazione della protesta.

In questa ipotesi, gli attori del sistema internazionale continuerebbero nella loro tradizionale dinamica, riassestata solo marginalmente ma non cambiata nei suoi tratti salienti. Cina e Stati Uniti proseguirebbero il loro confronto per la leadership globale e l’Unione europea sopravvivrebbe, accentuando la sua marginalità e sottoponendosi a lifting minimi, all’insegna della continuità. Sarebbe un ordine precario, instabile, che riprodurrebbe un’interdipendenza imposta al prezzo della continua compressione dei diritti della sua componente umana. I regimi politici prevalenti sarebbero quelli  tecnocratici e a bassa mobilitazione. 

Il secondo scenario è quello della Fine dell’Impero, nel quale più o meno progressivamente la globalizzazione verrebbe meno, sostituita da un mondo fatto di sfere di influenza politica e aree di interdipendenza economica sostanzialmente chiuse le une rispetto alle altre. Gli scambi sulla lunga distanza riguarderebbero una serie di beni sempre più ridotta. Nessuno eserciterebbe una leadership globale, gli Stati Uniti patirebbero un deciso declassamento, mentre la Cina vedrebbe accresciuta la propria influenza. La Ue potrebbe dissolversi e le democrazie si indebolirebbero ulteriormente. I regimi politici prevalenti associati a questo scenario sarebbero di tipo leaderistico-populista, ad alta mobilitazione ma dall’alto.

È da sottolineare che un simile esito potrebbe avviarsi direttamente oppure in maniera più differita nel tempo, come conseguenza del fallimento del tentativo di restaurazione. Quest’ultimo spianerebbe la strada a chi da tempo cavalca l’onda delle contraddizioni dell’iperglobalizzazione proponendo vie di uscita “sovraniste”, che incontrerebbero maggior sostegno in seguito al dissesto sociale causato dalla pandemia in sé e dalla frustrazione per l’inconcludenza delle soluzioni prospettate e poi non realizzate dalla Restaurazione: per dirla in maniera semplice, dalla somma del disastro della fase 1 e della fase 2. Si tratterebbe comunque di una prospettiva che non modificherebbe in profondità né i rapporti di forza tra capitale e lavoro né, né la diseguaglianza del sistema, né la sua complessiva iniquità. La capacità di governo multilaterale di quella parte di interdipendenza che “è nelle cose”, a prescindere dall’esistenza dei confini (ambientale, migratoria, epidemiologica), diminuirebbe ulteriormente. E quindi saremmo comunque di fronte a un assetto altamente instabile ed enormemente fragile.

C’è poi un terzo scenario, quella del Rinascimento, che scommette sulla capacità di costruire un’interdipendenza più solida perché fondata sulla protezione del suo fattore più vulnerabile: quello umano. Molto dipenderà dalla nostra capacità di cogliere l’opportunità offerta dalla pandemia per aggredire gli aspetti strutturali dell’assetto politico ed economico che devono essere modificati: come è accaduto dopo la Grande depressione degli anni Trenta, dopo la Seconda guerra mondiale e dopo la crisi degli anni Settanta (in quest’ultimo caso nella direzione opposta alle due precedenti). L’ipotesi è che proprio la magnitudine con cui la pandemia sta colpendo gli Stati Uniti provochi non solo un decisivo ricambio della leadership (a novembre) ma un vero e proprio riorientamento delle politiche e dei principi che le ispirano: in una direzione più progressista, inclusiva e solidale. Paradossalmente, la dissipazione del potere americano sarebbe limitata dalla capacità di formulare un “New Deal per il XXI secolo”, in grado di suscitare la convergenza delle democrazie occidentali e l’uscita dal paradigma neoliberale. Questa sarebbe la sola via per riconciliare politica ed economia, democrazia e mercato, libertà e solidarietà così da rendere le nostre società più eque e quindi più solide, proteggendole da futuri shock esterni e da eventuali disordini sociali di vasta portata. Di fatto, sarebbe il solo scenario compatibile con la rivitalizzazione delle democrazie e con una radicale trasformazione della Ue più in linea con lo spirito dei Padri fondatori, ovvero quello di un innovativo e maestoso progetto innanzitutto politico.

Rileggere il Signore degli Anelli nei giorni del coronavirus

Avvenire, 17-20-27 aprile, 4-11 maggio 2020, Francesco Marzella

Ci sono analogie tra l'opera di Tolkien e la situazione attuale; un nemico che non risparmia nessuno e il superamento delle differenze per affrontare la minaccia. Una serie di contributi per rileggere il capolavoro.

 

La metafora più usata per descrivere la situazione di emergenza che viviamo è, senza alcun dubbio, quella della guerra. “Siamo in guerra” è un ritornello che sentiamo ripetere ormai allo sfinimento, dal “Nous sommes en guerre” di Macron al più recente discorso pronunciato da Boris Johnson, che appena dimesso dall’ospedale, prima ancora di ringraziare chi lo ha curato, ha lodato gli abitanti del Regno Unito per aver formato uno “scudo umano” attorno al National Health Service (l’equivalente britannico dell’SSN) durante questa “battaglia nazionale”.

L’utilizzo della metafora divide e si può lecitamente dubitare che sia la più adatta. Si tratta, in ogni caso, di una metafora che ha conosciuto una costante fortuna nei secoli, venendo impiegata in diversi ambiti, e che nel contesto odierno ha diverse implicazioni – alcune delle quali potenzialmente pericolose, è evidente – ma che certo ci trasmette con efficacia un senso di precarietà e di emergenza. E ci ricorda anche che, bloccati come siamo in luoghi che non necessariamente consideriamo casa, siamo costretti a fronteggiare la situazione lì dove ci ha colto, accettando anche l’idea di non poter raggiungere i nostri cari. Anche perché si ha a che fare con un pericolo che incombe su tutti e ovunque e che almeno in teoria dovremmo affrontare insieme, superando egoismi e nazionalismi.

L’idea della guerra sembra suggerire o addirittura imporre, però, anche l’atteggiamento da assumere in queste circostanze straordinarie. Ci vuole eroismo, l’eroismo, appunto, di chi va in guerra. È inevitabile pensare al coraggio, alla determinazione, alla capacità di sopportare il dolore, allo spirito di sacrificio. L’immagine idealizzata del guerriero forte e impavido motiva e forse rassicura i più, ma probabilmente non lascia troppo spazio alla fragilità, al senso di smarrimento, all’umano timore che ci hanno fatto visita soprattutto nei primi tempi dell’emergenza.

L’avvento del virus è coinciso per me con la rilettura di Il Signore degli Anelli di Tolkien, un’opera che fra i tanti meriti ha proprio quello di proporre alcune declinazioni dell’eroismo tutt’altro che scontate. L’idea, in realtà, è nata dal desiderio di leggere finalmente il romanzo nel testo inglese originale, aggirando così l’acceso dibattito sulle traduzioni italiane che ha tenuto banco nell’inverno appena trascorso. È però innegabile che ci possano essere alcune analogie fra la situazione attuale e la grandiosa storia che culmina con la Guerra dell’Anello: un nemico che avanza inesorabile e che non risparmia nessuno, il superamento delle differenze per affrontare uniti la comune minaccia.

Del resto, lo stesso Tolkien sembra autorizzare simili letture quando nella celebre prefazione alla seconda edizione del romanzo manifesta la sua avversione per l’allegoria, preferendo di gran lunga l’“applicabilità” delle vicende narrate al pensiero e all’esperienza dei lettori. L’applicabilità – spiega Tolkien – “risiede nella libertà del lettore”, mentre l’allegoria “nel dominio intenzionale dell’autore” (tutte le traduzioni sono mie). E continua: “Di certo un autore non può essere per nulla influenzato dalla sua esperienza (...) In effetti bisogna trovarsi di persona all’ombra della guerra per sentirne pienamente l’oppressione; ma col passare degli anni sembra che ora quasi ci si dimentichi che essere sorpresi in gioventù dal 1914 fu un’esperienza non meno orribile dell’essere coinvolti nel 1939 e negli anni che seguirono. Alla fine del 1918 tutti i miei amici più cari, tranne uno, erano morti”.

Tolkien si sofferma su questi ricordi dolorosi per scoraggiare l’interpretazione di alcuni episodi della sua opera alla luce del secondo conflitto mondiale o come puntuali trasposizioni letterarie di situazioni vissute o testimoniate dall’autore. Allo stesso tempo, però, risulta evidente come la genesi del Signore degli Anelli sia legata alla tragedia delle guerre mondiali. Tolkien, infatti, combatté durante la prima e iniziò a scrivere quello che diventerà il suo capolavoro poco prima dello scoppio della seconda, cui presero parte due dei suoi figli. A uno di loro, Christopher – poi curatore delle edizioni delle sue opere postume – in servizio in Sudafrica, Tolkien inviò alcuni capitoli del Signore degli Anelli, tenendolo aggiornato sugli sviluppi del suo lavoro, che verrà pubblicato dopo lunghe revisioni solo fra 1954 e 1955.

Forse anche perché concepita e scritta in anni così critici, l’opera di Tolkien ci sembra oggi ancora più vicina e capace di offrire conforto e ispirazione. Il fantasy è solitamente considerato un genere di evasione – almeno questo, un tipo di evasione che è autorizzato persino in quarantena! – ma fu lo stesso Tolkien, nel suo saggio sulle fiabe, a difendere i racconti di fantasia invitando a non far confusione fra “la fuga del disertore” (e qui torna la metafora della guerra!), cioè di colui che scappa dalla realtà per non fare i conti con essa, e “l’evasione del prigioniero”, che dalla realtà non si fa inchiodare, ma sempre cerca qualcosa di più alto.

Il viaggio nella Terra di Mezzo non è una fuga dal quotidiano che non ci soddisfa o solo un modo per ammazzare il tempo, al contrario: la sub-creazione tolkeniana, pur rifiutando il linguaggio allegorico, invita a scendere nelle profondità di ciò che viviamo e ci guida in una ricerca di senso oggi più che mai fondamentale. Sono convinto che la nostalgia della Contea di Frodo e Sam, il conflitto interiore di Boromir, il coraggio generoso di Éowyn abbiano qualcosa di nuovo da dirci in questo tempo di attesa e di incertezza, e pertanto desidero condividere alcune riflessioni, da lettore a lettori.

Il nostro viaggio con Tolkien inizierà con un episodio centrale di La Compagnia dell’Anello, il consiglio di Elrond, in cui si ricostruisce la storia dell’Anello e si decide come affrontare la minaccia che incombe sulla Terra di Mezzo.

 

 

Il consiglio di Elrond, ovvero il mosaico della storia

 

Sindaci e poliziotti costretti a richiamare concittadini che in barba alle regole si aggirano per le strade della città pensando, in fin dei conti, di fare una bravata da poco. Abbiamo fatto il pieno di simili scene nelle scorse settimane, anche se gli elicotteri della polizia respinti coi fuochi di artificio non erano effettivamente pronosticabili. Eppure dovrebbe essere ormai chiaro che l’obiettivo comune, proprio perché comune, si può raggiungere solo collaborando. Così, ai piani alti, l’idea di Unione Europea sembra svuotarsi di significato, se non si è capaci di superare l’interesse nazionale soccorrendosi a vicenda, tenendo a mente che il bene di un paese è inevitabilmente legato a quello di tutti gli altri.

Ci siamo riproposti, in tempo di virus, di farci guidare da Tolkien in un viaggio nella Terra di Mezzo e il nostro cammino può iniziare proprio con qualche spunto sull’importanza dell’agire d’intesa superando inutili individualismi. Forse le riflessioni più significative a riguardo possono essere suggerite da un episodio centrale di La Compagnia dell’Anello: il consiglio di Elrond, in cui si ricostruisce la storia dell’anello e si decide come affrontare la minaccia che incombe sulla Terra di Mezzo.

Per la dimora di Elrond il mezzelfo, Rivendell (Gran Burrone o Valforra, nelle traduzioni italiane), Tolkien probabilmente si lasciò ispirare da Lauterbrunnen, in Svizzera, dove si recò nel 1911. Una rapida ricerca online vi permetterà di ammirare una magnifica vallata incorniciata da montagne maestose. Ma Rivendell non è solo un luogo di bellezza e quiete. “Il tempo non sembra passare qui: semplicemente, è” (traduzione mia, come per tutte le altre citazioni). Sono le parole di Bilbo, che Frodo e compagni ritrovano, con grande sorpresa, proprio a Rivendell. La dimora di Elrond è il luogo in cui il tempo non solo è sospeso, ma diventa anche una dimensione in cui sostare, da cui lasciarsi circondare. Una pausa narrativa – dopo le lunghe avventure di Frodo e compagni in fuga dai Cavalieri Neri, al servizio di Sauron – ma soprattutto un presente in cui ricostruire il passato e decidere come affrontare il futuro.

Al consiglio partecipano i rappresentanti dei popoli della Terra di Mezzo. Essi hanno risposto a una chiamata, ma non è stato Elrond a convocarli: piuttosto, le cose si sono disposte in modo tale – dice Elrond – che “fossimo noi che sediamo qui, e non altri, a trovare ora un piano per il pericolo che corre il mondo”. Per capire l’entità della minaccia se ne deve ripercorrere la storia, ma nessuno la conosce per intero: la storia dell’anello, infatti, è un mosaico ed è necessario che ognuno dei presenti contribuisca con la sua tessera, con il suo frammento di verità.

È la prima vera occasione che abbiamo per conoscere meglio l’interiorità dei personaggi ascoltando le loro parole e i loro ragionamenti. Subito emerge una grande diversità, che non è da ricondurre esclusivamente all’appartenenza a una “razza” diversa della Terra di Mezzo. Il primo a prendere parola è proprio Elrond, custode del tempo antico, che ricorda ancora con rammarico la vittoria e la caduta di Isildur, colui che aveva strappato l’anello a Sauron ma poi dallo stesso anello era stato rovinosamente sedotto.

Bilbo approfitta del suo turno per fare una pubblica confessione: egli ha mentito ai suoi amici nani sulle circostanze che gli hanno permesso di impossessarsi dell’anello e il consiglio è l’occasione per liberarsi di un peso e ristabilire una versione più autentica dei fatti. Nei suoi brevi interventi, Frodo rivela tutta la sua ingenuità e generosità. Le parole di Aragorn sono nobili, ma testimoniano anche una fermezza risoluta: non tanto quando viene rivelata la sua identità di erede di Isildur, ma piuttosto quando va difeso l’onore e l’operato dei suoi compagni, i rangers (“raminghi” o, curiosamente, “forestali”, nella traduzione italiana più recente).

Emergono quindi, già da poche battute, le caratteristiche del leader, ma anche qualche tormento interiore. Di Boromir colpiscono la testardaggine e l’orgoglio, uniti certamente al coraggio. Fin troppo occupato a dare una certa immagine di sé, poco incline a fidarsi degli altri, si ostina a lungo a pensare che l’anello non debba essere distrutto e possa essere usato per un buon fine. Gandalf parla per ultimo, come conviene a chi più di tutti ha cercato di tessere le trame di questa storia. A fin di bene, ovviamente, ma anche sottovalutando colpevolmente il potere del nemico.

La minaccia comune deve unire, ma c’è molto di più. Nessuno di questi più o meno eroici personaggi può compiere l’impresa. Oltre le diversità e le tensioni latenti, solo questo vario mosaico di difetti e virtù può servire un fine nobile come la salvezza della Terra di Mezzo. Il più piccolo, il più umile porterà l’anello. Ma perché la storia vada avanti, perché per tutti ci sia almeno una speranza di salvezza, è tempo che nasca una Compagnia.

Il criterio per mettere insieme la compagnia è semplice. Oltre a Frodo ci saranno chiaramente Gandalf e il fido Sam, e poi un rappresentate di ognuno dei popoli liberi: Legolas per gli elfi, Gimli per i nani, Aragorn per gli uomini, ma anche Boromir, almeno per parte del viaggio.

Il numero stabilito, però, è nove, perché nove sono i Cavalieri Neri ai quali la Compagnia si oppone. È a quel punto che si levano le voci di due volontari. Non sono prodi guerrieri, ma gli altri due hobbit che, insieme a Sam, hanno accompagnato Frodo dalla contea, Pippin e Merry. Non vogliono abbandonare il loro amico. Elrond li avrebbe rimandati volentieri alla contea, con il compito di mettere in guardia la loro gente sull’entità della minaccia. Gandalf però – lo stesso Gandalf che non vuole che nessun membro della Compagnia sia vincolato da un giuramento, perché la forza del loro cuore deve essere ancora messa alla prova ed ignoto è il pericolo – insiste perché Elrond accetti la proposta degli hobbit: “in questa circostanza è bene fare affidamento sulla loro amicizia piuttosto che su una grande saggezza”. Davanti a una pericolo sconosciuto il saper fare, l’esser forti o saggi, conta solo relativamente. Ben più importante è la capacità di prendersi cura gli uni degli altri, di essere in relazione, di tener saldi i legami.

Con velata ironia, Tolkien osserva che l’unico membro della Compagnia a non essere depresso all’idea del viaggio è Bill. Bill è il pony che viene usato come bestia da soma. Bill non ha paura, perché è naturalmente ignaro di ciò a cui sta andando incontro. Ma elfi, gnomi, uomini e hobbit sono uniti anche dalla tristezza e da un ragionevole timore, senza per questo smettere di sperare. “In questo – dice Elrond – risiede la nostra speranza, se di speranza si tratta. Camminare nel pericolo...”. E così pure noi, anche se ancora non possiamo lasciare le nostre case, “camminiamo” idealmente insieme in questo tempo per tenere viva la speranza e prenderci cura di ciò che ci sta più a cuore.

 

 

La prova di Boromir: resistere al male mascherato da bene

 

 

“Dobbiamo fare a meno della speranza” sentenzia Aragorn, affranto, dopo che la Compagnia è riuscita a scappare dalle Miniere di Moria senza Gandalf, trascinato nell’abisso dal demoniaco Balrog. Il cammino, però, deve continuare e riserva ancora numerosi pericoli e insidie. Di prove e tentazioni dunque parliamo in questo passaggio da La Compagnia dell’Anello a Le due Torri, in cui ci faremo guidare dall’inquieta figura di Boromir.

Prima, però, soffermiamoci per un attimo sul soggiorno della Compagnia a Lothlórien, l’elfico regno di Celeborn e Galadriel. In questo luogo magnifico, la cui la bellezza edenica sembra offrire un momentaneo ristoro ai membri della Compagnia, i nostri eroi saranno messi alla prova dallo sguardo di Dama Galadriel, capace di scrutare i loro pensieri più nascosti.

Galadriel è a sua volta involontariamente tentata da Frodo, che le offrirebbe l’Anello, se solo lei lo volesse. La potente Dama sa che l’Anello la trasformerebbe in una Regina “bella e terribile”, ma non cede: “Diminuirò – I will diminish, nel testo originale, con probabile memoria di Gv 3,30 – e andrò a Ovest, e rimarrò Galadriel”: la libertà della Dama sta nel voler accogliere il suo destino, anche se implica rinunciare a una grandezza assoluta che però non le appartiene, per rimanere Galadriel, per continuare a essere pienamente se stessa e non lasciarsi corrompere dal male.

Non così sarà per Boromir, che fino all’ultimo vacillerà sotto il peso della tentazione. Sin dalla sua prima apparizione, Boromir ha mostrato principalmente due lati del suo carattere. Da una parte sembra costretto negli orizzonti limitati del suo mondo (spesso esprime il suo dissenso esordendo con espressioni come: “A Gondor tutti sanno che...”), quel mondo che, almeno nella sua percezione, sembra imporgli un certo modello di comportamento (“Gli uomini di Minas Tirith mantengono fede alla parola data...”, “Non è da uomini di Minas Tirith abbandonare gli amici nel bisogno...”).

Questo attaccamento radicale lo porta a idealizzare se stesso, il suo ruolo e la sua gente, a essere sempre sospettoso nei confronti degli altri e delle loro idee, assumendo spesso atteggiamenti polemici. Gli impedisce, in altre parole, di donarsi completamente, di sentirsi realmente parte della Compagnia. Quando però le circostanze lo incalzano, quando non subentra il filtro delle mente che lo intrappola in rappresentazioni distorte di sé, Boromir sa agire con prontezza e coraggio, si prodiga per difendere con generosità i più deboli. Per questo la gente di Gondor lo ama profondamente.

Questi due aspetti opposti della sua personalità sono all’origine del suo tormento. Ed è proprio nella divisione che il potere dell’Anello trova terreno fertile. Nell’ultimo dialogo con Frodo, Boromir preme perché il Portatore dell’Anello decida di recarsi a Minas Tirith, già minacciata dal Nemico, prima di compiere la sua missione e distruggere l’Anello. Anche a Frodo l’idea potrebbe sembrare saggia: andare a Minas Tirith vuol dire evitare, almeno per il momento, il cammino periglioso verso Monte Fato, apparentemente per un buon fine. Ma Frodo dimostra di essere in grado di smascherare la tentazione: il suo cuore lo mette in guardia. “Da cosa?” chiede Boromir. “Dal tardare. Dalla via che sembra più facile. Dal rifiuto del fardello che grava su di me”. Così si presenta la tentazione a Frodo: seduzione della scorciatoia e rifiuto del sacrificio. “E, devo dirlo, dalla fiducia nella forza e nella sincerità degli Uomini”.

Alle obiezioni di Boromir Frodo replica: “Non metto in dubbio il valore della tua gente, ma il mondo sta cambiando”. Il pericolo sta cambiando l’aspetto del mondo e il cuore degli uomini. E proprio Boromir ha ceduto alla più raffinata delle tentazioni, quella del male mascherato da bene. Dice di voler usare l’Anello per salvare la sua gente, ma poi si abbandona a fantasie di onnipotenza: “Cosa non farebbe un guerriero in queste circostanze, un grande comandante? Cosa non farebbe Aragorn? O, se lui rifiuta, perché non Boromir? L’Anello mi darebbe il potere del Comando. Come respingerei le armate di Mordor, e tutti gli uomini accorrerebbero sotto il mio stendardo!”.

Nel suo delirio, in cui si immagina come “un re potente, benevolo e saggio”, quasi non si accorge più della presenza di Frodo, è completamente ripiegato su stesso. Quello di diventare un re benevolo e saggio può apparire come un sogno nobile, ma quel destino spetta a un altro. Ed è proprio questa la prigione in cui l’Anello finisce per rinchiudere Boromir: desiderare una sorte che non è la sua. Solo quando Frodo scapperà via da lui, con l’Anello pericolosamente al dito, Boromir sarà in grado di capire. E scoppierà in lacrime.

Il destino della Compagnia è ormai segnato, ma per Boromir c’è ancora una possibilità di riscatto. Dopo un attacco da parte degli orchi, Aragorn lo trova seduto contro un albero, trafitto da frecce dalle penne nere, con una spada spezzata ancora in mano. Ai suoi piedi i cadaveri di una ventina di orchi. Con le sue ultime parole, Boromir confessa la sua colpa: “Ho tentato di sottrarre l’Anello a Frodo. Mi dispiace, ho pagato”. La sua indole guerriera gli impone di ragionare rigidamente sempre in termini di sconfitte e vittorie, ma l’ultimo pensiero è per la sua gente: “Addio Aragorn! Vai a Minas Tirith e salva la mia gente! Io ho fallito”. È ancora una volta l’altro a riportare Boromir alla verità. Così lo consola Aragorn: “No! Tu hai vinto. Pochi hanno ottenuto una vittoria così grande. Stai in pace! Minas Tirith non cadrà!”.

La vittoria di Boromir è davvero grande. Dopo aver riconosciuto la sua colpa, egli è diventato capace di dare la vita per i suoi amici e guadagnarsi la pace. Nel momento supremo del pericolo, ha saputo liberarsi delle immagini ingannevoli e ha consacrato il suo tragico eroismo cercando di difendere Merry e Pippin. Il suono del corno col quale ha richiamato Aragorn prima di spirare ha dato voce al suo estremo desiderio di sentirsi ancora parte della Compagnia.

Anche per chi non è impegnato in prima linea o non deve fare direttamente i conti con la malattia, la prova da affrontare nel tempo dell’emergenza presenta delle insidie: non solo ci si sente privati della “libertà” – intesa qui, semplicemente, come possibilità di vivere la vita di tutti i giorni – ma sembra venir meno anche qualsiasi prospettiva “eroica” che possa dare un senso alla prova stessa.

Finora il massimo che la maggior parte di noi ha potuto fare è rimanere a casa: non esattamente un’impresa epica, nonostante tutte le difficoltà e le preoccupazioni del caso. Eppure si può ancora scegliere fra lasciarsi andare al pessimismo o alla rabbia, o piuttosto cercare modi nuovi di fare esperienza del bene anche in questa inedita quotidianità. Ora che si inizia a intravedere la luce in fondo al tunnel, ci proiettiamo subito verso il futuro, ci interroghiamo su come sarà la vita dopo l’emergenza, su come limitare i danni e ripartire.

Con Frodo potremo chiederci se il pericolo avrà davvero cambiato il mondo. Di certo anche da come saremo stati davanti alla prova dipenderà la nostra capacità di individuare le priorità di domani.

 

 

Uscire e tornare a vivere: il nuovo sguardo di re Théoden

 

Nella prima parte di Le due Torri, così ricca di eventi e nuovi personaggi, torna con una certa insistenza il tema dello sguardo. Ci sono sguardi carichi di meraviglia, occhi che si riaprono, occhi che terrorizzano. C’è lo sguardo più inquietante e memorabile, quello di Sauron: un solo occhio senza palpebra che scruta incessantemente da una torre perché nulla sfugga al suo controllo. “Scuri e gravi” sono invece gli occhi di Saruman, che ha voltato le spalle al Bene, ma mira a prendersi gioco persino di Sauron e a impossessarsi dell’Anello. “Ci sono occhi! Occhi che guardano dall’ombra dei rami! Non ho mai visto occhi simili” dice Legolas: sono gli occhi di strane creature, degli Ent e degli Ucorni, gli occhi della natura ferita che si risveglia, decisa a vendicarsi della violenza subita proprio da parte di Saruman (“egli ha una mente di metallo e ingranaggi” dirà Barbalbero). E poi occhi che si spalancano per lo stupore, quelli di Aragorn che non si capacita di rivedere Gandalf e, credendolo morto, stenta a riconoscerlo quando gli appare come Gandalf il Bianco: “Quale velo copriva i miei occhi? Gandalf!”. C’è poi lo sguardo “serio e pensoso” della bella e forte Éowyn, che sa illuminarsi e sciogliersi in un sorriso quando i suoi occhi si posano su Aragorn.

In questo momento particolare, però, uno sguardo può parlarci più degli altri. Probabilmente le prossime settimane richiederanno ancora la pazienza di Giobbe. La prolungata navigazione a vista e l’assenza di una prospettiva iniziano a risultare oltremodo pesanti, col rischio di far calare una coltre di torpore sulla speranza. Il dibattito costruttivo lascia il posto a un chiacchiericcio estenuante, a un fastidioso, e spesso dannoso, rumore di fondo tenuto vivo da una schiera di tuttologi improvvisati (“I saggi parlano solo di ciò che conoscono” avrebbe da osservare Gandalf). Sempre più divisi nel partito dei delusi e quello dei prudenti, ci unisce ancora il vagheggiamento del momento in cui si potrà uscire senza eccessive restrizioni. Non si tratta solo di sfinimento, ma di un desiderio radicato e di una consapevolezza concreta: la vera ripresa non potrà esserci senza un ritorno a relazioni reali, non mediate da uno schermo.

Ecco perché lo sguardo per noi più significativo è quello di Théoden, che dopo essere stato a lungo nelle tenebre ritrova la speranza e torna a vedere la luce. Théoden è il re della fiera gente di Rohan, un popolo di guerrieri e domatori di cavalli. È ormai avanti negli anni quando alla sua corte arrivano Gandalf e compagni, e ha da poco perso l’unico figlio ed erede, Théodred, ucciso dagli orchi di Saruman. Il consigliere Grima Vermilinguo, segretamente in combutta con Saruman, ha avvelenato la mente del re, con lo scopo di indebolire la resistenza di Rohan e facilitare l’avanzata delle armate dello stregone. Di Grima Gandalf dirà: “Non è sempre stato malvagio”, ma “il suo cuore si è raffreddato”. E ancora: “Era astuto: attenuava la diffidenza degli uomini, o faceva leva sulle loro paure, a seconda delle circostanze”.

Théoden è ormai totalmente in balia del consigliere e incapace di reagire, da troppo rinchiuso nel suo palazzo – il Palazzo d’Oro di Meduseld, in cui ora domina un’atmosfera cupa – stancamente ricurvo sul trono. “Sono giorni bui” spiega una delle guardie. All’arrivo dei nostri, Vermilinguo tenta di instillare ancora il veleno del sospetto e dell’odio, di persuadere il re a non fidarsi di Gandalf, salutato come “araldo del dolore”, ma esce sconfitto dal confronto con lo stregone, che lo liquida con severità prima di rivelarsi in tutta la sua potenza. Egli aiuterà il re a uscire da questa trama cupa indicandogli col bastone la luce fuori da una delle finestre della sala. Questo è l’aiuto che è venuto a portare quando il dolore del re è ancora vivo e il popolo minacciato, e gli unici doni graditi sono “cavalli, spade e lance”: indicare un tratto di cielo splendente dicendo “Non tutto è oscuro. Fatti coraggio, Signore del Mark, perché non troverai aiuto migliore. Non ho consigli per chi dispera. Eppure a te potrei dare consiglio e rivolgere parole. Le ascolterai? Non sono per le orecchie di tutti. Ti chiedo di uscir all’aperto, davanti alle tue porte, e guardare fuori. Troppo a lungo sei stato seduto nell’ombra e hai prestato fede a racconti contorti e a suggerimenti disonesti”.

Il risveglio di Théoden non ha niente di eclatante (dimenticate pure senza rimpianti la pessima trasposizione cinematografica di questa scena!), si traduce in un gesto estremamente semplice ma denso di significato: lentamente si alza dal trono. Rianimato dalla speranza, il vecchio re esce dal suo dolore, si allontana dalla voce malevola di Grima e, seguendo Gandalf, attraversa la sala fino alle porte: “Il tempo della paura è passato” dice. “Aprite! Il Signore del Mark viene avanti!” grida Gandalf, che aggiunge poco dopo: “E ora, signore, guarda la tua terra! Respira di nuovo l’aria libera”.

Lo sguardo del re torna a posarsi su un paesaggio familiare ma che aveva quasi dimenticato: i verdi campi di Rohan, sormontati da un cielo ancora in parte plumbeo e piovoso, ma in cui irrompono già i primi raggi di sole mentre il vento allontana le nubi. “Non è così oscuro qui” dice Théoden. “No, e neppure l’età grava così pesantemente sulle tue spalle, come qualcuno voleva farti credere” dice Gandalf, rendendo esplicita la correlazione fra quel paesaggio che si libera dell’oscurità e il re che allontanando i cattivi pensieri si apre alla speranza e ritrova le energie. Ancora su invito di Gandalf, Théoden lascia finalmente il bastone: “ora si ergeva alto e diritto, e i suoi occhi erano azzurri mentre guardava il cielo che si apriva”. Ancora una sottolineatura della corrispondenza fra re e paesaggio, fra l’azzurro dello sguardo e quello del cielo.

I pochi passi di Théoden hanno un valore allo stesso tempo simbolico e paradossale: uscire dalla sala del trono gli consente di ritornare, o meglio rientrare, definitivamente in sé, allontanando le tenebre dal cuore e dagli occhi e soprattutto riscoprendo il legame profondo fra sé e quella terra, che di lui ha ancora bisogno. “Cupi sono stati i miei sogni di recente, ma mi sento come uno che si è risvegliato”. Egli avverte che la fine dei suoi giorni è prossima, ma può ancora fare del suo meglio per tornare a prendersi cura del suo popolo in pericolo. “Le tue dita ricorderebbero la forza di un tempo, se stringessero di nuovo l’elsa di una spada” gli suggerirà Gandalf, richiamandolo alla sua missione: guidare e difendere la sua gente.

Lo sguardo fuori dalla sala ha restituito Théoden a una vita di relazione. Non a caso, una delle prime decisioni che prende è quella di riabilitare completamente il nipote Éomer, che egli, sotto la rovinosa influenza di Vermilinguo, aveva mal giudicato. “Dì anche – dice Gandalf – che per degli occhi storti la verità può assumere un aspetto tetro”. Lo stesso aggettivo (crooked: “storto”, ma anche “corrotto”) viene usato da Gandalf per descrivere tanto gli occhi di Théoden quanto le velenose parole di Vermilinguo, vera causa di questa “stortura” dello sguardo. “Davvero i miei occhi erano quasi accecati. Ti devo molto, ospite mio”. È tempo di agire, di impugnare le armi. Prima però è giusto dare ristoro agli ospiti e invitarli a pranzare, per poi farli equipaggiare con armi custodite nel suo tesoro: un buon re si valuta anche dalla capacità di donare con generosità.

Tutto nasce da uno sguardo purificato, ma Théoden non sa darsi la salvezza da solo, è un altro a cacciare le tenebre dai suoi occhi. Un invito alla speranza lo rende capace a sua volta di dare speranza ai sudditi e all’esercito. Dalla contemplazione di quel paesaggio che gli appartiene e cui lui appartiene, può iniziare la “fase due” di Théoden. Nonostrante si ritrovi in un mondo stravolto (“il mondo cambia, e tutto ciò che un tempo era forte ora si rivela incerto” osserva), egli tornerà a cingere ancora la spada Herugrim e guiderà la cavalleria nella vittoriosa battaglia del Fosso di Helm. Cadrà infine da eroe ai Campi del Pelennor, non senza aver incitato i suoi un’ultima volta, gridando “con un’alta voce, più distinta di qualsiasi voce che si sia mai sentita emettere da uomo mortale: "Levatevi, levatevi, Cavalieri di Théoden! Aspre imprese vi attendono: fuoco e massacro! la lancia sarà scossa, lo scudo frantumato, un giorno di spada, un giorno di sangue, prima che il sole sorga! Cavalcate, cavalcate ora! Cavalcate verso Gondor!”.

 

 

L'eroismo di Sam, il semplice hobbit che sa prendersi cura

 

 

Ci ha cambiato e ci sta cambiando l’emergenza? E come? Pochissimi – facciamo pure “non pervenuti” – gli inguaribili ottimisti, convinti che avremo fatto tesoro di questo tempo e diventeremo un’umanità migliore. Qualche adesione la registra il gruppo dei possibilisti, di chi dice che ci troviamo davanti a una grande opportunità per ripensare il nostro stile di vita e che faremmo bene ad approfittarne. Poi c’è la controretorica disillusa de “l’uomo è quello che è, passata la paura...”, che nella sua versione più estrema può raggiungere il “saremo certamente peggiorati”.

Solo il tempo darà una risposta. Qui, come al solito, ci limitiamo a cercare nella storia dell’Anello qualche spunto, qualche briciola di saggezza. E il personaggio giusto per parlare di cambiamento sembrerebbe essere il vero protagonista della parte conclusiva di Le due Torri, Sam, l’umile giardiniere che riuscì ad avere la meglio su Shelob, un mostruoso ragno di enormi dimensioni.

Un cambiamento, una maturazione del personaggio al termine di una storia non ci sorprenderebbe affatto. Ci chiediamo invece qualcosa di più preciso: se un grave pericolo è capace di cambiare radicalmente una persona, se può essere determinante per un’autentica metamorfosi. Un discorso su Frodo o Gollum ci porterebbe troppo lontano, perché coinvolgerebbe il potere soprannaturale dell’Anello, con cui sono stati a lungo a contatto. Guardiamo piuttosto a Sam, e chiediamoci se al suo ritorno alla Contea sia una persona del tutto diversa da quella che era partita, dal giardiniere che origliava i discorsi fra Gandalf e Frodo nascosto fra le piante.

Se la storia narrata da Tolkien è capace di illuminare il nostro quotidiano, lo si deve soprattutto agli hobbit, creature umili e pacifiche, amanti del cibo e della vita semplice. La scelta di Tolkien è interessante: non fa un’epica degli umili, ma trascina in uno scenario eroico delle creature che di epico avrebbero ben poco. E non relega gli hobbit a dei ruoli da comprimari, al contrario: Frodo e compagni risulteranno fondamentali per il compimento della missione.

Quando si ritrova con Frodo nei pressi di Mordor, Sam si rende conto che simili scenari non gli sono del tutto ignoti. Finora ne ha solo sentito parlare “nelle vecchie storie e canzoni” che ama, ma questa volta si ritrova inaspettatamente a vestire i panni del protagonista alle prese con una situazione a dir poco disperata. Che affronta con tutto se stesso, con la sua assoluta lealtà, ma anche con certe sue insicurezze e talvolta con un senso di inadeguatezza.

Ha portato la Contea sempre con sé. Non solo sotto forma di nostalgici ricordi, di immagini e sapori, ma anche e soprattutto grazie a una voce, la voce interiorizzata del padre, Hamfast Gamgee. È la voce del buon senso hobbit, che non concepirebbe le situazioni in cui Sam si è cacciato (“Il Vecchio avrebbe una cosa o due da dire, se mi vedesse ora!”), ma che al tempo stesso sa rincuorare e dispensare saggezza (“finché c’è vita, c’è speranza, come diceva il mio Vecchio... e bisogno di provviste, come molto spesso aggiungeva”). Sam porta con sé, però, anche la sua grande curiosità, quel gusto per il bello e per l’ignoto così raro per uno hobbit che, insieme all’affetto che lo lega a Frodo, lo ha condotto così lontano dalla Contea, fuori – si direbbe oggi – dalla sua comfort zone.

E proprio lui, che di sé dice “sono solo un hobbit, e a casa mi occupo di giardinaggio”, si ritrova a compiere un’impresa senza pari. Nessun elfo o uomo aveva mai affrontato con successo Shelob, questo “essere malvagio dalla forma di ragno”. L’inaspettata vittoria sul mostro che aveva avvolto il suo padron Frodo nella vischiosissima tela, però, non basterà a far entrare Sam nel novero degli epici eroi uccisori di mostri. Lui stesso sorriderà “tristemente” ascoltando di nascosto gli orchi che in un secondo momento entrano nella tana di Shelob e immaginano l’accaduto, concludendo che il mostro sia stato trafitto da un grande guerriero, probabilmente un elfo. Del resto, non sappiamo neanche se Shelob sia effettivamente morta dopo esser stata trafitta (“questa storia non lo racconta”) e, a voler essere precisi, Sam la colpisce più volte, ma è il mostro a procurarsi la ferita più grave piegandosi “con la forza violenta della sua crudele volontà, con possanza maggiore della mano di qualsiasi guerriero” sulla lama elfica tesa dallo hobbit.

Sam, in realtà, continua a essere fedele a se stesso. Anche e soprattutto nei suoi timori, nei suoi passi falsi che lo rendono un personaggio ancora più amabile. Quando più tardi rischia di dover fronteggiare un nuovo pericolo – questa volta si tratta di orchi – Sam è nuovamente in preda alla paura, tanto da infilare l’Anello e scomparire: “ma c’era una cosa che l’Anello non conferiva, ed era il coraggio”. Non è certo il coraggio a tutti i costi a fare l’eroe, ma torna in Sam la consapevolezza di non essere un vero guerriero.

Cosa lo ha spinto allora a reagire così prontamente contro il mostro? La disperazione, certamente, ma soprattutto l’amicizia devota che lo lega a Frodo. Nel momento supremo della lotta fra la vita e la morte, Sam “non si attardò a pensare che cosa fosse necessario fare, o se fosse coraggioso, o leale, o pieno di rabbia”. La carica di Sam è furia totale, istinto puro, “una forza disperata” spinta dalla necessità di salvare l’amico. Egli sa essere eroico, di un eroismo che si traduce nella cura assoluta per Frodo e che solo le circostanze estreme portano a manifestarsi in maniera così risoluta e violenta. Il rischio lo ha spinto a far ricorso alle sue risorse più nascoste senza però farne una persona diversa. Non a caso, poco prima di affrontare Shelob, impugnando la Fiala di Galadriel per farsi luce, Sam si abbandona per un attimo al ricordo degli amati Elfi, per poi tornare nuovamente in sé per affrontare il mostro: “ed era di nuovo Samwise lo hobbit, il figlio di Hamfast”.

Quando invece si impone di seguire una strada che non gli appartiene, Sam rischia di commettere il più grave degli errori. Credendo Frodo morto, si trova a decidere su come proseguire: da una parte non vorrebbe mai lasciare il cadavere dell’amico nella tana del mostro, dall’altra sa che sarebbe inutile rimanere lì quando c’è ancora una speranza di distruggere l’Anello. L’incertezza lo divora e la solitudine pesa come un macigno: “Vorrei non essere l’ultimo rimasto. Vorrei che fosse qui il vecchio Gandalf, o qualcun altro. Perché sono rimasto solo a decidere? Sono sicuro di sbagliare”. Il suo cuore è in subbuglio. Sam prova allora ad esaminare razionalmente le due opzioni e infine, per mantenere fede all’impegno preso con Elrond e il Consiglio, va via con l’Anello, non prima di aver rivolto un commovente addio a Frodo.

“Continuava a ripetersi “ho deciso”, ma non era vero. Nonostante avesse fatto del suo meglio per rifletterci su, quello che stava facendo era del tutto contrario alla sua natura”. Solo dopo aver ancora esitato, si accorgerà di aver scelto imponendosi un eroismo che non è il suo. Ascoltando gli orchi che hanno trovato Frodo nella tana, scoprirà che il suo amico non è morto e dirà a se stesso: “Sciocco. Non è morto e il tuo cuore lo sapeva. Non fidarti della tua testa, Samwise, non è la parte migliore di te”. Sam si è convinto definitivamente che è fondamentale dare ascolto alla “parte migliore” di sé, perché è l’unico modo per compiere la sua vera missione: non portare l’Anello, ma stare al fianco di Frodo. A farlo tornare sui suoi passi è stato proprio il timore di non rivederlo mai più.

Il pericolo, che ha trascinato Sam nel territorio della paura, lo costringe a mostrare la sua vera essenza. Ciò che invece cambia realmente Sam, o meglio, che lo fa maturare, non sono tanto le imprese compiute o le difficoltà superate (e il cammino verso Monte Fato ne prevede ancora molte), quanto l’affetto sincero per Frodo, che consolida la sua capacità di custodire e prendersi cura dell’altro. Al suo ritorno, dopo che anche la Contea sarà pacificata, Sam diventerà un marito e un padre. E poi ancora Sindaco per ben sette mandati consecutivi. Infine, a lui Frodo affiderà il Libro Rosso dei Confini Occidentali, in altre parole l’intera Storia dell’Anello.

La vicenda di Sam più che dare una vera e propria risposta alla domanda iniziale, la porta su un altro livello. Forse il pericolo di per sé non trasforma, non aggiunge né sostituisce. Semmai priva, sottrae, spoglia. Di certezze, per esempio, o magari di una certa idea di come le cose dovrebbero andare. Ma in questa opera di sottrazione, in questo inaspettato disordine che certo complica il quadro, ma per altri versi semplifica, sfronda, c’è anche la possibilità di riconoscere con maggior immediatezza una chiamata. Un’idea evidentemente cara a Tolkien e riproposta più volte nella sua opera, che può rappresentare l’eredità più preziosa di questo tempo.

Francesco Marzella

Avvenire, 17-20-27 aprile, 4-11 maggio 2020


Conversazione con il sociologo Mauro Magatti

L’Osservatore Romano, 29 aprile 2020, a cura di Marco Bellizi

«Questo è, in senso biblico, un momento realmente apocalittico, che chiama a un giudizio sul nostro tempo». Se l’esito però sembra abbastanza scontato, di fronte agli scenari disastrosi ai quali il nostro mondo sembra averci condotto, sia pure sotto i colpi di una crisi inedita, la previsione sul futuro rimane tutt’ora un esercizio fin troppo arbitrario. Per questo Mauro Magatti, sociologo, docente all’Università cattolica di Milano, scrittore, preferisce avvertire che ci troviamo semmai di fronte a una situazione nella quale tutte le possibilità sono aperte e sarebbe opportuno tenere a mente l’insegnamento di Romano Guardini, la consapevolezza che non esistono mai soluzioni definitive ma equilibri da cercare fra tensioni costanti. Il che presuppone un solo indispensabile strumento: la riscoperta del senso autentico della libertà.

 

Fra i vari giudizi sul tempo che stiamo vivendo, si distingue, se non altro perché fuori dal coro, quello del premio Nobel del 2008 per l’economia, Paul Krugman, secondo il quale il sistema economico mondiale in fondo non sta vivendo una crisi vera e propria ma un “coma farmacologico indotto”, lasciando intendere che se ne possa uscire abbastanza rapidamente... È una lettura che può essere condivisa?

 

Detto che naturalmente è difficile fare previsioni perché sta accadendo qualcosa di inedito e quindi è facile essere smentiti, io sono tra quelli che sono un po’ più allarmati. Se si usa il riferimento del Fondo monetario internazionale, che dice che il Pil mondiale scenderà del 3 per cento (con la crisi del 2008 è sceso dello 0,4) ciò significa che siamo di fronte a qualcosa che avrà un impatto, anche se lo consideriamo solo un arresto, molto rilevante. Anche perché questo arresto si accompagna ad almeno due questioni molto importanti. Primo, creerà disoccupazione, cioè una parte del lavoro non riprenderà, il che spingerà una parte significativa della popolazione mondiale in condizioni di povertà estrema (il Papa usa giustamente il termine “fame”). Poi, una variabile che non conosciamo è quanto questa vicenda durerà. Adesso c’è stato questo blocco. Andiamo verso l’estate, almeno in una parte del mondo, e ci auguriamo che la situazione migliori. Molti esperti dicono che il virus tornerà in autunno ma non si sa se ci sarà il vaccino. Insomma, il rimbalzo che ci si può attendere, ammesso che ci sia, non riguarderà tutti.

Ragionando sui possibili scenari post pandemia, qualcuno, come l’economista Stefano Zamagni, ha individuato nel neoliberismo il nemico da combattere. Altri, come il filosofo Massimo Cacciari, ritengono invece che il neoliberismo sia già morto e che semmai si dovrà affrontare la realtà di un capitalismo delle multinazionali saldamente alleato con le istituzioni politiche. Lei da che parte si mette?

Ribadito che fare i profeti in questo momento è molto difficile, se non impossibile, credo che il neoliberismo che si è presentato alla fine del secolo scorso e che aveva già subito un bel colpo con la crisi finanziaria e con l’emergere dei vari populismi, finirà qui. Ci sarà un’altra forma di capitalismo, benigno o maligno nessuno lo sa. La speranza è che fra i due poli, il globalismo come tecnica politica astratta, e la reazione localista della chiusura e dei populismi, emerga invece una strada di sensatezza, dove si riconosca che c’è un bisogno di un governo politico dei processi a livello di macro regioni. Però ogni spazio macroregionale deve darsi in relazione agli altri, non nella logica di Huntington dello scontro di civiltà. Questo è l’esito che auspico. L’esito nefasto è invece quello in cui si va fondamentalmente verso aree di conflitto fra regioni (e magari alcune di queste, vedi l’Europa, neanche in grado di nascere realmente). Per me quindi il “globalismo della globalizzazione” e la sua reazione populista sono entrambe in difficoltà: nascerà una cosa nuova, che non sappiamo ancora se sarà ancora peggiore o migliore.

Dipende da noi... O no?

Dipende da noi, dipende da noi... Certo, dipende dai processi storici... Ma sicuramente dipende dalle spinte che si riescono a dare.

Si è un po’ tutti convinti della necessità di un cambiamento profondo del sistema economico, politico, sociale. In questo momento però stiamo usando risorse che non abbiamo ancora prodotto e stiamo creando un debito che nel medio e lungo periodo ricadrà inevitabilmente sulle spalle delle prossime generazioni. È credibile allora, in queste condizioni, parlare di riforme?

In questo momento, come è evidente, il sistema economico-sociale ha bisogno della finanza. La metafora che si può usare è questa: c’è stata una grande emorragia, causata dal blocco della circolazione, e abbiamo bisogno di una trasfusione. In tale contesto non ha alcun senso operare con un criterio di contabilità. Al momento se non c’è la trasfusione il paziente muore e quindi bisogna agire in un sistema di emergenza (naturalmente questo è anche il grande tema della risposta europea). Il problema è che questa trasfusione non può essere destinata semplicemente alla sopravvivenza ma c’è bisogno che inneschi dei percorsi di investimento che siano trasformativi. Voglio dire: attiviamo queste risorse finanziarie per fare che cosa? In che direzione dobbiamo investire? Dipende da qui la possibilità di andare in una direzione positiva. Il vero tema è individuare con sufficiente chiarezza degli obiettivi trasformativi, pensiamo al tema dell’ambiente, della sanità, dei beni non solo individuali ma di comunità. La finanza in questo momento è necessaria ma se non facciamo questo sforzo di individuare gli obiettivi e non indirizzare questa disponibilità di risorse finanziarie il problema che pone lei certamente sarà devastante... Alternativamente, la rigenerazione economica e sociale ci metterà in condizione anche di affrontare nel medio e lungo periodo le conseguenze di queste azioni che sono oggi necessarie.

Al di là di tutti i nostri tentativi di ripensare il futuro, nostro malgrado, come vede, l’attenzione finisce sempre con l’essere incentrata sul tema economico. Lo trova più realistico o più limitativo?

Il problema è che il liberismo ci ha raccontato l’economia come se fosse solo un meccanismo. Il problema è che l’economia non è una macchina che doveva correre secondo la logica del just in time, per cui nel momento in cui la macchina si ferma per un incidente tu non sai cosa fare. L’economia non è un meccanismo. L’economia, come ci hanno insegnato i grandi pensatori, è una costruzione che a che fare sì con la tecnologia, che ha a che fare con gli assetti politici, con la sua stessa regolazione (pensiamo alla finanza e alla lotta alle disuguaglianze). Ma ha basi spirituali. Il liberismo è stato espressione di una combinazione di elementi. La crisi degli anni ‘70 del secolo scorso, che è stata una crisi economica, politica e culturale, ha generato la liberalizzazione dei mercati, dietro la quale c’era il concetto secondo cui l’individuo si realizza attraverso il consumo. La combinazione di questi elementi ha retto una stagione. Poi si è andati in crisi. Il tema che abbiamo davanti è come rimettiamo insieme questi elementi, ovvero: spazi politici regolativi, nuovi modelli economici che hanno a che fare anche con il tema della digitalizzazione (lo smartworking, i nuovi beni...) e nuove basi spirituali e culturali. Per esempio, la consapevolezza crescente che i nuovi giovani hanno della sostenibilità ambientale, ma anche sociale, è il presupposto per fare un’economia diversa. Non siamo di fronte a una macchina che va riavviata. Dobbiamo ricostruire insieme degli assetti che abbiano a che fare con il senso di ciò che facciamo quando la mattina ci alziamo, lavoriamo, dedichiamo la nostra vita a fare qualche cosa che serva.

Poco tempo prima dello scoppio della pandemia è uscito il suo libro dal titolo, oggettivamente profetico, «Liberi di cadere. La libertà al tempo dell’insicurezza». Intanto le rivolgo una domanda secca: “dopo” saremo più o meno liberi? Non le chiedo un auspicio ma una previsione...

Guardi, noi siamo sospesi tra un bene e un male, tra esiti che possono essere realmente opposti. Venendo al tema della libertà: la libertà individualista, consumistica, senza limiti, propria dell’immaginario neoliberista, è già in crisi da almeno dieci anni. A un certo punto quella narrazione non ha più corrisposto alla realtà. I populismi sono l’espressione del fatto che per molti il racconto secondo cui tu sei come una particella elementare a sé stante che vive felicemente andando di qua e di là è un racconto che non stava in piedi. Oltretutto saltava completamente il tema dell’identità, del senso, del legame, dell’appartenenza. Noi arriviamo a questa crisi con una libertà già fortemente a rischio. Questo “incidente”, chiamiamolo così, può farla collassare in quello che la Zuboff definisce il “capitalismo della sorveglianza”, un mix tra grandi poteri del digitale e nuovi sistemi politici. Nella fase storica precedente la combinazione era: “Ti libero il desiderio e il tuo desiderio fa andare avanti l’economia”. Ora questo non regge più e la richiesta che qualcuno controlli e dia ordine (a partire dal punto di vista sanitario), che gestisca dall’alto il caos, può essere l’unica risposta. Ci sarà un’alternativa se si diventa consapevoli che la libertà è una relazione e di conseguenza si esprime solo nella responsabilità. Un po’ ora lo capiamo: è il tema del contagio. Io sono responsabile nei confronti della mia salute e della salute dell’altro. Di sorveglianza non c’è bisogno se diventiamo consapevoli che essere liberi vuol dire essere responsabili. Ovviamente questo è molto difficile, chiede investimenti nell’educazione, richiede un altro modo di pensare la nostra libertà, Ma è anche vero che nella storia ci sono i salti. La mia posizione è che questo incidente o ci spingerà al collasso, oppure, grazie alle tante risorse morali che ho visto in queste ultime settimane, capiremo che l’antropologia raccontata dal neoliberismo era una forzatura.

In un passaggio del suo libro lei afferma anche che uno degli strumenti utili a “liberare la libertà” è la pratica della dissidenza. Dovremmo essere tutti un po’ più rivoluzionari?

Beh, questo è un concetto un po’ particolare. La dissidenza naturalmente è solo un primo passo, non è il compimento della libertà. Però la libertà ha sempre a che fare con la nostra capacità di non assumere l’ordine delle cose in maniera superficiale. È un tema che ha molto a che fare con l’esperienza religiosa: anche la secolarizzazione, che non a caso è un prodotto della cultura europea cattolica, si oppone a tutti i tentativi teocratici di tradurre la religione in un ordine politico, una delle minacce peggiori all’esercizio della libertà individuale. Ciò dimostra che le religioni hanno un ruolo importante non quando vogliono occupare il potere ma quando lavorano per coltivare la coscienza. Il cristianesimo, sotto questo aspetto, ha un messaggio molto forte: dato un qualunque ordine politico, economico o sociale ci dice che c’è sempre un riferimento “altro” che ci consente di essere dissidenti. Questo è un elemento che, ahimé, anche nell’educazione cattolica si è troppo spesso dimenticato. Abbiamo sottolineato invece, molto, il tema dell’obbedienza. Obbedire, ricordiamolo, viene da ob audere... predisporsi all’ascolto. Questo ovviamente non significa che poi la coscienza vada per conto suo, che assumiamo il punto di vista dell’individualismo contemporaneo: è un punto di partenza che poi va rigiocato in una relazione, in un ascolto della realtà, e non semplicemente in ciò che poi ripetiamo a noi stessi...

Uno dei temi più sentiti in questi giorni è anche quello della scuola e delle difficoltà dei genitori che devono rientrare al lavoro non sapendo come gestire i figli. Fatte salve le legittime esigenze famigliari, sembra che in pochi si preoccupino di riflettere su una completa riprogettazione del sistema scolastico...

Naturalmente, se la scuola diventa un “parcheggio” fallisce il proprio ruolo. La scuola è un’istituzione che abbiamo inventato e che tra l’altro avrebbe bisogno di essere aggiornata, di essere ripensata... che affianca ma certamente non sostituisce la famiglia, o altri soggetti, quali la Chiesa, nella formazione dei giovani. E, lo sappiamo, ha il suo valore laddove compensa le differenze che esistono nell’origine famigliare. Si è visto anche in questo periodo. La scuola digitale va benissimo, fatto salvo che non è detto che a casa tua tu abbia lo spazio per studiare, gli strumenti per seguire bene le lezioni, ci sia qualcuno che ti aiuta a fare bene i compiti. La scuola ha questa funzione importante di combattere le disuguaglianze, che è il fine più difficile e più delicato fra quelli che hanno le diverse agenzie educative. Il tema del “parcheggio” ci può essere ma nel caso italiano vedo il problema opposto, ci si appresta a riaprire una serie di attività economiche senza preoccuparsi della questione molto concreta e molto reale della gestione dei figli.

Tutti vogliamo essere allo stesso tempo liberi e sicuri: una contraddizione che lei definisce come possibile “causa eziologica di una psicosi collettiva”. Insomma, non c’è libertà senza rischio. Piuttosto scomodo dirlo ora...

Beh sì, è un altro grande punto. Chiaramente con la pandemia (a parte la possibilità che ci sia stata una sottovalutazione, forse non eravamo preparati, non so) si è sentito fortemente tra le tante cose un’angoscia molto forte nei confronti del morire. Perché, come hanno detto in tanti, questa pandemia ha reso pubblico ciò che invece abbiamo reso privato, cioè la morte, che è un tema costitutivo della libertà. La libertà si gioca in questa esposizione al rischio, che può esprimersi nella pulsione di morte di chi dice “il governo non mi deve imporre quello che devo fare” (vale a dire una libertà non responsabile, radicalizzata) oppure, dall’altra parte, nella reazione opposta di chi si affida a qualcuno (non si capisce bene chi) che gli garantisca una sicurezza che naturalmente nessuno è in grado di dare. La nostra elaborazione soprattutto culturale di questo rapporto fra vita e morte è tale per cui ci immaginiamo di non morire mai e quindi che sia possibile vivere senza rischi. Abbiamo visto che questa esperienza collettiva, anche così drammatica, ha spinto molti a guardare, a riaffacciarsi, alla dimensione religiosa, anche se magari in forme superficiali: i dati sulle persone che guardano la messa di Santa Marta o le iniziative di tanti preti (per esempio i video di preghiera di un prete che ha totalizzato più di 500 mila visualizzazioni) sono importanti. Ora, non è che uno diventi improvvisamente cristiano, dal nulla gli spunti la fede, però questa esposizione collettiva alla morte ha fatto riaffiorare domande. Siamo lì nel mezzo: anche come società dobbiamo trovare la giusta misura fra il dovere di protezione, del più debole in particolare, e la vita che è apertura e come tale anche rischio.

Insomma, bisogna darsi da fare, prescindendo dall’affidarsi a quello Stato al quale fino ad ora si pretendeva di occuparsi di noi e dei nostri bisogni. Davvero il modello precedente è definitivamente morto?

Bisogna tenere sempre a mente l’insegnamento di Romano Guardini: la vita sociale e umana è sempre esposta a delle tensioni. Ad esempio la tensione fra libertà e sicurezza, fra singolo e collettività. Non è che esistano delle risposte risolutive. Le diverse fasi, i diversi momenti della storia sociale sono fatti di equilibri tra le tensioni. E questi equilibri sono per definizione inadeguati, insufficienti. Ogni tanto, come sta succedendo per esempio nella soluzione neoliberista, entrano in crisi e bisogna mettersi alla ricerca non di un’altra soluzione “definitiva” ma di un altro equilibrio, che sarà provvisorio. Io credo che ci sia lo spazio per dare realizzazione alla consapevolezza, che avevamo perso, di un comune destino. Se poi saremo capaci di dargli una forma, di approfittare di questa consapevolezza e renderla una forma sociale è tutto da dimostrare. Però a me sembra che lo spazio ci possa essere.

Tra i rischi da assumere c’è anche quello della possibilità della caduta, del fallimento. Di nuovo il problema della tutela, anche sociale, della “sconfitta”: temi che sono, dovrebbero, far parte del patrimonio culturale di ogni cattolico. Tuttavia mi sembra di poter dire che il mondo non segue questa logica...

Certamente no. Il mondo segue da sempre altre logiche. Però, di nuovo, cosa dobbiamo fare rispetto a questo incidente che ci è capitato? Dobbiamo chiudere la nostra capacità di pensare il futuro? Dobbiamo dire che tutto è finito? Che non saremo più come prima? Oppure reagire in maniera relativistica immaginando che non sia successo nulla? No, io penso che a livello personale e a livello collettivo le paure possono annichilire la nostra vita sociale oppure liberare delle energie che prima erano impensabili. Banalmente, siamo tutti fermi, e questa cosa ci fa star male, e allo stesso tempo ci siamo resi conto (almeno io mi sono reso conto) che forse si correva come dei dementi, che (dico una banalità) si facevano un miliardo di viaggi e forse se ne possono fare un po’ meno... I traumi hanno esiti che possono essere opposti. Per me questo è veramente un tempo, in senso biblico, apocalittico: questo incidente ci spinge a un giudizio su questo tempo. Però è anche una grande occasione. Almeno per chi pensa che il mondo che ci siamo lasciati alle spalle non fosse l’Eden. Non era neanche l’inferno, ovviamente: era un mondo che aveva delle cose buone e tante cose che sono morte.

Ma c’è invece qualcosa che rimarrà, fra quelle vissute in queste settimane?

La cosa che ci segnerà, anche se non so dire se nel bene o nel male, è questa esposizione collettiva alla morte. Lo dico per me, ma penso che sia stata un’esperienza per molti. Nei primi giorni, quando c’è stato il contagio, quando l’epidemia si diffondeva in maniera molto veloce e non si capiva bene nulla, credo che tutti abbiamo avuto un momento di interrogazione rispetto alla possibilità di morire. Dato che vivevamo in un mondo in cui questa cosa era messa totalmente tra parentesi e tutti avevano la sensazione di essere immortali (e di conseguenza leggermente paranoici) come ci portiamo dietro questa reimmersione nella nostra realtà di uomini? Per me questo sarà il punto decisivo, che rimarrà nell’esperienza di molte persone, in maniera confessata o inconfessata. Io ho speranza che questa consapevolezza ci possa essere d’aiuto. Ovviamente, se evitiamo di fare di tutto per metterla sotto il tappeto e fare finta di non aver mai vissuto quello che stiamo vivendo.

Guida alla lettura dei capitoli XXXI e XXXII de I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni 

ed. Atlas, 1994, a cura di Alberto Brasioli, Daria Carenzi, Clemi Acerbi, Franco Camisasca

Ad un compito come quello che abbiamo tratteggiato [il cammino ventennale che ha portato l’opera dalla prima redazione a quella attuale, ndr], Manzoni si accinse con un o scopo assai preciso: mostrare al suo tempo burrascoso la possibilità di una speranza che consentisse di attraversarlo senza dover necessariamente ricorrere alla violenza o senza essere travolti dalle circostanze. Egli intendeva tuttavia non fornire una speranza illusoria, quasi magica, come accadeva in altri romanzi (dove situazioni senza via di scampo si risolvevano, ad esempio, grazie ad una impensata eredità o per la morte accidentale di un intrigante), ma una speranza certa, come quella che lui stesso aveva trovato nella conversione, e che gli aveva consentito di uscire vittorioso dalle contraddizioni del Romanticismo e dell’Illuminismo.

Così il motore della storia, che, nelle opere tra la conversione e il romanzo, è ancora un Dio che si è rivelato agli uomini, ma che rimane in qualche modo distante da loro, qui diventa una presenza quotidiana, che interviene anche nei gesti meno apparentemente significativi della storia degli uomini. In linguaggio manzoniano si chiama Provvidenza.

A render certo il lettore di questa presenza misericordiosa, in un primo tempo era parso sufficiente a Manzoni lavorare sull’aspetto morale dei personaggi, sui quali è abbastanza agevole pronunciare un giudizio. Esistono figure positive, come quelle di Lucia o di padre Cristoforo e figure negative (i violenti o gli indifferenti) chiaramente contrapposte. La posizione morale dell’autore traspare quindi essenzialmente dalla posizione dei suoi personaggi.

Lo sviluppo ventennale della sua esperienza di uomo e di scrittore portò invece Manzoni ad acquisire la capacità di usare tinte meno decisamente contrapposte, parole e frasi in grado di rivelare anche i dettagli meno appariscenti dell’animo umano, di avanzare osservazioni che possono anche sfuggire ad una lettura affrettata, ma che non sono per questo meno importanti. Di far sentire, insomma, la sua voce per tutto il romanzo, come distesa per tutto è la presenza della Provvidenza nel mondo.

Per verificare se l’autore sia o meno riuscito nel proprio intento non ci resta, a questo punto, che affrontare (per la prima, la seconda, la centesima volta) il suo testo.

 

Il capitolo XXXI, così come il successivo XXXII, rievoca un tratto di storia patria più famoso che conosciuto, ricostruito dall’autore sulla scorta delle relazioni e dei documenti ufficiali dell’epoca. La cronaca, inframmezzata da numerosi episodi che conferiscono alla narrazione una forte evidenza visiva, rivela l’impronta del moralista oltre che dello storico, offrendo pagine di un genera narrativo assai vicino al moderno romanzo-saggio.

Il capitolo XXXI può essere suddiviso in due parti.

1.     Nella parte introduttiva il narratore dichiara  di  voler interrompere il filo della storia per passare al racconto degli avvenimenti principali riguardanti la peste scoppiata nel milanese e destinata a spopolare una buona  parte d'Italia. Avendo riscontrato nelle  testimonianze storiche omissioni, errori, confusioni di vario genere, egli si propone di trarre dalle memorie di quel disastro una serie concatenata  di  eventi,  esaminando  e  confrontando  il materiale informativo  e documentario  di cui  dispone.

La  digressione  non è t uttavia totalmente sganciata  dalla  storia  dei  protagonisti  del  romanzo. in quanto, come avverte il narratore, essa costituisce lo sfondo nel quale  verranno a  trovarsi i  nostri personaggi.

 

2.     La  seconda  parte  del  capitolo,  molto  più  estesa,  è  dedicata  al  racconto  di  come  si è diffuso   il   contagio   e  come   è  stato  progressivamente   recepito   dall'opinione pubblica.

Il critico e semiologo Umberto Eco sottolinea come tutta la vicenda possa essere ricondotta a successive falsificazioni di significanti e sostituzioni di significati. I primi segni della peste sono sconosciuti ai più e quindi indecifrabili; l’unica persona in grado di interpretarli è l’anziano protofisico Lodovico Settala, che aveva vissuto di persona la precedente peste, detta di San  Carlo. I messi, inviati a Lecco dal Tribunale della Sanità per raccogliere testimonianze, accolgono l'interpretazione di un barbiere ignorante, che, decifrando i sintomi secondo un codice menzognero, li attribuisce a generici e disparati effetti, quali emanazioni autunnali delle paludi  o disagi e strapazzi sofferti.

Di fronte a nuovi segni allarmanti, il timore  induce  la  popolazione  a  credere  alle  interpretazioni  più  strane:  la  penuria  dell'anno  precedente,  le  angherie  della  soldatesca ,  le  afflizioni d’animo. Neppure la campar a del primo bubbone, sintomo dal significato chiaro, viene “letta” in modo adeguato: il fatto è che pochi vedano e i più ne sentano parlare e la scarsità  dei decessi agiscono in senso contrario al riconoscimento del morbo, tanto più che i medici  insistono nell’attribuire, a sintomi evidenti,  nomi imprecisi  di comuni malattie.  Il segno visivo e naturale viene in questo caso coperto da un nome che ne impedisce il riconoscimento. Nella cecità generale “ci sono uomini che sanno ‘veder’ venire avanti il flagello. E sono marchiati col ·nome· di nemici della patria”. Intanto la morte di persone note contribuisce a rendere visibile ciò che già  era stato detto senza che se ne prendesse  atto. A questo  punto il tardivo intervento delle autorità, che ordinano  il  lugubre spettacolo del   carro della morte, rende pubblicamente evidente ciò che i più insistono a negare. Finalmente i sintomi della peste sono correttamente interpretati, “ma i maneggi della falsa coscienza si riproducono su un altro piano. Non potendo negare il male si cerca di occultarne le ragioni di contagio... Inizia la costruzione del mito degli untori” (Umberto Eco).

Alla fine del capitolo, il narratore stesso riassume le fasi di questo processo di falsificazione, quasi una peste, dei segni: In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi febbri pestilenziali... Poi, non vera peste;· vale a dire peste sì; ma in un certo senso... Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s'è attaccata un 'altra idea, l'idea del venefizio e del malefizio.


 da: Guida alla lettura dei capitoli XXXI e XXXII Dai percorsi di analisi testuale de I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni – a cura di Alberto Brasioli, Daria Carenzi, Clemi Acerbi, Franco Camisasca, ed. Atlas, 1994


 


Ripartire dal silenzio

     L'Osservatore Romano 16-04-2020 - Johnny Dotti

Cosa possiamo imparare da questi tempi difficili? Cosa è importante per una vera ripartenza? La coscienza della nostra fragilità ma anche la visione chiara dell’errore di affannarci a rincorrere le procedure, i processi, le analisi: non che queste non siano importanti, ma non possono essere l’unico sguardo sulla realtà. Abbiamo bisogno di recuperare le parole giuste, non superficiali, che aiutino a costruire relazioni.

Il silenzio, il vuoto, l’immobilità, la stessa sofferenza, piombata nelle vite di tutti gli uomini veramente come un ladro nella notte, sono ormai realtà quotidiane per ognuno di noi. A differenza però di molti di noi, Johnny Dotti, scrittore, pedagogista, imprenditore sociale e docente a contratto di Analisi e gestione di fenomeni sociali complessi presso l’Università cattolica di Milano, ritiene che la vera sfida, per il futuro, non sia trovare il sistema per superarle, queste scomode compagne, quanto essere capaci a non lasciarle andare via. Lui, bergamasco, il virus è stato costretto a guardarlo in faccia, in famiglia, mentre nella cittadina lombarda i lutti si sommavano ai lutti e la morte era, ed è ancora, una sorella piuttosto invadente. Indugiando colpevolmente negli stereotipi, si potrebbe dire che, da bravo bergamasco, Dotti sia un uomo animato da una sana idiosincrasia per gli orpelli, un amante della concretezza e con un malcelato gusto nello scardinare gli schemi. Insomma, uno di quegli intellettuali che normalmente vengono definiti scomodi. Almeno da chi ritiene che la vita sia, o debba essere, una comoda passeggiata fra le proprie, granitiche, certezze.

 

In questo tempo di grandi dubbi sembra che l’unico punto fermo sia il seguente: non saremo più gli stessi. Qualcuno comincia a pensare che sia già un luogo comune. Che ne dice?

Dico che non è un automatismo. Dico che questa situazione interpella profondamente la nostra libertà e la nostra responsabilità. Non c’è alcun automatismo in virtù del quale siccome c’è stato questo trauma, allora c’è una trasformazione. I traumi per trasformarsi in cambiamento, in cose nuove, hanno bisogno anzitutto di essere nominati, accolti, accettati. E poi hanno bisogno di essere interpretati. Mi sembra che i segnali che arrivano ancora adesso, mentre siamo in questo difficile momento, siano ambivalenti, come quasi tutte le cose della vita dell’uomo, per altro. Dipenderà da come la nostra libertà risponderà a queste sollecitazioni, a come sappiamo leggerle. Se si vede solo l’aumento della richiesta di sicurezza o un maggiore intervento delle autorità affinché ci garantiscano il futuro, è chiaro che andremo verso una regressione statalista da una parte e l’aumento della tecnica statalista dall’altra.

 

È la preoccupazione che comincia a farsi largo in molti... Intellettuali, analisti, politologi, fra questi, di recente, l'israeliano Yuval Noah Harari, mettono in guardia contro il pericolo che politici irresponsabili, che fino a ieri hanno screditato scienza, autorità pubbliche e mezzi di comunicazione, possano essere tentati di imboccare la strada dell’autoritarismo, sostenendo che non si può essere sicuri che i cittadini facciano la cosa giusta di fronte a un’emergenza come quella che stiamo attraversando, perché d’ora in poi vivremo con il pericolo che si ripeta...

Naturalmente non me lo auguro, ma è un’ipotesi possibile. È chiaro che se i confini dei continenti si richiuderanno andremo verso situazioni in cui bisognerà ripensare a mercati economici locali, nei quali paesi come l’Italia, per esempio, che vive di esportazioni, non so cosa potranno fare. Se lo chiede a me, io suggerirei, suggerisco a me stesso, a chi voglio bene, agli altri, di ripartire da ciò che ci sta dicendo la nostra interiorità, la nostra spiritualità. Io credo che la componente intellettuale, la componente sensibile, che ci aiutano a “dare le forme”, debbano farsi ispirare un po’ di più da quello che lo spirito ci dice di fronte a questi fatti, altrimenti temo che ciò che abbiamo appreso negli ultimi 300 anni continueremo a ripeterlo, per cui ci sarà una deriva tecnocratica, ci saranno forme di razionalismo esasperato, forme economiche sempre più fredde. Io non lavoro per questo. Perciò dico che oggi lavorare per il futuro significa mettersi nella condizione di generarlo, altrimenti le dichiarazioni ottimistiche sono un po’ da mago Otelma, con tutto il rispetto.

 

Il mondo si trova a sperimentare un gigantesco mea culpa, certamente ispirato dalla sofferenza e dalla paura ma non si sa ancora quanto onesto e fecondo. Definire ciò che dovremmo essere sembra francamente abbastanza facile. Ma sappiamo come diventarlo?

Intanto è emerso in maniera lampante che siamo fragili. Continuiamo ancora con gli stessi comportamenti, ancora nel XXI secolo, quando malgrado tutta la nostra potenza, i nostri grandi strumenti di comunicazione, l’uomo è fragile, io sono fragile, lei è fragile, la mia famiglia è fragile, l’Italia è fragile. Fino a ieri quello che abbiamo fatto è provare a riparare questa fragilità. Viviamo circondati da terapie: appena emerge un problema dobbiamo risolverlo. Questa non è più la strada. E riconoscere la fragilità, nelle mie parole da cattolico, significa “mutualizzarla”, incontrare l’altro, incontrare la fragilità dell’altro. La “soluzione” sta nella condivisione. Del resto, questo nella storia ha portato alla scoperta delle grandissime forme dell’economia: banalmente le cooperative, il misericordie, le banche popolari, le banche di credito cooperativo. Sono tutte forme di mutualizzazione del bisogno. La novità oggi sta nel fatto che dobbiamo mutualizzare bisogni diversi tra persone diverse. Però la domanda di fondo è questa: è la fragilità un principio per cui operare? Voglio dire: non perché sia evitata o superata, ma perché diventi generativa (perché è da lì che viene fuori la vita)? Io penso di sì, lavoro perché sia così. La tentazione diabolica di superare di nuovo la fragilità con la potenza è dietro l’angolo. La si vede già: troveremo un altro vaccino e saremo a posto; risistemeremo i conti pubblici e saremo a posto. Per carità, sono cose importanti, i vaccini e i conti pubblici. Ma non sono quelli che ci portano in una civiltà umana più piena, più bella, più giusta. Quella è la strada di prima. E la strada di prima porta a dove siamo adesso.

 

Siamo stati tutti proiettati in una dimensione ristretta, nella quale l’orizzonte che si presenta davanti ai nostri occhi non va al di là spesso di una finestra, di un cortile. Per contrappasso siamo esortati, quasi condannati, a ridisegnare l’avvenire. Con quali strumenti?

Faccio un esempio: un’altra grande evidenza di oggi è la solitudine. La solitudine è un valore: non è una cosa da evitare. Il problema semmai è che non diventi isolamento. Affinché sia un valore però serve la capacità di vivere un viaggio e un mondo interiore. Lo dico con parole mie, visto che mi sono interessato molto a san Giuseppe: serve vivere il mondo invisibile, che è tanto reale quanto quello visibile. L’invisibile è una dimensione fondamentale della realtà. La solitudine del resto è un riconoscimento dell’altro. Se non sapessi che c’è un prossimo, non ti potresti definire “solo”. Ora, fino a ieri questa benedetta solitudine è stata completamente allontanata. Tutti siamo scappati dalla solitudine. Abbiamo cercato un mondo di emozioni, di consumi, facendo finta che non esista. Questo è il principio di base per rimodellare forme comunitarie, di relazione con gli altri. Se non si fa questo torneremo tutti a correre come dei criceti dentro lo gabbia, che è quello che abbiamo fatto finora.

 

Una gabbia molto tecnologica...

Noi abbiamo vissuto, in particolare ultimamente, in un tempo binario. Il mondo digitale è molto bello, molto interessante. Ma ha un grande limite: è 0 e 1. E ha un bisogno costante di essere riempito. Aborre il silenzio. Il vuoto invece è un vuoto costitutivo, insieme al silenzio, per dare forma alla vita. Perché le parole vengono dal silenzio e tornano al silenzio. Non c’è parola feconda che non viene dal silenzio. Se lei sta di fronte alla mamma o a un amico che sta morendo, il suo silenzio rende profonde le sue parole, anzi invita anche al suo silenzio. La stessa cosa negli amanti, che generalmente sussurrano. La parola ha una dimensione profondissima col silenzio. È vero che nel Vangelo c’è scritto che in principio era il Logos. Ma “il” principio non era il logos, era il silenzio. Questo ci dà delle indicazioni sociali? Delle indicazioni politiche? Delle indicazioni economiche? Assolutamente sì. Banalmente, bisogna dare peso alle parole. Le parole non sono termini che indicano qualcosa, le parole hanno il potere di far nascere e uccidere le cose. Pensi cosa vuole dire questo nella politica, pensi nella relazione con i figli, con le persone cui si vuol bene. Recuperare il silenzio nelle relazioni umane vuol dire recuperare la parola. Questo è un invito enorme che ci viene oggi dalla realtà, da tutta questa morte che ci circonda.

 

Le immagini delle strade vuote, delle piazze deserte, sono bellissime per un verso ma dall'altro comunicano più di ogni altra cosa il senso del nostro fallimento. Eppure, nonostante i divieti, cominciano di nuovo a girare immagini di persone che si assembrano nei viali consueti dello shopping, nei mercati all’aperto. È un insopprimibile bisogno di socialità o un incontrollabile terrore del vuoto?

Noi abbiamo giocato a riempire tutto. Il consumo compulsivo cui siamo stati allenati negli ultimi cinquanta anni, non è stato altro che una grande fuga dal vuoto. Noi non lo reggiamo, il vuoto. Abbiamo bisogno di riempirlo costantemente. Questo tempo ci chiede invece di attraversarlo, di farcene attraversare. L’immagine del Papa nella piazza San Pietro deserta è un’immagine forte perché trasmette il coraggio di attraversare il vuoto della vita. Le forme sociali, le forme umane, le forme affettive, nascono tutte dal vuoto. Il desiderio non si accende se non c’è il vuoto. Le stelle non riesco a vederle, se c’è di mezzo il fumo, devo avere un cielo sgombro, devo essere al buio. Questo dice tante cose, sui tempi del lavoro, sui tempi del riposo, sui tempi della meditazione, sui tempi che non sempre devono essere vissuti di corsa, accelerati, quando ogni tanto bisogna andare più lenti. Vede... vuoto, silenzio e solitudine sono forme dell’”abitare”. Se lei vive in un “alloggio” è evidente che non può vivere nel vuoto, nel silenzio, nella solitudine: impazzisce. “Alloggio” è una parola che abbiamo preso e applicato artificialmente alle case per gli uomini. Fino al secolo scorso si usava per i soldati e per gli animali. Non ci può essere un “alloggio” per una famiglia. Ci deve essere una “casa”, che contempli degli spazi, delle relazioni, che contempli un dentro e un fuori. Lo stesso vale per il termine “appartamento”, che viene dalla tradizione imperiale portoghese e francese. Ma gli appartamenti in quel caso stavano dentro alle regge. La casa invece non è un appartamento e non è un alloggio: è il luogo e il tempo in cui le nostre relazioni fioriscono perché sono custodite come in un nido ma crescono perché vengono messe dentro una rete. Perché la casa, come la famiglia, è contemporaneamente un nido e una rete. I nostri paesi, un tempo, erano costruiti rispondendo a questo concetto: la piazza, i vicini, le case da ringhiera, le cascine. Guardi, le cose che sto dicendo sono assolutamente “tradizionali”. Ma non hanno a che fare con l’antiquariato, hanno a che fare con il passaggio di un principio. Ora noi dobbiamo consegnare questi principi, trasformati, alle nuove generazioni. Ma senza interiorità non riusciremo a farlo. Dico una cosa in più: negli ultimi anni si è fatta confusione tra beni pubblici e beni comuni. I beni comuni non sono beni pubblici. Per questo io temo una statalizzazione. Dire che la nostra vita è legata a quella degli altri non vuol dire tornare a immaginare uno stato alla Hobbes, che impone le proprie leggi a tutti con la forza e la violenza. Significa fare un passo avanti in senso democratico. I beni comuni, il welfare, la sanità, la scuola, sono beni di tutti. Le forme per dargli vita, perché tutti ne partecipino, non sono per forza la fiscalità generale, la burocrazia, le leggi. Sono anche forme di autorganizzazione, di autolimitazione del profitto, di generazione e distribuzione del valore dentro la libertà. Bisognerebbe riprendere don Sturzo, quello che diceva a cavallo della Grande guerra e dell’epidemia di spagnola (guarda caso), così come noi siamo fra la grande crisi economica del 2007 e ora la pandemia. Per questo le parole contano. Invece a volte siamo un po’ banali, superficiali. Vale anche per me, naturalmente...

 

Riflessioni che dovrebbero fare parte da sempre del patrimonio intellettuale di un cattolico...

I cattolici sono indietro: da molti anni sembra non siano in grado di generare più nulla; sono completamente appiattiti sulla legislazione, quando va bene, e dall’altra parte sulla conquista del potere. Quella non è la storia cattolica. Dicevano i padri della Chiesa: fermati e arriverai prima. Questo non vuol dire non impegnarsi. Ma c’è una bella differenza tra il produttivismo e il generare. Generare è una postura che richiede il desiderio di mettere al mondo, richiede il prendersi cura. E il lasciare andare ciò di cui ti sei preso cura. Il produttivismo, che è quello che determina la nostra incapacità a stare fermi, spinge a moltiplicare indefinitamente le cose, ha a che fare con il nichilismo. Certo non con la salvezza, che invece ha a che fare con la pienezza della vita.

 

Ricorda da vicino la dicotomia produrre-consumare...

Un’altra dicotomia binaria. Per un trinitario come me, gli ultimi 30 anni sono stati un disastro. Non possiamo continuare a produrre per consumare. Io credo al generare: cosa vuole dire questo nelle forme economiche, nelle forme sociali, nell’educazione? Io spero che andremo oltre il tempo dello studio e del lavoro. C’è un tempo in cui si studia, si studia, si studia... E poi c’è un tempo in cui si lavora. Questa non è la nostra tradizione. Prima che scoppiasse l’epidemia, ho avuto la fortuna di vedere una mostra su Raffaello. Raffaello muore a 32 anni e non è che prima si è messo a studiare e poi ha fatto quello che ha fatto. Caravaggio, che è nato dalle mie parti: non è che prima ha studiato e poi si è messo a fare il Caravaggio. Michelangelo. Leonardo. Vado avanti? Lucio Dalla. L’idea che prima studi così poi troverai lavoro la trovo un’idea idiota. Vale fino all’università, mondo di cui tra l’altro anche io faccio parte. Questo tempo non ci dice di riconnettere le cose, non ci richiama al simbolo. Certo, bisogna sempre studiare, durante tutta la vita. Ed è importantissimo avere un tempo particolarmente dedicato allo studio. Ma non si può far andare avanti i ragazzi fino a 25 anni. È una follia. A proposito di perversioni sociali: in Italia si esce di casa a 34 anni, le sembra normale? E perché non si esce? Perché la casa è stata un “appartamento”, perché siamo ossessionati dalla certezza e dalla sicurezza. Però vede, questo tempo è ambivalente: ci può spingere ad usare forme più profonde, più umane, o ci spingerà a rinchiuderci di più, perché la paura fa l’effetto contrario.

 

Personalmente, cosa le sta insegnando questa emergenza?

La dico così: mi è apparso più evidente che se non includo la morte nella mia vita non vivrò. Che non posso rimuoverla. E che se voglio chiamarla sorella, la morte, devo trovarci un senso profondo. La morte sfida la mia vita. Ma non nel senso di vittoria o sconfitta: o diventi di più quello che sei o lo diventi meno. Poi un’altra cosa. Io vivo in una piccola comunità di famiglie: ringrazio Dio di aver visto i figli reagire con intelligenza. Ho imparato che i ragazzi hanno molto, dentro il cuore, se sono sfidati da cose grandi. I miei tre figli, il quarto non vive con noi, hanno reagito molto bene. Questo mi ha dato molta fiducia. Non sono degli “sdraiati”, ecco. Li ho visti far da mangiare, darsi da fare per la madre che stava male, darsi da fare per gli altri, pulire, andare a fare la legna, usare l’ironia. Cerco di volere molto bene alle nuove generazioni... forse anche perché c’è molta gente che ha voluto bene a me quando ero piccolo. Bisogna avere il coraggio di sfidarli i giovani, perché la vita è un dramma che ti sfida. Per questo mi arrabbio quando vedo sistemi educativi binari che separano il tempo della responsabilità dal tempo dell’apprendimento. È un errore enorme.

 

E il più grande errore del “vecchio mondo”, ammesso che ce ne sarà uno nuovo?

L’aver separato il visibile dall’invisibile e l’aver separato il tempo dall’eternità. L’uomo è un essere tempiterno e la realtà è fatta di visibile e invisibile. Io sono stupito dai miei fratelli credenti. Noi questo nel “Credo” lo diciamo ma non sappiamo quello che diciamo. Non diciamo “creatore di tutte le cose visibili e invisibili”? Ma noi non ci crediamo più. Crediamo che le cose invisibili siano quelle che prima o poi al microscopio diventeranno visibili. Ma non è così. Il grande peccato da cui proveniamo è la separazione.

Diavolo, “diaballo”, vuol dire separatore. Symballo vuol dire ciò che unisce. Noi abbiamo bisogno di azioni simboliche, di pensieri simbolici, di parole simboliche. La parola “simbolo” oggi è rubricata come “significato”, “segno”. Invece il simbolo è vivente. La parola è simbolica, l’azione è simbolica. Abbiamo bisogno di azioni politiche simboliche, di azioni economiche simboliche, di azioni spirituali simboliche, di azioni culturali, simboliche. Qui siamo molto miseri, molto scoperti. Corriamo dietro alle procedure, ai processi, all’analisi. Questo è il grande peccato. Non perché le procedure, i processi e le analisi non siano importanti, ma non possono essere l’unico sguardo sulla realtà.

 

Abbiamo sentito tanti discorsi, tante dichiarazioni, tante storie, in queste ultime settimane. C’è una frase che l’ha colpita di più, negativamente e positivamente?

“La scienza ci salverà”: la trovo una frase idolatrica, stupida, contro la stessa scienza. La scienza è un metodo di osservazione della realtà. Invece la stiamo facendo diventare “la” verità. Lo trovo un grande errore. Tra l’altro con interessi enormi dietro, perché è chiaro ormai che si parla di tecnoscienza e di tecnoscienza business. Il grande dramma in Lombardia è stato questo. La politica sanitaria che è stata fatta nei ultimi 35 anni in maniera assurda, lasciando tutti i territori scoperti, ha portato dalle mie parti, a Bergamo, a migliaia di morti, dico migliaia, almeno il triplo di quelli dichiarati. Quanto accaduto è conseguenza della centralizzazione delle operazioni tecniche, che consente grandi affari. La frase invece che mi ha colpito di più in positivo è quella legata a una fotografia che veniva da un vicolo di Napoli, nella quale c’era un cestino appeso con un foglio, dove c’era scritto: “Chi può metta, chi non può prenda”. In questa semplice affermazione popolare c’è quasi tutto. C’è il mistero della bellezza di chi siamo e di quello che possiamo essere.

La paura è la maestra che ci insegna a cambiare le cose

la Repubblica, 18-03-2020. Gianrico Carofiglio

La riflessione dello scrittore su ciò che il ritiro forzato di questo periodo ci sta insegnando. “Imparare è il rimedio per tutti noi”

Parlare di cosa si può apprendere da quello che stiamo vivendo implica l'altissimo rischio di avventurarsi - e magari perdersi - nel territorio di una retorica mediocre sui buoni sentimenti e sui buoni propositi.

Non sono sicuro di sapermi sottrarre a questo rischio: esserne consapevoli non è quasi mai sufficiente a eluderne la vischiosa seduzione. Con questa premessa, credo che quanto sta accadendo potrebbe insegnarci alcune cose decisive. Fra queste: una diversa comprensione della paura, dell'errore e dei loro risvolti etici.

Cominciamo con la paura. Essa è in primo luogo quella personale; la percezione della possibilità di ammalarci, di soffrire, addirittura di morire. Non è la forma più interessante e sicuramente non è la più istruttiva per una riflessione sui significati. Ma quella che stiamo sperimentando in questi giorni è anche, se non soprattutto, una paura di comunità: la vita cui eravamo abituati e che davamo per scontata, potrebbe non essere più la stessa, anche dopo la fase acuta dell'emergenza. È una paura, in un certo senso, da fine del mondo, per come l'abbiamo conosciuto finora. Una paura che ci mette in contatto non solo con la nostra fragilità individuale, ma anche con quella collettiva, con una malinconia profonda, con la tristezza, con il senso della perdita. Il lutto. Tutte cose che possiamo rifiutare, rimuovere (come facciamo spesso) anche se poi - prima o dopo - riappaiono a presentare il conto. Oppure possiamo accettarle, integrarle come parte attiva di noi. Trasformarle in energia vitale.

La paura va riconosciuta e usata; bisogna trasformarla in strumento di lavoro per cambiare le cose - anche e soprattutto fuori dalle crisi - e non lasciare che diventi una malattia occulta dell'anima individuale e collettiva, che degeneri in una forza incontrollabile e distruttrice. Peggiore delle epidemie del corpo. In questo senso verrebbe da dire: è necessario coglierne la fondamentale implicazione etica e la grande attitudine trasformativa.

Poi c'è il tema dell'errore: la nostra difficoltà ad ammetterlo e la nostra difficoltà a convivere apertamente con esso. In molti - io per primo - abbiamo detto cose sbagliate, a volte stupide, dall'inizio della crisi. Le affermazioni sbagliate o anche stupide dipendono da molte ragioni. Nel caso specifico, fra l'altro, dalla difficoltà, per i non addetti ai lavori, a comprendere e maneggiare concetti non intuitivi come quello di crescita esponenziale.

Esiste però un tema generale. Riguarda il nostro bisogno quasi compulsivo di esprimerci su tutto; anche prima di avere gli elementi per farlo senza rischiare di dire o scrivere sciocchezze. Se guardo indietro, nel passato remoto, o in quello recente quando questa vicenda era già cominciata, i miei comportamenti più stupidi sono consistiti nell'esprimere un'opinione quando avrei fatto bene a non parlare o a non scrivere. Meglio ancora: quando avrei fatto bene a non avere nessuna opinione, in mancanza di conoscenze sufficienti. Quando avrei fatto bene a stare nell'incertezza consapevole e vigile, invece di praticare un'inconsapevole improntitudine.

Credo che questo me lo ricorderò e credo che questo sarebbe bene ricordarlo tutti. Mi viene naturale concludere queste riflessioni citando un brano di T.H. White, autore di una serie di romanzi di enorme successo sul mito di Re Artù. “Il rimedio migliore quando si è tristi - replicò Merlino, cominciando ad aspirare e a mandar fuori boccate di fumo - è imparare qualcosa. È l'unico che sia sempre efficace. Invecchi e ti tremano mani e gambe, non dormi alla notte per ascoltare il subbuglio che hai nelle vene, hai nostalgia del tuo unico amore, vedi il mondo che ti circonda devastato da pazzi malvagi, oppure sai che nelle cloache mentali di gente ignobile il tuo onore viene calpestato. In tutti questi casi, vi è una sola cosa da fare: imparare. È l'unica cosa che la mente non riesce mai ad esaurire, da cui non si lascia mai torturare, che mai teme o di cui mai diffida, di cui mai si pente. Imparare è il rimedio per te”.

Imparare è il rimedio per tutti noi.

 L'uomo moderno davanti alla paura

   IL FOGLIO 06-03-2020, card. Angelo Scola 

Un sentimento che dilaga, invade le nostre conversazioni, i nostri rapporti, i nostri cuori. Anche noi, come il Renzo di Manzoni, siamo impauriti dalla nostra stessa paura. Con quale diga possiamo fermarla? Una risposta

Renzo "atterrito, più che di ogni altra cosa, del suo terrore, richiamò al cuore gli antichi spiriti, e gli comandò che reggesse" (I promessi sposi, capitolo ventisettesimo).

Questa potente osservazione del Manzoni sul violento contrasto che si agita in Renzo in fuga da Milano verso la bergamasca nella traversata notturna del bosco, interpreta i sentimenti di smarrimento, paura e panico che stanno afferrando tutti noi. Anche noi siamo atterriti più che dal coronavirus in se stesso dalla nostra umanissima paura. E' come se questo sentimento avesse perso il suo oggetto per assumere una sorta di valore assoluto. Forse vi ha contribuito il continuo oscillare dell'informazione tra minimizzazione e allarmismo. Conviene però subito dire che la paura può e deve essere vinta, proprio facendo tesoro dell'indicazione manzoniana "e comandò al cuore che reggesse". L'elenco doloroso e puntuale degli effetti del coronavirus, le ordinanze con le inevitabili restrizioni, gli accurati consigli per prevenire il contagio o per affrontarlo in modo efficace, la compassione per quanti muoiono non certo sminuibile a causa dell'età... cui la paura si lega, ora non la circoscrivono più. Essa se ne va come un cavallo di razza, indomabile, a briglia sciolta, espressione impalpabile ma ostinata del contagio che ci minaccia. Certo, questa minaccia incontra altre strade per tenerci sotto scacco. La più imponente è quella delle conseguenze economiche senza dubbio rilevanti. Eppure nemmeno questo oggetto che, subito dopo il primo, va affrontato con pronta serietà e rigore, riesce a dar ragione della nostra paura. Essa dilaga in totale autonomia invadendo le nostre conversazioni, i nostri ristretti rapporti e, per finire, i nostri cuori. Anche noi, come Renzo, siamo impauriti dalla nostra stessa paura. Con quale diga fermarla?

Con la forza di un soggetto, personale e comunitario, che comandi al cuore di reggere. Ma, per eseguire questo comando che viene anzitutto dall'interno di noi stessi, è necessario trovare la giusta risorsa. Anzitutto riconoscendo un grave limite che l'attuale cambiamento d'epoca mette in risalto ma la cui radice risale all'inizio dell'epoca moderna. Mi riferisco alla rimozione del soggetto. Questa circostanza straordinaria può essere affrontata solo riportandola al soggetto che la sta vivendo, secondo le varie modalità con cui gli tocca viverla. Da tutti noi, più o meno a rischio di contagio, ai malati, allo strenuamente dedito personale sanitario e a quanti altri sono direttamente coinvolti nell'impresa di porre fine all'epidemia. Per rapportarmi in modo adeguato a questa circostanza devo rispondere alla domanda "chi sono io?". E l'io è sempre in relazione. Soprattutto quando la vita è minacciata non si può eludere l'invito di Seneca a Lucilio: "Devi vivere per un altro, se vuoi vivere per te stesso". Dobbiamo riannodarci, nel rispetto delle nuove forme culturali, al fattore portante della grande tradizione europea: il rapporto con noi stessi, con gli altri e con Dio. Lo si riconosca o meno ciò fa parte della nostra comune esperienza. In una parola non possiamo più evitare la questione del senso: per chi io vivo? E quale direzione intendo dare al mio cammino terreno? A rendere ineludibili queste domande non è solo la naturale compassione umana che urge a stringerci insieme nei momenti minacciosi, ma è il bene sociale del vivere insieme. Anche all'interno di una società plurale come la nostra questo criterio pratico è l'unico in grado di ricondurre entro limiti razionali smarrimento, paura e panico. Il criterio pratico del vivere insieme dev'essere però assunto come criterio politico in senso pieno, e perciò largo, che sappia coinvolgere cittadini, corpi intermedi e istituzioni. Per vincere la paura abbiamo bisogno di una rimobilitazione generale di questi soggetti.

Non possiamo qui sottacere il compito dei politici in senso stretto. Il nostro è un tempo in cui nella pratica e nella teoria dovremmo saperci ridire che cos'è l'esperienza politica (la res publica), un interrogativo su cui i più grandi geni della nostra cultura si sono chinati. In modo poi specialissimo è decisivo che i politici pratichino una concezione adeguata di governo. Già Platone stabiliva un'interessante analogia tra il politico e il tessitore che per ottenere una stoffa liscia ma resistente "deve essere capace di intrecciare un solido ordito con una tenera trama", al fine di comporre "gli opposti pareri, le opposte opinioni". L'aristotelica filia (amicizia civica) torna di grande attualità.