MARTA RONDI
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HISTORY
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Lucrezio, De rerum natura, III, 933-949
"CHE COSA, O MORTALE, TI PREME TANTO CHE INDULGI OLTREMISURA
A PENOSI LAMENTI? PERCHÉ PER LA MORTE TI AFFLIGGI E PIANGI?
INFATTI, SE TI È STATA GRADITA LA VITA CHE HAI TRASCORSA PRIMA,
NÉ TUTTI I SUOI BENI, COME ACCUMULATI IN UN VASO BUCATO,
SONO FLUITI VIA E SI SONO DILEGUATI SENZA CHE NE GODESSI,
PERCHÉ NON TI RITIRI, COME UN CONVITATO SAZIO DELLA VITA,
E NON PRENDI, O STOLTO, DI BUON ANIMO, UN RIPOSO SICURO?
MA SE TUTTI I GODIMENTI CHE TI SONO STATI OFFERTI, SONO STATI DISSIPATI
E PERDUTI, E LA VITA TI È IN ODIO, PERCHÉ CERCHI DI AGGIUNGERE ANCORA
QUELLO CHE DI NUOVO ANDRÀ MALAMENTE PERDUTO E TUTTO SVANIRÀ
SENZA PROFITTO? PERCHÉ NON PONI PIUTTOSTO FINE ALLA VITA E AL TRAVAGLIO?
INFATTI NON C'È PIÙ NULLA CHE IO POSSA ESCOGITARE E SCOPRIRE
PER TE, CHE TI PIACCIA: TUTTE LE COSE SONO SEMPRE UGUALI.
SE IL TUO CORPO NON È ANCORA SFATTO DAGLI ANNI, NÉ LE MEMBRA
STREMATE LANGUISCONO, TUTTAVIA TUTTE LE COSE RESTANO UGUALI,
ANCHE SE TU DOVESSI VINCERE, CONTINUANDO A VIVERE,
TUTTE LE ETÀ, ANZI PERFINO SE TU NON DOVESSI MORIRE MAI"...
(vedi testo integrale)
HISTORIĒS APODEXIS
AND GNOSIS
ARE DEEPLY-ROOTED
IN KNOWLEDGE SHARING
ARCHAEOLOGY IS THE PASSION FOR THE ORIGINS OF MAN AND THE HISTORY OF CIVILIZATION
NELLE MANI
È nelle mani dei Ciclopi
(…τοῖς ἴκελοι, ricordalo)
(…τοῖς ἴκελοι, loro invece)
Che la nostra Grecia
Non per breve tempo
Moltiplica figli e figlie
Felici o infelici
Crederesti sorti dalla pietra pura
Di storie
Mai secche né ingessate
Tra i muri avvolgenti
Dita a dita,
Anche quando manca lo spago
E il fil di ferro
I bambini lo raggomitolano
Intorno al chiodo
Della nostalgia.
Ab Ameria condita
L’erudito Plinio Il Vecchio riteneva Amelia fondata dodici secoli prima dell’avvento di Cristo ad opera del mitico re Ameroe, nel solco di quanto affermato dall’uomo politico repubblicano Catone il Censore, il quale nel II sec. a. C. aveva indicato come verosimile data di fondazione del centro umbro il 1134. L’archeologia, d’altro canto, tende a spostare la cronologia della nascita del primo nucleo insediativo di tipo sparso diversi secoli prima, nell’alveo temporale della media età del Bronzo (2000-1550 a. C.), registrando una continuità insediativa esprimentesi in cultura materiale uniforme fino alla piena età arcaica. Durante l’arcaismo il centro di Amelia (in strategica posizione di controllo viario e fluviale tra l’Etruria centrale e l’Umbria meridionale), sviluppando reti commerciali nei territori contermini, assorbì influssi culturali e artistici dalle popolazioni etrusche, falische e laziali. La romanizzazione progressivamente subita tra IV e III sec. a. C. (la ratifica di un foedus con Roma dovette cadere agli albori del III sec. a. C.) si tradusse nell’apertura della Via Amerina (via publica) e nella monumentalizzazione del primigenio circuito murario (opera degli Umbri), successiva all’ampliamento dell’area urbana avvenuto per la deduzione di coloni viritani. È dalle antiche mura cosiddette ciclopiche o pelasgiche — nel corso delle epoche storiche restaurate, abbattute, fortificate, riutilizzate, e riconducibili nel loro impianto originario di VI-IV sec. a. C. alla mano degli Umbri — che partiamo concettualmente per tracciare il perimetro del mosaico storico-monumentale da ricomporre, per via ecfrastica e per via autoptica, tramite il paziente incastro di tutti i necessari frammenti urbani.
CHIESA DI SAN FRANCESCO AD AMELIA
La Chiesa, costruita e terminata entro il 1291, fu consacrata in origine ai Santi Filippo e Giacomo. Solo successivamente essa fu dedicata a San Francesco di Assisi. La facciata fu realizzata da maestri amerini, tuderti e aquilani, riutilizzando probabilmente travertino riconducibile a un sepolcro piramidale romano. Di originale fattura il rosone articolato in un doppio registro e gli archetti trilobati che corrono appena sotto il tetto del tipo a capanna. Accanto alla Chiesa si trova il campanile: opera di maestri lombardi, fu ricostruito poco più di un secolo fa, a seguito dei danni causati da un terremoto pochi anni prima. All’interno della Chiesa, testimoni dell’origine medievale dell’edificio sono alcuni affreschi situati in un vano nei pressi dell’ingresso e il coro ligneo. Gli altri apparati decorativi dello spazio sacro sono stati riadattati nel Settecento al linguaggio barocco: esempio calzante è il ciclo pittorico a opera del perugino Monotti che orna il presbiterio triabsidato. Degna di lunga sosta è la cappella Giraldini, accessibile dalla destra della navata: dedicata a Sant’Antonio da Padova (predicatore e dottore della Chiesa francescano), essa custodisce il sepolcro di Matteo ed Elisabetta Giraldini, capolavoro rinascimentale di Agostino di Duccio, il quale negli angeli ai lati del Santo padovano traduce la purezza spirituale di tali creature in linee mobili tra il visibile e l’invisibile, come quelle di una nube primaverile impalpabilmente smarginata. Nella medesima cappella sono presenti anche i sepolcri di Camillo, Belisario e Geronimo Geraldini, riferibili alla bottega del Bregno, mentre a un suo allievo, il Capponi, si attribuisce la tomba di Angelo Geraldini.
San Francesco, tra i più celebri fondatori di ordini monastici insieme a Sant’Agostino, San Benedetto e San Domenico, ha ricevuto un ritratto di elevatissimo valore artistico nel Paradiso dantesco (canto XI). L’assisiate Francesco – Alter Christus, che sorge da oriente quale Nuovo Sole, è presentato da Dante nell’eminenza della sua energia profetica e nell’interiore letizia per la quale si è consacrato alla Povertà, divenendo poverel disadorno ed eroico ad un tempo.
Ieu sui Arnautz qu’amas l'aura
e chatz la lebre ab lo bou
e nadi contra suberna.
Canso do'ill mot son plan e prim
fas pus era botono'ill vim,
e l'aussor sim
son de color
de maintha flor,
e verdeia fuelha,
e'ill chan e'ill bralh
sono a l'ombralh
dels auzels per la bruelha.
II. Pels bruelhs aug lo chan e'l refrim
e per qu'om no m'en fassa crim
obre e lim
motz de valor
ab art d'Amor
don non ai cor que'm tuelha;
ans, si be'm falh,
la sec a tralh,
on plus vas mi s'orguelha.
III. Re no val orguelh d'amador
qu'ades trabuca son senhor
del luec aussor
bas el terralh
per tal trebalh
que de joi lo despuelha:
dreitz es lacrim
e ard'e rim
se quel d'amor janguelha.
IV. Ges per janguelh no vau allor,
bona dona, ves cui ador,
mas per paor
del devinalh
don jois trassalh
fauc semblan que no'us vuelha,
qu'anc no'ns jauzim
de lur noirim:
mal m'es que lor o cuelha.
V. Si ben vauc per tot ab esdalh,
mos pessamens lai vos assalh,
qu'ieu chan e valh
pel joi que'ns fim
lai o'ns partim,
don soven l'uelh me muelha
d'ir e de plor
e de dussour,
car pro ai d'Amor que'm duelha.
VI. Ar ai fam d'amor don badalh
e non sec mezura ni talh;
sols m'o engualh
qu'anc non auzim
del temps Caim
amador mens acuelha
cor trichador
ni bauzador;
per que mos jois capduelha.
VII. Dona qui qu'es destuelha,
Arnautz drech cor
lai o'us honor,
quar vostre pretz capduelha.
Una canzone le cui parole sono semplici e elette
faccio ora che germogliano i salici
e le più alte cime
hanno il colore
di molti fiori
e verdeggia la foglia
e canti e richiami
degli uccelli risuonano
nell’ombra del bosco.
Per i boschi odo il canto e il cinguettio
e così che non me ne faccia rimprovero
lavoro e limo
parole di valore
con arte d’Amore,
dal quale non ho cuore di staccarmi:
anzi, quando più mi sdegna,
ne seguo l’orma
quanto più si mostra altero verso di me.
Non vale nulla alterezza d’amante
che sempre fa cadere il suo signore
dal luogo più alto
giù a terra,
con tale tormento
che di gioia lo spoglia;
giusto è che pianga
e arda e bruci
colui che d’Amore si beffa.
Non è per disdegno che mi volgo altrove,
donna gentile che adoro,
ma per timore
degli indiscreti,
per cui il “joi” trema,
faccio finta di non volervi,
perché mai godemmo
del loro (nostro?) godimento:
non mi piace raccoglierlo per loro.
Ovunque vada vagando,
là dove siete il mio pensiero vi assale,
perché io canto e valgo
per la gioia che ci demmo
quando ci separammo,
per cui spesso l’occhio mi si bagna
di tristezza e di rimpianto
e di dolcezza,
perché ho abbastanza di che dolermi d’Amore.
Ora ho fame d’Amore per cui sbadiglio
e non segno misura né regola:
solo mi compensa il fatto
che mai udimmo,
dal tempo di Caino,
amante (come me) che meno abbia
cuore falso
e bugiardo;
perciò la mia gioia è al colmo.
Donna, altri si sbandino,
Arnaut corre dritto
Là dove dimora l’onore
Perché il vostro valore svetta in alto.
MUSEO CIVICO ARCHEOLOGICO E PINACOTECA DI AMELIA
Nel convento francescano contiguo alla Chiesa di San Francesco, divenuto Collegio Boccarini dopo l’Unità d’Italia, dal 2001 sono ospitati biblioteca civica, archivio comunale, museo archeologico e pinacoteca. La sezione archeologica offre un’ampia prospettiva storica sull’evoluzione della civiltà ad Ameria dall’età protostorica al Medioevo inoltrato. Degni di nota sono i capitelli figurati, il ritratto di Livia degli inizi del I sec. d. C., il Leone funerario e le Casse e i Coperchi di urna di prima età imperiale, la statua femminile tipo Pudicitia di fine età repubblicana, il Togato di fine I sec. a. C., il rilievo datato all’età imperiale con rigoglio di rami d’ulivo, nonché la vasta documentazione, situata al piano terra, proveniente dalla Necropoli dell’Ex-Consorzio Agrario, che offre materiali di corredo lungo un arco temporale esteso tra il IV e il II sec. a. C. Straordinaria è la statua del grande condottiero e poeta romano, Germanico, figlio adottivo di Tiberio, dunque nipote di Augusto, scomparso prematuramente in Siria, il cui nome alla nascita era Nerone Claudio Druso, cognominato Germanico in virtù dei successi mietuti dal padre in Germania. Della sua morte, il grande storico di rango senatorio Tacito, negli Annali, riporta le seguenti considerazioni.
Non è sufficientemente provato che sul suo corpo, che prima della cremazione era stato esposto nudo nel foro di Antiochia, luogo destinato alla sepoltura, fossero visibili i segni del veleno: poiché si interpretavano in modo diverso da chi, mosso da pietà verso Germanico, nutriva sospetti e prevenzioni da chi invece era incline a favore di Pisone… Furono proposte, e decretate, onoranze, da ciascuno a seconda del suo amore per Germanico e l'inventiva: che il suo nome fosse cantato nei carmi Saliari, che si stabilisse per lui una sedia curule con sopra una corona di quercia nei luoghi riserbati ai sacerdoti augustali; che la sua immagine in avorio precedesse la processione nei ludi circensi e che nessuno prendesse il posto di Germanico come flàmine o àugure, se non appartenente alla famiglia Giulia. Che fossero eretti archi a Roma e su la riva del Reno e sul monte Amano in Siria, recanti iscritte le sue gesta e che aveva dato la vita per lo Stato; un cenotafio ad Antiochia, nel luogo dove era stato cremato il suo corpo e un monumento a Epidafne, il luogo dove s'era spento.
Tacito guardava con benevolenza alla personalità di Germanico, contrapposto nelle sue virtù a Tiberio, subdolo e ipocrita tanto nella sfera privata che in quella pubblica.
Nel popolo romano durava viva la memoria di Druso e si riteneva che se fosse stato lui a capo dello Stato avrebbe ristabilito la libertà; di qui le simpatie verso Germanico e la stessa speranza. Il giovane infatti possedeva un carattere mite, una straordinaria affabilità, tutt'altra cosa dall'aspetto e dal parlare di Tiberio, superbo e impenetrabile.
Di dimensioni superiori al vero, la statua in bronzo di Germanico, rinvenuta in frammenti ad Amelia nel 1963, è verosimile svettasse in età romana nello spazio fuori delle mura adibito all’istruzione ginnica e militare dei giovani.
Al secondo piano del Museo è ospitata la Pinacoteca, la quale raccoglie pregevoli opere di Livio Agresti, Giacinto Gimignani e degli allievi di Sebastiano Conca. Tuttavia, l’opera più meritevole di contemplazione è la tavola (riferibile al periodo immediatamente successivo al 1475 e in origine posta sull’altare della chiesa di San Giovanni Battista) che raffigura Sant’Antonio Abate (eremita fondatore del monachesimo) per opera di Piermatteo d’Amelia, zelantissimo pittore umbro maturato nella bottega di Filippo Lippi sino a divenire protagonista della scena artistica italiana nel secondo Quattrocento. Se volessimo assumere la prospettiva estetica goethiana per la quale «ciascun momento, ciascun attimo è di un valore infinito, poiché esso è il rappresentante di tutta un’eternità», il particolare del volto del Santo eremita, solennemente ieratico, quasi in metamorfosi iconica, svela nel suo contrappunto con le delicate sfumature materiche del panneggio, lo scarto tra loneliness emarginante e solitude verticalmente introspettiva, schiusa nella sua nuda semplicità alla meraviglia dell’ascesi.
PABLO NERUDA, Terzo libro delle odi, 1957
Da quelle zagare
disfatte
dal lume della luna,
da quell'effluvio di un amore esasperato,
affondato in fragranza,
uscì
dall'albero il giallo,
dal loro planetario
scesero a terra i limoni.
Tenera mercanzia!
Si gremirono rive,
mercati,
di luce, d'oro
silvestre,
e aprimmo
le due metà
del miracolo,
acido congelato
che stillava
dagli emisferi
di una stella,
e il liquore più profondo
della natura,
intrasferibile, vivo,
irriducibile,
nacque dalla freschezza
del limone,
dalla sua casa fragrante,
dalla sua agra, segreta simmetria.
Nel limone divisero
i coltelli
una piccola
cattedrale,
l'abside nascosta
aprì alla luce le acide vetrate
e in gocce
scivolarono i topazi,
gli altari,
la fresca architettura.
Così, quando la tua mano
strizza l'emisfero
del tagliato
limone sul tuo piatto,
un universo d'oro
tu spargi,
un giallo calice
di miracoli,
uno dei capezzoli odorosi
del petto della terra,
raggio di luce convertito in frutto,
il minuscolo fuoco di un pianeta.
Traduzione di Salvatore Quasimodo