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Bologna, 4 maggio 2011
Al Direttore del Dipartimento di Scienze Economiche
Prof.ssa Silvia Giannini
Sede
ai colleghi
e per conoscenza:
Al Magnifico Rettore dell’Università di Bologna
Prof. Ivano Dionigi
Via Zamboni, 33. 40126 Bologna
Cari colleghi,
Nel corso delle ultime due riunioni del Consiglio (il 30 marzo e il 13 aprile) si è discusso degli episodi di plagio accademico che hanno interessato il nostro Dipartimento. Si tratta di un fatto nuovo: come sapete, un'analisi dei verbali del nostro Consiglio ha mostrato che il nostro Dipartimento, in quanto tale, aveva sempre evitato di considerare questi episodi, malgrado il clamore che essi provocarono e la loro eco (anche recente) sui mezzi di informazione. Si tratta, soprattutto, di un fatto positivo, in base a considerazioni che svolgevo in una lettera che inviai ai colleghi ben undici anni orsono: "Non è chiaro di quali temi, oltre all'ordinaria amministrazione, si possa occupare con qualche credibilità un dipartimento universitario che decida di ignorare dei casi di plagio accademico che avvengono al suo interno. Quando un fatto di indubbia importanza e gravità è formalmente trascurato si opera uno scollamento tra la realtà e la sua rappresentazione: a fronte di fatti oggettivi, noti a tutti e ampiamente commentati, l'istituzione finge di agire secondo una realtà che è, per così dire, parallela."
Nella discussione di queste ultime settimane si riconosce invece che la nostra integrità professionale è "importante e rilevante per la vita accademica" e che il problema coinvolge il Dipartimento. Ringrazio il nostro direttore, Prof.ssa Silvia Giannini, che con pazienza ha permesso questo esito, e il collega Prof. Enrico Santarelli che ad esso ha contribuito.
Se il silenzio del passato ci delegittimava, ora senz'altro possiamo accogliere l'invito del nostro Direttore, che "ritiene che il Dipartimento debba farsi parte attiva nel sollecitare l'Ateneo a disciplinare, nell'occasione dell'applicazione della riforma 240/2011, tutti i possibili casi di plagio, sia che essi riguardino gli studenti (dei diversi gradi, incluso il dottorato), sia che coinvolgano docenti e ricercatori".
Il discorso, aggiungo io, è più ampio e comprende, per esempio, l'onestà nel riportare i risultati degli esperimenti o dell'analisi statistica dei dati. In un momento di profonda crisi italiana che a mio avviso deriva anche da un tradimento operato dalle classi dirigenti, mi pare importante che il Dipartimento oggi affermi che ci sentiamo collettivamente responsabili nel rispettare le regole del nostro mestiere, e che non siamo più disposti a trattare i casi di disonestà che potranno manifestarsi in futuro in modo extra-istituzionale, quindi personalistico, arbitrario, e talvolta francamente odioso.
Alcuni colleghi hanno espresso contrarietà per il modo in cui ho agito. Ma tentativi meno cruenti di portare la discussione nell'ambito istituzionale fallirono e il nostro Dipartimento, eccezion fatta per il pronunciamento pubblico di pochissimi colleghi, negli anni ha mostrato un conformismo inossidabile al riguardo. A volte, forzare la situazione è un dovere.
I colleghi che hanno criticato i miei modi non hanno mai preso posizione circa i fatti che ho denunciato, per cui, almeno sino all'altro giorno, ritenevano che il Dipartimento non avesse nulla da dire riguardo all'integrità accademica dei suoi membri. Non capisco il loro silenzio. Il privilegio di non essere licenziabili, di cui godiamo, ci consegna una grande libertà nell'esercitare, nelle circostanze in cui è necessario, il dovere di opposizione individuale. Si tratta di un dovere che, nel mio modo di vedere, è inseparabile dall'appartenenza alla classe dirigente di questo Paese (perché a grandi poteri corrispondono grandi responsabilità: dopo Tacito, è bello citare l'Uomo Ragno).
In questo, beneficiamo di una situazione ben diversa rispetto al passato. Il 28 agosto 1931, un decreto regio obbligò i docenti universitari a dichiarare fedeltà al regime fascista. Su milleduecento docenti dell'università italiana di allora, soltanto una dozzina si rifiutò di firmare, sapendo che sarebbero stati licenziati: costava molto mantenere la schiena diritta. Più volte mi sono chiesto come mi comporterei io, se fossi chiamato a una tale scelta. La verità è che, purtroppo, non so se troverei la forza per fare la cosa giusta.
Un sincero saluto,
Lucio Picci
Prof. Lucio Picci
Dipartimento di Scienze Economiche
Facoltà di Scienze Politiche "Ruffilli", Forlì
Università di Bologna
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