Plagio, falsificazione e invenzione dei risultati. L'etica della ricerca, le fondamenta del nostro lavoro


Plagio, falsificazione e invenzione dei risultati. 

L'etica della ricerca, le fondamenta del nostro lavoro.


Lezione agli studenti del Dottorato di Ricerca in Economia

20 gennaio 2021, ore 9.30

Sala seminari e, a distanza, sulla piattaforma "Teams"

Dipartimento di Scienze Economiche 

Università degli Studi di Bologna



Cari studenti,

viviamo tempi complicati e son molto contento che si possa essere riuniti, se pur a distanza. Sono grato alla Prof.ssa Maria Bigoni, direttrice del PhD Programme in Economics, e al Prof. Luigi Franzoni, direttore del European Doctorate in Law & Economics, per avermi gentilmente invitato a tenere questa lezione. 

    Vogliamo discutere un tema molto importante: l'etica della ricerca. Importante per quale motivo? Perché non lo è solo per la nostra professione, ma per tutta la società, e cercherò di spiegarne le ragioni considerando alcuni esempi concreti, che ci aiuteranno anche a comprendere che cosa si debba intendere per violazione delle sue regole. Vedremo anche che la distinzione tra il loro rispetto e la violazione a volte è ambigua, ma del resto è anche perché il tema è complesso e sfaccettato che merita di essere discusso.

    Il primo esempio che considero riguarda dei documenti riservati dell'Università di Bologna che sono stati pubblicati su Internet: lo chiamerò il "Bologna leak". Al suo interno si trovano anche delle carte firmate dal nostro Rettore, il Professore Francesco Ubertini. Così, oggi ci sarà anche un po' di... drammaticità e di suspense, ma prima di parlarne consideriamo brevemente un tema, attuale e certamente rilevante, che fornisce una prima semplice dimostrazione intuitiva del perché l'etica della ricerca non riguarda soltanto noi, ma tutti.

Vaccini Covid e fiducia

Il Pew Research Center, che è un rispettato centro di studi statunitense, ha pubblicato i dati di una inchiesta secondo i quali il 39% degli americani non desidera vaccinarsi contro il Covid. Il risultato risale al 20 novembre scorso e rappresenta un miglioramento rispetto a due mesi prima, quando si stimava che a non essere disponibile a vaccinarsi fosse il 49% della popolazione (si veda qui). Può essere che questo non sia il tempo migliore per proporre esempi dagli Stati Uniti, considerato che la memoria è ancora fresca di presone, vestite con pelliccia e adornate di strane corna o comunque dall'aspetto assai bizzarro, che si aggiravano indisturbati all'interno di una delle loro istituzioni più sacre... scherzi a parte, consideriamo che livelli elevati di sfiducia nei confronti dei vaccini anti Covid sono stati registrati anche in altri Paesi.

    Non ho certo intenzione di approfondire il tema dei vaccini, ma non vi nascondo la mia personale opinione: se in questo momento bussassero alla porta, e qualcuno con un camice bianco si affacciasse dicendo, "Professor Picci, abbiamo qui fuori pronta una dose di vaccino per lei, se ha cinque minuti per uscire la iniettiamo...", beh, mi scuserei con voi e correrei a farmi vaccinare. Per quale motivo, considerato che sul tema dei vaccini mi considero assai ignorante? Perché "mi fido" dell'integrità complessiva del processo che ha portato allo sviluppo del vaccino che è attualmente disponibile in Italia, e inoltre mi sono un po' stancato della situazione che stiamo vivendo, al punto che sono disposto a correre qualche rischio ragionevole perché, noi tutti, ce la si possa lasciare alle spalle. E qualunque sia la vostra personale opinione su questo particolare tema, vi chiedo di prender nota del concetto che ho usato, "fiducia", perché tornerà nei nostri ragionamenti.

    Ma perché in tanti invece non si fidano? E noi, che siamo ricercatori, che cosa dovremmo pensare di loro? Dovremmo forse considerarli stupidi, dall'alto della nostra intelligenza, e ignoranti, noi che invece del "metodo scientifico" siamo sapienti? E che fare per risolvere un tale problema di fiducia: chiedere più soldi per la  scuola, perché meglio possa ripulire il pianeta da una tale fastidiosa ignoranza, e naturalmente anche per le università, insomma, per noi? Per noi è scaltro presentare la contesa come una battaglia tra intelligenza e stupidità, e anche aumenta la nostra autostima, facendoci credere superiori e molto intelligenti. Ma chi ha qualche familiarità con il pensiero di Pierre Bourdieu, vi ravvederebbe credo il possibile frutto avvelenato dell'egoismo, considerando che siamo immersi in un "campo del potere" (un concetto chiave in Bourdieu) dove ognuno, rimarcando distanze rispetto agli altri, rivaluta il capitale (culturale, nel nostro caso) di cui dispone. 

    Certo, non ho problemi ad ammettere che c'è molta ignoranza in giro, sul metodo scientifico e su tante altre questioni. Ma mi permetto di ricordarvi che noi siamo economisti, e se pur con varie sfumature, adottiamo una qualche incarnazione dell'approccio delle "scelte razionali", basata sull'idea di fondo che gli esserei umani certo commettono errori di vario genere, ma non sono sistematicamente stupidi. Proporreste un modello in cui spiegate la realtà osservata affermando che gli attori "si sbagliano", tout court? E nel caso lo faceste, pensate che riuscireste a pubblicarlo? Permettetemi di dubitarlo.

    Sostengo che il problema della fiducia è reale e serio, e se in certe occasioni è meglio dubitare della scienza (o pseudo-scienza)  è anche perché le frodi scientifiche di vario genere non sono infrequenti. Non ho ancora definito che cosa si intenda per "frode scientifica", e lo farò. Ma per ora, spero ci si possa trovare d'accordo che, a un certo livello, e per citare un tale Potter Stewart, che fu giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, "quando la vedo, la riconosco"  (tale frase famosa, ammetto, si riferiva a un concetto un po' diverso dal nostro; si veda qui). Così, prima di considerare il tema con maggior precisione, affrontiamo il problema generale delle frodi scientifiche armati di uno strumento che gli economisti usano frequentemente, il principio della induzione a ritroso: quando osserviamo delle interazioni strategiche che si verificano in diversi momenti temporali, consideriamo per prima l'ultima nel tempo, e poi rispetto a quella ci muoviamo a ritroso. Nel nostro caso, ci sono due fasi da considerare: prima nel tempo, si ha la decisione di un ricercatore di rispettare, o di violare, le regole dell'etica della ricerca. Poi, data quella decisione individuale, l'università e gli editori delle riviste o dei libri (nel caso i risultati siano pubblicati) decidono come reagire a fronte di sospetti di violazione delle regole, se duramente, o se chiudendo uno o tutti e due gli occhi. 

Il "Bologna leak"

Iniziamo dalla seconda delle due fasi, l'ultima in ordine temporale, considerando il "Bologna leak", e con questo intendo una serie di documenti riservati dell'Università di Bologna resi disponibili in rete da un blogger e giornalista scientifico tedesco, Leonid Schneider (questo il suo blog), in un articolo il cui ironico titolo potremmo tradurre così: "Topi bolognesi sono colpevoli di violazione dell'etica delle ricerca" (sull'autenticità dei documenti, si veda la mia nota in coda). L'articolo riguarda l'investigazione condotta dall'Università di Bologna in seguito a una segnalazione ricevuta da quattro suoi giovani ricercatori, riguardo a possibili violazioni dell'etica della ricerca all'interno del laboratorio in cui lavoravano. In nessun modo intendo entrare nel merito di quelle accuse. Per completezza di informazione, si deve però notare che al "ricercatore principale" di quel laboratorio, insieme ad altri collaboratori del medesimo, sono state recentemente "annullate" ("retracted"; non in seguito a segnalazione da parte dell'Università di Bologna) due pubblicazioni dal Journal of Biological Chemistry (una per "duplicazione di immagine" e l'altra per "manipolazione di immagine"), e altre due pubblicazioni hanno ricevuto correzioni per "errori nelle immagini": si veda qui). Neppure intendo entrare nel merito della decisione, dolorosa per una rivista scientifica, di "retraction" di due sue pubblicazioni.

    Partiamo da una lettera firmata dal nostro Rettore, il Prof. Francesco Ubertini, indirizzata a una delle organizzazioni esterne che contribuiva a finanziare gli esperimenti di quel laboratorio, riguardanti una grave malattia genetica (appare qui come "hot link" dal sito in cui si trova pubblicata). Tra i finanziatori vi erano delle associazioni di genitori di bambini affetti da quella patologia. Si noti che, anche nel caso di almeno un'altra lettera da lui firmata e compresa nel "Bologna leak", si trattava di risposte fornite in seguito a una richiesta di chiarimenti, dopo che quegli enti esterni erano stati informati dell'indagine in corso non dall'Università di Bologna.

La lettera afferma che c'era stato un "rapporto" da parte di una "Commissione istruttoria" che riguardava "un singolo esperimento su uno specifico filone di ricerca". 



Quanto affermato dal Rettore Ubertini non rispecchia la realtà dei fatti. Quel "rapporto" è disponibile grazie al "leak": Pagina 1, Pagina 2, Pagina 3), e con molta chiarezza si legge che non riguarda un "singolo esperimento". Le conclusioni del rapporto in verità furono molto critiche, per esempio laddove si sostiene che: "gli esperimenti [plurale] di comportamento dei topi [...] sono stati effettuati su un gruppo di soli 5/6 animali [...] nel 2016 e confrontati con esperimenti su topi di controllo condotti nel 2015" (si veda qui). Si tratterebbe di scelte gravemente errate.

Inoltre, il Rettore Ubertini omise di informare di un ulteriore fatto importante: il "Rapporto" aveva analizzato solamente alcuni dei rilievi che erano stati avanzati. Lo possiamo affermare con certezza, perché tali rilievi sono contenuti in un documento di 13 pagine che è parte del "leak". La sua lettura incrociata con il "Rapporto" (nuovamente: Pagina 1, Pagina 2, Pagina 3) chiarisce in modo palmare che quella Commissione aveva ignorato una parte importante dei rilievi ricevuti, e tra questi, casi di possibile falsificazione fraudolenta dei risultati (per esempio, manipolazione di grafici). E nuovamente, non intendo in alcun modo entrare nel merito delle accuse rivolte a quel laboratorio, e solo mi interessa discutere come si comportò l'Università di Bologna nell'occuparsene.

    Come si apprende da altri documenti contenuti nel "leak", andò a finire che al laboratorio fu chiesto di rifare un singolo esperimento, senza alcuna supervisione. Ai ricercatori che avevano sollevato la questione non fu data alcuna possibilità di esprimere controdeduzioni, per esempio per far presente che gran parte delle loro segnalazioni non erano state prese in considerazione. Anzi, non fu loro neppure comunicato quando l'indagine terminò. Altri aspetti raccapriccianti della vicenda sono descritti nel resoconto pubblicato da Leonid Schneider - che I'Università di Bologna non ha mai smentito o rettificato. Se Leonid Schneider non avesse pubblicato quei documenti riservati, la vicenda sarebbe rimasta sepolta sotto a tonnellate di sabbia.

Le ragioni dell'impunità: un conflitto di interesse istituzionale

Come spieghiamo un tale fallimento a comportarsi in modo onorevole? Sono convinto che, in generale, per non peccare di ingenuità si dovrebbe considerare il contesto generale in cui operano gli attori che ho descritto. Esistono interessi privati, possono sussistere fenomeni di nepotismo, reti informali, eccetera. Teniamo anche conto che Bologna è una città tutto sommato piccola, con le sue reti, e talvolta anche con le sue parentele: coniugi, cugini, zii o zie - e una zia per esempio appare, nel "Bologna leak", come coautrice di diverse pubblicazioni di quel laboratorio - cosicché i due articoli "annullati", o retracted, dalla rivista che ho citato anche rappresentano un caso, per così dire, di "lessico familiare"). Menziono questo dettaglio unicamente perché contribuisce a chiarire un contesto generale, e non perché io ritenga che tali relazioni ci aiutino a capire il caso concreto. In altra sede ho argomentato come esse siano rilevanti, per esempio, quando consideriamo i numerosi casi di plagio accaduti in questa università (si veda Plagio accademico: il sistema di impunità dell'Università di Bologna). Ma la mia interpretazione del "Bologna leak" è che qui la spiegazione sia per certi versi più semplice. Ci troviamo di fronte a un caso di conflitto di interesse istituzionale: una volta che un caso di possibile frode scientifica emerge, un'università ha interesse ad insabbiarlo, per non perdere faccia, e soldi.

    Un incentivo simile hanno le riviste scientifiche. Quando una rivista apprende che una sua pubblicazione è problematica, si trova in conflitto di interessi, perché se decide di "ritirare" quanto ha pubblicato, ammette implicitamente una responsabilità per non averlo valutato preventivamente con adeguata attenzione. E' allo stesso tempo sia vittima, sia, se pur involontariamente, complice. Può persino accadere che un'università determini che una pubblicazione di un suo ricercatore debba essere "annullata" ("retracted"), e che la rivista in questione si rifiuti di farlo. Si considerino per esempio il caso che hanno coinvolto ETH Zürich (qui), o LUMC Leiden (qui), che onorarono i loro doveri, ma non così le riviste in questione, che erano "buone", non "predatorie".

    La gestione da parte dell'Università di Bologna rappresentava l'ultima fase del "gioco", e abbiamo osservato la presenza di un possibile fallimento, che deriva dalla presenza di un conflitto di interessi. Noi che siamo economisti potremmo scegliere un nome diverso per descrivere l'esito osservato, affermando che, nel decidere come agire a fronte di possibili frodi, le università e le riviste scientifiche non internalizzano pienamente le esternalità generate dalle loro azioni. Considerando solo il loro interesse, possono scegliere di coprire o insabbiare anche casi di grave frode scientifica, anche se così facendo danneggiano la fiducia pubblica nei confronti del sistema scientifico. Essa è assimilabile a un bene pubblico, o "commons", nei confronti del quale come ben sappiamo c'è la tendenza all'"overgrazing": insomma, dato un prato e delle mucche, se le lasciamo senza controllo queste divoreranno sino all'ultimo filo d'erba e senza pensare al domani. A meno che non si prendano misure idonee, e a questo proposito ricordiamo l'opera classica di Elinor Ostrom, "Governing the Commons".

    Tornerò su questo tema, ma ora, applicando il criterio dell'induzione a ritroso, nel nostro "gioco della frode scientifica" facciamo un passo indietro nel tempo, per incontrare un bivio, in cui un percorso riguarda la decisione di un ricercatore che si accorga di un possibile comportamento scorretto. Lo segnalerà, o manterrà il silenzio? Tratterò il problema per le vie brevi: che cosa immaginate possa essere accaduto ai quattro giovani firmatari del documento che esprimeva i "dubbi" sugli esperimenti condotti nel loro laboratorio (il documento di 13 pagine, parte del "leak")? Per essere precisi, quella era una seconda versione del documento, firmata da uno solo di loro. Gli altri tre si erano presto ritirati dalla battaglia, e forse li possiamo scusare, e nessuno di quei quattro lavora più all'Università di Bologna. In sintesi: nel contesto che ho descritto, a decidere di fare il "whistleblower" può essere solo un folle eroe. E siccome ve ne sono pocchi, l'impunità si rafforza.

Incentivi individuali: integrità o frode?

Consideriamo ora la decisione di un ricercatore se comportarsi in modo fraudolento o onesto, dopo aver formato una aspettativa circa quali rischi corrano i disonesti. Essendo economisti, amiamo confrontare costi e benefici attesi, per cui occupiamoci di questo. Ho argomentato che dal lato dei costi attesi, la presenza di un "conflitto di interessi istituzionale" gioca a favore dell'impunità. Si può certo sostenere che esistano comunque dei costi reputazionali, da parte della comunità dei pari, e in qualche misura è vero, ma il problema è in realtà complesso. Al riguardo, potremmo considerare l'esempio di un passato membro di questo Dipartimento, un plagiario di talento che non fu mai sanzionato ufficialmente, perché servirebbe a mostrare come un accademico possa ambire a diversi tipologie di reputazione. Ho però discusso questo particolare caso in altre occasioni, e così oggi "passo". E riguardo alle reputazioni multiple, e considerato che mi appresto ad usare con voi un tono un po' più personale, avventurandomi in qualche consiglio, aggiungo che ritengo che voi siate interessati a un solo tipo di reputazione: quella del ricercatore onesto, oltre che, se possibile, del buon ricercatore. 

   Ma torniamo agli incentivi alla disonestà, che sono numerosi. Alcuni riguardano la carriera lavorativa, altri sono di ordine reputazionale più generale, e alcuni sono più direttamente di tipo monetario. Sappiamo tutti che pubblicare è essenziale per essere assunti prima, e in seguito promossi. Le pubblicazioni, oltre a facilitare le promozioni e quindi miglioramenti salariali, facilitano l'ottenimento di risorse esterne, il conseguimento di incarichi consulenziali, eccetera. Il contesto in cui si opera è importante per valutare l'importanza relativa di questi incentivi. Per esempio, nell'ambito degli studi classici circolano pochi soldi, per cui lo stimolo che deriva dagli avanzamenti di carriera è dominante. Nelle cosiddette scienze esatte, ma anche tra noi economisti, possono aversi buone occasioni per ottenere incarichi consulenziali. Nelle discipline mediche, soprattutto in alcuni settori, circola una quantità di denaro enorme. E a proposito, si osservano soldi nelle attività di ricerca condotte nel laboratorio di cui tratta il "Bologna leak"? Svariati milioni di dollari, se consideriamo la vendita di uno spin-off dell'University of Bologna risultante dalle attività di quel laboratorio (al cui riguardo, di veda una nota in coda).

    Complessivamente, i diversi tipi di incentivi che abbiamo considerato possono essere molto potenti, al punto di far inclinare la bilancia a favore della frode scientifica - considerata anche la presenza del conflitto di interessi istituzionale che abbiamo discusso, e che gioca a favore dell'impunità. Ma tali calcoli di convenienza, non dimentichiamolo certo, sono realizzati da persone che appartengono a "tipi" diversi. Personalmente sono convinto che la grande maggioranza dei ricercatori sia, per così dire, "intrinsecamente onesta", e non commetterebbe nulla di nettamente fraudolento quasi a prescindere dai vantaggi che ne deriverebbero. Questo perché tra noi tende ad esserci un'elevata "motivazione intrinseca", perché, semplicemente, il nostro lavoro ci piace. E, a proposito, voglio anche pensare che tutti voi apparteniate a tale tipo di ricercatore. Purtroppo, il problema non è così semplice, e non solo perché non siamo tutti uguali, ma anche, in modo più subdolo, perché nell'attività di ricerca la distinzione tra quel che è onesto, e quel che è fraudolento, non è così netta come forse vorremmo credere. E per affrontare questo tema, è finalmente giunto il momento di essere più precisi riguardo a cosa significhi "violazione dell'etica della ricerca". Suddividiamo le violazioni in tre categorie: fabbricazione (o invenzione, se preferite) dei risultati, falsificazione, e plagio. Fabrication, Falsification, and Plagiarism, o "FFP", un acronimo che mi appresto ad utilizzare. 

Fabbricazione, falsificazione, e plagio: le violazioni dell'etica della ricerca

Consideriamo questi concetti uno alla volta. Di essi esistono numerose definizioni molto simili tra loro; per i primi due concetti, faccio riferimento alla voce "scientific misconduct" di Wikipedia.

    La “fabbricazione” consiste, in buona sostanza, nell’inventarsi i risultati – per esempio, di un esperimento. Si tratta di una definizione netta che non merita lunghi commenti, e quindi passiamo oltre.


    La falsificazione consiste nel “manipolare materiale relativo alla ricerca, strumenti o processi, o modificare o omettere dei dati o risultati con la conseguenza che la ricerca realizzata non è correttamente rappresentata nel modo in cui viene registrata”

    La definizione di falsificazione dei risultati apparentemente non presenta ambiguità. Parrebbe di dire, o che falisificazione, manipolazione, vi è stata, oppure non vi è stata. Nei fatti, il confine tra quel che è falsificazione e quel che non lo è non è così netto. Si tratta di una questione complessa che andrebbe considerata con attenzione, e che mi limito ad indicarvi per mezzo di un esempio concreto. Nelle discipline che utilizzano tecniche di analisi statistica – più precisamente, di statistica inferenziale - negli ultimi anni è montato il dibattito sul cosiddetto “p-hacking”. Il “p” sta per “p-value” che, come sa chi ha studiato un po' di statistica, ha a che fare con la confidenza con la quale, in seguito a un’analisi campionaria e utilizzando gli strumenti di quel che si usa chiamare la “teoria della verifica di ipotesi”, ci incliniamo a rifiutare una certa affermazione. Avere un “p-value” basso spesso corrisponde a trovare un effetto desiderato tra più fattori, nel senso che evidenzia un risultato che si reputa interessante, e quindi più facilmente pubblicabile. Perché più pubblicabile? Facciamo un esempio scherzoso: se si trovasse che le persone che hanno segno zodiacale sagittario, e ascendente in pesci, vivono più a lungo e sono significativamente più simpatiche rispetto alla media (p-value ridotto), si tratterebbe di una scoperta sensazionale e ottime riviste scientifiche farebbero a gare per pubblicarla. Viceversa, se risultasse che tale affermazione non è vera, il risultato sarebbe totalmente privo di interesse, e persino porterebbe a dubitare della sanità mentale del ricercatore occupato in simili facezie. Vi è, come si suol dire, un “publication bias” da parte delle riviste scientifiche, che preferiscono certi risultati ad altri.

    Mani “esperte” sanno “facilitare” tale p-value ridotto, senza falsificare i risultati in senso stretto. Come ebbe a dire Ronald Coase (Nobel per l’economia) “if you torture the data long enough, it will confess”. Ma il confine tra p-hacking e falsificazione è spesso labile. Ecco allora un bel conflitto di interessi: “publish or perish” si dice, e quindi, c’è spazio non solo per la disonestà, ma anche per dosi crescenti di pragmatico opportunismo, e di scaltrezza, nel portare avanti il proprio lavoro. Penso che in tutti i campi della ricerca si possa dire che esistono delle “manipolazioni ambigue” che permettono al ricercatore di avvantaggiarsi nella gara per pubblicare, e al tempo stesso, di non passare come disonesto, o come chiaramente disonesto. Il tema senz’altro meriterebbe un’analisi più approfondita; vi segnalo l’indagine giornalistica, apparsa recentemente sul New York Times a firma Susan Dominus, su un caso celebre di p-hacking che coinvolse la ricercatrice Amy Cudding. Per lei andò a finire male, al punto che ha cambiato mestiere.

    Su questo tema, il mio consiglio è innanzitutto di prendere atto della complessità della questione, del fatto insomma che tra “falsificazione” e “non falsificazione” non vi è un confine netto. E di essere prudenti. Pensate che, come si suol dire, la vita è lunga: la reputazione professionale è quanto abbiamo di più importante, e anche volendo prescindere da ogni considerazione di ordine etico – e, sottolineo, prescindere non possiamo - rischiare di barattarla per vantaggi di carriera immediati non è una buona idea.

    Passiamo ora al tema del plagio, sul quale mi soffermerò maggiormente:

    Il plagio è “la presentazione del lavoro altrui (dati, parole o teorie) come se si fosse l’autore e in assenza di un riconoscimento appropriato”. E’ la definizione (tra le tante, quasi identiche, dispobili) adottata da COPE – Committee on Publications Ethics. Il COPE raggruppa oltre 10.000 membri in tutto il mondo che coprono tutte le aree scientifiche, e tra di essi rientrano: Oxford University Press, Cambridge University Press, Elsevier, Springer, Wiley, e Royal Society. Segnalo questi numeri e queste “firme” prestigiose semplicemente per indicare come il divieto di plagio, e la definizione del fenomeno, siano comuni in tutto il mondo.

    La mancanza del riconoscimento della paternità di un testo, o di una sua porzione, è l’aspetto cruciale che definisce un plagio. Si notino al riguardo le seguenti questioni:

1) Le citazioni vanno sempre virgolettate. Non è sufficiente che la fonte sia genericamente citata in bibliografia (si veda per esempio questo documento della Tufts University).

2) Anche le parafrasi costituiscono plagio: non basta modificare un testo altrui cambiando alcune parole, verbi, eccetera, per evitare un plagio. Così per esempio, secondo l’Università di Oxford, che include nel plagio la “parafrasi” ottenuta “cambiando alcune parole o il loro ordine” o anche solo il “seguire da vicino la struttura di una argomentazione”: “Parafrasare gli scritti altrui alterando alcune parole e cambiando il loro ordine, o seguendo da vicino la struttura dell’argomentazione, è plagio, se non si dà il riconoscimento dovuto all’autore del materiale che si sta utilizzando”. .

3) Il plagio “accidentale” è improbabile. Infatti, negli ambienti accademici sani, l’accusa di plagio è considerata infamante, e anche per questo i professionisti seri lavorano con attenzione e metodo per non pregiudicare la loro reputazione. E tale attenzione e metodo si imparano, quando non da studenti, nelle primissime fasi della carriera.

4). Anche il plagio accidentale – per esempio, la caduta delle virgolette in fase di revisione del testo – è comunque plagio. Si veda per esempio la definizione di plagio presso l’Università di Oxforddefinizione di plagio presso l’Università di Oxford, che in modo netto prevede provvedimenti disciplinari nei confronti dello studente anche nei casi di “plagio frutto di disattenzione”: “Il plagio può essere intenzionale, derivante da incuria (“reckless”), o accidentale. Il plagio intenzionale o derivante da incuria costituisce una violazione delle regole in vigore per gli esami.

5). Vi è plagio anche se il plagiato è d’accordo. Per esempio, la definizione in vigore all’Università di Oxford precisa che vi è plagio “con o senza il suo consenso”. Soffermiamoci brevemente su questo aspetto. Non molto tempo fa, in un caso celebre, il plagiato, legato al plagiario da una relazione di clientela, ha dichiarato che, in buona sostanza, era d’accordo. Insomma, ha tentato di “coprire” il suo dominus. Ma un plagio non è un semplice “furto di idee”, in cui il “crimine” si esaurisce nel momento in cui il derubato dichiara di non essere tale. Il plagio, come argomenterò tra poco, arreca un grave danno sociale. Il plagiato è senz’altro la vittima immediata del plagio, ma è anche una tra le tante. Ne parleremo.

6) Il modo in cui si pubblica un lavoro è del tutto irrilevante al riguardo. Ancora una volta citando le regole in vigore all’Università di Oxford, la definizione di plagio vale per “Qualunque materiale scritto, pubblicato o non pubblicato, sia in forma di manoscritto, stampato o in formato digitale”

7) E’ vietato plagiare anche se stessi. Si consideri che tali plagi permettono una impropria “moltiplicazione delle pubblicazioni” a partire da una singola, quando non in vere e proprie truffe – per esempio, quando si ripubblichino come ricerche accademiche, adattandoli, rapporti di ricerca commissionati da soggetti esterni all’università, spesso, in questi casi, con un conferimento dei diritti d’autore. Non appaia questo un esempio peregrino, in un mondo accademico che è segnato da molte commistioni di questo tipo, almeno all’interno di certe discipline.

    Attenzione: non è certo vietato ripetersi, se lo si ritiene necessario. Quel che si richiede è trasparenza verso il lettore. Eccone un esempio: iniziando una nuova sezione, l’autrice scrive in nota a pié di pagina di una sua lezione pubblica. “The next few paragraphs are drawn from a speech I delivered at Georgia State Law School. See Heather Gerken, Keynote Address: Lobbying as the New Campaign Finance, 27 G A . S T . U. L. R EV . 1155 (2011).” (Gerken, Heather K. Boden Lecture: The Real Problem With Citizens United: Campaign Finance, Dark Money, and Shadow Parties. Marquette Law Review Volume 97, Issue 4 Summer 2014). E'  legittimo e corretto: così si deve fare.

8) I regolamenti interni delle università sanzionano esplicitamente il plagio da parte degli studenti, e a fortiori dei docenti, che anzi sono chiamati a far rispettare tali regole, sia per mezzo di un adeguato controllo degli elaborati che valutano, sia con l’esempio. Se quanto deve esser noto e praticato dagli studenti potesse sfuggire all’attenzione di professori “disattenti”, i professori tradirebbero il loro ruolo e magistero.

    Tutto questo è plagio. E ora, una precisazione che dovrebbe essere ovvia: tutti i casi di plagio sono ugualmente gravi? Ovviamente no: una citazione dimenticata è estremamemente meno grave rispetto, per esempio, al furto di numerose pagine. E' anche per l'esigenza imprescindibile di graduare le colpe che l'accertamento dei casi non può rimanere segreto, un tema molto importante e sul quale tornerò.

La rilevanza della questione etica

Ho affermato che la presenza di un "conflitto di interessi istituzionale" può esser visto come un problema di "esternalità non internalizzate": un'università, o una rivista scientifica, può trovare vantaggioso insabbiare una frode, ma al prezzo di un costo sociale, che è l'erosione della fiducia nella scienza. Consideriamo tale "erosione" più nel dettaglio, da due punti di vista, uno interno alla nostra professione, e uno esterno. Entrambi i punti di vista concorrono a dimostrare la tesi di centralità e assoluta importanza dell'etica della ricerca non solo per noi ricercatori, ma per la società nel suo insieme.

    La prima ragione, interna alla professione, è riassumibile per mezzo di uno slogan: “noi siamo quel che pubblichiamo”. Nel senso che dalle pubblicazioni dipende la nostra reputazione, che è un elemento centrale nel funzionamento del sistema della ricerca scientifica. Le pratiche di FFP costituiscono un “furto di reputazione” e minano alla base il nostro sistema.

    La reputazione dei ricercatori è un elemento essenziale di ordinamento del sistema della ricerca. Per un verso, la reputazione permette di pesare le opinioni: diamo più credito all’opinione professionale di un esperto riconosciuto, rispetto a chi tale reputazione non ha. E secondo, la reputazione è parte essenziale di un sistema di allocazione delle risorse. Al di là delle storture che ogni sistema accademico ha, e che possono essere più o meno accentuate, la reputazione dei ricercatori gioca un ruolo molto importante nelle decisioni di assunzione, di avanzamento di carriera, e nell’allocazione dei fondi di ricerca.

    E nel nostro mondo, la reputazione individuale dipende in buona misura dalle pubblicazioni, che pesiamo in base alla reputazione delle riviste in cui appaiono, o delle case editrici che pubblicano le monografie. E dipende dalla reputazione del datore di lavoro: il segnale riguardo alla qualità professionale che conferisce l’essere professore ad Harvard è ben diverso rispetto a un qualche “community college”. Si tratta di un “sistema reputazionale” articolato e molto sofisticato, anche se, in un certo senso vivendoci in mezzo, tendiamo a non prestarvi molta attenzione.

    Un autore latino non molto conosciuto, un tale Publilius Syrus, affermò che “Bona opinio hominum tutior pecunia est”, ovvero “Una buona reputazione ha più valore del denaro”. L’idea di denaro ci porta nel campo di gioco degli economisti. Per gli economisti, il sistema dei prezzi ha un ruolo informativo cruciale per permettere ai mercati di funzionare. Può sembrare ovvio, ma come minimo è un’ovvietà dalle numerose ripercussioni. I prezzi sintetizzano mirabilmente una quantità enorme di informazione, e ci permettono di prendere decisioni – di acquisto o di vendita – in buona sostanza ignorandole.

    E così, nel sistema accademico, un analogo ruolo di “sintetizzatore di informazioni complesse” è giocato dalla reputazioni dei diversi attori: gli individui, le pubblicazioni, le riviste, gli editori, e le istituzioni di ricerca. Ed è un sistema che, al pari dei prezzi nei mercati, riassume una quantità enorme di informazione, permettendoci di risolvere – almeno in via approssimativa – un problema cognitivo che altrimenti sarebbe intrattabile, molto più oggi rispetto al passato. Perché è aumentato il numero dei ricercatori e delle pubblicazioni rilevanti, che non potremo mai leggere tutte. Abbiamo bisogno di “euristiche” per orientarci, e le informazioni reputazionali ne costituiscono l’ingrediente essenziale.

    Chi fabbrica o falsifica risultati, o plagia, e pubblica in modo fraudolento, è un ladro di reputazione. E dato il valore essenziale della reputazione come meccanismo ordinante del sistema della ricerca scientifica, chi ruba reputazione, mina il nostro sistema nelle sue basi. Per questo, non riesco a pensare ad azioni più distruttive nel confronto dell’accademia. Per questo, quando le università non reagiscono adeguatamente nei confronti dei casi di FFP, assistiamo a un caso di grave fallimento istituzionale.

    Passiamo alla seconda ragione per cui l’etica della ricerca è al centro del nostro lavoro. Anche in questo caso, la riassumo con una specie di slogan: le nostre società sono innervate da sistemi sociotecnici (un concetto che prendo a prestito dal sociologo britannico Erik Trist) che sono articolati e di difficile decifrazione. Per citare il titolo di un bel libro (di John R. Hibbing e Elizabeth Theiss-Morse), viviamo in delle “stealth democracy”: per essere buoni cittadini abbiamo certo il dovere di informarci, ma le domande aperte sulle quali in linea di principio dovremmo farci un’opinione sono molto numerose, e di un livello di complessità che è cresciuto nel tempo. Per questo, non soltanto noi ricercatori nel nostro lavoro, ma tutti, necessitiamo di scorciatoie per orientarci in fretta, di euristiche. E la scorciatoia principale la troviamo nella fiducia verso qualcuno, o qualche istituzione, che riteniamo competente in una certa materia e onesta. Per esempio, nel dirci se è sicuro vaccinare i nostri figli.

    Abbiamo iniziato la nostra discussione considerando i vaccini per difenderci dal Covid. Per loro, e più in generale per il “sistema sociotecnico della medicina”, registriamo la presenza dei seguenti attori: le case farmaceutiche, che producono vaccini, e hanno i loro laboratori di R&D, che producono ricerca certamente non indipendente. I governi, che autorizzano o non autorizzano tali vaccini, in base a certe regole e procedure. Abbiamo gli ospedali e i medici, che hanno un ruolo non trascurabile nella scelta delle medicine, che in più occasioni si è rivelato “problematico” - per usare un eufemismo - a causa di rapporti “inopportuni” con le aziende farmaceutiche. Ci siamo poi noi: l’università ed altri centri di ricerca che producono ricerca che si definisce indipendente, ma che ha legami con le imprese, che in misura variabile finanziano centri di ricerca accademici.

    E per ultimo, registriamo la possibilità – sottolineo, la possibilità - che i ricercatori accademici siano in conflitto di interessi, quando non addirittura corrotti dalle case farmaceutiche. Che siano disonesti, insomma, e facciano ricerca prezzolata, o falsifichino i risultati delle loro ricerche. E abbiamo i sistemi di controllo dell’accademia per gestire tali conflitti di interesse e la possibilità che i risultati vengano falsificati, o per così dire addomesticati. Da una parte, il “controllo dei pari” - se tizio si inventa i risultati e pubblica, speriamo che caio e sempronio prima o poi replichino l’esperimento e lo sbugiardino. Speriamo. Dall’altra, i controlli delle università verso i casi di FFP. E questi meccanismi, evidentemente, all’interno del quadro che ho tratteggiato, occupano una posizione centrale e di snodo.

    Personalmente, tendo a fidarmi dei vaccini e, come ho detto, non vedo l'ora di potermi vaccinare contro il Covid. Ma se volete un esempio molto recente di grave fallimento del "sistema socotecnico della medicina", considerate la cosiddetta "epidemia da oppioidi" (si veda, per esempio, qui, e qui). Ma l’aspetto problematico della fiducia nel confronto dei sistemi sociotecnici contemporanei è innegabile. Il numero di decibel del dibattito che si è avuto testimonia in maniera palmare la mancanza di fiducia nei loro confronti, e reagire accusando l’interlocutore più o meno di imbecillità non è per nulla utile. Perché, e la frase che segue sia un esempio di plagio che per motivi anagrafici solo in pochi in questa sala sapranno identificare, “la fiducia è una cosa seria”.

    E l’università, la ricerca indipendente, si trova allo snodo di qualunque costruzione di fiducia nel confronto di tali sistemi sociotecnici complessi. Il nostro ruolo sociale è fondamentale e insostituibile. Siamo noi che possiamo dire alla società “sul tal tema, vi è il tal consenso scientifico” - qualora vi sia – o “vi sono le tali incertezze”. Se salta la fiducia nei confronti dell’imparzialità e correttezza del nostro lavoro, salta tutto. Si apre il campo a qualsiasi teoria del complotto, a qualsiasi opinione.

    Ecco perché le questioni che attengono a FFP sono centrali. Ecco perché il tema etico non è un orpello da trattarsi, qua dentro, quando abbiamo esaurito le questioni importanti. Perché noi, che siamo l’università, occupiamo, o dovremmo occupare, una posizione chiave all’interno di sistemi sociotecnici complessi sui quali si giocherà il futuro dell’umanità. E se quest’ultima vi pare un’esagerazione, andate a studiarvi il dibattito sul riscaldamento globale, non tanto qua da noi, ma negli Stati Uniti, dove forze antiscientifiche, e influenzate da interessi commerciali, sono riuscite a smontare un consenso sociale, basato sul quello scientifico, che si era faticosamente costruito nel tempo. E questo accade nel Paese che, nel corso della storia umana, ha contribuito maggiormente all'accumulazione di gas serra nell'atmosfera (si veda Hsiang and Kopp, JEP, 2018, Tabella 1).

Che fare? La risposta istituzionale

Ci domandiamo ora che cosa si potrebbe fare, concretamente, per migliorare la situazione che abbiamo considerato. Per primo, propongo un obiettivo chiaro: i giudizi sui casi di presunto FFP devono essere resi pubblici. Le università devono imparare a rendere note le loro decisioni circa le presunte violazioni.

    Per due motivi. Il primo meno importante, ma non irrilevante: abbiamo il diritto di commettere errori in buona fede, senza venire scambiati coi disonesti. Se un ricercatore pubblica un teorema la cui dimostrazione è sbagliata, e se ne accorge, ha diritto a che l’editore ritiri la pubblicazione chiarendo che lo fa su richiesta dell’autore, in seguito a un errore in buona fede, e non in seguito a caso di FFP. E infatti, le linee guida della COPE, che già ho citato, stabiliscono che le “ritrattazioni” delle pubblicazioni debbano “dichiarare il motivo (o i motivi) per la ritrattazione (per distinguere comportamenti dolosi da errori in buona fede)”.

    Ma c’è un motivo più cogente per cui deve aversi pubblicità degli esiti delle indagini: nessun sistema di giustizia privata e segreta, tanto più quando in presenza di pesanti conflitti di interessi, può funzionare ed impartire “giustizia”. La giustizia per essere tale non può essere segreta.

    Dietro la segretezza può nascondersi la scelta di giudici ben disposti e non indipendenti, o magari in perfetta buona fede ma comunque in conflitto di interesse; la selezione strumentale delle accuse da considerare, e di quelle da ignorare; l'insabbiamento, che si manifesta anche nella scelta di non rispondere alle domande di chiarificazione. Posso aggiungere che questi elementi, spesso tra loro miscelati, mi pare che si riscontrino in tutti i casi di FFP che nel corso degli anni ho avuto modo di considerare in qualche dettaglio. E sono tutti presenti nel caso del "Bologna leak" che abbiamo trattato (nuovamente, a prescindere dal merito delle accuse).

    Le università italiane devono smettere di trincerarsi dietro la normativa sulla privacy. Essa - o l'interpretazione che se ne dà - rappresenta un serio problema, e un utile alibi per i settori più retrivi dell’amministrazione pubblica per difendere l'opacità del loro agire, quando non peggio. Valga una raccomandazione sintetica: un’università seriamente intenzionata a cambiare la situazione attuale, a tentare di correggere il fallimento istituzionale che ho descritto, a mio avviso dovrebbe porre pubblicamente una domanda al Garante della privacy, argomentando la presenza di un evidente interesse pubblico prevalente che gioca a favore della trasparenza. E chiedendo una risposta pubblica dal Garante. Da questo si partirebbe: da una assunzione di responsabilità chiara e netta, che diraderebbe le nebbie e permetterebbe, forse, un dibattito pubblico costruttivo e consapevole di che cosa sia in gioco.

    E ora veniamo ai regolamenti e ai codici etici. Essi sono necessari, ma abbiamo visto che da soli non bastano. Per esempio, nello scrivere la lettera che abbiamo considerato, il Rettore Ubertini ha violato il  Codice etico e di comportamento dell'Università di Bologna (si veda la nota in coda). Se così fosse, che cosa si potrebbe fare, concretamente? Scrivere al Rettore perché avvii un procedimento disciplinare nei confronti di se stesso? Entreremmo, mi pare, nel campo degli esperimenti situazionisti.

    I regolamenti, purtroppo, spessono servono come alibi, e c'è una lezione importante che abbiamo appreso nella lotta contro la corruzione. Oggi le amministrazioni pubbliche sono tenute ad avere dei "piani anticorruzione", ma gran parte di questi sono stati redatti con il copia e incolla e senza una reale consapevolezza. Siamo vittime di una "cultura dell'adempimento", e in un contesto di irresponsabilità diffusa non c’è legge che tenga. Se nessuno o pochi alzano la mano per dire “così non va”, i regolamenti sono solo un utile alibi, che anzi finiscono per deresponsabilizzarci ulteriormente. E su questo fronte, penso che tutti noi professori, almeno noi professori ordinari, dovremmo almeno fare un esame di coscienza. 

    Perché i regolamenti assolvano al loro scopo, una condizione necessaria è che ci sia coerenza di messaggi e di azione, ai diversi livelli. In particolare, se all’interno di un’organizzazione si percepisce che il vertice è tiepido nei confronti di un certo problema, i membri di quell’organizzazione traggono delle implicazioni pratiche. Chiamiamola leadership, “tone from the top”, o, semplicemente e all’italiana, “carattere”: è importante. Un messaggio chiaro, deciso e coerente dal vertice non renderà magicamente coraggiosi tutti gli ignavi, ma sarà d'aiuto almeno per gli indecisi.

    E ora, cari futuri ricercatori, è arrivato il momento di considerare il vostro ruolo, insieme a due domande importanti che, nel mio modo di vedere, dovrete considerare. Una di queste domande è abbastanza semplice, mentre l'altra, purtroppo, non lo è.

    La domanda semplice La domanda semplice è da che parte stare riguardo alle pratiche di FFP. Se dalla parte del rigore e dell’onestà, o dalla parte della truffa. E ho pochi dubbi circa come, nelle vostre teste, vorrete rispondere. Abbiamo però visto che il confine tra onestà e truffa non è netto, e che la questione è più complessa di come possa apparire di primo acchito. Noi ricercatori forse amiamo cullarci in un’immagine asettica e tranquillizzante della “scienza”. Un filosofo della scienza sarebbe molto più adatto di me per approfondire la questione. Mi limito ad osservare che non c’è solo un Popper (o una sua lettura semplicistica) – metodo scientifico da una parte, e tutto il resto dall’altra – ma anche un Feyerabend col suo “anarchismo”. E noi non ricerchiamo nel vuoto, e neppure scegliamo i nostri interessi scientifici in seguito a casuali incontri di neuroni nella nostra testa, ma rispondiamo a stimoli esterni: stimoli di ordine sociale ed anche economico. Manteniamo allora uno spirito non solo critico, ma anche, autocritico, e una mente aperta. O almeno, proviamoci, possibilmente, con un sorriso, di fronte all’incredibile ed irriducibile complessità del mondo. 

    La domanda difficile E ora veniamo alla domanda difficile. Quali sono i doveri degli accademici che osservano casi di FFP? Spero di avervi convinto del fatto che essi minano le fondamenta dell’accademia e del suo ruolo sociale. Mettiamola così: se un professore osserva, fatemi usare un’espressione un po’ forte, ma per capirci, un “terrorista accademico”, ha il diritto di far finta di nulla, di non pronunciarsi, di non alzare la mano per dire “no!” Credo che la risposta dipenda dall’opinione che abbiamo del nostro lavoro, tra due possibili.

    Da una parte, c’è l’accademico come ricercatore e come produttore di ricerca - di articoli e di libri. E una volta che si è pubblicato bene – in buone riviste e con case editrici prestigiose - e onestamente (senza FFP, insomma), e fatte con criterio le altre cose per le quali a fine mese ci pagano – insegnare, eccetera – la mattina ci si può guardare allo specchio con soddisfazione. E discorso chiuso. É un punto di vista legittimo del nostro lavoro e del nostro ruolo nella società.

    L’altro punto di vista è che, come professori e intellettuali, abbiamo anche altri doveri. Che dobbiamo essere, almeno un po’, dei “parresiasti”, un concetto trattato da Michel Foucault nelle sue ultime lezioni a U.C. Berkeley nel 1983. La parresia è un oscuro termine greco, e il parresiasta è colui che dice apertamente la verità – la sua verità: “nella parresia, chi parla rende chiaro e ovvio che quel che afferma è la sua opinione personale. E lo fa evitando ogni forma retorica che potrebbe mettere un velo al suo pensiero. Al contrario, il parresiasta usa le parole e le forma espressive più espressive che riesca a trovare".L’intellettuale che dice la verità che vede, e che ha il coraggio di dire al re che è nudo.

    Quale delle due idee del nostro lavoro è corretta? Ognuno di noi è chiamato a decidere in autonomia, credo però, nel caso italiano, almeno riflettendo sul VI comma dell’articolo 33 della Costituzione Italiana, e soprattutto su come e perché vi si arrivò. Esso afferma che “Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”. Nel dibattito che si ebbe in Costituente, rientrò l’emendamento Leone/Bettiol, che intendeva sancire in Costituzione l’inamovibilità dei professori, e che però si ritiene “assorbito” nel testo attuale (si veda il commento di Umberto Izzo). E così nel Decreto Presidente Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, si legge all’Art. 7.: “Ai professori universitari è garantita libertà di insegnamento e di ricerca scientifica”, e all’Art. 8 dichiara che "i professori ordinari sono inamovibili e non sono tenuti a prestare giuramento”. E' anche grazie a questa protezione costituzionale che io, oggi, mi sono sentito libero di rivolgere un'aspra critica alla persona che è al vertice dell'Università presso la quale lavoro.

    E' utile considerare come si arrivò alla formulazione di questi diritti. In particolare, perché non siamo tenuti a prestare giuramento? Perché come accademici italiani, purtroppo, già giurammo. Fedeltà al fascismo, nel 1931. Su 1250 professori universitari di allora, solo dodici si rifiutarono, e persero il posto. E poi cacciammo i professori ebrei, nell’autunno del ‘38, in seguito alle leggi razziali. E tacemmo. Tacemmo, a Bologna, anche quando nel discorso inaugurale di quell’anno accademico il Rettore, professor Alessandro Ghigi, parlò di "Politica della razza", e affermò che quello della razza è "il problema di politica interna che maggiormente interessa il Regime in questo momento" e l'obiettivo dell'azione di governo è "salvaguardare l'integrità della stirpe […] dalle deprecabili mescolanze che potrebbero e non debbono verificarsi colle razze inferiori, distribuite nelle terre dell’impero che noi dobbiamo colonizzare", aggiungendo che "I recenti provvedimenti a tutela della razza rendono vacanti altre 11 cattedre, alle quali sarà provveduto entro breve termine".

    Ecco perché i padri costituenti ci han dato queste libertà e questi privilegi. Per renderci liberi di dire "no". E io non sono tanto presuntuoso da poter prevedere come mi sarei comportato allora, quando dire “no” significava perdere il posto, e peggio. Ma quando ragionerete su quella difficile seconda domanda, io penso che sia vostro dovere dedicare almeno un pensiero a quell’articolo 33, comma VI, della nostra Costituzione, da dove provenga, e da quali aspettative verso di noi, da parte della giovane Repubblica italiana, sia scaturito.

Conclusione

L’Italia è un paese fantastico – e lo dico senza alcuna ironia o sarcasmo - anche perché così ricco di tradizioni non soltanto culturali, ma civili, tra loro diverse e apparentemente incompatibili. Abbiamo il manzoniano “troncare, sopire”, che io ravvedo tradotto nei placidi silenzi del Rettore Ubertini che a domanda non risponde, e però scrive lettere che non avrebbe immaginato  sarebbero diventate pubbliche. Abbiamo l’Italia cinica e opportuninsta descritta genialmente da Ennio Flaiano, l’Italia che non soltanto non si mette mai di traverso, ma anzi, è “sempre disposta ad accorrere in soccorso del vincitore”. Abbiamo anche un’altra tradizione civile, dalla genealogia millenaria, che talvolta è una traccia come sommersa, e talvolta è in evidenza e quasi urla. E' la “tradizione dell’invettiva dantesca”, il Dante indignato dell’Inferno, per intenderci. E siccome quest'anno ricorre il 700esimo anniversario della sua morte, vorrei concludere proponendovi una raffigurazione dantesca: immaginiamo un diavolo furioso che bussa alla porta di tutti quelli che, magari trovandosi soltanto a poche centinaia di metri da qui, non hanno onorato quelli che io interpreto siano i nostri doveri: non soltanto l'integrità personale, ma anche la salvaguardia dell'integrità istituzionale. 

    E in quale girone dell'Inferno caccerebbe a pedate tali peccatori? Lasciamo questo diavolaccio al suo giudizio: in questa mia lezione può sembrare che ne abbia parlato male, ma vi ho anche mostrato che, con tutti i suoi possibili difetti, l'Università di Bologna è un luogo di grande libertà per tutti.

Note

Sopra, un'immagine di Gustave Doré (hot link).


Sul dibattito pubblico negli Stati Uniti riguardo alle cause del riscaldamento globale, e su come esso sia stato influenzato da interessi economici, si consideri il capitolo 8 in "Dark Money: The Hidden History of the Billionaires Behind the Rise of the Radical Right", di Jane Mayer. Scribe Publications, 2016.


Le lezioni di Foucault a Berkeley sono state pubblicate anche in italiano ("Discorso e verità nella Grecia antica", a cura di A. Galeotti e J. Pearson. Donzelli, 2015).

L'episodio del giuramento di fedeltà al regime fascista da parte dei professori universitari italiani, e la storia dei pochissimi che si rifiutarono, è raccontato in un bel libro di Giorgio Boatti, dal titolo "Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini". Einaudi, 2001.

Sull'autenticità dei documenti del "Bologna leak": La presenza in rete di tali documenti riservati fu resa nota all'Universita di Bologna (e personalmente al suo rettore Francesco Ubertini) contestualmente alla sua pubblicazione (4 marzo 2020). Al riguardo non vi è stata alcuna presa di posizione ne' dell'Università di Bologna, ne' del suo rettore personalmente. Ho personalmente scritto al Rettore Ubertini (13 gennaio 2021; in copia il Direttore Generale dell'Università di Bologna) per comunicargli la mia intenzione di fare riferimento in questa lezione ai documenti riservati che sono stati pubblicati, a meno di una smentita da parte sua della loro autenticità, e la mia disponibilità a concordare un intervento ex-cathedra del Rettore, in questa occasione, per esprimere la sua versione dei fatti. Non ho ricevuto risposta - oltre alla comunicazione che egli non avrebbe potuto partecipare.

La vendita dello spin-off. Il Rettore Ubertini si rifiutò di chiarire al Senato accademico (26/9 e 25/10 2017) quanto, dei ricavi milionari dalla vendita (in termini monetari e di azioni) sia stato pagato e a chi. Il "Rapporto finale" relativo all'investigazione recita, nel suo ultimo paragrafo (si veda qui), "La commissione auspica che l'Ateneo si doti di un codice di linee guida per l'integrità della ricerca anche in prospettiva di sperimentazioni che possano produrre dati sensibili di protezione della proprietà intellettuale (brevetti) e soprattutto del loro successivo utilizzo (cessione ed utilizzo dei brevetti)". La vendita dello spin-off implicò il trasferimento di diritti di proprietà intellettuale; il Rettore Ubertini, in seguito a domande esplicite al riguardo, si è rifiutato di chiarire.

Si può affermare che il Rettore Ubertini ha violato il Codice etico e di comportamento dell'Università di Bologna? Per rispondere si dovrebbe anche considerare il suo ruolo in un caso precedente, relativo al conferimento del titolo di Professore Emerito a un collega che la stessa Università di Bologna aveva precedentemente dichiarato colpevole di seri episodi di plagio (si veda qui). Prima di divenire rettore, il Professore Francesco Ubertini era stato, sorprendentemente considerate le precedenti deliberazioni degli organi accademici, tra i sostenitori di quella candidatura. Tutto questo considerato, riterrei impegnativo, ma ovviamente non impossibile, argomentare che egli non abbia violato il "Codice etico".

Ringrazio Raimondello Orsini, Mauro Sylos Labini, e Alberto Vannucci, per i commenti a una versione precedente di questa lezione.

Questa lezione utilizza in parte materiale giù presentato nel corso di lezioni tenute presso l'Università Ca' Foscari di Venezia (si veda qui) e l'Università di Brescia