IL MECCANICO DELLE STELLE

IL MECCANICO DELLE STELLE, un romanzo di Gianfranco D'Anna

L'orologiaio di corte che osò mettere il Sole al centro dell'Universo.

Siamo nel XVI secolo, i potenti scrutano il cielo stellato per conoscere il futuro. Ma a Kassel, l'orologiaio di corte, guidato dall’incontestabile logica di ruote dentate e ingranaggi, osa cambiare l'ordine dell'Universo.

È Jost Bürgi, straordinario autodidatta, contemporaneo di Galileo e Keplero. Creando il primo planetario copernicano con il Sole al centro del Cosmo invece della Terra, sfida la dottrina delle Sacre Scritture.

Tra astronomia e meccanica, superstizione e fede, la vicenda narra la nascita del pensiero scientifico moderno. Un romanzo storico avvincente.

LE PRIME PAGINE


La Terra eziandio è stabilita, e non sarà giammai smossa. Salmi XCIII, 1

Egli fissò la Terra sì che non crolli. I Cronache XVI, 30

Sole, fermati su Gabaon, e tu, Luna, sulla valle d’Aialon! Giosuè X, 12- 13

I - Il cronometro a secondi

La lima mordeva il metallo, delicatamente, mentre il polso impartiva all’attrezzo un lento movimento circolare. La schiena curva pareva immobile, e il capo coperto dal berretto seguiva lo spostarsi periodico della mano con un lieve ondeggiare del collo. Costanzo, fermo sull’uscio, trattenne il respiro, aspettando il momento per parlare.

Ogni tanto Jost Bürgi sollevava la lima, prendeva la lente posata sul tavolo da lavoro e, liberatosi dall’impaccio della casacca con una mossa brusca del gomito, si chinava per controllare. Stava lavorando a un nuovo tipo di cronometro: il rotismo centrale, sottile e leggerissimo, avrebbe comportato 360 denti, seguito da un treno di due ingranaggi, l’uno con 40 denti e un pignone a 10 ali, l’altro con 72 denti e senza pignone. La ruota prevista per lo scappamento presentava esattamente 60 denti, ma triangolari, come una sega a legno, e 6 ali.

Le ruote dentate erano il suo mondo. Gli ingranaggi non possono mentire, non c’è posto, fra i denti e gli assi in rotazione, per menzogne e incoerenze. La ragione del meccanico si ritrova nei congegni creati dalla sua mente: se c’è errore, la ruota non gira, il ruotismo si ferma. Nell’opera del maestro orologiaio c’è posto solo per la verità.

«Sessanta a sei e trecentosessanta a uno fa proporzione di tremilaseicento», mormorò come fosse un comandamento mentre posava la lente e si apprestava a sagomare un altro dente della delicata ruota di ottone.

Allora Costanzo si fece coraggio: «Maestro», disse, «un signore vuole vedervi».

Bürgi si fermò, seccato.

«Chi è?», chiese, mentre già posava la lima ben sapendo che, se l’apprendista osava disturbarlo, il visitatore doveva essere per forza una persona di riguardo.

Il ragazzo si schiarì la voce prima di leggere dal biglietto che gli aveva dato poco prima quel signore elegante, con l’ordine di consegnarlo al suo padrone: «Sua… altez… za… il… marchese…».

Bürgi lasciò il tavolo da lavoro e si avvicinò:

«Dammi qua», e lesse il cartoncino scendendo le scale.

Nelle segrete di Kassel è rinchiuso Costanzo, accusato d’aver fabbricato un congegno diabolico

Costanzo udì uno scricchiolio, lievissimo, una sorta di grattare. “Forse è un topolino”, pensò aguzzando gli occhi per frugare nella penombra. Non vide nulla, ma si accorse che le prime luci dell’alba rischiaravano il piccolo rettangolo di cielo visibile in cima al muro.

Non era riuscito a dormire, o, perlomeno, si era svegliato dieci, cento volte nel medesimo incubo: “Ti affido la bottega, sono sicuro che sarà in buone mani”, gli diceva l’amato maestro mentre la carrozza e la scorta si preparavano per la partenza. Ma lui, nel sogno, già sapeva cosa sarebbe avvenuto, eppure sorrideva, non avvertiva il maestro della sventura a venire, e si disprezzava per quella vigliaccheria.

Era un rimorso assurdo, non avrebbe potuto prevedere il futuro, e si avvolse nella coperta cambiando lato sullo scomodo giaciglio di legno e paglia. Tecnicamente, agli occhi della giustizia non era un criminale: infatti, coperta e paglia erano un privilegio riservato ai “posseduti”. Pensandoci, ne rise. In quel momento sentì dei passi nel corridoio e subito si appoggiò sul gomito, in ascolto.

Riconobbe il rumore degli stivali delle guardie: camminavano sempre in perfetto sincronismo, come se il cervello che muoveva le gambe non si trovasse nella loro testa, ma in quella del comandante. I passi si fermarono davanti alla cella, il pesante catenaccio fu spostato con vigore, la porta si spalancò e una prima guardia prese posizione sulla soglia mentre una seconda avanzava fino alla parete opposta all’entrata.

Costanzo era ormai in piedi accanto alla sua branda, in attesa. Sulla porta apparve un uomo dall’abito monastico, il saio immacolato, la tonsura su un volto modesto e cordiale.

«Caro Costanzo», disse allungando le mani nella direzione del detenuto come per abbracciarlo, «oggi è il tuo giorno di pentimento e di preghiera… io sono qui in veste di fratello penitente per accompagnarti fino al tramonto, quando domanderai a Dio di usarti misericordia». Era il confessore incaricato dal concistoro morale di assistere il posseduto prima e durante il rito di esorcismo previsto per quella sera stessa nel grande sotterraneo dell’edificio.

Il confessore fece segno a Costanzo di sedersi al tavolo, quindi prese posto di fronte a lui; un cenno alle guardie e furono lasciati soli. Il giudice del concistoro lo aveva ragguagliato sulla causa dell’arresto: il giovane – apprendista presso il meccanico e orologiaio di corte, il celebre Jost Bürgi –aveva ideato un “arnese magico” dalle proprietà terrificanti ed era colpevole di blasfemia e di asservimento alla volontà del maligno. Da quello che il confessore aveva capito, Costanzo aveva costruito una sorta di planetario diabolico, ma lui non aveva potuto vedere di persona il congegno e adesso era divorato dalla curiosità di saperne di più. Si accomodò meglio sulla sedia: innanzitutto doveva conquistare la fiducia del giovane e gli chiese se desiderasse bere, rifocillarsi. Ordinato del pane e una caraffa d’acqua, ne bevve lui stesso un sorso e mentre lo lasciava mangiare si fece raccontare la storia della sua famiglia: il padre orafo, i fratelli che lavoravano nei giardini del langravio.

Poi, quando sentì l’animo del prigioniero ben disposto nei suoi confronti, lo interrogò sull’argomento che più gli stava a cuore:

«Figliolo, mi vuoi raccontare la vicenda del congegno che è cagione del tuo peccato?».

A quelle parole Costanzo cambiò bruscamente espressione, e d’improvviso non parve più il giovane apprendista ingenuo di pochi istanti prima: gli occhi timorosi erano scomparsi per lasciare il posto a un sorriso scaltro.

«Credo che per rispondere alla vostra richiesta dovrò dapprima raccontarvi come ha avuto inizio tutto questo», rispose con una fermezza che non ammetteva obiezioni.

Il marchese di Padova visita la bottega di Jost Bürgi e commissiona un orologio astronomico molto complicato

Presso l’entrata della bottega stava il cliente in attesa. Indossava un rigido farsetto a punta di stoffa preziosa, e un paio di attillate calzebrache chiare. Appesa alla cintura brillava una spada ingioiellata. Si capiva subito che era molto facoltoso e appena lo vide Bürgi si affrettò a presentarsi.

«Sono Jost Bürgi… per servirvi», disse prosternandosi in un inchino dinnanzi al nobile personaggio.

Questi squadrò per un istante l’orologiaio, come fosse sorpreso dal suo aspetto. Bürgi era una persona discreta, di piccola statura anche se robusto come un contadino, e detestava vestire in modo appariscente. Il cliente, che era venuto dall’Italia appositamente per lui, si aspettava un maestro sussiegoso circondato da schiere di assistenti e non riuscì a nascondere un’ombra di delusione per ciò che vedeva. Ma si riprese con prontezza: «Chi non vi conosce… il celebre orologiaio di Kassel, meccanico alla corte di Guglielmo IV d’Assia, costruttore degli strumenti dell’osservatorio nonché eccelso astronomo… chi non vi conosce».

Dopo i dovuti scambi di cortesie, Bürgi gli fece strada per condurlo nel suo ufficio. Il gentiluomo osservava con occhio curioso l’attività dell’officina, rallentando il passo e fermandosi a commentare ciò che più lo colpiva. Vide la forgia e volle avvicinarsi per scambiare due parole con il capo fabbro. Sul muro lungo il corridoio erano ben allineati gli orologi destinati alla vendita diretta e lui li analizzò uno a uno, con aria di approvazione. Pareva che se ne intendesse. Alla vista del vecchio Markus che, seduto su uno sgabello basso, era intento a riparare una ruota di un orologio di grandi dimensioni, osservò: «Oh, s’è rotta la verga… un lavoro difficile. Il peso e le dimensioni devono essere della massima precisione».

Raggiunto l’ufficio, Bürgi fece accomodare il cliente su una poltrona, quindi si sedette di fronte a lui. Costanzo rimase ad ascoltare dal corridoio.

«Illustre Bürgi», esordì il nobiluomo, marchese di Padova come si era fatto annunciare, in cammino per le Fiandre, la Danimarca e l’Inghilterra. Desiderava approfittare del viaggio per completare la sua collezione di oggetti straordinari, che comprendeva numerosissimi orologi e planetari, opera dei maggiori artigiani italiani. Nella sue terre, raccontò, erano vissuti fior di orologiai, divenuti celebri fino a Venezia e oltre.

«È opinione generale che i migliori orologiai si trovino in Italia», disse a un certo punto, sottolineando la frase con una lunga pausa e studiando la reazione di Bürgi. Ma il maestro rimase silenzioso in attesa di sentire il seguito, e il marchese continuò.

«Mi è giunta voce della perfezione e della bellezza dei vostri orologi, e comandandovi un oggetto unico, speciale, voglio dimostrare che anche oltre le Alpi vi sono bravi meccanici… O almeno lo spero», concluse con una sfrontata espressione di sfida.

«Vi ascolto», rispose Bürgi, senza riuscire ormai a nascondere una certa irritazione.

«Bene… voi mi direte, dopo aver sentito ciò che ho in mente, se siete in grado di soddisfare i miei desideri». Mentre lo diceva si sporse leggermente in avanti, con una mano sul tavolo, l’altra pronta ad accompagnare la lunga lista in arrivo: «Voglio un orologio astronomico dalle dimensioni ridotte, un piccolo planetario che si possa appoggiare su un mobile…», l’indice disegnò un rettangolo per indicare le dimensioni approssimative dell’oggetto; «Deve ovviamente indicarmi la posizione dei pianeti nel firmamento…», puntò il dito all’insù; «Voglio la fase della Luna e l’elevazione del Sole sull’orizzonte…», tracciò una linea; «Non deve mancare la coda del drago per poter determinare le eclissi…», e alzò anche la seconda mano; «Dovrà mostrare l’ora dell’alba e del tramonto… Voglio che misuri il tempo con grande precisione… Dovrà segnare l’ora come è d’uso nella Serenissima, con il nuovo giorno che principia al tramonto… Avrà un calendario…».

Bürgi tracciava dei piccoli segni a mo’ di promemoria su un foglio via via che il cliente elencava i particolari dell’opera che intendeva comandare. A ognuno di quei “desideri” il sopracciglio di Bürgi si alzava: le complicazioni richieste erano innumerevoli e nessuno, a sua conoscenza, le aveva mai racchiuse nell’esiguo spazio di un orologio da tavolo.

Il marchese ne era ben cosciente e reiterò quel punto: «Come vi ho già detto, il tutto deve avere le più piccole dimensioni possibili, non più di due palmi d’altezza… in un contenitore d’oro o dorato, abbellito finemente con le insegne del mio casato di cui vi lascerò un disegno… Voglio anche un congegno originale, mai visto prima, dal quale si capisca che l’orologio è in funzione… ma per questo vi lascio mano libera, sono sicuro che saprete trovare qualcosa per dimostrare il vostro talento».

Come se non bastasse quella lista infinita, entrò nei dettagli della decorazione, enumerando le figure allegoriche da incidere sull’involucro esterno: dovevano esserci Apollo, Nettuno e altre divinità ancora.

Quando finalmente parve che avesse concluso, Bürgi analizzò a lungo gli appunti sul foglio davanti a sé, stringendo le labbra, pensieroso. Senza alzare lo sguardo, cominciò a far notare alcune cose:

«Un orologio può indicare l’ora dell’alba e del tramonto solo per un luogo preciso… se è regolato per Padova, per esempio, non lo si può utilizzare a Roma…».

«Certo, si capisce», disse il marchese.

«Nel sistema orario all’italica» – ogni orologiaio sapeva che nella penisola vigeva un sistema diverso che oltralpe – «l’inizio del nuovo giorno coincide con il tramonto e termina al tramonto del giorno successivo; ne risulta che solo l’ora dell’alba varia ogni giorno…».

«Assolutamente, maestro, ne sono cosciente». Il nobiluomo sembrava annoiato da quelle constatazioni. Per un attimo osservò Bürgi con sguardo interrogativo, prima di domandare, quasi in tono sprezzante: «Ne debbo desumere che voi potete realizzare il meccanismo da me desiderato… oppure no?».

“No, di certo no”, pensò Costanzo, rimasto con le orecchie tese per tutta la durata della conversazione.

Invece Bürgi esclamò: «Certo che posso!».

L’apprendista si meravigliò moltissimo: accettare così, senza rifletterci seriamente, senza studiare prima la possibilità di realizzare il progetto! Un simile automatismo era enormemente complicato, Costanzo se ne rendeva perfettamente conto pur nella sua esperienza limitata.

Infatti il marchese sorrise, palesemente soddisfatto della risposta. E subito affrontò la questione del compenso, come per evitare che l’orologiaio potesse cambiare idea: «Ovviamente un simile gioiello, prodotto dalla vostra rinomata bottega, richiederà molto tempo e molto lavoro… Sono disposto a pagare la metà di venti fiorini d’oro oggi stesso, e l’altra metà quando, fra un anno circa, riceverò l’opera al ritorno dal mio viaggio… Cosa ne dite?».

Bürgi dissimulò a stento la sorpresa. La cifra offerta era elevatissima: venti fiorini d’oro! Non credeva alle proprie orecchie. Inoltre, le condizioni – metà alla comanda e metà alla consegna – erano eccezionalmente favorevoli. Senza volere si ritrovò a sorridere, inebetito.

«Eccellenza, il vostro umile orologiaio qui presente non può che inchinarsi davanti a tanta munificenza» disse con gli occhi spalancati.

«Perfetto, maestro». Alzandosi dalla sedia con uno scatto che tradiva l’abitudine al comando, il marchese ribadì: «Vi prego, vorrei concludere al più presto!».

«… Adesso?».

«Sì, adesso».

Bürgi non era abituato a una simile foga.

«Potremmo andare dal mio avvocato… si tratta del signor Dickhart… il suo studio è a due passi…».

«Benissimo, andiamo subito, maestro, andiamo!», e con queste parole l’imperioso nobiluomo uscì dall’ufficio.


«Quel maledetto marchese…», disse Costanzo fissando sconsolato il tavolo di legno.

«Quindi il marchese diede comanda di un orologio astronomico molto sofisticato», provò a riassumere il confessore cercando di trovare un nesso con le imputazioni portate al giovane.

«Sì… ma un meccanismo irrealizzabile!» replicò Costanzo.

«Irrealizzabile… dunque non è l’arnese magico… cioè, intendevo… l’oggetto sacrilego che ti è stato trovato addosso e che hai affermato di aver costruito?».

“Arnese magico”, aveva detto senza volerlo, ingannato dalla curiosità, e Costanzo sorrise. «Sì e no… non era quello, ma poi lo divenne…», sussurrò con calcolata ambiguità.

La risposta enigmatica infatti confuse il confessore, che per il momento preferì sorvolare sulla questione e chiese: «Ma cosa consegnò Bürgi, quando un anno dopo il marchese si presentò a ritirare l’opera, secondo i termini del contratto?».

«A dire il vero, il marchese non venne mai più a Kassel».

D’improvviso Costanzo tacque. In quel periodo, ai tempi della visita del marchese, aveva vissuto momenti indimenticabili, e ripensò alla sera in cui per la prima volta aveva accompagnato il maestro all’osservatorio astronomico di Guglielmo IV.

Costanzo entra per la prima volta nell’osservatorio astronomico di Kassel

Nella bottega gli uomini erano affaccendati: mancava poco alla chiusura. Bürgi vide l’apprendista intento a ordinare secondo il loro diametro gli assi di acciaio prodotti alla forgia. Aveva cominciato ad apprezzare quel ragazzo: Costanzo lavorava nella bottega da circa mezz'anno e imparava molto in fretta. Era il sesto figlio di un bravo orafo a cui Bürgi affidava i lavori di rifinitura esterna di alcuni orologi. L’orafo gli aveva chiesto di assumere il giovane, senza insistere, ma sottolineando che era il figlio che più gli assomigliava. Aveva detto il vero: come il padre, Costanzo era diligente e rispettoso. Bürgi pensò che fosse ora di mostrargli la collezione di segnatempo del langravio e di formarlo alla loro manutenzione.

...



ESTRATTI

[...] Wittich affermava che non c’era alcun margine di libertà, che non si trattava di una scelta: «La “verità” è data delle Sacre Scritture. Per tre volte è detto che la Terra è immobile!».

«E sia», diceva Bürgi, «ma questo è un problema di teologia, non di astronomia».

Perché, come astronomi, non invocare piuttosto un criterio di semplicità, di economicità? Se equivalenti, che si prenda quello che richiede meno calcoli, meno ruote dentate! [...]

Rothmann lo scrutava socchiudendo sempre più gli occhi: non lo aveva mai sentito parlare in quel modo. Per l’orologiaio, le opere di Tolomeo e di Copernico, i loro sistemi cosmologici, non erano altro che “strumenti” analoghi a un dispositivo meccanico ‒ costituito da ruote dentate e quadranti come i suoi orologi planetari ‒ dispositivo capace di indicare nel corso del tempo la posizione degli astri. La funzione dello "strumento" era di computare le coordinate di quelle luci sulla sfera celeste, come viste dalla Terra, e basta; i dettagli del meccanismo nascosto all’interno dello “strumento”, matematico o meccanico che fosse, non avevano alcuna importanza.

L’astronomo rimase immensamente sorpreso da quel pensiero: separare la “realtà” dallo “strumento” costruito per descriverla. Un sistema cosmologico, nella visione di Bürgi, non rappresentava la verità, ma ne era solo un’immagine, un surrogato, un modello, come disse a un certo punto. A quella parola Rothmann ebbe una specie di sussulto nervoso e fece una risatina stridula. Quel modo di vedere le cose era all’opposto di tutto quanto avesse mai udito, o pensato lui stesso. [...]

[...] Bürgi ripose la volvella in una busta e gliela consegnò, quindi la accompagnò alla porta. Nel passare accanto al banco di lavoro dove arrivando lo aveva visto indaffarato, Johanna si fermò e gli chiese: «Cosa state fabbricando?».

Jost prese in mano il piccolo meccanismo che in quei giorni aveva finito di assemblare su una base di legno per verificare che funzionasse come previsto. Lo alzò con cautela fino all’altezza degli occhi di lei e, con un dito, diede una spinta a un peso per mettere in rotazione la grande ruota di centro. Subito iniziò una specie di danza, con due stanghette che oscillavano in sincronia, mentre l’una avanzava l’altra indietreggiava e raggiunto l’apice dell’oscillazione il tutto s’invertiva, e due palette andavano successivamente a toccare la ruota dai denti triangolari. Pareva che tanto la spingessero tanto la frenassero, delicatamente.

«Sembrano due persone che ballano tenendosi per mano», osservò lei.

Jost trovò il paragone molto ben scelto. Quell’equilibrato e armonioso movimento era per lui il segno d'essere riuscito a ottenere ciò che si proponeva, ed ebbe di nuovo conferma di quanto la signorina Johanna Bramer fosse la donna perfetta per lui.

Forse lei glielo lesse nel pensiero, perché raggiunta la porta si fermò e lo guardò in una strana maniera, come in attesa di qualche cosa di più. Fu sufficiente perché lui si mettesse a farfugliare delle parole incomprensibili, abbassasse lo sguardo a terra, e si ritirasse all’interno della bottega, barricandosi dentro. [...]

Tutta la vita di Jost Bürgi era stato un imparare dalla saggezza altrui, un istruirsi osservando la maestria di chi già possedeva la conoscenza. Il padre gli aveva insegnato il lavoro della forgia. Dalle mani dei migliori artigiani aveva imparato a sagomare il metallo, a fabbricare le ruote dentate e a riunirle in ingegnosi meccanismi. Astronomi e matematici lo avevano aiutato ad acquisire la destrezza di mente necessaria al suo mestiere. Qual era lo scopo di tutto ciò? Qual era il disegno di Dio nel dare all’uomo la facoltà della conoscenza? E divorò un altro delizioso panpepato, dal sapore ancora diverso dal precedente, un susseguirsi di sorprese.

Doveva assolutamente procurarsi i disegni del cronometro, far spiare l’orologiaio, sorvegliare tutto ciò che si faceva dal rivale. La spia svizzera, dicevano, conosceva bene il suo mestiere.

«Eccellenza», disse la voce di un domestico, «un visitatore di nome Ferdinand von Jaklin è giunto in carrozza».

«Von Jaklin?». Il “von” non gli risultava, e Tycho Brahe si diresse verso le scale con una certa curiosità. «Von…?», ripeté camminando.

«La Guardia Assiana!?» chiese incredulo Ansano quando gli fu riferita la notizia. «Dove l’hanno portato? E lo scrigno con il congegno?». L’alchimista rabbrividì.

«L’hanno condotto nel palazzo Renthof…», rispose il suo uomo di fiducia, «e hanno requisito lo scrigno».

Tutto ciò era molto logico, ma ora sul suo volto si leggeva un’espressione di autentica meraviglia. Cos’era mai quel ripetersi? Com’era possibile? Era come se i suoi numeri rossi e neri descrivessero un cerchio, come se quella progressione geometrica decimale si chiudesse per ripetersi identica. Davanti ai suoi occhi si verificò una specie di miracolo matematico, di cui non capiva il motivo.

«Una cometa?» lo interruppe il langravio.

Rothmann scosse la testa con aria dubbiosa.

«Le comete, come vostra altezza sa benissimo, sono accompagnate da una lunga coda ben visibile. Questa luce intensissima – a dire il vero molto più luminosa di qualsiasi cometa – sembra non averne».

«Forse la vediamo in un momento particolare del suo moto… come un cavallo che corre contro di noi e, da lontano, sembra privo di coda!».

«Forse sua altezza ha ragione», concesse Rothmann senza troppa convinzione.