23 luglio 2021

È partito l’ultimo treno

Fu così, di punto in bianco, che si accorse dell’orario. Merda, mancavano due minuti di orologio alla partenza del treno. Si alzò dal letto sfatto che ormai conosceva a memoria, inciampando nelle lenzuola macchiate di sakè. Prese la borsa di pelle e si tuffò verso la porta del monolocale trasandato. Un muggito proveniente dalla camera la fermò: “Non mi saluti nemmeno?” chiese da sotto la matassa di coperte la voce dal tono irritante. Sara tornò, sempre correndo, verso quel letto per stampare un bacio frettoloso sulle labbra di Nic. Poi scivolò giù dalle scale tentando di sfruttare la suola piatta degli scarponcini consumati. Corse all’impazzata verso la stazione. Le luci soffuse dei lampioni nella nebbia invernale sembravano fermare quel mondo fatto di acqua cristallizzata e asfalto. Mentre ansimava per raggiungere la ferrovia, il paesaggio le sembrava ripiegarsi all’indietro come le pagine di un libro pop-up per bambini. Arrivò al binario uno e, accorgendosi dell’assenza di orari sul tabellone, imprecò tentando di ritrovare il respiro lasciato lungo la via. Quello che aveva appena perso, era l’ultimo treno della serata per tornare a casa.

Calma piatta. Dopo venti minuti di incertezza sul da farsi, si sedette sulle panche presenti all’interno della stazione. L’orologio di fronte a lei segnava le 23 in punto. Inizialmente si infuriò con il servizio dei trasporti. Non era possibile che l’ultima tratta passasse alle 22.40. Appena la rassegnazione soffocò la frustrazione, se la prese con se stessa. A ventun'anni non si era ancora decisa a prendere la patente. Non per pigrizia, si disse come per rassicurarsi, giocando per l’ennesima volta con quella scusa di matrice ambientalista che indossava come una maschera pirandelliana. Non perchè non lo fosse, ambientalista, ma perché quando poteva si raccontava un mucchio di bugie. Quel senso di confusione nei confronti del mondo le forniva una vivida immaginazione per creare un pianeta personale dove ogni suo atto fosse perfettamente giustificato. Si sentiva, in un qualche modo, diversa dalla massa di persone che le vivevano a fianco. Binari paralleli di vita senza incroci o stop. E così, aliena nel paese natio, si limitava a farsi calzare dalle scarpe degli altri.

Amarezza. Un pensiero si fece strada in quella serale follia. Non aveva considerato, nemmeno per un istante, di poter tornare indietro e, a quattro minuti di distanza, intrufolarsi nuovamente nell’appartamento di Nicola per dormire da lui. Quella possibilità era stata inconsciamente scartata dal momento in cui la voce di lui l’aveva richiamata in camera. Le si scatenò nell’immediato un moto di rabbia furiosa. Prese una penna della borsa disordinata e la scaraventò contro il tabellone elettronico spento.

Nicola. Ecco di chi era la colpa. Se non l’avesse costretta a salutarlo, magari, in quel momento sarebbe appena scesa dal treno. Perché mai non poteva accettare che lei se ne andasse e basta? Dopo un anno di frequentazione era possibile che la volesse sempre accanto? Come quel pomeriggio, che l’aveva chiamata chiedendole di andare a casa sua perché lui si sentiva male. Così, nonostante avesse avuto molte altre faccende da sbrigare, Sara si era recata nella topaia in cui Nicola viveva. L’aveva trovato nel letto raffreddato e dolorante e tutto quello che aveva dovuto fare era stato tenergli compagnia, come una balia con un bambino capriccioso. Ecco, se non l’avesse costretta ad andare a casa sua, in quel momento sarebbe stata nel suo letto a leggere un libro in tutta tranquillità.

Sì alzò e prese la porta. Aveva bisogno di sbollire la rabbia. Appoggiata a un colonnato della stazione tirò fuori una marlboro dal pacchetto consunto. Quella sera se l’era meritata una sigaretta. Poteva dedicarsi al leggero respiro di catrame per lasciare che i pensieri fluissero più rilassati.

Quando aveva iniziato a rendere quell’elegante gesto di stizza proprio, era ancora al liceo. L’aveva sperimentato casualmente, quasi per spuntare un’altra voce dalla lista immaginaria delle cose che “fanno diventare grandi”. Aveva tossito, assaporato il fumo denso, senza nemmeno buttare giù per paura di bruciarsi la gola. Si era quindi convinta che non l’avrebbe più fatto. Poi eccola di nuovo a riprovarci, insieme ad amici habitué e serate gelide, come se quel piccolo cerchio di fuoco le avesse potuto scaldare mani e petto.

Nicola fumava raramente, in quelle occasioni di convivialità in cui decideva di adattarsi agli amici. Non amava stare fuori, non amava studiare e chiacchierava solo quel tanto da far comprendere di essere presente e in ascolto. Amava Sara. Questo era certo. L’aveva corteggiata a lungo prima che lei si fosse convinta a uscire con lui. Aveva iniziato a frequentarlo quasi per scherzo, per convincere se stessa di avere un ammiratore. Poi le uscite si erano moltiplicate e si era trovata, nel giro di pochi mesi, a vivere una relazione seria e impegnativa. Davvero ogni propria decisione era stata governata dalle continue sfide di forza nei propri confronti e in quelle per compiacere il volere degli altri?

Abitava con i genitori con cui litigava quotidianamente, aveva interrotto gli studi per trovare quella quiete che solo chi fa ciò che vuole può provare e, nonostante il tentativo di fuga, si era trovata incatenata a un lavoro che le faceva morire ogni parvenza di leggerezza inseguita da anni. Stava con un ragazzo che disprezzava solo perché la voleva vicina a sé.

Quando le verità mal celate comparvero nella sua mente, la ragazza cercò di farle uscire, soffiando dal naso con tutta la forza il fumo dell’ultimo tiro. Fu nel gettare la sigaretta a terra che si accorse della presenza di un clochard a pochi metri da lei. Stava rannicchiato contro una colonna vicino all’ingresso della stazione. Si mimetizzava nel paesaggio notturno. Anche lui fumava con l’aria distratta di chi si era perso in un’illusione.

Passarono dei minuti. Sara si interrogò sulla vita dell’uomo. Cosa l’aveva portato a non avere più una casa? Una disgrazia? O forse era stata una scelta personale? Si chiese cosa comportasse vivere senza convenzioni sociali. Quali libertà si era pronti ad afferrare e quali si aveva l’effettiva possibilità di sperimentare?

Sara sapeva che i propri pensieri stavano sconfinando arrogantemente la propria linea razionale. Tutto quello che una persona poteva desiderare, lei lo possedeva. Eppure stava lì ad invidiare un uomo che era costretto a dormire al di fuori di una stazione, macchiata da un senso di colpa lancinante. Ma in quella notte stellata il filo della razionalità si era librato in volo e reso flessibile, intrecciandosi con il confine pericoloso della follia. Iniziò a desiderare una vita diversa. Si accasciò. L’infelicità che la stava trascinando a terra derivava da situazioni facilmente ribaltabili. Lasciare un ragazzo che non amava, trovare un lavoro che la rendesse soddisfatta, compiere delle scelte come le altre persone facevano in continuazione.

Una chiamata ad intermittenza la risvegliò dallo stato di trance. Sullo schermo dello smartphone appariva un nome: “Nicola”. Riluttante, Sara rispose. “Amore sei arrivata a casa?”. Quelle parole la riportarono a un piano di realtà. Aveva davvero intenzione di passare tutta la notte dentro alla stazione? Forse la topaia del ragazzo non era così orripilante, in fin dei conti. Una tisana l’avrebbe potuta bere anche lì. E poi, il giorno seguente, avrebbe comunque potuto riprendere in mano la sua vita. Nicola era pur sempre un bravo ragazzo che l’amava, si poteva davvero desiderare qualcosa di meglio?

“Ho perso il treno, posso dormire da te?”. Si alzò, tornò all’interno della stazione. Raccolse la penna lanciata a terra per cancellare ogni traccia di ribellione. Poi si incamminò lungo la via. Lenta, ebbra e spaventata dai propri pensieri. Aveva perso anche l’ultimo treno di lucidità.



Letizia Chesini

Scopri tutte le pubblicazioni dell'autrice