17 novembre 2020

Volta la carta

Volta la carta


C'è una donna che semina il grano

Volta la carta si vede il villano

Il villano che zappa la terra

Volta la carta viene la guerra

Per la guerra non c'è più soldati

A piedi scalzi son tutti scappati

De André, Volta la carta



C’era una volta nei tempi mistici scanditi dal biondo grano e il rosso sole del raccolto un villaggio. Era una comunità piccola e polverosa, adagiata dolcemente ai piedi di un monte il cui nome non deve interessare al Lettore. Gli basti solo sapere che era luogo di scavo minerario e che ogni mattina il viso pietroso e boscoso del monte salutava una gran fila di omini che con piccone e un tozzo di pane si dirigevano al lavoro. E al calar del sole, amico di vecchia data, il monte faceva un cenno a quegli anneriti del più nero carbone. Un villaggio polveroso dove i panni stesi al mattino si imbombivano della terra rossa portata dal vento umido del sud, che spesso soffiava impetuoso. Il villaggio era abitato per lo più da minatori e contadini, insieme alle famiglie numerose. Uno straniero di passaggio che si fosse addentrato tra le viuzze strette strette e bruciate dal sole avrebbe sicuramente sentito il vociare dei tanti bambini vestiti di stracci, con il viso sporco della stessa terra rossa e che in festa ballavano e ciarlavano allegri, agghindati con ghirlande di fiori e le risa, quante risate sui minuti volti. E le corse, i giochi nel piazzale della scuola fatiscente, e il viso severo del professore anche lui impolverito dal vento che soffiava impetuoso. E se lo straniero si fosse avvicinato al limitare del villaggio, nacoste da una fila di cipressi erti e profumati avrebbe notato due casupole poste l’una di fronte al’altra. L’una d’azzurro celeste screziata dal tempo, l’altra lillà come i ciclamini che la circondavano, interrotti dalle stesse violette primaverili che agghindavano i bambini nelle strade. E via così la musica di un flauto fondeva il dolce aroma del vento del sud con il sentore carico di pioggia e l’aspetto cencioso dei cani e dei minatori sporchi di montagna. E nel piazzale sassoso tra le due casupole ecco il berrettino rosso di un bambino che timido timido si piegava a cogliere l’unico punto di giallo che tra l’erba alta era sorto e, una volta colto con le manine delicate correva, tutto paonazzo, dalla bimba boccolosa seduta su un dondolo di legno marcio. E pensoso con le stesse manine delicate regalava il frutto del suo duro lavoro. E Bambino e Bimba cominciavano a ballare per gioco.

Volta la carta

“Benvenuto. Benvenuto a te .” disse un tizio vestito di nero e in maschera con dei grandi occhiali rotondi presi in un antiquariato. “ Hai aperto la porta cigolante ad un giardino di cartapesta colorato. Sei entrato di soppiatto e hai osservato in silenzio un quadretto, grazioso e minuto, appeso al muro e dai colori ocra e marron scuro. Hai seguito le pennellate decise e i puntini macchiati di colore sbiadito. Hai voltato la testa al richiamo di un suono arcaico e poi hai chiuiso gli occhi e sentito un profumo. Benvenuto a te Lettore, sono il Narratore” proseguì in sordina ma evidentemente emozionato. “Adagiati su una poltrona, chiudi gli occhi e ascolta la melodia dolce delle pagine che scorrono. Ripensa all’ultima volta che hai ascoltato una storia. Perché una storia è proprio quella che starai per ascoltare...”. E l’ometto arzillo iniziò a raccontare…

Volta la carta


C’era una volta, in una città lontana dai monti, lontana dal mare e lontana dal vento una Signora. Una donna distinta e curata e straniera. Passata ormai da tempo la mezz’età, aveva trattenuto con sé però lo sbrilluccichio degli occhi dei bambini, anche se nei suoi occhi di perla spesso passava, per qualche secondo, un velo di nebbia umida che prontamente lei si prendeva cura di spazzare via con un sorriso, seppur incrinato, e continuava nel suo indaffaramento quotidiano. Non era ricca, e viveva nella soffitta di una grande casa padronale dove serviva come governante, al limitare della città, lungo una via che costeggiava il bosco. Il sentore di lei si avvertiva al solo profumo forte, un po’ ammuffito, di ciclamino che la avvolgeva quando si avvicinava, e l’ultima cosa a ricordarsi erano quegli occhi stretti e belli, che scrutavano il cammino davanti a lei passo dopo passo. Era una di quelle signore come oramai è raro trovare, che sprigionano serenità al solo guardarle e che paiono guardare in profondità già dal primo sguardo. E le piaceva chiacchierare, oh quanto le piaceva, e scoppiare in grasse risate anche senza motivo.

Un tempo la sua casa era sempre piena di mocciosi, di musica, di faccende. Non c’era un attimo di silenzio.

Ora rimbombava il vuoto e la polvere del tempo ricopriva i cassettoni pieni di segreti, anche se la signora cercava di arieggiare casa sempre. Evitava la polvere, soprattutto quella rossa portata dal vento, come il diavolo. Quando i ricchi padroni di casa erano morti avevano lasciato nel testamento la volontà di lasciare tutto alla Signora e al Marito. Fortuna inaspettata che lei aveva attribuito a Dio, “che con i suoi piani ci guarda tutti dall’alto”.

Nella lettera stava scritto “ Lasciamo in eredità alla Signora, dolce signora dei fiori, la nostra casa, perché se ne prenda cura con lo stesso amore con cui curava i gigli, e al Marito, suo fedel compagno”. Si commuoveva ancora a leggere le parole di inchiostro e quando alla fine arrivava al “fedele compagno” non riusciva a trattenere un singhiozzo, un singulto e gli occhi si facevano pioggia da nebbia. Il marito era morto da anni. Improvvisamente.

Allora preparava le sementi e il concime che, così come faceva in montagna nel suo villaggio natìo, andava a versare nel giardinetto. Poi, con il lumino in mano, si incamminava verso il cancelletto di ferro arrugginito del cimitero. E sfiancata stava per un ora sul luogo di sepoltura del marito, con il caldo, con il freddo, con la pioggia e con la tempesta. E osservava la tomba modesta, attorno alla quale anni prima aveva piantato dei fiori gialli. Non perdeva mai la speranza di rivederli fiorire ma i bulbi mai avevano voluto crescere. Lei non conosceva la botanica, se non quella che si impara con l’esperienza, ma tutti i fiori di cui appassionata si era presa cura erano sempre sbocciati, tutti tranne quei fiori gialli. Inspiegabilmente non davano segno di vita. Finita la visita, sgangherata, chiudeva il cancelletto dietro di sé e tornava alla vecchia casa sul limitare del bosco, passo pesante dopo passo pesante”

Volta la carta


Il fuoco che riscaldava la sala-giardino si spense fievole insieme al racconto. Nel buio il Lettore si mise a cercare lo strano ometto, avido di continuare la Storia. Pensieroso si alzò dalla comoda poltrona di cartapesta, si voltò per osservare una stradella di ciottoli che conduceva fuori dal giardinetto e che si perdeva in un bosco ombroso, oltre al quale si intravedeva una cittadina illuminata a notte. Un’eco lontana come sognante accolse lo sguardo che invano cercava quell’omino piegato e misterioso “Segui i fiori...”. E così fece.

Volta la carta


Fiore dopo fiore aveva detto, facile a dirsi ma quale fiore seguire, c’erano violette e rose profumate, e margherite e i bei papaveri rossi anche se si avvicinava l’autunno e qui e lì dei denti di leone. Non ricordava perché né in quale momento avesse deciso di mettersi ad ascoltare quel curioso omino, ma proseguiva e raccoglieva i fiori, sarebbero stati un buon modo per presentarsi una volta arrivato. Sciocco ingenuo, arrivare sarebbe arrivato, ma dove? e a chi avrebbe mai regalato quei fiori?

Il Lettore proseguiva tentennante e nel mentre rimuginava e rimuginava, distratto solo dal cinguettio intermittente di un cardellino che svolazzava lì vicino.

Cammina cammina cominciarono a delinearsi i contorni di una cittadina ridente dall’aroma di cioccolata, che si sviluppava in riva ad un fiume placido, circondata dal bosco e da campi fertili. Il Lettore quasi non si accorgeva, tutto intento alla ricerca dei fiorellini, della nuova pagina che era intento a divorare. Tutt’al più la sua ricerca affannosa ed ingiustificata si era fatta ancor più spasmodica, dal momento che la giungla di cemento si era sostituita al tenero sottobosco, e, come si può immaginare, i fiori si erano fatti molto radi.” L’ultimo fiore era giallo e principesco”, che parola fuori luogo, pensò divertito. Accompagnato dalle parole del Narratore alzò lo sguardo e sbigottito si rese conto di essere giunto al portone automatico di un ospedale, che fare? Uno spiffero di vento polveroso e rosso lo sfiorò ,delicatissimo. Bisognava entrare. Brivido simultaneo, un passo e aprì la porta. Vociare indistinto. Lui, come in trance, cercò di chiedere informazioni, non ascoltate, non percepite. Occhi indaffarati lo penetravano e proseguivano attraverso di lui. Il sentore acre di alcool, appena smorzato dal caffé industriale che riposava nelle Thermos silenti e fumanti gli trafiggeva le narici abituate al profumo dei fiori. E un blu intenso che pervadeva l’ambiente sterile e monotono, smosso da alcune onde arancioni, fiammelle appena animate lo confondeva, e di certo non lo aiutava la luce fredda delle lampade al neon. Si sentiva perso e dunque si sedette, placido, in quell’angolo vicino alle thermos e cominciò ad osservare.

Volta la carta


Cammina, sul pavimento

plasticato scivoli con le

luci profumate di caffè

di bassa qualità


guardi, saluti, sorridi

increspa il viso tuo non

vedo bene, alzala per

favore, la mascherina


non sento, ripeta

procedo, la schiena spezzata

sorridi, mi sento

mancare, con loro mi perdo


increspa le rughe, inclinate

sì, brilla di luce, riflesso

di menti s’accede, nel cuore


Sorridi


Respira


Volta la carta


“Devo sempre guardare diritto davanti a me, così ha detto il dottore, sai gentile infermiere?” “Fa bene, signora, si regga ben salda al mio braccio e tenga lo sguardo fisso di fronte, brava così”.

“Ormai lo sento, è la fine. Io sono una che fa tutto da sola sai? Non ho mai chiesto aiuto a nessuno. Anche adesso che sono una vecchia vedova cucino tutto da me, faccio le faccende domestiche, vado in chiesa e al cimitero sempre da sola. Certo, con questa schiena spezzata che mi ritrovo non è più come quando correvo per le strade , al paese mio, tutta inghirlandata di quei bei fiori che qui non trovo più. Però mi ricordo ancora quelle canzoncine che avevamo imparato alla scuola elementare. Che bambini sciocchi eravamo, a noi non ci importava niente di studiare, eravamo proprio sciocchi sai? Tu sei bravo che studi. Noi ci facevamo gli scherzi con il professore, quel vecchio. Mi sembrava vecchissimo ma probabilmente era poi poco più che quarantenne”

“Signora non si sforzi troppo di parlare, si potrebbe stancare, faccia un passetto dopo l’altro, così”

“Eh sì sono proprio alla fine, sono sempre stata bene ma poi stamattina sono caduta a terra. Che vergogna, l’ambulanza tutta per me, ho disturbato per nulla… però è la fine. Fermati qui, vuoi che ti canti una canzone? Fa così: Il cardellino volava nel cielo, profumato colore io credo, finchè le ali farai svolazzare, il suo bel canto potrai sentire…”.

Il Lettore quasi assopito sulla sediolina si era risvegliato al canto improvvisato della paziente. Una voce leggermente incrinata ma incredibilmente chiara per la sua età. Parlava con un leggero accento esotico, una melodia straniera. Incuriosito si avvicinò all’improbabile coppia di personaggi. All’Infermiere e alla Paziente.

“Si sieda signora, sguardo fisso davanti a lei che se gira troppo la testa perderà l’equilibrio”.

Si trovavano in uno stanzino da bagno e la signora era sul punto di lavarsi il viso e prepararsi alla giornata, sulla mensola una boccetta, il Lettore presunse di profumo. Si avvicinò non visto ad annusare l’aroma: ciclamino. Chissà perché gli richiamava un ricordo rarefatto, o qualcosa di simile.Forse ne aveva letto in una pagina precedente ma ricordava di essersi distratto in quel paragrafo. Nel frattempo la conversazione improbabilmente amichevole si infittiva. L’Infermiere, come del resto anche il Lettore, erano catturati dalla parlantina della Paziente, e da quelle grosse risate.

“Ma cosa dice, non si preoccupi. I dottori qui sono molto competenti e la faranno uscire al massimo entro una settimana”

“Ma no, caro Infermiere, io le ho detto che è la fine, Dio anche lo sa, e così come lo dice Lui dall’alto io non posso che piegarmi come i bei fiori del mio giardino quando arriva l’inverno e lasciano la terra per rimanere impressi nella memoria del freddo, a mantenere il ricordo di cui si è persa la chiave. A riposare nei cassettoni polverosi. Io lo so, io lo so che è la fine, carissimo Infermiere”

“Non dica così Signora, non mi faccia arrabbiare, come fa a darla vinta così facilmente? Non vuole combattere, continuare a vivere? La prego signora, guardi diritta avanti a sé nei miei occhi e mi dica che non vuole combattere e io l’accetterò”

“Come sei ingenuo carissimo Infermiere, combattere perché? Mi fai sorridere. Combattere per cosa? Sai, caro infermiere ci sono momenti della vita nei quali, come una rondine o, se preferisci, un cardellino, ci si deve preparare a partire. Bisogna fare le valigie e salutare i cari, la terra e i fiori e volare. Volare dove, ecco questo non si sa, ma volare. E non fraintendermi, ci sono momenti in cui bisogna mordere la vita, che dico azzannare e puoi stare certo che io non me li sono fatti mancare. Però ormai sono diciannove anni che mi preparo, che attendo paziente come un bulbo al riparo nel tepore della terra di sbocciare. Diciannove anni di abitudini solitarie e pieni di gioia, leggermente velata, ma pur sempre gioia. E comunque diciannove anni passatti in terra a mettere radici. Sono diciannove anni che il mio caro marito è venuto a mancare e da allora sono in attesa. Ho perso la pazienza, a volte, ad aspettare, ma mai la speranza. Perché l’amore, sai caro Infermiere, è come un bel fiore. Lo curi ogni giorno, lo proteggi dal vento, lo innaffi e lo concimi. Lo osservi e lo ammiri e ci rimani attaccato. E se tu farai tutto questo, caro Infermiere, l’amore ti ricambierà e tu ne sarai così legato che lo saprai, senza nulla di sensazionale. Così ho fatto tutta la mia vita, così mi sono presa cura dei miei fiori, che ho tutti salutato. Li ho annaffiati, concimati, ammirati e osservati. Ecco. Ma adesso è la fine, niente di più

“Non capisco dove vuole arrivare, cara la mia Signora. Perché proprio ora lei sente che la Fine è arrivata?”

“Vedi, Infermiere, se mi lascerai parlare te lo racconterò. Tutti i fiori della mia vita mi hanno dato amore, mi hanno parlato. Tutti tranne quattro, e ricordati quattro, bulbi di giglio. Li piantai diciannove anni fa sulla tomba di mio marito. Ogni giorno li ho annaffiati, ho estirpato le erbacce e ho dato loro del concime. Sai come funziona coi fiori vero?”

“Certo, prosegua la prego”

“Ecco dicevo ho fatto tutto il necessario, ma niente da fare. Due giorni fa, però, sono tornata come ogni giorno al cimitero e ho notato qualche cosa di strano. In un angolo il primo giglio aveva iniziato a sbocciare. E ci sono tornata il giorno dopo ancora e due gigli erano sbocciati. Stamattina erano ormai tre.”

“Non capisco dove vuole andare a parare, signora”

“Ma non capisci, Infermiere: è mio marito, mi sta chiamando. Mi sta dicendo di lasciare i fiori per ricongiungermi a lui. Io lo so, queste cose le sento”

Il Lettore nel frattempo estremamente emozionato cominciava a intendere qualcosa, o a non capirci più nulla. In ogni caso non si era accorto di una figura quasi fantasma che era comparsa dietro di lui. Un omino arzillo e piccoletto, con una maschera e dei grandi occhiali d’antiquariato. Nè l’infermiere la Paziente, sembrava, avevano fatto caso al Lettore e all’altra figura e continuavano nel dibattito acceso come nulla fosse. Lentamente l’omino della Storia, questo il nome dell’ometto, si sfilò la maschera che copriva il volto segnato dal tempo.

La Paziente si interruppe nel suo monologo,d’improvviso, per dire :

“Eccolo qui, ti vedo, mi hai trovato di nuovo, bambino dal cappello rosso. Sei tornato a prendermi, prendimi la mano” e cominciò a guardare sempre più fissa davanti a sé stessa, nessun movimento delle pupille. L’Infermiere preoccupatissimo, non intendeva il farfugliare indistinto e pigiò il campanello allarme “ Aiuto! Aiuto! La stiamo perdendo!”. il Lettore scosso invece intendeva eccome la Favella e vedeva la mano di carne della Paziente e poi un’altra mano, che avrebbe giurato fosse fatta di luce, che da quella si estendeva

“Prendimi per mano, bimbo dal cappello rosso”. Parole che, al Lettore, più che pronunciate, parevano impresse indelebili su un foglio di carta, come dettate a uno scrivano e fatte leggere molto tempo dopo. In più non capiva a chi fossero rivolte, sembrava fossero nella sua direzione ma lui non conosceva la Paziente, almeno le tornava familiare ma probabilmente non aveva digerito bene la pagina, distratto dai fiori. Si voltò per controllare che in realtà la Paziente non stesse parlando proprio con lui (e in un certo senso era così, ma il Lettore non poteva saperlo).

Si voltò ma fu abbagliato da una luce gialla intensissima che si sprigionava da quella che pareva una mano rugosa. Anche questa mano tesa.

Si fece da parte e riuscì a mettere a fuoco la figurina di un omino anzianotto, aspetta… non poteva essere lui, l’omino misterioso, il Narratore. Stava ringiovanendo incredibilmente con il passare dei secondi. Il corpo della Paziente giaceva ormai inerte ma un profumo di ciclamini vivissimo si era sprigionato, e alla mano di luce si era attaccato un corpo, di bimba però, con dei graziosi boccoletti. Nell’allarme generale e le corse dei medici stupefatti e increduli, una voce risuonana, percepita solo dal Lettore e dalla Bimba:

“Sono qui Bimba boccolosa, sono tornato” “Ci hai messo tanto, Bambino, ci hai messo davvero troppo tempo” “ Hai ragione” parlò la voce che era infantile ma con la stessa melodia straniera dell’omino mascherato del giardino.

“Ti chiedo scusa, ti prego, mi perdoni? Ho cercato tutto il tempo un regalo per te”. Mentre pronunciava queste parole si avvicinò al Lettore e al mazzetto fiorito che egli con cura aveva raccolto lungo la strada ciottolata. Delicatamente lo prese tra le mani e sfilò abile quell’ultimo fiore del mazzo, il giallo principesco, lo plasmò con la luce gialla delle sue mani . Era un giglio, era il quarto giglio.

“Ecco”, porse il delicato dono. Rileggi la parola, Lettore, parola luminosa. Il giglio era divenuto di cartapesta.

“Grazie”, la bimba guardò diritto davanti a sé e scoppiò a ridere.

“Balliamo”

Volta la carta


“La Storia è finita, caro Lettore”, dissero insieme il Narratore e la Narratrice, con voce senza tempo, adagiati su una panchina di cartapesta luminosa.

Ascoltaci, osserva la nostra Storia: ammira il Bimbo e la Bimba che ballano, segui la Signora e il Marito, compatisci l’Infermiere e la Paziente. Raccogli i Fiori, fa sbocciare il Giglio. Ecco, tieni uno specchio e guardati, cosa vedi?

Grazie di averci tenuto compagnia, di aver abitato il nostro Mondo, è giunto il tempo per noi di attraversare le pagine. Eccoti la chiave, che era perduta, al giardino fiorito di cartapesta. Lasciaci salutarti, a presto. Se vuoi puoi andartene, se vuoi puoi rimanere. A te la scelta. Puoi percorrere nuovamente la strada ciottolata. Puoi sentire di nuovo il suono del Cardellino. Noi saremo qui, tra le righe, ad aspettarti.

Chiudi gli occhi, mettiti comodo e preparati a raccontare una Storia, perché è proprio quello che stai per fare.

Arrivederci caro Lettore, a presto”.

Volta la carta


É la fine”, come diceva la Signora, la Paziente, la Bambina Boccolosa. É la Fine di questa Storia, perché in tutte le storie, prima o poi arriva una Fine.

Ti ringrazio Lettore, chiudi il libro.

cordiali saluti,

Lo Scrittore

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andrea.bazzoli.ilcardellino@gmail.com