27 novembre 2020

Si necessita di Antigoni

Antigone: il personaggio di Sofocle più famoso proprio perché non ha mai smesso di essere attuale, dal V secolo avanti Cristo fino ad oggi. Ogni epoca, bene o male, ha avuto la sua, di Antigone. Uomo o donna che fosse, c’è sempre stato qualcuno che ha sentito il bisogno di non seguire le leggi che gli venivano imposte bensì quelle che lui riteneva giuste, anche se andavano in contrasto con le prime. Antigone è figlia di Edipo e, dopo la morte del padre, tornata a Tebe, assiste ad una guerra civile dove i suoi fratelli, Eteocle e Polinice, perdono la vita l’uno per mano dell’altro. Il nuovo re della città, Creonte, zio di Antigone, decide di proclamare Eteocle un eroe e di seppellirlo con tutti gli onori, negando questo privilegio a Polinice, che si era alleato con gli avversari, e vietando di mettere mano sul suo cadavere, pena la morte. Antigone, però, non riesce ad accettarlo: per quanto sia nemico dello Stato, Polinice rimane suo fratello e lei sentirebbe di tradirlo a non dargli sepoltura. Dilaniata da questo conflitto interiore, se seguire le leggi di Creonte e della città o se dar retta a ciò che lei sente essere giusto, alla fine Antigone opta per quest’ultima soluzione e, com’era prevedibile, viene punita. Si toglie la vita dopo esser stata rinchiusa in una cella e il suo suicidio porterà gli altri protagonisti a compiere lo stesso. Insomma, l’“Antigone” colpisce i suoi lettori o spettatori contemporanei proprio perché i dilemmi che si pone sono ancora oggi senza risposta e perché una risposta, forse, non c’è nemmeno, da quanto sono complessi questi temi. Sorge, però, un ulteriore dubbio: nell’opera, Antigone è fornita di una sua “legge interiore”, indipendentemente dal contesto che la circonda lei possiede un codice personale a cui fare riferimento. Viene spontaneo chiedersi: la morale è innata o ci viene imposta dall’esterno, tramite le esperienze che compiamo e la cultura in cui siamo immersi?

Questo interrogativo se lo sono posto in molti: d’altronde è vero che il contesto in cui si vive ha un ruolo fondamentale nella formazione della morale di ognuno, tant’è che la stessa azione può essere giudicata diversamente da persone di nazionalità, religioni o epoche diverse, ma è pur sempre vero che ogni uomo, indipendentemente da tutto ciò, sia sempre fornito della capacità di distinguere se qualcosa è giusto o sbagliato. Per questo motivo, filosofi e letterati sono stati a lungo divisi in due categorie: gli empiristi, che credevano che la morale derivasse dall’esperienza, e gli innatisti, che trovavano che essa fosse, per l’appunto, innata e che l’uomo avesse per natura un codice di regole intrinseco. Uno dei più famosi empiristi è sicuramente Thomas Hobbes, un filosofo inglese del Seicento, famoso soprattutto per la sua teoria politica: egli sosteneva che, prima della costituzione degli Stati e dei loro apparati, l’uomo si trovasse nel cosiddetto “Stato di Natura”, nel quale ogni individuo è libero e uguale agli altri. Tuttavia, per il proprio utile individuale, ognuno nutre il desiderio di ottenere sempre di più e non si fa scrupoli per raggiungerlo: insomma, ogni uomo è lupo per ogni altro uomo, homo homini lupus, e questa guerra di tutti contro tutti può essere risolta soltanto costituendo degli Stati con delle leggi. Si può dedurre, dunque, la sfiducia di Hobbes nei confronti dell’uomo, che viene dipinto come un essere spregiudicato, e anche che, se delle leggi sono così necessarie, vuol dire che egli non possiede un senso morale innato, ma che lo sviluppa solo grazie all’esperienza e alla paura di essere punito. Dalla parte degli innatisti, invece, troviamo Kant e Hume, due filosofi del XVIII secolo: il primo sosteneva che la morale non avesse legami con il livello di cultura o con la religione, ma che fosse intrinseca, dato che ogni uomo per natura sa discernere il giusto dallo sbagliato. Hume, similmente, affermava che le azioni dipendessero dal carattere individuale di ognuno e che in tutti gli uomini si potesse trovare un sentimento morale con cui si giudica ogni azione e che non segue un criterio oggettivo, ma soggettivo, poiché si basa su ciò che essa suscita nell’osservatore: la morale, dunque, non è fondata su altro che sulla natura di ogni singolo individuo.

Tuttavia, in fondo non conta davvero se la morale sia qualcosa di innato nell’uomo o di derivato dalle sue esperienze: ciò che aveva di speciale il pensiero di Antigone e quello di tutte le Antigoni della Storia è che riusciva ad astrarsi dal luogo e dal tempo in cui veniva formulato e riusciva a vedere più avanti rispetto a quello degli altri. Durante il periodo del Nazifascismo e della Seconda Guerra Mondiale, nonostante l’odio razziale dilagasse, vi furono persone che decisero di obbedire alla propria legge interiore e di offrire aiuto a quelli che venivano perseguitati; così come in ogni regime totalitario c’è sempre stato, e c’è ancora, malgrado la propaganda, chi non voleva adeguarsi alle regole imposte perché si accorgeva di quanto, spesso, fossero folli. Dunque, indipendentemente dalla sua origine, la morale di ognuno è strettamente correlata con il suo spirito critico, con la capacità di discernere se qualcosa sia giusto o no, che è tutt’altro che innata. Hobbes affermava che le leggi sono fondamentali perché senza di esse gli uomini sarebbero al pari delle bestie, ma, per quanto necessarie, non sempre sono giuste; in fondo sono creazioni umane, e gli uomini sono noti per essere fallaci. Ed è a questo che servono, in fondo, il sentimento morale e lo spirito critico: a riconoscere le cose sbagliate, che siano piccoli gesti quotidiani o addirittura leggi, e, come Antigone, è necessario anche avere la forza di sostenere i propri ideali per lasciare un mondo un po’ migliore alle future generazioni.

Caterina Sartori

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