13 novembre 2020

Raccontami una storia


Ti racconto una storia: “C’era una volta…” e inizia la fiaba, una fiaba di quelle semplici usate e consumate, che da bambini ci lasciano incantati, intessute su fili intrecciati che formano torri dalla punta invisibile e case dalle pareti di zucchero. Le fiabe, nonostante tutte le volte che le abbiamo sentite, ci tengono legati per tutta la loro più o meno eterna durata, da volta fino a quando non sentiamo, già con le fossette sulle guance felici e contenti. Le fiabe sono accenni di fantasia libera e disinteressata, almeno quelle più semplici (forse le più conosciute), che raccontano una storia scritta per far piacere e per far sorridere. Dalle fiabe raccontate per far addormentare prese ispirazione il moderno genere fantasy, in cui gli intrecci familiari sono sostituiti da grovigli inimmaginabili, ma questa è un’altra storia. Un po’ diverse dalle fiabe sono le favole. La favola nasce dalla fantasia, nelle sue trame vi sono soprattutto animali, alcuni umani e qualche volta piante, ma non è disinteressata, il suo scopo è insegnare qualcosa. Purtroppo la favola non sempre finisce con un felici e contenti, ma lascia un’idea precisa, ha un suo intento, una morale. Secondo la tradizione il primo che scrisse una favola fu Esopo, uno scrittore greco del VI sec. a.C. e moltissime delle favole che oggi si raccontano sono considerate sue, che siano originali o rielaborate (si ipotizza però che Esopo non sia stato l’unico autore di queste storie, ma che tanti scrittori abbiano contribuito insieme a lui ad inventarle). Vennero riprese infatti da vari autori di epoche successive, in particolare dallo scrittore romano Fedro vissuto nel I secolo a.C., che riscrisse la raccolta di Esopo in versi e che aggiunse all’intento morale uno scopo comico, e dal poeta e scrittore francese Jean de La Fontaine, vissuto molto più tardi nel 1600, che anche riprese i racconti di Esopo e di Fedro mettendoli in poesia. Nelle loro storie gli animali possiedono di solito caratteristiche specifiche fisse, il lupo è spietato, la volpe è astuta, il cane è fedele…caratteristiche che spesso anche noi oggi, avendole ereditate, attribuiamo senza pensare agli animali. Comunque i tratti e le passioni di ogni animale sono evidentemente riferite agli umani, sia i vizi sia le virtù. E le morali delle favole hanno dato vita ad avvertimenti, spesso in forma di proverbio, usati abitualmente nel nostro linguaggio. Ad esempio nella morale della favola “La gallina dalle uova d’oro” riconosciamo il detto Chi troppo vuole nulla stringe o in “La cicala e la formica” Chi nulla fa nulla mai ottiene o in “La volpe e la cicogna” Chi la fa l’aspetti. La morale delle favole è quindi un insegnamento che si considera giusto, non discutibile. Ma l’uomo è cambiato nel tempo, così come i suoi pensieri e i suoi principi, le sue “regole” e le sue abitudini. Ciò che era da tutti accettato ieri non lo è oggi e viceversa. Come in passato le favole e le fiabe vengono spesso utilizzate a fini pedagogici, il loro scopo è quindi introdurre ai più piccoli concetti complessi con storie semplici, storie che ricorderanno forse per sempre. E questi racconti appunto talvolta utilizzano trame, personaggi e caratteristiche che nel mondo in cui viviamo appaiono inattuali, ancora legate a preconcetti e a false credenze. Quindi oggi gli autorevoli insegnamenti delle antiche favole hanno ancora senso? Alcuni concetti sono distanti, vennero elaborati in un’epoca del tutto diversa, molto meno aperta. Alcune favole invece presentano molte critiche a vizi e lodi a virtù che coincidono con pensieri adottati anche oggi. Ad esempio non ci sono molti dubbi sul fatto che chi racconta bugie alla fine non sarà più creduto, come succede al pastore in “Al lupo! Al lupo!” (o che, almeno, l’azione in sé sia considerata quasi da tutti degna di biasimo); oppure che, come in “La lepre e la tartaruga”, un “avversario” non deve essere mai sottovalutato, questo concetto si adatta ai nostri giorni, in cui si è costretti continuamente e per ogni cosa alla competizione... ma se guardiamo ad esempio alla conosciuta “La cicala e la formica” ci si accorge che oggi la cicala, invece che solo una perditempo, viene considerata la preferita rispetto alla formica, la quale più che sembrare laboriosa appare rigida, “arida”, legata forse ad una concezione di vita in parte diversa dalla nostra, in cui impegnarsi è giusto e fondamentale, ma in cui spesso viene posto un problema che non esisteva, almeno non per tutti, in passato. Le giornate sono colme di cose da fare, gli impegni e i doveri si accumulano senza sosta e così anche lo stress, con la conseguenza che il riposo diviene più una raccomandazione piuttosto che una ricompensa.

Chiedo scusa alla favola antica,

se non mi piace l’avara formica.

Io sto dalla parte della cicala

che il più bel canto non vende, regala

(filastrocca di Gianni Rodari)


Come si diceva le favole, provenienti da ogni regione del mondo, si dimostrano ciniche nei confronti di alcuni caratteri del comportamento umano, caratteri che faticano a essere abbandonati, dall’avidità alla superbia, dall’ambizione senza limiti (come in “La rana e il bue”) all’atteggiamento spietato dei potenti verso i più deboli (come nella conosciuta “Il lupo e l’agnello”). Il punto di forza di fiabe e favole, favole in particolare, è che risultano immediate, dirette e che provano a suscitare un effetto, se non in chi fa l’errore in chi ne è vittima.

L’uomo e la sua immagine:

“(Al signor Duca de La Rochefoucauld)

Un uomo molto di se stesso amante

e che, senza rivali, d’un bell’uomo

si dava l’aria, in ciò fisso e beato,

se la prendea di rabbia con gli specchi

ch’ei dicea tutti falsi e accusatori.

Per trarlo d’illusion fece la sorte

benevola che, ovunque egli girasse

coll’occhio, non vedesse altro che specchi.

Specchi dentro le case e in le botteghe

de’ merciai, specchi in petto ai bellimbusti

e fin sulle cinture delle belle,

ovunque insomma a risanarlo il caso

gli facea balenar davanti questo

tacito consigliere delle belle.

Al mio Narciso allor altro non resta

che andare, per fuggir tanto tormento,

in paesi selvaggi e sconosciuti,

ove di specchi non vi fosse il segno.

Ma specchio ancora, o illusion, discende

ivi un bel fiume, che da pura fonte

sgorga e l’attira di sì strano incanto

ch’ei non può dal cristal torcer lo sguardo.

Della favola è questa la morale,

che non d’un solo io traggo a beneficio,

ma di quanti son folli a questo mondo.

L’anima umana è l’uomo vanitoso

troppo amante di sé: gli specchi sono

gli altrui difetti in cui come in ispeglio

ogni nostro difetto si dipinge.

E il libro delle Massime, o mio Duca,

è quel fiume che l’anima rapisce

(dalle Favole di Jean de La Fontaine)


Ilaria Berlanda

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