23 aprile 2021

Mito dell'autosufficienza


“Potete immaginare, creare e costruire il luogo più meraviglioso della terra ma occorreranno sempre le persone perché il sogno diventi realtà.” – W. Disney


Aristotele in una delle sue più famose opere, la Politica, spiega come solo lo stato sia la forma di organizzazione sociale perfetta. L’uomo, per il filosofo, essendo un animale politico, realizza a pieno se stesso solo in contesti sociali quali la famiglia, il villaggio e appunto, lo stato. I cittadini inseguono fini e beni differenti che solo lo stato è in grado di procurare, grazie all’attuazione di un bene qualitativamente e quantitativamente superiore a quello del singolo. Lo stato di Aristotele, dunque, è totalmente autosufficiente, non necessita di contatti con altre civiltà per soddisfare i bisogni dell’uomo perché, una volta permesso all’individuo di realizzare la propria naturale tendenza sociale all’interno della città, non necessita di null’altro.

Anche le filosofie ellenistiche, epicureismo e stoicismo, sviluppano un pensiero simile, proiettato questa volta però, sull’uomo stesso, sul singolo. L’intento di queste correnti di pensiero era proprio quello di rendere l’uomo totalmente autosufficiente, sia dal punto di vista dell’approvvigionamento del cibo (gli epicurei si cibavano di prodotti della terra), sia dal punto di vista emotivo e sociale, seguendo il principio del lathe biosas, del vivere nascosti, al di fuori dei meccanismi politici che avrebbero solo turbato l’animo dell’epicureo. Tutti conoscono inoltre, l’immagine del saggio stoico che, solo grazie all’eliminazione delle passioni, considerate come fuorvianti, e la conseguente acquisizione dell’insensibilità verso gli eventi, sarebbe riuscito persino a resistere anche alla più terribile delle torture.

Di nuovo, a livello politico, troviamo esempi di autarchia anche nel regime fascista di Mussolini. Uno degli obiettivi principali del duce era proprio quello di rendere l’economia del nostro paese totalmente indipendente dalle relazioni con gli altri stati.

Andando ad indagare i risvolti che questi processi hanno avuto sull’uomo moderno e contemporaneo, si può facilmente notare come la percezione che l’uomo ha di se stesso e degli altri, e i valori ritenuti giusti, sani e strutturali per l’individuo siano stati radicalmente modificati.

La società di oggi tenta sempre più di ingabbiarci nel modello del self-made man, dello Steve Jobs, dell’uomo tutto d’un pezzo, totalmente realizzato grazie alle sue sole forze. Questo ci induce a credere in noi stessi, nei nostri talenti e nelle nostre capacità, ma con risvolti estremamente negativi sul versante sociale: competizione sfrenata, narcisismo assoluto che, senza nemmeno rendercene conto, ci spingono a calpestare tutte le persone che si frappongono sulla nostra strada per il raggiungimento del successo, lasciando però, alle nostre spalle, solo terra bruciata. Ci induce a rischiare il tutto per tutto per realizzare i nostri desideri, vincendo ad ogni costo, costringendoci a macinare conquiste anziché a fermarci e a riflettere sul nostro approccio alla vita, non consentendo nemmeno agli altri, tra l’altro, di farlo per noi.

Tutto ciò però, ha come unico e triste risultato la solitudine totale: al primo passo falso ci si dispera, si viene assaliti da un forte senso di frustrazione e fallimento che portano alla perdita di sé e dei propri principi. Ci sentiamo disorientati, sentiamo di non valere più nulla e tutto perché diamo valore non alla nostra persona, ma ai risultati ottenuti, ai trofei collezionati, agli esami superati; e ci ossessiona una sola domanda alla quale abbiamo paura di dare una risposta: “se non sono neanche più in grado di fare questo, che cosa sono?”

Questo mito, a mio parere, è più che altro una vera e propria illusione: nessuno di noi può concretamente arrivare a “bastare” a se stesso. Fin dai tempi antichi l’uomo ha sempre vissuto in comunità, creando reti con gli altri esseri umani, commerciali o affettive che siano. Elena Pulcini, professoressa di Filosofia sociale all’Università di Firenze, afferma che oggi “crediamo illimitatamente nelle nostre capacità soggettive perché dimentichiamo di essere animati anche da forze diverse, che ci chiedono un rapporto con noi stessi meno rigido ma comprensivo di fragilità e debolezze”. Il nostro autocontrollo sugli eventi è estremamente sovrastimato: ci crediamo invincibili, in grado di far fronte anche a forze sovrannaturali, non concedendoci mai nè uno sbaglio, nè una pausa. Sentiamo il bisogno di esercitare autorità sulle cose e sulle persone, entrando così in una dimensione di onniscienza globale, che ci assurge il diritto di parlare di tutto con tutti e con qualsiasi modalità espressiva. È una visione prometeica dell’individuo, che nella realtà non può esistere perché, come Freud ci ricorda bene, “l’io non è padrone nemmeno in casa propria”, aiutandoci a capire come l’azione dell’uomo sia invece fortemente influenzata e interdipendente.

Sono le relazioni la base della vita umana. Si pensi solo alla famiglia, il primo contesto sociale con cui veniamo in contatto, che si prende cura di noi fin dall’inizio e che ci permette di crescere. Se infatti, i nostri genitori non si fossero presi cura di noi da appena nati, accudendoci, sfamandoci e dandoci amore, se nessuno si fosse caricato sulle spalle il peso della responsabilità di averci messo al mondo, come ricorda un famoso filosofo del ‘900 H. Jonas, noi non avremmo nemmeno potuto continuare a vivere. Le relazioni con gli altri determinano in maniera prepotente il nostro modo di vedere il mondo, di costruirlo e di cambiarlo. L’intento di togliere questa dimensione all’uomo, facendoci credere che non sia indispensabile, che non sia importante, è ridicolo, perché produce proprio l’effetto contrario. La filosofia del “non ho bisogno di nessuno” è estremamente precaria.

I veri miti dell’indipendenza e dell’autosufficienza dovrebbero essere quelli che esaltano la dignità della persona, vista come unica ed irripetibile e che ha la possibilità di fornire il proprio eccezionale contributo alla vita collettiva, alla storia e alla relazione con gli altri. Riconoscendo le nostre fragilità, la nostra parte più sensibile ed emotiva, la connaturata insufficienza che ci contraddistingue e rendendoci consapevoli dei limiti che ognuno di noi possiede, si riuscirà a riscoprirsi e a riscoprire l’altro con occhi diversi che, come fratelli, condividono la stessa casa, le stesse problematiche e le stesse necessità. Tutti prima o poi si renderanno conto che la vera forza dell’uomo è sì, quella di essere indipendente e autonomo, ma proprio per questo in grado di aiutare l’altro, di offrirgli sostegno nei momenti di debolezza, di collaborare con lui alla realizzazione del sogno che accomuna tutti gli uomini: raggiungere la felicità.



Camilla Armellini

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