20 novembre 2020

La crociata contro i diritti umani di Polonia e Ungheria

L’aborto è da anni una questione spinosa in Polonia. Eppure il dibattito non aveva mai raggiunto i livelli dello scorso mese. Dopo che il 22 ottobre è stata promulgata una proposta di legge che rende le condizioni per un aborto legale ancora più stringenti, migliaia di persone sono scese in piazza per protestare, dando vita alla più grande manifestazione dai tempi del comunismo.

In modo tristemente ironico, è bene ricordare quanto la Polonia fosse all’avanguardia durante il ventesimo secolo. Nel 1932 fu la prima in Europa a rendere legale l’aborto non solo in caso di complicanze mediche, ma anche se la gravidanza fosse stata il risultato di atti criminali. Nel ’56 l’aborto legale fu esteso anche al caso in cui una donna «viveva in condizioni difficili».

Dopo la caduta del comunismo le cose cambiarono. Nel 1993 la legge sull’aborto subì importanti restrizioni. Secondo questa legge, tutt’ora in vigore, solo tre circostanze rendono praticabile l’aborto: la grave minaccia alla vita o alla salute della madre (comprovata da due medici), casi di stupro o rapimento (provati da un procuratore) ed una grave deformazione del feto (attestata da due medici). L’abolizione di quest’ultima condizione è proprio la causa delle proteste in atto su tutto il territorio polacco.

Lo scorso anno, dei 1100 aborti legali avvenuti in Polonia ben 1074 erano dovuti alla malformazione del feto. Di fatto, l’approvazione di questa riforma equivarrebbe ad una quasi totale abolizione dell’aborto nel Paese. «Lotteremo per far finire il Medioevo in Polonia» ha dichiarato una delle tanti manifestanti. Hillary Margolis, ricercatrice senior di Human Rights Watch, ha commentato: «Garantire i diritti umani delle donne, compresi i loro diritti riproduttivi, è essenziale per sostenere i valori E.U. Il flagrante disprezzo della Polonia per questi valori è pericoloso non solo per le donne e le ragazze in Polonia, ma quelle di tutta Europa». Peccato che non siano solo i diritti delle donne ad essere calpestati: la comunità L.G.B.T.IQ. è diventata il bersaglio prediletto della politica illiberale polacca.

Lo scorso luglio numerosi comuni polacchi si sono dichiarati «Zone LGBT free». Ciò significa che non essere eterosessuale è vietato su circa un terzo del territorio della. Polonia. Il Presidente Duda ha definito i diritti umani della comunità LGBT «un’ideologia più pericolosa del comunismo». Secondo il suo collega Kaczynski, presidente del partito Legge e Giustizia, la stessa esistenza dell’omosessualità è una minaccia all’identità polacca e allo Stato. Questi messaggi discriminatori sono stati appoggiati dalla televisione e dalla Chiesa Cattolica polacca - in forte contrasto con le dichiarazioni di Papa Francesco, favorevole alle unioni civili.

Ad aggravare la situazione, la repressione violenta si è aggiunta a quella ideologica. «Stiamo parlando di violenza fisica, pestaggi, insulti, ma anche distruzione di uffici di attivisti» ha spiegato al New York Times Mirka Makuchowska, esponente del gruppo Campagna Contro l’Omofobia.

La politica omofoba dei sovranisti di estrema destra si sta facendo strada in città tradizionalmente più liberali, come Varsavia. Camion adornati con slogan che accusano i gay di pedofilia hanno sfilato in diverse città polacche. In occasione dell’annuale Marcia dell’Indipendenza, mercoledì 11 novembre, alcuni partecipanti hanno addirittura sparato razzi all’interno di un appartamento, incendiandolo solo perché alla finestra era stata appesa una bandiera arcobaleno, ormai simbolo dell’opposizione.

Nella barbarica lotta al liberalismo ed ai diritti umani la Polonia è puntualmente accompagnata dall’Ungheria di Orbán.

A maggio è entrata in vigore una legge che lega indissolubilmente il genere di una persona al sesso e ai cromosomi che ha dalla nascita, rendendo illegale la transizione di genere.

Limitare ulteriormente i diritti della comunità LGBT sembra quasi avere la priorità sulle riforme per contrastare la pandemia. Così, mentre la sanità e l’economia ungherese collassano, sono stati presentati diversi disegni di legge per modificare la Costituzione. Il governo di Orbán intende stabilire il matrimonio come istituzione esclusivamente tra un uomo e una donna. Ulteriori disposizioni permetterebbero solo alle coppie sposate di adottare i bambini, con esenzioni concesse solo dal ministro del governo.

«Abbiamo avuto un governo conservatore per 10 anni e sono stati sistematicamente minati i diritti delle persone L.G.B.T.Q.I.» ha detto un rappresentante del gruppo, Tamas Dombos. «Nell'ultimo anno e mezzo, sono diventati più espliciti sulla loro opposizione ai diritti L.G.B.T.Q.I. e sempre più contro le persone trans». Proprio come in Polonia, la guerra culturale si sta rivelando un potente elemento unificante per i sostenitori del governo.

Tra la Commissione Europea e i due Stati sovranisti si fa sempre più profondo il divario ideologico sugli abusi allo stato di diritto, l'indipendenza del potere giudiziario e i diritti delle minoranze. Tentando di limitare le discriminazioni di genere e quelle contro la comunità LGBT, la Commissione ha rifiutato dei fondi a sei città polacche dichiaratesi LGBT free, ma può fare ben poco senza la collaborazione del governo nazionale.

L’UE, non potendo certo ignorare questa barbarie, sta facendo passi avanti. Giovedì scorso la Commissione ha presentato una lista di «crimini dell’UE», che include reati come traffico di droga e riciclaggio di denaro, includendo i crimini d’odio, proprio come l’omofobia. Le autorità ungheresi e polacche hanno definito tali principi come parte di un’ideologia «straniera», ideologia che tuttavia è fondamentale per tutti gli altri 25 Paesi dell’UE.

Vera Jourova, commissaria europea, con una frecciatina neanche troppo velata ai due Stati, ha dichiarato «Presenteremo un'iniziativa per estendere l'elenco dei crimini U.E. all'articolo 83 del trattato per coprire il crimine d'odio e il discorso d'odio, compresi quelli che prendono di mira le persone L.G.B.T.I.Q. Si tratta dell'Europa del XXI secolo. È il 2020, e l'odio e la discriminazione delle persone appartenenti a minoranze sessuali non appartengono all'Europa di questi tempi».

Elena Ricci

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