26 febbraio 2021

Kafala e Qatar

Lavoratori sottopagati, senza protezione, che vivono in condizioni disumane ma che non possono far altro che andare avanti, per la propria famiglia lontana: questa è la situazione di migliaia e migliaia di persone nel golfo arabo, emigrate nella speranza di guadagnare qualche soldo da mandare a casa. Vivono in edifici sovraffollati e malsani, lavorano molte ore senza nessuna assicurazione o tutela per ricevere un salario minimo (spesso in ritardo rispetto ai tempi previsti), eppure non hanno altra scelta.

Da decenni ormai nei Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo arabo (Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman, Bahrain, Arabia Saudita e Qatar) i lavoratori migranti sono sottoposti alle normative del Kafala, sistema di regolamentazione della loro situazione che assicura loro un posto di lavoro ma con condizioni molto severe. L’espressione araba “kafala“ può essere tradotta sia in termini economici come “garanzia” sia in termini più sociologici come “prendersi cura di”, e già da questi aspetti ci si può fare un’idea sul funzionamento del sistema già citato: esso prevede infatti la presenza di uno sponsor (kafeel) che sostanzialmente fornisce protezione in cambio di lavoro. Nella pratica, anche se ogni Stato del Golfo ha adottato autonomamente delle normative diverse a riguardo, in tutta l’area sono presenti questi sponsor che recluteranno manodopera all’estero (solitamente nei Paesi più poveri dell’Asia ma non solo), andando nelle zone rurali promettendo stipendi più alti di quelli che le persone riceverebbero rimanendo nella loro patria e vendendo loro la documentazione per trasferirsi; una volta lì, essi dovranno sottostare al volere del guardiano, che diventerà quasi loro padrone, essendo responsabile di permessi di soggiorno, visti, entrata e uscita dal Paese, inizio e fine del contratto di lavoro. Con questo sistema, da una parte i migranti ricevono soldi per sopravvivere e mantenere i parenti, dall’altra lo Stato dello sponsor acquista manodopera a basso prezzo. Spesso gli sponsor ricorrono a pratiche illegali per assumere maggiore controllo sui migranti, come la confisca del passaporto, il caricamento di tasse di collocamento e la sospensione dello stipendio, creando una situazione di mero sfruttamento. Questo è stato denunciato dall’Human Rights Watch, che in rapporto dell’agosto scorso ha definito il sistema “abusivo per i lavoratori migranti”.

Paese che va citato per approfondire la questione è il Qatar, che conta quasi 3 milioni di abitanti, di cui solo 313.000 cittadini, il resto sono lavoratori migrati da Africa e Asia. Il Qatar ha visto a partire dagli anni ’70 un aumento esponenziale della popolazione, e non è un caso se questo è cresciuto di pari passo con l’industrializzazione e lo sviluppo dell’edilizia nel Paese. Inoltre, da quando nel 2010 la Fifa ha assegnato i mondiali 2022 al Qatar, la necessità di nuove infrastrutture come stadi aeroporti e così via ha fatto esplodere la richiesta di manovalanza (si stima che dal 2010 al 2015 il numero di lavoratori nell’edilizia sia passato da 500.000 a 800.000) dall’estero, in particolare da Nepal, Egitto e Filippine. Come ci si può immaginare, questa situazione ha costretto a muoversi verso un miglioramento di questo sistema di reclutamento della forza lavoro: dal 2015 a oggi sono state adottate una serie di misure contro lo sfruttamento dei migranti. Nel 2015 citiamo il Wage Protection System, che impone ai datori di lavoro di pagare i lavoratori nei termini previsti dal contratto e dalle norme statali. Nel 2017 l’accordo di cooperazione tecnica con l’Organizzazione Internazionale del lavoro ha permesso ai lavoratori tutelati dalla legge del lavoro di lasciare il Paese senza l’approvazione del datore e ha garantito ai lavoratori la possibilità di vitto e alloggio o, in cambio, un indennizzo di circa 400 euro al mese. Andando avanti di qualche anno, nel gennaio 2020 è stata data la possibilità di lasciare il Paese in qualsiasi momento senza il permesso del capo anche ai lavoratori impiegati nell’agricoltura, nella lavorazione e produzione di olio e gas e nei lavori domestici (categorie escluse nella legge del 2017). Con la legge 17 del 2020 chiamata “Calcolo del salario minimo per operai e lavoratori domestici” il Qatar è stato il secondo Stato del Golfo (dopo il Kuwait) a stabilire un salario minimo mensile di 274 dollari (circa 224 euro) e con le leggi 18 e 19 sempre del 2020 è stato il primo a abolire il “no objection certificate”, ovvero l’impossibilità per i lavoratori di opporsi a un cambio occupazionale dettato dal datore di lavoro. Le condizioni dei lavoratori però non sono ancora delle migliori e di certo l’epidemia di coronavirus le ha peggiorate: la mancanza di strutture adeguate per la prevenzione contro la diffusione del virus ha fatto sì che metà degli infetti nel Paese fino a luglio scorso fossero migranti indiani, nepalesi o bengalesi, e la crisi economica ha portato alcune compagnie a sospendere i salari, portare i dipendenti in campi di lavoro o detenzione o costringerli a rimpatriare.

Di certo questa serie di misure adottate negli ultimi anni ha migliorato la condizioni dei lavoratori ma si è ancora lontani da un sistema di effettiva tutela dei migranti, che spesso non si oppongono, da una parte per non rischiare di perdere il posto di lavoro e rimanere senza stipendio, dall’altra per la mancanza di mezzi con cui difendersi.

Carolina Broll


http://www.mondopoli.it/2020/11/03/il-sistema-della-kafala-in-qatar-una-riforma-incompleta/

https://www.hrw.org/news/2020/09/24/qatar-significant-labor-and-kafala-reforms

https://www.theguardian.com/global-development/2020/sep/01/new-employment-law-effectively-ends-qatars-exploitative-kafala-system


Scopri tutte le pubblicazioni dell'autrice