21 maggio 2021

I(ndie)tpop


Mi piacerebbe parlare di un tema di cui mi è capitato di discutere con alcuni amici e conoscenti poche settimane fa e che amo molto: la musica indie.

Un fenomeno così popolare non può che ribattezzare il genere (non genere) in nuova musica pop(olare). Alla radio, nei negozi di dischi (quelli che sopravvivono ad Amazon), su Spotify (soprattutto su Spotify) prende sempre più piede il fenomeno indie - che sta per indipendent - diventando una categoria che richiama a uno stile di vita alternativo, originale, scettico nei confronti di ciò che va, perché sì, eppure così telefonato ora da essere il nuovo stile in voga degli anni 20. Non prendiamoci in giro, se la playlist di RDS ha iniziato a includere le nostre canzoni, di artisti forse un tempo considerati “underground”, non possiamo che rivalutare la singolarità di quello che ascoltiamo.


Ma partiamo dalle origini

Il genere indie prende piede in Inghilterra nei primi anni ‘80, un surrogato di alternative rock, pop rock e post punk. Da quest’ultimo eredita l’etica DIY, anticonsumistica, quella del fai-da-te, una ribellione - forse più necessaria che volontaria - alle grandi case discografiche, e per questo ora molti dei cantanti della scena annunciano di aver iniziato a fare musica dalla loro cameretta. L’indie ruba dal rock e lo trasforma in melodico, va a braccetto con il songwriting o, per essere meno internazionali, il cantautorato. I musicisti scrivono, registrano, mixano, editano e distribuiscono da sé, o almeno così funzionava nei primi anni di vita del genere.


Ma è giusto parlare di genere?

No, non proprio. Quando nel 1986 una delle più grandi riviste di musica, la NME, crea la C86, una playlist contenente i brani indipendenti dell’epoca, la gente inizia a collocare i brani presenti sotto un unico genere. I gruppi si discostano dalla definizione, eppure i più collocano la nascita dell’indie proprio qui. Per indie si intende musica che è prodotta senza un’agenzia. Punto. Eppure l’omologazione dagli anni 10 del secolo corrente ad oggi è plateale, per lo meno in Italia.

Quando l’indie sbarca in Italia a inizio 2000 viene accolto da pochi, è di nicchia e ancora molto vicino alle sonorità originali. Poi inizia ad adattarsi ai gusti della penisola, assume tratti melodici e sempre meno rock/punk. Il synth resta. Nel 2011 I cani pubblicano “Il sorprendente Album D’Esordio De I Cani”, l’inizio della produzione itpop, il nuovo indie “melodico” italiano, da lì tutti i nomi che sentiamo oggi in radio hanno iniziato a creare i primi album. L’itpop diventa popolare, sempre meno di nicchia - e basta ricordare le ultime edizioni di Sanremo per comprendere quanto sia apprezzato e diventato commerciale il genere. Come la trap, l’indie è il nuovo pop.


Il fenomeno sociale

Dopo un sommario, poco informato e incompleto, della storia dell’indie, tocca a quello che forse trovo più interessante, la popolarità esorbitante del non-genere.

Quando mi sono avvicinata a gruppi e cantanti della scena itpop italiana, circa tre anni fa, l’indie era considerato ancora (ma solo parzialmente) un genere di nicchia, ascoltato perlopiù da giovani universitari, radical chic e hipster che amavano i testi impegnati o nonsense dei gruppi vagamente underground. Molto era stato fatto da Calcutta con il disco Mainstream. Nel giro di poco l’itpop ha spopolato. Dallo Stato Sociale a Sanremo in poi le radio hanno iniziato a mettere in scaletta gruppi e canzoni prima conosciute da pochi, e la popolazione giovanile ha gradito e trasfigurato la propria idea di musica pop. Ma non è solo il genere musicale ad essere così in voga, anzi mi azzarderei a dire che ora quello non c'entra quasi più. Non sono i sound synth e vintage, ma i temi trattati, i testi e l’immagine di indie che si sono impregnati in una cultura pop giovanile omologativa. I temi della depressione “cool”, del senso della vita mai trovato, della voglia di emergere e allo stesso tempo di stare sdraiati tutto il giorno a non fare niente, sono così reali, vicini a una generazione che si sente legata a un passato mai conosciuto (e da qui la melanconia onnipresente) e allo stesso tempo impotente in un presente che sembra spesso senza futuro, o per lo meno senza la sicurezza di un futuro. Il mondo che ci circonda deve essere raccontato, e chi non ha mai ascoltato il testo di una canzone senza cercare se stesso all’interno di essa? La possibilità di ascoltare le storie di gente, senza supereroi o super cattivi, solo persone, che fanno cose (e vedono gente) normali, conferisce nell’ascoltatore un senso di sicurezza, una casa reale, senza unicorni o boschi incantati. I testi appaiono ingenui, descrittivi, eppure colpiscono al cuore. Poi c’è quella ironia mai troppo celata, della serie “non ci prendiamo sul serio manco noi, vuoi farlo tu che ci ascolti?” che normalizza una società di cazzoni. E infine la moda. Quel vestiario un po’ vintage, pantaloni anni settanta o ventine anni novanta. Il capello rosso, gli orecchini a cerchio e qualche elemento di una generazione che cerca di dissimulare la costante omologazione. E quanto ci piace urlare che siamo indipendenti nella nostra dipendenza dal piacere agli altri.

L’avanguardia che si trasforma in popolare. E ora cosa ascolteremo per sentirci speciali e unici? Aspetteremo un nuovo genere, tra una ventina d’anni passerà alla radio e allora lo ascolteremo.



Letizia Chesini


FONTI:


https://www.vice.com/it/article/j5yvmg/indie-italiano-itpop-2019

https://notiziemusica.it/che-cosa-e-itpop/curiosita/

https://it.wikipedia.org/wiki/C86

https://it.wikipedia.org/wiki/Indie_pop



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