28 dicembre 2020

STEREOTIPI DI GENERE

  • Caterina:


In questi giorni stavo riflettendo, e mi è venuta in mente una cosa… quando nasciamo, tecnicamente, dovremmo essere un foglio bianco, la nostra vita è ancora tutta da scrivere; eppure il nostro sesso, che quasi sempre corrisponde anche col genere che i nostri genitori scelgono per noi, determina la nostra educazione e, andando avanti, le nostre azioni verranno giudicate in base ad esso. Fin troppo spesso, infatti, le stesse parole e gli stessi gesti sono visti in modi diversi in base a se a compierli è un uomo o una donna. Però è sbagliato, perché sono le nostre azioni in sé che dovrebbero definirci, e non il nostro genere, non trovate?


  • Andrea:


Mi piace molto l’idea che un neonato sia come un foglio bianco, o una tela, sulla quale poi la società declinata nell’ambiente familiare, nelle interazioni al di fuori della famiglia o nei modelli dei media dipingono una certa visione che, amalgamata all’idea cosciente (o spesso incosciente) di sè vada a formare la personalità. Purtroppo però spesso credo che la gabbia intessuta dal mondo esterno possa risultare soffocante per alcuni. Altri invece sposano completamente l’idea di sé preconfezionata che la società propone togliendosi la possibilità svilupparsi attraverso il confronto. Tanti però si chiedono anche se la tela di partenza non abbia già di suo alcune caratteristiche innate “biologiche”. Da cosa dipendono le caratteristiche della personalità, dell’intelligenza, dei modi di fare? Chi sostiene la naturalezza degli stereotipi di genere afferma che il maschile ed il femminile siano innati. Le donne materne e premurose, gli uomini aggressivi e competitivi. In effetti gli studi che affermano questo sono moltissimi. Nel passato si concentravano sulle qualità esteriori del cervello (anatomia, forma, peso) mentre al giorno d’oggi c’è chi trova differenze biologiche a livello di circuiti neuronali. Quello che però non viene tenuto in considerazione è l’effetto delle abitudini e dei modelli sociali appresi e osservati nello sviluppo del cervello, organo estremamente plastico. Le differenze osservate sarebbero infatti frutto di condizionamenti sociali, che, imponendo modelli arcaici e patriarcali, cambierebbero addirittura la struttura cerebrale. Per non parlare del bias nel volere a tutti i costi trovare il risultato aspettato, che spesso porta a leggere risultati non univoci in maniera errata. Esiste anche un termine per questo, il neurosessismo (che viene spiegato in questo articolo di nature). Oltre tutto questi studi spesso non arrivano a spiegare l’esistenza dell’identità di genere e della transessualità. Se le differenze, infatti, sono biologiche e determinate a livello cromosomico, come si spiega l’esistenza della transizione di genere e sessuale? E l’identità sessuale allora?


  • Caterina:


Hai ragione, infatti non bisogna confondere il genere con il sesso biologico, che, ad una prima occhiata, sembrano voler dire la stessa cosa, ma in realtà non è così: il sesso è biologico, è determinato dai cromosomi sessuali (XX per le donne e XY per gli uomini) e può essere maschile o femminile oppure indicare l’appartenenza ad entrambi se un individuo presenta sia caratteri sessuali primari o secondari sia maschili che femminili. Il genere, al contrario, non si basa (solo) su fattori biologici, per quanto molto spesso essi siano determinanti, ma altre volte si sceglie indipendentemente dal sesso di nascita: si può essere uomo, donna o non binario (ossia nè uomo nè donna) ma si appartiene ad uno di questi generi da un punto di vista non fisiologico, bensì culturale, basandosi, dunque, su strutture sociali.


  • Carolina:


Esatto, poiché sono determinati da fattori diversi, sesso e genere possono non coincidere e in quel caso si parla di disforia di genere o disturbo dell’identità di genere (DIG). L’individuo non si sente a suo agio nel far corrispondere il suo genere con il suo sesso, prova malessere e si identifica nel sesso opposto a quello biologico; questo lo porta a desiderare di essere considerato dai conoscenti e dalla società con individuo appartenente all’altro sesso. Si parla di transessualismo primario se si manifesta già nell’età infantile e di transessualismo secondario se invece si manifesta nell’età adulta. La strada per trovare il sesso in cui identificarsi spesso è lunga e se non si trova supporto nel percorrerla può diventare anche dolorosa. Negli ultimi anni, fortunatamente, vediamo sempre più azioni e sensibilità nei confronti di questo tema. Ha fatto molto parlare, ad esempio, un’intervista di Vogue a Emily Ratajkowski in cui la modella - che ha annunciato da poco la sua gravidanza - racconta delle paure legate agli stereotipi che suo figlio o sua figlia dovranno affrontare nella loro crescita e di come non vuole rivelare il sesso del bambino ed educarlo discostandosi il più possibile dagli stereotipi di genere che definiscono le nostra società. L’obiettivo per la Ratajkowski e il marito Sebastian Bear-McClard è quello di lasciare il figlio libero di trovare la sua identità.


  • Caterina:


Secondo me, la scelta di Emily Ratajkowski non è sbagliata. Ovviamente suo figlio/a non sarà completamente esentato dalle discriminazioni di genere perché sono radicate troppo profondamente nella nostra società, e anche se la sua famiglia è molto aperta a riguardo, non è detto che nel mondo esterno non subisca critiche o pregiudizi per le sue scelte.


  • Andrea:


Addentrarsi nel campo dell’identità, di una definizione di sé è come mettere piede in un campo minato. Ancor di più lo è se si affronta la questione dell’identità di genere. Credo che forse il migliore modo di aiutare lo sviluppo di una personalità non forgiata dalla discriminazione e dalla vergogna di sé per una persona transgender sia proprio il beneficio del dubbio, ovvero il tentativo di non esprimere alcuna opinione definitiva e inscatolante riguardo al genere di un figlio o di un bambino, o, perché no, direttamente di una persona. Forse è utopico, e sicuramente non è facile. Però ritengo che potrebbero trarne vantaggio tutti, non solo quelli che al giorni d’oggi combattono con la definizione della propria identità in contrasto a quella impostagli. Sarebbe interessante però comprendere che cosa sia l’identità di genere, e soprattutto se una società senza stereotipi possa ancora sussistere l’idea stessa di genere.


  • Caterina:


E’ sicuramente utopico, ma vivremmo in una società migliore se tutti la pensassero in questo modo e non imponessero dei modelli predefiniti a entrambi i generi. Tra l’altro, quando si parla di queste problematiche si tende a concentrarsi sulle donne (ed è giusto, perché sono effettivamente la categoria più svantaggiata) ma non ci si deve dimenticare che gli stereotipi sul genere femminile hanno ripercussioni anche su quello maschile. Ad esempio, la donna è il “sesso debole”, di conseguenza l’uomo deve essere quello “forte”. Cosa ne pensate voi?


  • Andrea:


Sicuramente, anche gli uomini sono limitati dagli stereotipi di genere! La discriminazione nei confronti del genere femminile forse è più lampante. Però come dici se definiamo ciò che caratterizza una donna allora di conseguenza definiamo ciò che non è maschile e virile. Un uomo che mostra caratteristiche e comportamenti femminili (stereotipati) è di conseguenza sminuito nel suo ruolo di potere nella società. Un uomo non cammina così, non parla così, non mangia e non beve quelle cose lì e via così declinato in ogni aspetto della vita quotidiana. La società di genere ha creato un mito, spesso rafforzato dalle rappresentazioni militaristiche, “eroiche” e virili (che a dire la verità già esistevano nell’antichità greca). Questa mitologia fa leva sulla figura mistica degli Uomini forti (o machi), degli essere inscalfibili dall’emotività, eroici, potenti e mai vulnerabili. Uomini che non piangono, che non fanno le femminucce, che sono dominanti. All’interno di questo spettro di comportamenti che si definisce mascolinità tossica (anche se a me questo termine non piace perché in un certo senso colpevolizza chi alla fine è una vittima degli stereotipi), perché la sua influenza in un certo senso avvelena la normale formazione personale e l’esperienza completa dello spettro emotivo, si ritrova anche l’innata convinzione che le donne siano creature opposte ed incomprensibili. Da un lato donne angelo, dall’altro esseri da “conquistare” e “ comprare” con cavalleria e forza caratteriale. Tra le caratteristiche degli “Uomini Forti” esiste poi anche l’aggressività sessuale, il vantarsi delle performance sessuali e spesso la riduzione della donna a corpo. Questa modello di mascolinità è chiaramente utopico (o distopico) e spesso è causa di problemi psicologici e di salute mentale (gli uomini per esempio commettono in media da 3 a 4 volte più suicidio delle donne) dovuti alla difficoltà a comunicare i propri stati d’animo, e al conflitto interno quando l’identità in un qualche modo cercherebbe di scavalcare lo scoglio e i paletti della mascolinità tossica. Probabilmente poi la mascolinità tossica spesso mette paletti e barriere imponenti anche a donne che si ritrovano in posizioni storicamente maschili, che ne pensate?


  • Carolina:


Una donna dovrebbe sentirsi completamente libera da paletti imposti dalla società, qualsiasi individuo - a prescindere dal suo genere e sesso - non dovrebbe avere limitazioni in nessun ambito. Eppure, nella pratica vediamo che questo discorso non regge: una donna che ambisce a una posizione lavorativa di rilievo si sento quasi in dovere di avvicinarsi allo stereotipo maschile. Mi spiego: per dare un’immagine “credibile”, una donna si deve mostrare forte, determinata, coraggiosa e non - come vuole lo stereotipo - amorevole, sensibile e premurosa.


  • Andrea:


Infatti, sembra quasi che in un mondo di stereotipi una donna debba affermarsi in opposizione al ruolo predefinito che la società impone, in un qualche modo perdendo il suo ruolo di femminile impostogli. In questa situazione delicata dunque va anche a perdersi l’essenza della personalità di una donna al potere, costretta ad assumere su di sé caratteristiche forse non del tutto sue, o comunque a vivere le caratteristiche innate del suo carattere come una rivalsa o come un modo d’essere divergente. Il linguaggio utilizzato per donne di potere infatti attinge spesso al campo semantico dell’aggressività, della guerra, dell’anatomia maschile (una donna con le palle, come se la donna in questione avesse acquistato il rispetto da parte del pubblico maschilista camuffandosi a tutti gli effetti da uomo) o a volte definiscono queste donne come signore di ferro. La Lady di ferro più famosa della storia, e l’esempio da manuale femminista per il mito della donna forte, è Margaret thatcher. L’ex prima ministra inglese infatti, pur essendo la prima donna primo ministro in inghilterra, non fece quasi nulla per permettere ad altre donne di raggiungere posizioni di potere. Il suo team di collaboratori era composto di soli uomini. A questo punto c’è da chiedersi in primo luogo se Thatcher fosse a tutti gli effetti così “dura” come veniva descritta e come sarebbe invece un modello “femminile” (molto paventato) di potere. In effetti però non è contraddittorio e stereotipante parlare di modello femminile? Sebbene spesso questo venga visto come un punto a favore di una società matriarcale (meno aggressiva, più diplomatica e collaborativa) forse si tratta comunque di una forma di discriminazione travestita a complimento?


  • Caterina:


Molto spesso, infatti, è così. Mi viene in mente Kamala Harris, la vicepresidente dell’attuale governo degli Stati Uniti. Prima di ricevere questo incarico ha ricoperto altri ruoli molto prestigiosi, come quello di guida della banca centrale giapponese o dell’Università Ca’ Foscari, tuttavia fin troppo spesso è stata definita come “una donna” e il suo nome è rimasto nel silenzio. Anche perchè “una donna” non vuol dire niente, ci sono tante donne di tante nazionalità, competenze e professioni diverse, ed è un titolo minimizzante. Poi, a pensarci bene, nessuno scriverebbe “un uomo eletto presidente” perché suonerebbe ridicolo, ma come mai non ci sembra così strano se c’è una donna in ballo? Forse perchè si vuole sottolineare la novità, ma in questo modo si rischia di dipingere quest’evento come eccezionale in un mondo dominato dagli uomini, e facendo così non viene normalizzata l’idea che anche una donna possa ricoprire un ruolo ai piani alti, proprio perchè viene vista come eccezionale. Dovremmo pensare, forse, a spiegare perché il genere femminile ci ha messo così tanto ad imporsi.



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Caterina Sartori, Andrea Bazzoli, Carolina Broll