28 gennaio 2020

Paese mio che stai sulla collina

Storie di migranti, nostalgia e integrazione


1907, Le Havre (FR), La Lorraine è pronta a salpare. L’imponente colosso aspetta con le porte aperte la massa umana davanti a lei. Valigie di cartone e poco altro in mano, tra le famiglie, i vecchi, i giovani pieni di speranza c’è un ragazzo di 19 anni. Partito pochi giorni prima da un paesino di montagna dell’Impero austroungarico.

Direzione: Pennsylvania, le miniere promettono lavoro e strade lastricate d’oro. Insieme a una compagnia dal suo e dai paesi vicini ha salutato la famiglia, forse per l’ultima volta. Nessuno può permettersi un telefono, men che meno il lusso di tornare. Hanno salutato le montagne, il laghetto, i boschi e le case. Altre montagne li aspettano.

Il giovane sale sulla La Lorraine e saluta l’Europa. Addio paese mio, addio famiglia, addio povertà. Lo sguardo sulle onde oltre le quali le coste d’America lo aspettano. Tra canti e pianti, risate e lamenti La Lorraine salpa.

La statua della libertà, Nuova York, i controlli prima, a Ellis Island e poi il treno fino in Pennsylvania. Lì conosce una ragazza e dopo poco formano una famiglia. Hanno 3 figli, ma poco dopo la nascita dell’ultima, nel ‘18, la spagnola colpisce e porta via la madre. Il giovane, ormai più maturo, è costretto a tornare, con tre bambini attraversa i flutti dell’atlantico. Una di loro, poco più di un bebè, è la mia bisnonna Bebi.

La storia intima della mia famiglia è costellata di racconti del genere. C’è mio nonno, nato in Francia ed emigrato con mia nonna in Svizzera, e mio papà nato in Svizzera. Per ultimo, ci sono io, partito per l’università in Germania.

Un filo rosso di esperienze comuni ci lega, l’agrodolce dell’adrenalina che si mischia alla nostalgia che a volte colpisce inaspettata, il coraggio e il rimpianto, l’adattamento e la repulsione.

Ma questo filo rosso del mio intimo contesto familiare unisce in realtà molti più nuclei e gruppi di persone. È un’esperienza collettiva dei popoli, è una caratteristica dell’intero genere umano e probabilmente uno dei motori più potenti dello sviluppo culturale, scientifico ma anche economico. È un motore dello sviluppo umano.

MIGRAZIONE CONTINUA

Già nella preistoria troviamo tracce di enormi migrazioni, out of Africa I (homo erectus) e out of Africa II (homo sapiens), alla quale dobbiamo la popolazione dell’intero globo. Soprattutto la seconda ha seguito varie rotte che poi nel corso del tempo si sono intersecate e mescolate tra loro. [https://www.youtube.com/watch?v=CJdT6QcSbQ0 (video sulle rotte migratorie preistoriche)]

Il fenomeno dei grandi spostamenti ha accompagnato poi tutta la storia dell’umanità, tra periodi di intensa attività e di assestamento.

Una volta popolata la terra, infatti, l’uomo ha continuato a migrare per i più svariati motivi, portando innovazione, idee e unendo soluzioni abitative ed evolutive di varie culture. La collisione ha spesso portato alla nascita di nuove civiltà più evolute.

Il Mediterraneo antico e lo scambio culturale tra est e ovest e nord e sud mediterraneo, risultato nelle culture multietniche dell’ellenismo e del mondo romano.

Le grandi migrazioni dei popoli germanici che hanno creato le culture europee; il grande flusso diretto alle America a partire dal ‘500 e tristemente la tratta degli schiavi (tra i 7 e i 12 milioni) le culture meticce sudamericane e centroamericane. Il colonialismo con le sue conseguenze fino all’enorme migrazione europea verso gli Stati Uniti, con Ellis Island e New York esempi lampanti del melting pot culturale o, nel dopoguerra, gli spostamenti dei cosiddetti Gastarbeiter dall’europa meridionale verso i paesi del nord (soprattutto Germania, Belgio e Svizzera) e l’enorme afflusso umano dai paesi del blocco ex Sovietico dopo la caduta del muro verso l’Occidente che hanno reso la società moderna più sfaccettata e diversa e contribuito alla globalizzazione e al concetto di Europa unita.

E ancora, oggetti o prodotti che consideriamo normali o addirittura culturalmente univoci non sono altro che frutti della mescolanza, come la musica jazz o il kebab, fino ad arrivare alle lingue, forse le migliori cartine tornasole della mescolanza culturale, perché mantengono, come fossili immobilizzati nel tempo, i residui delle culture che hanno creato il popolo che le parla. Quasi ogni ambito della civiltà umana ha beneficiato dello scambio dando luce sia a innovazioni civili e tecnologiche, sia a sperimentazioni culturali (cucina, musica, danza, letteratura).

TIPI DI MIGRAZIONE

Nonostante l’aspetto naturale dello spostamento migratorio, però, le caratteristiche che esso assume lo fanno differire e differenziarsi in moltissime categorie diverse. Importanti nella definizione dei diversi tipi di migrazione sono le valutazioni dei fattori push e pull.

Per push si intende ciò che spinge a partire (povertà, carestia, guerra, calamità naturali, situazione socioeconomica precaria), dunque le condizioni del luogo d’origine che gravano sull’individuo e lo portano all’idea della migrazione. Per fattori pull invece si intendono le caratteristiche attrattive del paese di destinazione (opportunità formative e lavorative, rispetto dei diritti, presenza di comunità preesistenti di connazionali). L’insieme dei diversi fattori porta alla distinzione tra migranti economici e rifugiati, tra deportazioni e migrazioni stagionali, tra esilio e colonialismo.

Si capisce dunque come tra i paesi con la maggior quota di immigrati si trovino paesi dalle economie stabili e storicamente mete di immigrazione, come gli Stati Uniti e la Germania (rispettivamente sede del 20 e del 5 per cento di tutta la popolazione immigrata nel mondo). Oltre a rappresentare mete attrattive per i migranti, però, questi paesi sono in grado di trarre grande beneficio dall’arrivo di manodopera a basso costo e riescono a mantenere un buon equilibrio demografico per via dell’aumento della fertilità che la popolazione immigrata porta.

Tra i fattori push più tradizionali come guerre, carestie e povertà si affaccia negli ultimi anni all’orizzonte il problema climatico, che spinge le popolazioni di aree aride o desertificate a fuggire in cerca di migliori condizioni. Per questo e per un incremento della facilità degli spostamenti, il numero di persone che si trova al di fuori del proprio paese è in continua crescita, raggiungendo nel 2019 il tetto di 272 milioni di persone (circa 50 milioni in più rispetto al 2010), ovvero il 3.5 per cento della popolazione globale.

NOSTALGIA E INTEGRAZIONE

Visto l’incremento notevole del numero di persone in movimento alcuni disturbi legati specificatamente alla figura dell'emigrato si fanno più consistenti.

In misure differenti, infatti, ogni migrante sperimenta sensazioni contrastanti come la nostalgia e l’adrenalina, l’eccitazione e il senso di colpa, l’esclusione e l’accettazione. Le difficoltà della lingua e della cultura differente, poi, rendono molto difficile comprendere e superare le barriere culturali che spesso sono costituite da approcci completamente diversi alla socialità, a valori più o meno intercambiabili. Per questo la difficoltà nella creazione di un ambiente cuscinetto, di un ammortizzatore nelle relazioni sociali spesso porta alla formazione di ghetti autocostruiti, fino ai casi di persone immigrate da anni che non sanno parlare la lingua del paese di destinazione (tra questi anche la comunità italiana all’estero non fa eccezione).

L’insieme di queste caratteristiche psichiche e di queste difficoltà di integrazione spesso si può raggruppare sotto il nome di sindrome di Ulisse, un disturbo psicologico che è in costante crescita per via dell’incremento della popolazione e che spesso si collega a fenomeni depressivi.

Il nome, si deve allo psichiatra dell’università di Barcellona Joseba Achotegui e le principali caratteristiche sono il senso di estraniamento, la perdita di autostima dovuta all’isolamento, una condizione di tristezza costante, con l’esaltazione del paese d’origine (soprattutto se l’emigrazione non è causata da catastrofi naturali o umane) e da stress e ansia continui. L’equilibrio psicofisico del migrante viene dunque profondamente intaccato e può essere alla base di disturbi più gravi. Il migrante dunque respinge in un certo modo il paese di arrivo. Questo ha degli effetti notevoli sulla capacità di integrazione, in quanto non sussiste più la voglia di integrarsi. Allo stesso tempo però l’integrazione aiuta ad alleggerire i sintomi e a far valutare il nuovo paese di residenza sotto una luce diversa, aprendo opportunità prima inaspettate e risvegliando l’enorme potenziale di benessere che una migrazione può portare non solo al migrante ma anche e soprattutto alla società che lo accoglie. Per questo nell’integrazione reciproca si può riscoprire una risorsa in ciò che spesso viene visto come conflitto. Questo richiede non solo una sforzo personale da parte della figura di minoranza ma anche uno sforzo collettivo e un approccio curioso alla novità, secondo un modello di addizione culturale piuttosto del paventato annullamento dell’autenticità culturale. Solo allora possiamo aspettare con curiosità quali e quanti prodotti daranno i reagenti culturali, pur spesso in guerra tra loro, all’umanità futura.


Andrea Bazzoli


“L’Europa non riuscirà a sopravvivere senza migrazione. Non bisognerebbe averne tanta paura: tutte le grandi culture sono nate a partire da forme di mescolanza razziale”.

-Günter Grass-