28 dicembre 2019

C'era una volta stellata


Nota dell’autore: Se il tempo a disposizione lo permette, leggere lentamente.

da un diario:

“Oggi ho sentito qualcosa di nuovo, non ho mai percepito qualcosa di così presente. Guardavo su, come al solito, ed era buio, come al solito. È il “momento di cielo” preferito, per tutto. Ho immaginato il tutto lassù senza i contorni delle montagne. Tutto pieno, niente che interrompesse il cielo, niente in mezzo. Solo spazio, solo cielo nero. E l’ho sentito. Non era qualcosa che partiva dalla superficie, non era corporale, non partiva dalla gola, no. Si trovava su, in alto, poco sopra la fronte, sul culmine della testa. Percepivo qualcosa e volevo estendermi, toccarlo. Cosa? Tutto quanto. Tutto. Percepivo l’infinito. Come fosse un sapore. Certo, sicuro, non confuso. Sembrava avessi già provato a misurare la distanza fra quei puntini bianchi e sapevo cos’era. Era un senso acuto. Più di altri. Utile? Io non so il suo scopo. Ma lo sentiamo. Forse tutti noi lo sentiamo. Un senso in più. Il senso dell’infinito.”

In effetti, forse, capita a tutti. Capita a chi si sofferma a contemplare il cielo. Magari sperando in qualche intuizione brillante e chi non ha tentato? E probabilmente è rimasto deluso, immagino. Ma forse qualcosa succede comunque, lassù, a guardar bene la notte? Non serve molto tempo, quel tanto per cominciare a intravedere la luce di due o tre stelle, quel tanto per abituare i nostri occhi al buio del resto dello spazio, quel tanto per rimanere da soli con ciò che vediamo sopra e davanti a noi. Quel poco che basta per realizzare. Capire cosa stiamo guardando. E poi … è come se la visuale dei nostri occhi si allargasse, senza giungere ad un punto finito, come se cercasse di prendere ciò che vediamo di fronte a noi, l’immenso, che a guardarlo di sfuggita da qui pare non nascondere nulla. Ed è forte, travolgente, spiazzante. Questo senso -forse non è neanche necessario dirlo- porta naturalmente a quel tipo di domande, altre domande alle quali, come si sa, non potremo rispondere ancora per molto tempo, probabilmente. Le “domande esistenziali”. Quindi, dato che abbiamo ancora un po’ per rifletterci, e vagheremmo a vuoto, non parliamone. Comunque, insieme a quell’impressione, c’è anche altro. Si innescano altre intuizioni. “Smarrimento” forse è comune in ogni condizione e per ognuno all’inizio. Ma in verità, lo stesso punto, lo stesso spazio non generano le stesse sensazioni. Anche se percepiamo la medesima “cosa”. Infatti, c’è chi prova angoscia, paura davanti a quel cielo. E non riuscire a trovare una spiegazione razionale disorienta e sconcerta, lo sappiamo. Le reazioni che ne derivano sono differenti, c’è chi prova ad immergersi nella realtà concreta e materiale della vita di tutti i giorni, o chi si perde di fronte a qualcosa che non riesce a metabolizzare. Ma per alcuni a quello smarrimento segue altro. Non diventa paura, ma si trasforma in voglia di andare a vedere da vicino. Uno stimolo per arrivare effettivamente a sperimentarlo, quel qualcosa. Gli esempi non mancano, quello dell’astronauta è il più ovvio, ma spiega bene il concetto. E infinito non è solo il cielo, o almeno, c’è altro che ci dà l’illusione di esserlo. E probabilmente lo stesso concetto è cambiato nel tempo, cambia con il crescere delle nostre conoscenze. Possiamo immaginare che qualcosa di simile l’abbiano già provato i primi uomini che si sono trovati in una foresta, ad esempio, con piante mai viste, alberi dalle foglie grandi più di una persona, alberi di cui non si scorge la fine. E ovviamente, il mare. Si pensava avvolgesse tutte le terre, e che non avesse mai fine, come una specie di cielo sulla Terra, ed anche oggi ci perdiamo a guardarlo, anche sapendo che infinito non è. Sicuramente anche delle semplici nuvole potrebbero aver portato a questo pensiero e forse anche un deserto...

Le prime famiglie magari pensavano che la Terra stessa non avesse una fine come il cielo sembra non averla per noi. Questa percezione più tardi è cambiata quando i popoli hanno cominciato a spostarsi. Iniziando a conoscere i confini della Terra. Ed è forse riconoscendo questi confini, dopo aver compreso climi e ambienti abbastanza da poterci convivere, che sono stati poi attratti anche dal cielo. Cielo. Vero, solo, infinito. Ma, abbiamo osservato, non è l’unico elemento ad aver suscitato quel senso. Mare, foreste, Natura. Ora, in passato. Perché? Perché contengono l’infinito, lo contengono perché sono un suo estratto. Perché sono un estratto di quel Cielo, di quel Cosmo. Sono un suo riflesso, più piccolo, più minuzioso, più delicato forse. Più umano, finito come noi, ma originato dallo stesso infinito, nello stesso infinito e al modo stesso dell’infinito. Come lo è un riflesso, un’imitazione della Natura. Un’imitazione semplice, come un suo ritratto. Il ritratto di un suo ruscello o di un suo deserto. O più elaborato. Cioè scaturito da qualcosa di più astratto. Un ritratto di qualcosa che non ha un volto, ma che si trova dovunque, un qualcosa che dà un volto. E così abbiamo numeri che diventano volti di cattedrali magnifiche e abbiamo numeri, abbiamo frequenze, che diventano consonanze musicali perfette. Cielo, Volta stellata, Cosmo, che appariva uniforme, regolare, finito e immutabile e che si è poi rivelato essere invece qualcosa di indefinito, illimitato, contenente più di qualche puntino bianco, e soprattutto luogo d’origine di ciò che ha reso possibile e compone ogni cosa che si trova in questo universo. Ma, a prescindere da ciò che il senso dell’infinito ispira, sembra che sia sempre esistito. Sappiamo che in passato è stato al centro delle riflessioni di pensatori e intellettuali, ha costituito un problema, un ulteriore motivo di confusione, che provoca, frastorna e sfida, anche ora. Quello che sappiamo, che è ora molto di più di allora, le nostre sicurezze, vengono qui spesso a mancare. Ciò che sembriamo toccare è troppo grande. E chi si infila del tutto nel gioco, non sa niente, ma non riesce a fare altro se non cercare.

Ilaria Berlanda