Achille e il gatto di Schrödinger


Immaginiamo di avere una trentina di persone in una stanza. Ci saranno due di loro che compiono gli anni lo stesso giorno? E quanto sarà alta questa probabilità?

A primo acchito, rispondere non è difficile. La probabilità di un evento si calcola facendo il rapporto fra casi favorevoli e casi possibili, no? Dunque basterà dividere il numero di persone per i giorni dell’anno, e il risultato sarà un numero molto piccolo: trenta persone, infatti, sono poche in confronto ai trecentosessantacinque giorni di un anno! Questo procedimento, tuttavia, è errato, e, sorprendentemente, la probabilità che almeno due persone su trenta siano nate lo stesso giorno è circa del settanta per cento. Chi l’avrebbe mai detto?


Situazioni come questa, che portano a risultati apparentemente inaccettabili, sono dette paradossi. La stessa parola “paradosso”, infatti, deriva dal greco parà, che significa “contro”, e dòxa, che significa opinione, proprio perché le conclusioni di un paradosso vanno contro ogni aspettativa e contro l’esperienza quotidiana. Ed è per questo che matematici, filosofi, economisti (e non solo) amano così tanto i paradossi: perché questi, contraddicendo quello che pare scontato, mettono in evidenza la superficialità del nostro pensiero e i suoi limiti. Alcuni paradossi spiegano dei ragionamenti che non sembrano validi e ne dimostrano la correttezza; altri spiegano ragionamenti che possono essere logicamente giusti, ma che, in seguito, portano a delle contraddizioni; altri ancora, invece, arrivano a dei punti in cui una soluzione non c’è nemmeno.


Il primo paradosso di cui si ha notizia è quello di Epimenide: la frase “tutti i Cretesi sono bugiardi e io sono Cretese” è vera o falsa? Se è vera allora sto dicendo il falso, se è falsa allora sto dicendo il vero. I paradossi più famosi del mondo antico, però, rimangono comunque quelli di Zenone di Elea: filosofo presocratico della Magna Grecia, fu allievo di Parmenide, da cui ereditò molti tratti della sua filosofia, come la tesi dell’impossibilità del moto; inoltre, è tuttora considerato l’inventore sia dei paradossi sia delle dimostrazioni per assurdo. Il suo paradosso più famoso è senza dubbio quello di Achille e la tartaruga: Achille piè veloce decide di sfidare una tartaruga in una gara di corsa, ma, rendendosi conto dell’evidente iniquità della situazione, decide di metterci una pezza dando all’animale dieci stadi di vantaggio. La tartaruga corre dieci volte meno veloce di Achille, infatti, non appena questi ha corso i dieci stadi che li separavano, lei è andata avanti di un solo stadio. Quando Achille ha percorso questo stadio la tartaruga è andata avanti di un decimo di uno stadio, mantenendo comunque un po’ di vantaggio, e così via. Insomma, Achille piè veloce non riuscirà mai a raggiungere la tartaruga. Il ragionamento fila, ma, se questa sfida accadesse nella realtà, nel giro di qualche secondo la tartaruga verrebbe superata, nonostante i dieci stadi di vantaggio.


È interessante notare la differenza fra il “paradosso” come noi lo intendiamo quando usiamo questa parola quotidianamente e come lo intendono i matematici. Comunemente, il paradosso è una situazione che ha dell’assurdo, del bizzarro, dell’inaspettato. Per il matematico, invece, il paradosso è qualcosa sì di assurdo, ma perchè nonostante la sua stranezza si può giustificare logicamente. Un esempio è il paradosso di Bertrand Russell, che di solito viene spiegato con questa storia: in un paesino c’è un barbiere che rade soltanto gli uomini che non si radono da soli. Sorge, allora, spontanea questa domanda, chi rade il barbiere? Se questi si rade da solo non dovrebbe farlo, perché lui rade gli uomini che, per l’appunto, non si radono da soli; mentre se non si rade da solo allora, per lo stesso identico motivo, dovrebbe radersi. In termini matematici, invece, suona così: “l’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a se stessi appartiene a se stesso se e solo se non appartiene a se stesso”. Questo enunciato, che sembra più uno scioglilingua, ebbe tuttavia un ruolo fondamentale, perché contribuì a mettere in crisi i fondamenti stessi della matematica, dimostrando che questa disciplina non si fondava esclusivamente sui concetti e sulle regole della logica, e perché fece in modo di spostare l’attenzione dai contenuti dei giudizi matematici alle giustificazioni di questi ultimi.


Oltre alla filosofia e alla matematica, un’altra disciplina in cui sono stati adoperati i paradossi è la fisica: il paradosso più famoso è quello del gatto di Schrödinger, che quest’ultimo inventò per spiegare la sovrapposizione quantistica, un fenomeno in cui sono presenti contemporaneamente due proprietà contraddittorie. Schrödinger è uno dei pensatori più importanti del secolo scorso, nonché uno dei fondatori della fisica quantistica, e, per far comprendere meglio un fenomeno così complesso, immagina che ci sia un gatto chiuso in una scatola. In questa scatola, vi è un congegno dove un fenomeno quantistico ha il 50% di possibilità di accadere e, se accade, si apre una boccetta di veleno e il gatto muore. Il gatto, dunque, è sia vivo che morto (oppure nè vivo nè morto) finchè non apriamo la scatola e lo osserviamo. La teoria dei quanti, che è paradossale anche senza la storia del gatto di Schrödinger, ha portato a conclusioni che hanno dell’incredibile, come la teoria dei molti mondi, in cui le due proprietà contraddittorie esistono entrambe in due universi paralleli. Per quanto possa suonare assurdo, tuttavia, eminenti fisici e filosofi ritengono che sia questa la miglior interpretazione della teoria dei quanti.


Come è già stato anticipato, oltre ai matematici e ai fisici, anche i filosofi si sono largamente serviti dei paradossi. Uno dei più famosi, mal interpretati e criticati è il “paradosso della tolleranza”, illustrato dall’austriaco Karl Popper nella sua opera “La società aperta e i suoi nemici”. Questi afferma che una società deve essere sì tollerante, ma non con tutti indiscriminatamente: infatti, essa ha bisogno di punire gli intolleranti per non essere stravolta e in seguito dominata da questi ultimi. La conclusione, dunque, è paradossale: la conservazione di una società tollerante passa attraverso l’intolleranza. Bisogna, tuttavia, fare una precisazione per comprendere meglio il pensiero di questo filosofo: Popper con “intollerante” intende chi compie effettivamente atti intolleranti, non chi di intollerante ha solo un’opinione. Ma dove sta il confine fra azione e pensiero, fra libertà di espressione e incitamento all’odio? Dopotutto, anche se sono solo parole, l’opinione altrui può avere effetti concreti sul comportamento di altre persone. Eppure cosa accadrebbe se si superasse davvero questo confine, se ogni critica, anche costruttiva, venisse vista come una minaccia per la società e quindi censurata?


Una risposta al paradosso di Popper forse c’è: non bisogna tanto limitare la libertà d’opinione quanto insegnare alle persone a distinguere le idee giuste da quelle sbagliate, a non credere a tutto quello che si sente e a metterlo in discussione. D’altronde, come insegnano i paradossi stessi, a volte quello che logicamente è giusto in seguito potrebbe rivelarsi errato, così come risultati inusuali che paiono sbagliati possono dimostrarsi, in realtà, corretti.


Caterina Sartori