Fonti in altri autori: Romolo
Plutarco, Vita di Romolo (Vite parallele)
4,1. ἦν δὲ πλησίον ἐρινεός, ὃν Ῥωμινάλιον ἐκάλουν, ἢ διὰ τὸν Ῥωμύλον ὡς οἱ πολλοὶ νομίζουσιν, ἢ διὰ τὸ τὰ μηρυκώμενα τῶν θρεμμάτων ἐκεῖ διὰ τὴν σκιὰν ἐνδιάζειν, ἢ μάλιστα διὰ τὸν τῶν βρεφῶν θηλασμόν, ὅτι τήν τε θηλὴν ῥοῦμαν ὠνόμαζον οἱ παλαιοί, καὶ θεόν τινα τῆς ἐκτροφῆς τῶν νηπίων ἐπιμελεῖσθαι δοκοῦσαν ὀνομάζουσι Ῥουμῖναν, καὶ θύουσιν αὐτῇ νηφάλια, καὶ γάλα τοῖς ἱεροῖς ἐπισπένδουσιν. 2.ἐνταῦθα δὴ τοῖς βρέφεσι κειμένοις τήν τε λύκαιναν ἱστοροῦσι θηλαζομένην καὶ δρυοκολάπτην τινὰ παρεῖναι συνεκτρέφοντα καὶ φυλάττοντα. νομίζεται δ᾽ Ἄρεως ἱερὰ τὰ ζῷα, τὸν δὲ δρυοκολάπτην καὶ διαφερόντως Λατῖνοι σέβονται καὶ τιμῶσιν: ὅθεν οὐχ ἥκιστα πίστιν ἔσχεν ἡ τεκοῦσα τὰ βρέφη τεκεῖν ἐξ Ἄρεως φάσκουσα. καίτοι τοῦτο παθεῖν αὐτὴν ἐξαπατηθεῖσαν λέγουσιν, ὑπὸ τοῦ Ἀμουλίου διαπαρθενευθεῖσαν, ἐν ὅπλοις ἐπιφανέντος αὐτῇ καὶ συναρπάσαντος.
4,1. Vicino c’era un fico selvatico che si chiamava Ruminale, o dal nome di Romolo come pensano i più, oppure per il fatto che le greggi si fermavano a ruminare sotto la sua ombra, o piuttosto perché i bambini erano stati allattati proprio là; gli antichi infatti chiamavano ruma la mammella e c’è anche una divinità, chiamata Rumina, che sembra si occupi del nutrimento e della crescita dei bambini, e a lei si fanno libagioni e sacrifici senza vino e con latte. 2. Raccontano dunque che la lupa veniva ad allattare i bambini che stavano sotto il fico, e che il picchio l’aiutava a nutrirli e a sorvegliarli. Si crede che questi animali siano sacri a Marte, e i Latini venerano e onorano particolarmente il picchio; per ciò non fu difficile, a colei che partorì i bambini, far credere di averli avuti da Marte. Tuttavia si racconta anche che sia stata ingannata e che sia stato Amulio, presentatosi in armi, a prenderla e a togliergli la verginità.
6.1. τὰ δὲ βρέφη Φαιστύλος Ἀμουλίου συφορβὸς ἀνείλετο λαθὼν ἅπαντας, ὡς δ᾽ ἔνιοί φασι τῶν εἰκότων ἐχόμενοι μᾶλλον, εἰδότος τοῦ Νομήτορος καὶ συγχορηγοῦντος τροφὰς κρύφα τοῖς τρέφουσι. καὶ γράμματα λέγονται καὶ τἆλλα μανθάνειν οἱ παῖδες εἰς Γαβίους κομισθέντες, ὅσα χρὴ τοὺς εὖ γεγονότας. κληθῆναι δὲ καὶ τούτους ἀπὸ τῆς θηλῆς ἱστοροῦσι Ῥωμύλον καὶ Ῥέμον, ὅτι θηλάζοντες ὤφθησαν τὸ θηρίον.
6.1. Faustolo, porcaio di Amulio, all’insaputa di tutti aveva preso con sé i bambini; secondo la versione più verosimile, Numitore lo sapeva e di nascosto forniva di che vivere a quelli che lo allevavano. Si dice anche che i fanciulli fossero accompagnati a Gabii per imparare a leggere e a scrivere e tutto quanto si conviene a gente di buona famiglia. 2. Raccontano che furono chiamati Romolo e Remo dalla mammella, perché furono visti prendere il latte dalla lupa.
9.1. Ἀμουλίου δ᾽ ἀποθανόντος καὶ τῶν πραγμάτων καταστάντων, Ἄλβην μὲν οὔτ᾽ οἰκεῖν μὴ ἄρχοντες οὔτ᾽ ἄρχειν ἐβούλοντο τοῦ μητροπάτορος ζῶντος, ἀποδόντες δὲ τὴν ἡγεμονίαν ἐκείνῳ καὶ τῇ μητρὶ τιμὰς πρεπούσας, ἔγνωσαν οἰκεῖν καθ᾽ ἑαυτούς, πόλιν ἐν οἷς χωρίοις ἐξ ἀρχῆς ἐνετράφησαν κτίσαντες: αὕτη γὰρ εὐπρεπεστάτη τῶν αἰτιῶν ἐστιν […]. 3. ἔπειτα τῆς πόλεως τὴν πρώτην ἵδρυσιν λαμβανούσης, ἱερόν τι φύξιμον τοῖς ἀφισταμένοις κατασκευάσαντες, ὃ Θεοῦ Ἀσυλαίου προσηγόρευον […]. 4. Ὁρμήσασι δὲ πρὸς τὸν συνοικισμὸν αὐτοῖς εὐθὺς ἦν διαφορὰ περὶ τοῦ τόπου. Ῥωμύλος μὲν οὖν τὴν καλουμένην Ῥώμην κουαδράταν (ὅπερ ἐστὶ τετράγωνον) ἔκτισε, καὶ ἐκεῖνον ἐβούλετο πολίζειν τὸν τόπον, Ῥέμος δὲ χωρίον τι τοῦ Ἀβεντίνου καρτερόν, ὃ δι᾽ ἐκεῖνον μὲν ὠνομάσθη Ῥεμωρία, νῦν δὲ Ῥιγνάριον καλεῖται. 5. συνθεμένων δὲ τὴν ἔριν ὄρνισιν αἰσίοις βραβεῦσαι, καὶ καθεζομένων χωρίς, ἕξ φασι τῷ Ῥέμῳ, διπλασίους δὲ τῷ Ῥωμύλῳ προφανῆναι γῦπας: οἱ δὲ τὸν μὲν Ῥέμον ἀληθῶς ἰδεῖν, ψεύσασθαι δὲ τὸν Ῥωμύλον, ἐλθόντος δὲ τοῦ Ῥέμου, τότε τοὺς δώδεκα τῷ Ῥωμύλῳ φανῆναι: διὸ καὶ νῦν μάλιστα χρῆσθαι γυψὶ Ῥωμαίους οἰωνιζομένους. Ἡρόδωρος δ᾽ ὁ Ποντικὸς ἱστορεῖ καὶ τὸν Ἡρακλέα χαίρειν γυπὸς ἐπὶ πράξει φανέντος.
9. 1. Morto Amulio e ristabilito l’ordine, i fratelli non vollero abitare ad Alba senza regnare, né regnarvi finché il nonno materno era in vita. Dopo aver restituito il potere a Numitore ed aver reso alla madre gli onori dovuti, decisero di andare a vivere per proprio conto, fondando una città nei luoghi in cui erano stati allevati fin dalla nascita […]. 3. Appena fu realizzata la prima fondazione della città, istituirono un luogo sacro come asilo per i ribelli, e lo intitolarono al dio Asilo […]. 4. Mentre si accingevano a fondare una sola città, subito sorse fra loro una controversia a proposito del luogo. Romolo dunque fondò quella che chiamano Roma quadrata, e voleva trasformare quel luogo in città; Remo invece scelse una posizione forte sull’Aventino che da lui prese il nome di Remorium e oggi si chiama Rignarium. 5. Dopo aver stabilito di risolvere la contesa attraverso gli uccelli augurali e dopo essersi messi in luoghi diversi, si racconta che a Remo siano apparsi sei avvoltoi, a Romolo invece il doppio; alcuni sostengono che Remo li abbia visti realmente, che Romolo abbia mentito e che, quando giunse Remo, solo allora sarebbero apparsi a Romolo i dodici avvoltoi. Per questa ragione i Romani, per prendere gli auspici, si servono soprattutto di avvoltoi.
10.1. ἐπεὶ δ᾽ ἔγνω τὴν ἀπάτην ὁ Ῥέμος, ἐχαλέπαινε, καὶ τοῦ Ῥωμύλου τάφρον ὀρύττοντος ᾗ τὸ τεῖχος ἔμελλε κυκλοῦσθαι, τὰ μὲν ἐχλεύαζε τῶν ἔργων, τοῖς δ᾽ ἐμποδὼν ἐγένετο. τέλος δὲ διαλλόμενον αὐτὸν οἱ μὲν αὐτοῦ Ῥωμύλου πατάξαντος, οἱ δὲ τῶν ἑταίρων τινὸς Κέλερος, ἐνταῦθα πεσεῖν λέγουσιν.
10. 1. Quando Remo scoprì l’inganno si adirò; e poiché Romolo scavava un fossato con cui avrebbe circondato tutt’intorno le mura, si faceva beffe dei suoi lavori e cercava di ostacolarli. Alla fine superò il fossato con un salto; dicono che cadde lì, secondo alcuni colpito dallo stesso Romolo, secondo altri da uno dei suoi compagni, un certo Celere.
11.1. ὁ δὲ Ῥωμύλος ἐν τῇ Ῥεμωρίᾳ θάψας τὸν Ῥέμον ὁμοῦ καὶ τοὺς τροφεῖς, ᾤκιζε τὴν πόλιν, ἐκ Τυρρηνίας μεταπεμψάμενος ἄνδρας ἱεροῖς τισι θεσμοῖς καὶ γράμμασιν ὑφηγουμένους ἕκαστα καὶ διδάσκοντας ὥσπερ ἐν τελετῇ. βόθρος γὰρ ὠρύγη περὶ τὸ νῦν Κομίτιον κυκλοτερής, ἀπαρχαί τε πάντων, ὅσοις νόμῳ μὲν ὡς καλοῖς ἐχρῶντο, φύσει δ᾽ ὡς ἀναγκαίοις, ἀπετέθησαν ἐνταῦθα.
11. 1. Romolo, dopo aver sepolto nella Remoria il fratello e allo stesso tempo quelli che li avevano accresciuti, fondò la città, avendo fatto venire dall’Etruria uomini che gli spiegassero ogni cosa con alcune norme e testi sacri e che glieli insegnassero, come durante i misteri.
12.1. ὅτι μὲν οὖν ἡ κτίσις ἡμέρᾳ γένοιτο τῇ πρὸ ἕνδεκα καλανδῶν Μαΐων, ὁμολογεῖται, καὶ τὴν ἡμέραν ταύτην ἑορτάζουσι Ῥωμαῖοι, γενέθλιον τῆς πατρίδος ὀνομάζοντες.
12.1. C’è un accordo sul fatto che la fondazione della città avvenne nell’undicesimo giorno prima delle calende di maggio; e i Romani festeggiano quel giorno, chiamandolo natale della patria.
14.1. τετάρτῳ δὲ μηνὶ μετὰ τὴν κτίσιν, ὡς Φάβιος ἱστορεῖ, τὸ περὶ τὴν ἁρπαγὴν ἐτολμήθη τῶν γυναικῶν. καὶ λέγουσι μὲν ἔνιοι τὸν Ῥωμύλον αὐτὸν τῇ φύσει φιλοπόλεμον […] πρὸς τοὺς Σαβίνους: οὐδὲ γὰρ πολλάς, ἀλλὰ τριάκοντα μόνας παρθένους λαβεῖν αὐτόν, ἅτε δὴ πολέμου μᾶλλον ἢ γάμων δεόμενον […]. διεδόθη λόγος ὑπ᾽ αὐτοῦ πρῶτον, ὡς θεοῦ τινος ἀνευρήκοι βωμὸν ὑπὸ γῆς κεκρυμμένον […]. 4. ὡς δ' ἀνεφάνη, θυσίαν τε λαμπρὰν ἐπ' αὐτῷ καὶ ἀγῶνα καὶ θέαν ἐκ καταγγελίας ἐπετέλει πανηγυρικήν. καὶ πολλοὶ μὲν ἄνθρωποι συνῆλθον, αὐτὸς δὲ προὐκάθητο μετὰ τῶν ἀρίστων, ἁλουργίδι κεκοσμημένος. 5. ἦν δὲ τοῦ καιροῦ τῆς ἐπιχειρήσεως σύμβολον, ἐξαναστάντα τὴν ἁλουργίδα διαπτύξαι καὶ περιβαλέσθαι πάλιν. ἔχοντες οὖν ξίφη πολλοὶ προσεῖχον αὐτῷ, καὶ τοῦ σημείου γενομένου, σπασάμενοι τὰ ξίφη καὶ μετὰ βοῆς ὁρμήσαντες, ἥρπαζον τὰς θυγατέρας τῶν Σαβίνων, αὐτοὺς δὲ φεύγοντας εἴων καὶ παρίεσαν.
14. 1. Nel quarto mese dopo la fondazione, come racconta Fabio, fu osato il rapimento delle donne. Alcuni dicono che fu lo stesso Romolo a far guerra ai Sabini. In effetti le ragazze rapite non furono molte, solo trenta, appunto perché aveva molto più bisogno di guerre che di matrimoni […]. 3. In primo luogo fece diffondere la notizia che aveva ritrovato un altare, nascosto sotto terra, dedicato a una divinità […]. 4. Quando l’altare fu messo in luce, Romolo fece annunciare che avrebbe celebrato uno splendido sacrificio su di esso, una gara e uno spettacolo festivo. 5. Si radunò molta gente; Romolo in persona si mise in prima fila con i cittadini più importanti, adorno di un mantello di porpora. Molti, armati di spada, tenevano gli occhi fissi su di lui; al segnale convenuto sguainarono le spade e, slanciandosi sulle figlie dei Sabini urlando, le rapirono; lasciarono però fuggire i Sabini e non se ne occuparono.
16.1. οἱ δὲ Σαβῖνοι πολλοὶ μὲν ἦσαν καὶ πολεμικοί, κώμας δ᾽ ᾤκουν ἀτειχίστους, ὡς προσῆκον αὐτοῖς μέγα φρονεῖν καὶ μὴ φοβεῖσθαι, Λακεδαιμονίων ἀποίκοις οὖσιν. 2. οὐ μὴν ἀλλ᾽ ὁρῶντες αὑτοὺς ἐνδεδεμένους μεγάλοις ὁμηρεύμασι, καὶ δεδιότες περὶ τῶν θυγατέρων, πρέσβεις ἀπέστειλαν ἐπιεικῆ καὶ μέτρια προκαλούμενοι, τὸν Ῥωμύλον ἀποδόντα τὰς κόρας αὐτοῖς καὶ λύσαντα τὸ τῆς βίας ἔργον, εἶτα πειθοῖ καὶ νόμῳ πράττειν τοῖς γένεσι φιλίαν καὶ οἰκειότητα. τοῦ δὲ Ῥωμύλου τὰς μὲν κόρας μὴ προιεμένου, παρακαλοῦντος δὲ τὴν κοινωνίαν δέχεσθαι τοὺς Σαβίνους.
16.1. I Sabini erano molti e bellicosi, ma vivevano in villaggi non fortificati, perché essi, come coloni degli Spartani, si sentivano in dovere di essere orgogliosi e senza paura. 2. Nondimeno, vedendosi legati da ostaggi cui tenevano molto e temendo per le loro figlie, mandarono ambasciatori con richieste eque e moderate: che Romolo restituisse le fanciulle e riparasse al suo atto di forza: quindi avrebbero instaurati rapporti di amicizia e di familiarità tra i due popoli con la persuasione e secondo le regole. Poiché Romolo non voleva restituire le fanciulle e invitava i Sabini ad accogliere l’unione con Roma, essi passavano il tempo in discussioni e preparativi.
17.1. μετὰ δὲ τὴν Καινινητῶν ἅλωσιν ἔτι τῶν ἄλλων Σαβίνων ἐν παρασκευαῖς ὄντων, συνέστησαν οἱ Φιδήνην καὶ Κρουστουμέριον καὶ Ἀντέμναν οἰκοῦντες ἐπὶ τοὺς Ῥωμαίους, καὶ μάχης γενομένης ἡττηθέντες ὁμοίως, τάς τε πόλεις Ῥωμύλῳ παρῆκαν ἑλεῖν καὶ τὴν χώραν δάσασθαι καὶ μετοικίσαι σφᾶς αὐτοὺς εἰς Ῥώμην. ὁ δὲ Ῥωμύλος τὴν μὲν ἄλλην κατένειμε χώραν τοῖς πολίταις, ὅσην δ᾽ εἶχον οἱ τῶν ἡρπασμένων παρθένων πατέρες, αὐτοὺς ἔχειν ἐκείνους εἴασεν. 2. ἐπὶ τούτοις βαρέως φέροντες οἱ λοιποὶ Σαβῖνοι Τάτιον ἀποδείξαντες στρατηγὸν ἐπὶ τὴν Ῥώμην ἐστράτευσαν. ἦν δὲ δυσπρόσοδος ἡ πόλις […]. ἀλλὰ θυγάτηρ ἡ Ταρπηία τοῦ ἄρχοντος οὖσα προὔδωκε τοῖς Σαβίνοις […]. 3. συνθεμένου δὲ τοῦ Τατίου, νύκτωρ ἀνοίξασα πύλην μίαν, ἐδέξατο τοὺς Σαβίνους.
17.1. Dopo la presa di Cenina, mentre gli altri Sabini erano impegnati nei preparativi, gli abitanti di Fidene, di Crustumerium e di Antemnae si coalizzarono contro i Romani. Attaccata battaglia, anch’essi furono sconfitti e non poterono impedire che Romolo conquistasse la città, dividesse il territorio, e trasferisse loro stessi a Roma. Romolo distribuì il resto della terra ai cittadini, ma permise ai genitori delle fanciulle rapite di conservare la parte che possedevano. 2. Gli altri Sabini, mal sopportando la situazione, nominarono comandante Tazio e marciarono contro Roma. La città non era facilmente accessibile […]; Tarpea, invece, che era la figlia del comandante, consegnò la rocca ai Sabini […]. 3. Tazio si disse d’accordo e di notte Tarpea aprì una porta e fece entrare i Sabini.
18.2. ἐχομένης δὲ τῆς ἄκρας ὑπὸ τῶν Σαβίνων, ὅ τε Ῥωμύλος ὑπ᾽ ὀργῆς εἰς μάχην αὐτοὺς προὐκαλεῖτο, καὶ ὁ Τάτιος ἐθάρρει, καρτερὰν εἰ βιασθεῖεν ἀναχώρησιν ὁρῶν αὐτοῖς ὑπάρχουσαν.
18.2. La rocca era dunque in mano ai Sabini; allora Romolo adirato li sfidò a battaglia e Tazio l’affrontò coraggiosamente vedendo che in caso di sconfitta avevano un rifugio sicuro.
19.1. ἐνταῦθα δ᾽ αὐτοὺς ὥσπερ ἐξ ὑπαρχῆς μάχεσθαι παρασκευαζομένους ἐπέσχε δεινὸν ἰδεῖν θέαμα καὶ λόγου κρείττων ὄψις. αἱ γὰρ ἡρπασμέναι θυγατέρες τῶν Σαβίνων ὤφθησαν ἀλλαχόθεν ἄλλαι μετὰ βοῆς καὶ ἀλαλαγμοῦ διὰ τῶν ὅπλων φερόμεναι καὶ τῶν νεκρῶν ὥσπερ ἐκ θεοῦ κάτοχοι, πρός τε τοὺς ἄνδρας αὑτῶν καὶ τοὺς πατέρας, αἱ μὲν παιδία κομίζουσαι νήπια πρὸς ταῖς ἀγκάλαις, αἱ δὲ τὴν κόμην προϊσχόμεναι λελυμένην, πᾶσαι δ᾽ ἀνακαλούμεναι τοῖς φιλτάτοις ὀνόμασι ποτὲ μὲν τοὺς Σαβίνους, ποτὲ δὲ τοὺς Ῥωμαίους. 2. ἐπεκλάσθησαν οὖν ἀμφότεροι, καὶ διέσχον αὐταῖς ἐν μέσῳ καταστῆναι τῆς παρατάξεως, καὶ κλαυθμὸς ἅμα διὰ πάντων ἐχώρει, καὶ πολὺς οἶκτος ἦν πρός τε τὴν ὄψιν καὶ τοὺς λόγους ἔτι μᾶλλον, εἰς ἱκεσίαν καὶ δέησιν ἐκ δικαιολογίας καὶ παρρησίας τελευτῶντας. 3. ‘τί γάρ (ἔφασαν) ὑμᾶς δεινὸν ἢ λυπηρὸν ἐργασάμεναι, τὰ μὲν ἤδη πεπόνθαμεν, τὰ δὲ πάσχομεν τῶν σχετλίων κακῶν; ἡρπάσθημεν ὑπὸ τῶν νῦν ἐχόντων βίᾳ καὶ παρανόμως, ἁρπασθεῖσαι δ᾽ ἠμελήθημεν ὑπ᾽ ἀδελφῶν καὶ πατέρων καὶ οἰκείων χρόνον τοσοῦτον, ὅσος ἡμᾶς πρὸς τὰ ἔχθιστα κεράσας ταῖς μεγίσταις ἀνάγκαις πεποίηκε νῦν ὑπὲρ τῶν βιασαμένων καὶ παρανομησάντων δεδιέναι μαχομένων καὶ κλαίειν θνῃσκόντων. 4. οὐ γὰρ ἤλθετε τιμωρήσοντες ἡμῖν παρθένοις οὔσαις ἐπὶ τοὺς ἀδικοῦντας, ἀλλὰ νῦν ἀνδρῶν ἀποσπᾶτε γαμετὰς καὶ τέκνων μητέρας, οἰκτροτέραν βοήθειαν ἐκείνης τῆς ἀμελείας καὶ προδοσίας βοηθοῦντες ἡμῖν ταῖς ἀθλίαις. τοιαῦτα μὲν ἠγαπήθημεν ὑπὸ τούτων, τοιαῦτα δ᾽ ὑφ᾽ ὑμῶν ἐλεούμεθα. καὶ γὰρ εἰ δι᾽ ἄλλην αἰτίαν ἐμάχεσθε, παύσασθαι δι᾽ ἡμᾶς πενθεροὺς γεγονότας καὶ πάππους καὶ οἰκείους ὄντας ἐχρῆν. 5. εἰ δ᾽ ὑπὲρ ἡμῶν ὁ πόλεμός ἐστι, κομίσασθε ἡμᾶς μετὰ γαμβρῶν καὶ τέκνων, καὶ ἀπόδοτε ἡμῖν πατέρας καὶ οἰκείους, μηδ᾽ ἀφέλησθε παῖδας καὶ ἄνδρας. ἱκετεύομεν ὑμᾶς μὴ πάλιν αἰχμάλωτοι γενέσθαι.’ τοιαῦτα πολλὰ τῆς Ἑρσιλίας προαγορευούσης καὶ τῶν ἄλλων δεομένων, ἐσπείσθησαν ἀνοχαί, καὶ συνῆλθον εἰς λόγους οἱ ἡγεμόνες. 6. αἱ δὲ γυναῖκες ἐν τούτῳ τοῖς πατράσι καὶ τοῖς ἀδελφοῖς τοὺς ἄνδρας προσῆγον καὶ τά τέκνα, προσέφερόν τε τροφὴν καὶ ποτὸν τοῖς δεομένοις, καὶ τοὺς τετρωμένους ἐθεράπευον οἴκαδε κομίζουσαι, καὶ παρεῖχον ὁρᾶν ἀρχούσας μὲν αὑτὰς τοῦ οἴκου, προσέχοντας δὲ τοὺς ἄνδρας αὐταῖς καὶ μετ᾽ εὐνοίας τιμὴν ἅπασαν νέμοντας. 7. ἐκ τούτου συντίθενται, τῶν μὲν γυναικῶν τὰς βουλομένας συνοικεῖν τοῖς ἔχουσιν, ὥσπερ εἴρηται παντὸς ἔργου καὶ πάσης λατρείας πλὴν ταλασίας ἀφειμένας, οἰκεῖν δὲ κοινῇ τὴν πόλιν Ῥωμαίους καὶ Σαβίνους, καὶ καλεῖσθαι μὲν Ῥώμην ἐπὶ Ῥωμύλῳ τὴν πόλιν, Κυρίτας δὲ Ῥωμαίους ἅπαντας ἐπὶ τῇ Τατίου πατρίδι, βασιλεύειν δὲ κοινῇ καὶ στρατηγεῖν ἀμφοτέρους.
19. 1. Là, mentre si preparavano di nuovo a combattere, li trattenne uno spettacolo straordinario a vedersi e una visione che supera ogni possibilità di racconto. Si videro infatti le figlie dei Sabini rapite slanciarsi da ogni parte fra armi e cadaveri, urlando e piangendo, come se fossero possedute da un dio; andare versi i mariti e i padri, alcune portando tra le braccia i figlioletti, altre con le chiome sciolte davanti al viso; ma tutte invocare con le parole più tenere ora i Sabini ora i Romani. 2. Entrambi dunque si commossero e si scostarono per permettere a quelle di passare in mezzo allo schieramento; e nello stesso istante un lamento cominciò a diffondersi fra tutti, e ci fu molta commozione alla loro vista, ma ancor di più alle loro parole, giuste e franche, che terminavano in suppliche e preghiere. 3. "Che cosa vi abbiamo fatto di male - dicevano - quale dolore vi abbiamo arrecato, noi che abbiamo già sofferto e soffriamo terribili sventure? Fummo rapite con la violenza e illegalmente da quelli che ora ci possiedono; una volta rapite, fummo dimenticate da fratelli, padri, parenti, per tanto tempo che questo stesso ci ha legate ai nostri peggiori nemici con vincoli strettissimi; e ora ci fate provare paura, quando combattono, per quelli che hanno commesso violenza e ingiustizia contro di noi, e ci fa piangere quando muoiono. 4. Voi infatti non siete venuti a vendicarci con i colpevoli quando eravamo ancora vergini, ma ora volete separare spose dai mariti e madri dai figli, portando a noi infelici un aiuto più doloroso di quell’abbandono e di quella trascuratezza. Così fummo amate da costoro; così voi abbiate pietà di noi. Anche se combattete per un altro motivo, bisogna che smettiate, perché per mezzo nostro, siete diventati cognati, nonni, parenti. 5. Se la guerra è per noi, portateci via con i nostri generi e i vostri nipoti, ridateci i nostri padri e i nostri parenti, non toglieteci mariti e figli. Vi supplichiamo di non renderci di nuovo prigioniere." Ersilia disse molte cose di questo genere e le altre pregavano; si fece una tregua e i capi si incontrarono per parlare. 6. Nel frattempo le donne facevano conoscere i mariti e i figli ai padri e ai fratelli, portavano da bere e da mangiare a coloro che ne avevano bisogno, curavano i feriti portandoli nelle loro case; facevano vedere come in casa fossero loro le padrone e come i mariti le rispettassero e le trattassero con ogni onore e con affetto. 9. Per questo, si misero d’accordo che le donne che lo volevano vivessero con i loro mariti, e come si è detto, fossero esentate da ogni lavoro e fatica, tranne la filatura della lana; che I Romani e i Sabini abitassero in comune la città, e che, mentre la città si sarebbe chiamata Roma da Romolo, tutti i Romani si sarebbero chiamati Quiriti dalla patria di Tazio; e che i due avrebbero regnato in comune e che entrambi avrebbero comandato l’esercito.
Livio, Ab urbe condita, 4-10
4. Sed debebatur, ut opinor, fatis tantae origo urbis maximique secundum deorum opes imperii principium. Vi compressa Vestalis cum geminum partum edidisset, seu ita rata seu quia deus auctor culpae honestior erat, Martem incertae stirpis patrem nuncupat. Sed nec di nec homines aut ipsam aut stirpem a crudelitate regia vindicant: sacerdos vincta in custodiam datur, pueros in profluentem aquam mitti iubet. Forte quadam divinitus super ripas Tiberis effusus lenibus stagnis nec adiri usquam ad iusti cursum poterat amnis et posse quamvis languida mergi aqua infantes spem ferentibus dabat. Ita velut defuncti regis imperio in proxima alluvie ubi nunc ficus Ruminalis est - Romularem vocatam ferunt - pueros exponunt. Vastae tum in his locis solitudines erant. Tenet fama cum fluitantem alveum, quo expositi erant pueri, tenuis in sicco aqua destituisset, lupam sitientem ex montibus qui circa sunt ad puerilem vagitum cursum flexisse; eam submissas infantibus adeo mitem praebuisse mammas ut lingua lambentem pueros magister regii pecoris invenerit - Faustulo fuisse nomen ferunt - ab eo ad stabula Larentiae uxori educandos datos. Sunt qui Larentiam volgato corpore lupam inter pastores vocatam putent; inde locum fabulae ac miraculo datum. Ita geniti itaque educati, cum primum adolevit aetas, nec in stabulis nec ad pecora segnes venando peragrare saltus. Hinc robore corporibus animisque sumpto iam non feras tantum subsistere sed in latrones praeda onustos impetus facere pastoribusque rapta dividere et cum his crescente in dies grege iuvenum seria ac iocos celebrare.
5. Iam tum in Palatio monte Lupercal hoc fuisse ludicrum ferunt, et a Pallanteo, urbe Arcadica, Pallantium, dein Palatium montem appellatum; ibi Evandrum, qui ex eo genere Arcadum multis ante tempestatibus tenuerit loca, sollemne allatum ex Arcadia instituisse ut nudi iuvenes Lycaeum Pana venerantes per lusum atque lasciviam currerent, quem Romani deinde vocarunt Inuum. Huic deditis ludicro cum sollemne notum esset insidiatos ob iram praedae amissae latrones, cum Romulus vi se defendisset, Remum cepisse, captum regi Amulio tradidisse, ultro accusantes. Crimini maxime dabant in Numitoris agros ab iis impetum fieri; inde eos collecta iuvenum manu hostilem in modum praedas agere. Sic Numitori ad supplicium Remus deditur. Iam inde ab initio Faustulo spes fuerat regiam stirpem apud se educari; nam et expositos iussu regis infantes sciebat et tempus quo ipse eos sustulisset ad id ipsum congruere; sed rem immaturam nisi aut per occasionem aut per necessitatem aperiri noluerat. Necessitas prior venit: ita metu subactus Romulo rem aperit. Forte et Numitori cum in custodia Remum haberet audissetque geminos esse fratres, comparando et aetatem eorum et ipsam minime servilem indolem, tetigerat animum memoria nepotum; sciscitandoque eodem pervenit ut haud procul esset quin Remum agnosceret. Ita undique regi dolus nectitur. Romulus non cum globo iuvenum - nec enim erat ad vim apertam par - sed aliis alio itinere iussis certo tempore ad regiam venire pastoribus ad regem impetum facit; et a domo Numitoris alia comparata manu adiuvat Remus. Ita regem obtruncat.
6. Numitor inter primum tumultum, hostes invasisse urbem atque adortos regiam dictitans, cum pubem Albanam in arcem praesidio armisque obtinendam avocasset, postquam iuvenes perpetrata caede pergere ad se gratulantes vidit, extemplo advocato concilio scelera in se fratris originem nepotum, ut geniti, ut educati, ut cogniti essent, caedem deinceps tyranni seque eius auctorem ostendit. Iuvenes per mediam contionem agmine ingressi cum avum regem salutassent, secuta ex omni multitudine consentiens vox ratum nomen imperiumque regi efficit. Ita Numitori Albana re permissa Romulum Remumque cupido cepit in iis locis ubi expositi ubique educati erant urbis condendae. Et supererat multitudo Albanorum Latinorumque; ad id pastores quoque accesserant, qui omnes facile spem facerent parvam Albam, parvum Lavinium prae ea urbe quae conderetur fore. Intervenit deinde his cogitationibus avitum malum, regni cupido, atque inde foedum certamen coortum a satis miti principio. Quoniam gemini essent nec aetatis verecundia discrimen facere posset, ut di quorum tutelae ea loca essent auguriis legerent qui nomen novae urbi daret, qui conditam imperio regeret, Palatium Romulus, Remus Aventinum ad inaugurandum templa capiunt.
7. Priori Remo augurium venisse fertur, sex voltures; iamque nuntiato augurio cum duplex numerus Romulo se ostendisset, utrumque regem sua multitudo consalutaverat: tempore illi praecepto, at hi numero avium regnum trahebant. Inde cum altercatione congressi certamine irarum ad caedem vertuntur; ibi in turba ictus Remus cecidit. Volgatior fama est ludibrio fratris Remum novos transilvisse muros; inde ab irato Romulo, cum verbis quoque increpitans adiecisset, "Sic deinde, quicumque alius transiliet moenia mea," interfectum. Ita solus potitus imperio Romulus; condita urbs conditoris nomine appellata […].
8. Rebus divinis rite perpetratis vocataque ad concilium multitudine quae coalescere in populi unius corpus nulla re praeterquam legibus poterat, iura dedit; quae ita sancta generi hominum agresti fore ratus, si se ipse venerabilem insignibus imperii fecisset, cum cetero habitu se augustiorem, tum maxime lictoribus duodecim sumptis fecit. Alii ab numero avium quae augurio regnum portenderant eum secutum numerum putant. Me haud paenitet eorum sententiae esse quibus et apparitores hoc genus ab Etruscis finitimis, unde sella curulis, unde toga praetexta sumpta est, et numerum quoque ipsum ductum placet, et ita habuisse Etruscos quod ex duodecim populis communiter creato rege singulos singuli populi lictores dederint. Crescebat interim urbs munitionibus alia atque alia appetendo loca, cum in spem magis futurae multitudinis quam ad id quod tum hominum erat munirent. Deinde ne vana urbis magnitudo esset, adiciendae multitudinis causa vetere consilio condentium urbes, qui obscuram atque humilem conciendo ad se multitudinem natam e terra sibi prolem ementiebantur, locum qui nunc saeptus descendentibus inter duos lucos est asylum aperit. Eo ex finitimis populis turba omnis sine discrimine, liber an servus esset, avida novarum rerum perfugit, idque primum ad coeptam magnitudinem roboris fuit. Cum iam virium haud paeniteret consilium deinde viribus parat. Centum creat senatores, sive quia is numerus satis erat, sive quia soli centum erant qui creari patres possent. Patres certe ab honore patriciique progenies eorum appellati.
9. Iam res Romana adeo erat valida ut cuilibet finitimarum civitatum bello par esset; sed penuria mulierum hominis aetatem duratura magnitudo erat, quippe quibus nec domi spes prolis nec cum finitimis conubia essent. Tum ex consilio patrum Romulus legatos circa vicinas gentes misit qui societatem conubiumque novo populo peterent: urbes quoque, ut cetera, ex infimo nasci; dein, quas sua virtus ac di iuvent, magnas opes sibi magnumque nomen facere; satis scire, origini Romanae et deos adfuisse et non defuturam virtutem; proinde ne gravarentur homines cum hominibus sanguinem ac genus miscere. Nusquam benigne legatio audita est: adeo simul spernebant, simul tantam in medio crescentem molem sibi ac posteris suis metuebant. Ac plerisque rogitantibus dimissi ecquod feminis quoque asylum aperuissent; id enim demum compar conubium fore. Aegre id Romana pubes passa et haud dubie ad vim spectare res coepit. Cui tempus locumque aptum ut daret Romulus aegritudinem animi dissimulans ludos ex industria parat Neptuno equestri sollemnes; Consualia vocat. Indici deinde finitimis spectaculum iubet; quantoque apparatu tum sciebant aut poterant, concelebrant ut rem claram exspectatamque facerent. Multi mortales convenere, studio etiam videndae novae urbis, maxime proximi quique, Caeninenses, Crustumini, Antemnates; iam Sabinorum omnis multitudo cum liberis ac coniugibus venit. Invitati hospitaliter per domos cum situm moeniaque et frequentem tectis urbem vidissent, mirantur tam brevi rem Romanam crevisse. Ubi spectaculi tempus venit deditaeque eo mentes cum oculis erant, tum ex composito orta vis signoque dato iuventus Romana ad rapiendas virgines discurrit. Magna pars forte in quem quaeque inciderat raptae: quasdam forma excellentes, primoribus patrum destinatas, ex plebe homines quibus datum negotium erat domos deferebant. Unam longe ante alias specie ac pulchritudine insignem a globo Thalassi cuiusdam raptam ferunt multisque sciscitantibus cuinam eam ferrent, identidem ne quis violaret Thalassio ferri clamitatum; inde nuptialem hanc vocem factam. Turbato per metum ludicro maesti parentes virginum profugiunt, incusantes violati hospitii foedus deumque invocantes cuius ad sollemne ludosque per fas ac fidem decepti venissent. Nec raptis aut spes de se melior aut indignatio est minor. Sed ipse Romulus circumibat docebatque patrum id superbia factum qui conubium finitimis negassent; illas tamen in matrimonio, in societate fortunarum omnium civitatisque et quo nihil carius humano generi sit liberum fore; mollirent modo iras et, quibus fors corpora dedisset, darent animos; saepe ex iniuria postmodum gratiam ortam; eoque melioribus usuras viris quod adnisurus pro se quisque sit ut, cum suam vicem functus officio sit, parentium etiam patriaeque expleat desiderium. Accedebant blanditiae virorum, factum purgantium cupiditate atque amore, quae maxime ad muliebre ingenium efficaces preces sunt.
10. Iam admodum mitigati animi raptis erant; at raptarum parentes tum maxime sordida veste lacrimisque et querellis civitates concitabant. Nec domi tantum indignationes continebant sed congregabantur undique ad T. Tatium regem Sabinorum, et legationes eo quod maximum Tati nomen in iis regionibus erat conveniebant. Caeninenses Crustuminique et Antemnates erant ad quos eius iniuriae pars pertinebat. Lente agere his Tatius Sabinique visi sunt: ipsi inter se tres populi communiter bellum parant. Ne Crustumini quidem atque Antemnates pro ardore iraque Caeninensium satis se impigre movent; ita per se ipsum nomen Caeninum in agrum Romanum impetum facit. Sed effuse vastantibus fit obvius cum exercitu Romulus levique certamine docet vanam sine viribus iram esse. Exercitum fundit fugatque, fusum persequitur: regem in proelio obtruncat et spoliat: duce hostium occiso urbem primo impetu capit. Inde exercitu victore reducto, ipse cum factis vir magnificus tum factorum ostentator haud minor, spolia ducis hostium caesi suspensa fabricato ad id apte ferculo gerens in Capitolium escendit; ibique ea cum ad quercum pastoribus sacram deposuisset, simul cum dono designavit templo Iovis fines cognomenque addidit deo: "Iuppiter Feretri" inquit, "haec tibi victor Romulus rex regia arma fero, templumque his regionibus quas modo animo metatus sum dedico, sedem opimis spoliis quae regibus ducibusque hostium caesis me auctorem sequentes posteri ferent." Haec templi est origo quod primum omnium Romae sacratum est. Ita deinde dis visum nec inritam conditoris templi vocem esse qua laturos eo spolia posteros nuncupavit nec multitudine compotum eius doni volgari laudem. Bina postea, inter tot annos, tot bella, opima parta sunt spolia: adeo rara eius fortuna decoris fuit.
4. Ma era il destino, mi pare, a volere la nascita di una città tanto grande e l'inizio del più potente degli imperi, secondo soltanto a quello degli dei. Essendo stata violentata e avendo partorito due gemelli, la Vestale, o perché ne era realmente convinta o perché era per lei più onorevole attribuire a un dio la responsabilità della colpa, dichiara che è Marte il padre di quei bambini. Né gli dei né gli uomini pongono tuttavia lei e i bimbi al riparo dalla crudeltà del re: ordina infatti che la sacerdotessa venga posta in catene e che i neonati siano gettati nel fiume. Per un caso straordinario, voluto dagli dei, il Tevere era straripato e aveva dato origine a paludi che non permettevano di arrivare sino al letto normale del fiume, ma che lasciavan credere ai sicari che quell'acuq, per quanto immobile e stagnate, bastasse ad affogare i piccoli. Così pongono i bimbi nello stagno più vicino, dove ora c'è il fico Ruminale (dicono che si chiamasse Romulare), sicuri di aver eseguito il compito loro affidato. Quei luoghi erano allora del tutto disabitati. È ancora viva la tradizione secondo cui, dopo che per la scarsità d'acqua il cesto con i gemelli rimase all'asciutto, una lupa assetata discesa dalle montagne vicine, indirizzò i suoi passi verso i vagiti dei neonati e offrì loro le sue mammelle, mansueta al punto che un pastore del regio gregge (dicono che si chiamasse Faustolo) la trovò mentre li lambiva con la lingua; egli li portò alle stalle e li affidò a sua moglie Larenzia, perché li allevasse. Alcuni pensano che i pastori chiamassero "lupa" Laurenzia perché si prostituiva e che di qui sarebbe derivato lo spunto per la straordinaria leggenda. Così generati e così allevati, raggiunta che ebbero la giovinezza, svolgevano alacremente il loro lavoro nelle stalle e presso il gregge e amavano andare a caccia nei boschi. Irrobustiti nel corpo e nello spirito, non si lamentavano ad affrontare le fiere, ma assalivano anche i briganti carichi di preda, dividendo poi il bottino fra i pastori. Con questi spartivano lavoro e svago e ogni giorno il gruppo dei giovani si faceva più numeroso.
5. Si dice che già allora sul Palatino si celebrasse il nostro Lupercale e che il monte fosse chiamato Pallanzio (in séguito Palatino) da Pallanteo, città dell'Arcadia. Là Evandro, il quale, originario di quella stirpe di Arcadi, aveva occupato la zona molto tempo prima, pare avesse introdotto importandola dall'Arcadia l'usanza che dei giovani corressero nudi celebrando con giochi licenziosi Pan Liceo, che i Romani in séguito chiamarono Inuo. Mentre erano intenti a questo spettacolo - dato che la ricorrenza era ben nota -, si dice che i banditi, per la rabbia di aver perso il bottino, organizzarono un'imboscata. Romolo si difese energicamente. Remo, invece, lo catturarono e lo consegnarono al re Amulio, accusandolo per giunta del furto. Soprattutto gli imputavano di aver compiuto delle incursioni nelle terre di Numitore e di aver raccolto un gruppo di giovinastri per darsi alle razzie come in tempo di guerra. Per questi motivi Remo viene consegnato a Numitore perché lo punisca. Già sin dall'inizio Faustolo aveva supposto che i bambini allevati in casa sua fossero di sangue reale: infatti sapeva che dei neonati erano stati abbandonati per volere del re e anche che il periodo in cui li aveva presi con sé coincideva con quel fatto. Però non aveva voluto che la cosa si venisse a sapere quando ancora non era il momento giusto (a meno che non si fossero presentate l'occasione propizia o una necessità urgente). Fu quest'ultima ipotesi a verificarsi per prima: spinto dalla paura, rivelò la cosa a Romolo. Per caso anche Numitore, mentre teneva prigioniero Remo e aveva saputo che erano fratelli gemelli, considerando la loro età e il carattere per niente servile, era stato toccato nell'intimo dal ricordo dei nipoti; e a forza di fare domande, arrivò a un punto tale che poco ci mancò riconoscesse Remo. Così venne architettato un doppio complotto ai danni del re. Romolo lo assale, però non col suo gruppo di ragazzi - infatti non sarebbe stato all'altezza di un vero proprio colpo di forza -, ma con altri pastori cui era stato ordinato di arrivare alla reggia in un momento prestabilito e secondo un altro percorso. Dalla casa di Numitore, invece, Remo accorre in aiuto con un'altra schiera di uomini che era riuscito a procurarsi. Così trucidano il re.
6. Numitore, durante le prime fasi della sommossa, spargendo la voce che i nemici avevano invaso la città e stavano assaltando la reggia, aveva così attirato la gioventù albana a presidiare la rocca e a tenerla con le armi. Quando vide venire verso di sé i giovani esultanti, reduci dalla strage appena compiuta, convocata sùbito l'assemblea, rivelò i delitti commessi dal fratello nei suoi confronti, la nobile origine dei nipoti, la loro nascita, il modo in cui erano stati allevati, il sistema con cui erano stati riconosciuti, e infine l'uccisione del tiranno, della quale dichiarò di assumersi la piena responsabilità. Dopo che i due giovani, entrati con le loro truppe nel mezzo dell'assemblea, ebbero acclamato re il nonno, l'intera folla, con un grido unanime, confermò al re il titolo legittimo e l'autorità. Così, affidata Alba a Numitore, Romolo e Remo furono presi dal desiderio di fondare una città in quei luoghi in cui erano stati esposti e allevati. Inoltre la popolazione di Albani e Latini era in eccesso. A questo si erano anche aggiunti i pastori. Tutti insieme certamente nutrivano la speranza che Alba Longa e Lavinio sarebbero state piccole nei confronti della città che stava per essere fondata. Su questi progetti si innestò poi un tarlo ereditato dagli avi, cioè la sete di potere, e di lì nacque una contesa fatale dopo un inizio abbastanza tranquillo. Siccome erano gemelli e il rispetto per la primogenitura non poteva funzionare come criterio elettivo, toccava agli dèi che proteggevano quei luoghi indicare, attraverso gli auspici, chi avessero scelto per dare il nome alla nuova città e chi vi dovesse regnare dopo la fondazione. Così, per interpretare i segni augurali, Romolo scelse il Palatino e Remo l'Aventino.
7. Il primo presagio, sei avvoltoi, si dice toccò a Remo. Dal momento che a Romolo ne erano apparsi il doppio quando ormai il presagio era stato annunciato, i rispettivi gruppi avevano proclamato re l'uno e l'altro contemporaneamente. Gli uni sostenevano di aver diritto al potere in base alla priorità nel tempo, gli altri in base al numero degli uccelli visti. Ne nacque una discussione e dal rabbioso scontro a parole si passò al sangue: Remo, colpito nella mischia, cadde a terra. È più nota la versione secondo la quale Remo, per prendere in giro il fratello, avrebbe scavalcato le mura appena erette e quindi Romolo, al colmo dell'ira, l'avrebbe ammazzato aggiungendo queste parole di sfida: "Così, d'ora in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura." In questo modo Romolo si impossessò da solo del potere e la città appena fondata prese il nome del suo fondatore […].
8. Sistemata la sfera del divino in maniera conforme alle usanze religiose e convocata in assemblea la massa, che nulla, salvo il vincolo giuridico, poteva unire nel complesso di un solo popolo, diede loro un sistema di leggi. Pensando che esso sarebbe stato inviolabile per quei rozzi villici solo a patto di rendere se stesso degno di venerazione per i segni distintivi dell'autorità, diventò più maestoso sia nel resto della persona sia soprattutto grazie ai dodici littori di cui si circondò. Alcuni ritengono che egli adottò il numero in base a quello degli uccelli che, col loro augurio, gli avevano pronosticato il regno. A me non dispiace la tesi di quelli che sostengono importati dalla confinante Etruria (donde furono introdotte la sedia curule e la toga pretesta) tanto questo tipo di subalterni quanto il loro stesso numero. Essi ritengono che la cosa fosse così presso gli Etruschi dal momento che, una volta eletto il re dall'insieme dei dodici popoli, ciascuno di essi forniva un littore a testa. Nel frattempo la città cresceva in fortificazioni che abbracciavano dentro la loro cerchia sempre nuovi spazi: si costruiva più nella speranza di un incremento demografico negli anni a venire che per le proporzioni presenti della popolazione. In séguito, perché l'ampliamento della città non fosse fine a se stesso, col pretesto di aumentare la popolazione secondo l'antica idea di quanti fondavano città (i quali, radunando intorno a sé genti senza un passato alle spalle, facevano credere loro di essere autoctoni), creò un punto di raccolta là dove oggi, per chi voglia salire a vedere, c'è un recinto tra due boschi. Lì, dalle popolazioni confinanti, andò a riparare una massa eterogenea di individui - nessuna distinzione tra liberi e schiavi - avida di cose nuove: e questo fu il primo energico passo in direzione del progetto di ampliamento. Ormai soddisfatto di tali forze, provvede a dotarli di un'assemblea. Elegge cento senatori, sia perché questo numero era sufficiente, sia perché erano soltanto cento quelli che potevano ambire a una carica del genere. In ogni caso, quest'onore gli valse il titolo di padri, mentre i loro discendenti furono chiamati patrizi.
9. Roma era ormai così potente che poteva permettersi di competere militarmente con qualunque popolo dei dintorni. Ma per la penuria di donne questa grandezza era destinata a durare una sola generazione, perché essi non potevano sperare di avere figli in patria né di sposarsi con donne della zona. Allora, su consiglio dei senatori, Romolo inviò ambasciatori alle genti limitrofe per stipulare un trattato di alleanza col nuovo popolo e per favorire la celebrazione di matrimoni. Essi dissero che anche le città, come il resto delle cose, nascono dal nulla; in séguito, grazie al loro valore e all'assistenza degli dèi, acquistano grande potenza e grande fama. Era un fatto assodato che alla nascita di Roma erano stati propizi gli dèi e che il valore non le sarebbe venuto a mancare. Per questo, in un rapporto da uomo a uomo, non dovevano disdegnare di mescolare il sangue e la stirpe. All'ambasceria non dette ascolto nessuno: tanto da una parte provavano un aperto disprezzo, quanto dall'altra temevano per sé e per i propri successori la crescita in mezzo a loro di una simile potenza. Nell'atto di congedarli, la maggior parte dei popoli consultati chiedeva se non avessero aperto anche per le donne un qualche luogo di rifugio (quella infatti sarebbe stata una forma di matrimonio alla pari). La gioventù romana non la prese di buon grado e la cosa cominciò a scivolare inevitabilmente verso la soluzione di forza. Per conferire a essa tempi e luoghi appropriati, Romolo, dissimulando il proprio risentimento, allestisce apposta dei giochi solenni in onore di Nettuno Equestre e li chiama Consualia. Quindi ordina di invitare allo spettacolo i popoli vicini. Per caricarli di interesse e attese, i giochi vengono pubblicizzati con tutti i mezzi disponibili all'epoca. Arrivò moltissima gente, anche per il desiderio di vedere la nuova città, e soprattutto chi abitava più vicino, cioè Ceninensi, Crustumini e Antemnati. I Sabini, poi, vennero al completo, con tanto di figli e consorti. Invitati ospitalmente nelle case, dopo aver visto la posizione della città, le mura fortificate e la grande quantità di abitazioni, si meravigliarono della rapidità con cui Roma era cresciuta. Quando arrivò il momento previsto per lo spettacolo e tutti erano concentratissimi sui giochi, allora, come convenuto, scoppiò un tumulto e la gioventù romana, a un preciso segnale, si mise a correre all'impazzata per rapire le ragazze. Molte finivano nelle mani del primo in cui si imbattevano: quelle che spiccavano sulle altre per bellezza, destinate ai senatori più insigni, venivano trascinate nelle loro case da plebei cui era stato affidato quel compito. Si racconta che una di esse, molto più carina di tutte le altre, fu rapita dal gruppo di un certo Talasio e, poiché in molti cercavano di sapere a chi mai la stessero portando, gridarono più volte che la portavano a Talasio perché nessuno le mettesse le mani addosso. Da quell'episodio deriva il nostro grido nuziale. Finito lo spettacolo nel terrore, i genitori delle fanciulle fuggono affranti, accusandoli di aver violato il patto di ospitalità e invocando il dio in onore del quale eran venuti a vedere il rito e i giochi solenni, vittime di un'eccessiva fiducia nella legge divina. Le donne rapite, d'altra parte, non avevano maggiori speranze circa se stesse né minore indignazione. Ma Romolo in persona si aggirava tra di loro e le informava che la cosa era successa per l'arroganza dei loro padri che avevano negato ai vicini la possibilità di contrarre matrimoni; le donne, comunque, sarebbero diventate loro spose, avrebbero condiviso tutti i loro beni, la loro patria e, cosa di cui niente è più caro agli esseri umani, i figli. Che ora dunque frenassero la collera e affidassero il cuore a chi la sorte aveva già dato il loro corpo. Spesso al risentimento di un affronto segue l'armonia dell'accordo. Ed esse avrebbero avuto dei mariti tanto migliori in quanto ciascuno di par suo si sarebbe sforzato, facendo il proprio dovere, di supplire alla mancanza dei genitori e della patria. A tutto questo si aggiungevano poi le attenzioni dei mariti (i quali giustificavano la cosa con il trasporto della passione), attenzioni che sono l'arma più efficace nei confronti dell'indole femminile.
10. Ormai l'ira delle ragazze rapite si era del tutto placata. Fu però proprio in quel momento che i loro genitori, vestiti a lutto, cercavano di sensibilizzare i concittadini piangendo e lamentandosi dell'accaduto. E non si limitavano a manifestare in patria il proprio sdegno, ma da ogni parte si presentarono in gruppi di delegazioni a Tito Tazio, re dei Sabini, perché il suo prestigio in quelle zone era enorme. Quell'affronto riguardava in parte Ceninensi, Crustumini e Antemnati. Sembrò loro che Tito Tazio e i Sabini agissero con eccessiva flemma: perciò questi tre popoli si prepararono a combattere da soli. Ma, a giudicare dall'animosità e dall'ira dei Ceninensi, neppure Crustumini e Antemnati si muovevano con sufficiente prontezza. Così i Ceninensi invadono da soli il territorio romano. Ma mentre stavano devastando disordinatamente la zona, gli va incontro Romolo con l'esercito e, dopo una ridicola scaramuccia, dimostra loro la vanità dell'ira non sorretta da forze adeguate. Sbaraglia la schiera nemica, la mette in fuga e ne insegue i resti sbandati; quindi si scontra in duello col re, lo uccide e ne spoglia il cadavere. Dopo aver eliminato il comandante dei nemici, si impossessa della loro città al primo assalto. Ricondotto indietro l'esercito vincitore, dimostrò che il suo eroismo nel compiere le imprese non era inferiore alla capacità di valorizzarle: portando le spoglie del comandante nemico ucciso su una barella costruita all'occorrenza, salì sul Campidoglio. Lì, dopo averle deposte presso una quercia sacra ai pastori, insieme con l'offerta tracciò i confini del tempio di Giove e aggiunse un epiteto al nome del dio: "Io, Romolo, re vittorioso, offro a te, Giove Feretrio, queste armi di re, e consacro il tempio entro questi limiti che ho or ora tracciato secondo la mia volontà, in modo tale che diventi un luogo demandato alle spoglie opime che quanti verranno dopo di me, seguendo il mio esempio, porteranno qui dopo averle strappate a re e comandanti nemici uccisi in battaglia." Questa è l'origine del primo tempio consacrato a Roma. Così, da quel giorno in poi, piacque agli dèi che fosse legge la parola del fondatore del tempio (e cioè che i posteri avrebbero dovuto portare lì le spoglie), e che la gloria di un tale dono non fosse svilita dal numero elevatissimo di chi la poteva ottenere. Da allora tanti anni sono passati e tante guerre sono state combattute. Ciò nonostante, altre due volte soltanto si presero spoglie opime: così rara fu la fortuna di quell'onore.
Livio, Ab urbe condita, 15-16
15. Belli Fidenatis contagione inritati Veientium animi et consanguinitate - nam Fidenates quoque Etrusci fuerunt - et quod ipsa propinquitas loci, si Romana arma omnibus infesta finitimis essent, stimulabat. In fines Romanos excucurrerunt populabundi magis quam iusti more belli. Itaque non castris positis, non exspectato hostium exercitu, raptam ex agris praedam portantes Veios rediere. Romanus contra postquam hostem in agris non invenit, dimicationi ultimae instructus intentusque Tiberim transit. Quem postquam castra ponere et ad urbem accessurum Veientes audivere, obviam egressi ut potius acie decernerent quam inclusi de tectis moenibusque dimicarent. Ibi viribus nulla arte adiutis, tantum veterani robore exercitus rex Romanus vicit; persecutusque fusos ad moenia hostes, urbe valida muris ac situ ipso munita abstinuit, agros rediens vastat, ulciscendi magis quam praedae studio; eaque clade haud minus quam adversa pugna subacti Veientes pacem petitum oratores Romam mittunt. Agri parte multatis in centum annos indutiae datae.
Haec ferme Romulo regnante domi militiaeque gesta, quorum nihil absonum fidei divinae originis divinitatisque post mortem creditae fuit, non animus in regno avito reciperando, non condendae urbis consilium, non bello ac pace firmandae. Ab illo enim profecto viribus datis tantum valuit ut in quadraginta deinde annos tutam pacem haberet. Multitudini tamen gratior fuit quam patribus, longe ante alios acceptissimus militum animis; trecentosque armatos ad custodiam corporis quos Celeres appellavit non in bello solum sed etiam in pace habuit.
16. His immortalibus editis operibus cum ad exercitum recensendum contionem in campo ad Caprae paludem haberet, subito coorta tempestas cum magno fragore tonitribusque tam denso regem operuit nimbo ut conspectum eius contioni abstulerit; nec deinde in terris Romulus fuit. Romana pubes sedato tandem pavore postquam ex tam turbido die serena et tranquilla lux rediit, ubi vacuam sedem regiam vidit, etsi satis credebat patribus qui proximi steterant sublimem raptum procella, tamen velut orbitatis metu icta maestum aliquamdiu silentium obtinuit. Deinde a paucis initio facto, deum deo natum, regem parentemque urbis Romanae salvere universi Romulum iubent; pacem precibus exposcunt, uti volens propitius suam semper sospitet progeniem. Fuisse credo tum quoque aliquos qui discerptum regem patrum manibus taciti arguerent; manavit enim haec quoque sed perobscura fama; illam alteram admiratio viri et pavor praesens nobilitavit. Et consilio etiam unius hominis addita rei dicitur fides. Namque Proculus Iulius, sollicita civitate desiderio regis et infensa patribus, gravis, ut traditur, quamvis magnae rei auctor in contionem prodit. "Romulus" inquit, "Quirites, parens urbis huius, prima hodierna luce caelo repente delapsus se mihi obvium dedit. Cum perfusus horrore venerabundusque adstitissem petens precibus ut contra intueri fas esset, ""Abi, nuntia"" inquit ""Romanis, caelestes ita velle ut mea Roma caput orbis terrarum sit; proinde rem militarem colant sciantque et ita posteris tradant nullas opes humanas armis Romanis resistere posse."" Haec" inquit "locutus sublimis abiit." Mirum quantum illi viro nuntianti haec fides fuerit, quamque desiderium Romuli apud plebem exercitumque facta fide immortalitatis lenitum sit.
15. La guerra scatenata dai Fidenati fu come una febbre contagiosa che colpì gli animi dei Veienti (i quali, oltretutto, vantavano anche legami etnici, visto che condividevano coi Fidenati l'origine etrusca). E in più c'era il pericolo dei confini, nel caso in cui la potenza romana si fosse rivolta ostilmente contro tutte le popolazioni limitrofe. Così si riversarono in territorio romano senza però seguire i piani di una regolare campagna militare ma piuttosto per saccheggiare i dintorni alla rinfusa. Non si accamparono né attesero l'arrivo dell'esercito nemico, ma tornarono a Veio portandosi via ciò che avevano razziato nelle campagne. I Romani, da parte loro, non avendo trovato il nemico nei campi, attraversarono il Tevere pronti e determinati a sferrare un attacco decisivo. Quando i Veienti vennero a sapere che i nemici si erano accampati e stavano per marciare contro la loro città, andarono loro incontro per decidere la battaglia in campo aperto piuttosto che dover combattere ostacolati dalle case e dalle mura. Nello scontro, senza far ricorso a particolari stratagemmi di supporto alle sue truppe, il re romano ebbe la meglio solo grazie alla fermezza dei suoi veterani: sbaragliò i nemici e li inseguì fino alle mura, ma dovette desistere dall'attaccare la città in quanto risultava ben protetta dalle fortificazioni e dalla sua stessa posizione. Sulla via del ritorno saccheggia le campagne, più per desiderio di vendetta che per fare razzia. E i Veienti, piegati da questo disastroso strascico non meno che dalla sconfitta in battaglia, inviano a Roma dei delegati per chiedere la pace. Ottennero una tregua di cent'anni in cambio della cessione di parte del loro territorio. Grosso modo furono questi i principali avvenimenti politici e militari durante il regno di Romolo. Nessuno di essi impedisce però di prestar fede alla sua origine divina e alla divinizzazione attribuitagli dopo la morte, né al coraggio dimostrato nel riconquistare il regno degli avi, né alla saggezza cui fece ricorso per fondare Roma e renderla forte grazie alle guerre e alla sua politica interna. Fu proprio in virtù di quanto egli le aveva fornito che Roma di lì in poi conobbe quarant'anni di stabilità nella pace. Tuttavia fu più amato dal popolo che dal senato e idolatrato dai suoi soldati come da nessun altro. Tenne per sé, e non solo in tempo di guerra, una scorta di trecento armati cui diede il nome di Celeri.
16. Portati a termine questi atti destinati alla posterità, un giorno, mentre passava in rassegna l'esercito e parlava alle truppe vicino alla palude Capra, in Campo Marzio, scoppiò all'improvviso un temporale violentissimo con gran fragore di tuoni ed egli fu avvolto da una nuvola così compatta che scomparve alla vista dei suoi soldati. Da quel momento in poi, Romolo non riapparve più sulla terra. I giovani romani, appena rividero la luce di quel bel giorno di sole dopo l'imprevisto della tempesta, alla fine si ripresero dallo spavento. Ma quando si resero conto che la sedia del re era vuota, pur fidandosi dei senatori che, seduti accanto a lui, sostenevano di averlo visto trascinato verso l'alto dalla tempesta, ciò nonostante sprofondarono per qualche attimo in un silenzio di tomba, come invasi dal terrore di esser rimasti orfani. Poi, seguendo l'esempio di alcuni di essi, tutti in coro osannarono Romolo proclamandolo dio figlio di un dio, e re e padre di Roma. Con preghiere ne implorano la benevola assistenza e la continua protezione per i loro figli. Allora, credo, ci fu anche chi in segreto sosteneva la tesi che i senatori avessero fatto a pezzi il re con le loro stesse mani. La notizia si diffuse, anche se in termini non molto chiari. Ma fu resa nota l'altra versione, sia per l'ammirazione nei confronti di una simile figura, sia per la delicatezza della situazione. Si dice anche che ad aumentarne la credibilità contribuì l'astuta trovata di un singolo personaggio. Questi - un certo Giulio Proculo -, mentre la città era in lutto per la perdita del re e nutriva una certa ostilità nei confronti del senato, con tono grave, come se fosse stato testimone di un grande evento, si rivolse in questi termini all'assemblea: "Stamattina, o Quiriti, alle prime luci dell'alba, Romolo, padre di questa città, è improvvisamente sceso dal cielo ed è apparso alla mia vista. Io, in un misto di totale confusione e rispetto, l'ho pregato di accordarmi il permesso di guardarlo in faccia e lui mi ha risposto: "Va' e annuncia ai Romani che la volontà degli dèi celesti è che la mia Roma diventi la capitale del mondo. Quindi si impratichiscano nell'arte militare e sappiano e tramandino ai loro figli che nessuna umana potenza è in grado di resistere alle armi romane." Detto questo," egli concluse, "è scomparso in cielo." È incredibile quanto si prestò fede al racconto di quell'uomo e quanto giovò a placare lo sconforto della plebe e dell'esercito per la perdita di Romolo l'assicurazione della sua immortalità.