Fonti in altri autori: Lucano

Farsalia I, 129-157

Nec coiere pares: alter, vergentibus annis

In senium, longoque togae tranquillior usu,

Dedidicit iam pace ducem; famaeque petitor,

Multa dare in vulgus; totus popularibus auris

Impelli, plausuque sui gaudere theatri:

Nec reparare novas vires, multumque priori

Credere fortunae. Stat magni nominis umbra:

Qualis frugifero quercus sublimis in agro,

Exuvias veteres populi sacrataque gestans

Dona ducum, nec iam validis radicibus haerens,

Pondere fixa suo est; nudosque per aera ramos

Effundens, trunco, non frondibus, efficit umbram;

Et quamvis primo nutet casura sub Euro,

Tot circum silvae firmo se robore tollant,

Sola tamen colitur. Sed non in Caesare tantum

Nomen erat, nec fama ducis: sed nescia virtus

Stare loco: solusque pudor, non vincere bello.

Acer et indomitus; quo spes, quoque ira vocasset,

Ferre manum, et numquam temerando parcere ferro:

Successus urgere suos, instare favori

Numinis: impellens, quidquid sibi, summa petenti,

Obstaret, gaudensque viam fecisse ruina.

Qualiter expressum ventis per nubila fulmen

Aetheris impulsi sonitu mundique fragore

Emicuit, rupitque diem, populosque paventes

Terruit, obliqua praestringens lumina flamma.

In sua templa furit: nullaque exire vetante

Materia, magnamque cadens, magnamque revertens

Dat stragem late, sparsosque recolligit ignes.


Non si scontrarono alla pari. L’uno di età già declinante

verso la vecchiaia, reso più pacato dal lungo uso della toga,

aveva disappreso, in pace, a essere condottiero; avido di fama,

molto concedeva al volgo, era in balìa dei mutevoli umori

del popolo, godeva degli applausi del suo teatro,

non rinnovava le sue forze, e molto confidava

nella fortuna d’un tempo. Si erge, ombra d’un grande nome,

come un’altissima quercia in un fertile campo,

che porta le spoglie di un popolo antico e i sacri

doni dei condottieri e, non più ferma su salde radici,

si sostiene con il suo peso, ed effondendo nell’aria

i rami nudi, fa ombra con il tronco, non con le fronde;

benché vacilli, destinata a cadere ai primi venti,

e benché s’innalzino intorno tanti alberi solidi e forti,

essa sola tuttavia è venerata. In Cesare invece non vi era soltanto

il nome e la fama del condottiero, ma un valore incapace

di stare fermo; sola vergogna per lui, non vincere in guerra:

energico e indomabile, dovunque la speranza o l’ira lo chiamassero,

recava il suo braccio; nessuno scrupolo di profanare la sua spada;

incalzava i propri successi, pressava il favore

divino, investendo tutto ciò che ostacolasse la sua brama

del sommo potere, e godendo di aprirsi la via tra le rovine:

simile a un fulmine che, sprigionato dai venti tra le nubi,

balena tra lo schianto dell’etere squassato e il rimbombo

dell’universo, squarcia il giorno e atterrisce la gente

sgomenta, abbagliando gli occhi con la sua fiamma obliqua;

infuria nei suoi spazi e, non essendoci materia che impedisca la sua

uscita, grande rovina provoca cadendo, grande risalendo,

per ampio tratto, e di nuovo raccoglie le sue sparse fiamme.