Approfondimento

Obiettivo n.1

Abrogazione dei Patti Lateranensi e di tutte le leggi ad essi collegate, che procurano allo Stato del Vaticano un profitto sotto forma di contributi, finanziamenti, erogazioni di qualunque tipo, comunque denominati, concessi o erogati da parte dello Stato o di altri Enti Pubblici, previa modifica dell’art.7 della Costituzione.

Aver stipulato un trattato internazionale con una monarchia dittatoriale è già di per se una stortura ma ancora più grave è stato aver inserito quel trattato nella Costituzione.

L’Italia ha rinunciato alla sua sovranità cedendola ad una monarchia confinante nella quale non sono rispettati i diritti umani, nella quale la violenza assume le sembianze della negazione totale del genere femminile e la negazione totale del libero orientamento sessuale.

I Patti Lateranensi costituiscono la fonte della nostra povertà, non solo economica, ma soprattutto culturale.

La monarchia vaticana, legittimata dai Patti Lateranensi, si è insinuata nella nostra società ramificando i suoi tentacoli in ogni ambito del vivere civile; condiziona la legislazione interna su tutte le tematiche volte a garantire diritti e progresso; sottrae tasse per mantenere nel lusso la sua pretaglia; attua una sistematica sodomizzazione dei minori sottraendosi abilmente alla giustizia italiana; delinque sapendo di godere di una totale impunità in spregio al nostro sistema giudiziario; commercia e traffica senza rispetto delle norme a tutela della trasparenza e dell’antiriciclaggio ma nemmeno delle più elementari regole del mercato.

Il parassitismo è regola aurea e il paravento della trascendenza impedisce agli italiani di averne consapevolezza.

Un miliardo di euro dai versamenti dell'otto per mille.

800 milioni di euro per gli stipendi degli insegnanti di religione nel 2008, pari al 2% dell’intera somma erogata per finanziare il sistema scolastico.

500 milioni di euro di danno erariale per le esenzioni in favore delle strutture alberghiere.

250 milioni per il finanziamento dei Grandi Eventi.

17 milioni di euro per gli stipendi dei cappellani militari.

Questi sono solamente alcuni esempi dell’enorme flusso di denaro che impoverisce gli italiani e ingrassa la casta clericale.

Le organizzazioni religiose, in forza dei Patti Lateranensi, godono di ogni sorta di agevolazione fiscale, perfino sul canone TV.

Il totale delle somme depredate agli italiani dalla casta clericale ammonta a circa 10 miliardi di euro l’anno.

I Patti Lateranensi sono un trattato scellerato e costituiscono la nostra pietra al collo mentre tentiamo grossolanamente di galleggiare.

Senza i Patti Lateranensi l’Italia potrebbe aspirare alla normalità della civiltà.

Obiettivo n.2

Adozione di leggi sul testamento biologico, sulla procreazione medicalmente assistita, sull’eutanasia e sulle cellule staminali, scevre da limitazioni etico - religiose.

Il diritto di autodeterminazione è un diritto fondamentale della persona che deve poter decidere come vivere, ma anche come morire.

I Padri Costituenti, nel sancire con l’art. 32 della Costituzione la tutela della salute come “diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività” hanno voluto evidenziare l’importanza di non violare, in nessun caso, i limiti imposti dal rispetto della persona umana la cui dignità deve essere tutelata in ogni contesto.

In questa interpretazione si inserisce ad esempio, il rifiuto del paziente di prolungare le cure mediche, lasciando che la malattia prosegua nel suo decorso naturale.

Le morali religiose non possono inibire la ricerca scientifica, che va interpretata come patrimonio dell’umanità costituendo parametro ineguagliabile per il superamento della patologie umane e per il miglioramento della qualità della vita.

Le ragioni etiche che impediscono ai religiosi di valutare positivamente i campi di indagine scientifica, non possono costituire impedimento per chi non condivide le stesse limitazioni e gli unici parametri universalmente accettati entro i quali deve muoversi la ricerca scientifica, sono quelli sanciti dalla Convenzione dei Diritti Umani.

Obiettivo n.3

Adozione della legge sul conflitto d’interesse per coloro che devono ricoprire cariche pubbliche.

Tra gli obiettivi fondamentali del programma di DA abbiamo inserito l'adozione di una legge sul conflitto di interessi per coloro che devono ricoprire cariche pubbliche.

La nostra Costituzione non si è occupata del conflitto di interessi in modo specifico e diretto e manca, nel nostro sistema legislativo, una legge organica che disciplini le incompatibilità che sorgono quando si agisce per gli interessi pubblici e nel contempo si è titolari di interessi privati.

Né può essere presa in seria considerazione la legge varata nel 2004 dal Ministro Frattini che non definisce i parametri di intervento né indica le condizioni di incandidabilità di chi ricopre ruoli incompatibili con l'esercizio delle cariche pubbliche.

In Italia il conflitto di interessi è percepito dalla popolazione come estraneo al funzionamento democratico.

La destabilizzazione democratica ha trovato nella mancata attuazione di una legislazione organica ed evoluta sul conflitto di interessi, una forte spinta.

La Germania, la Francia, la Spagna, hanno tutte una legge che regola il conflitto di interessi mentre la Gran Bretagna si autoregolamenta richiamando un codice deontologico.

La legislazione statunitense appare essere la più completa perché non si limita a regolamentare e a prevenire i conflitti connessi alle alte cariche governative, ma riguarda anche i membri del Congresso e tutti i funzionari pubblici.

La presenza di una legislazione che tuteli l'interesse pubblico dalle commistioni con gli interessi privati, ha creato in quei Paesi anche una mentalità più evoluta e una consapevolezza più matura.

L'Italia resta un fanalino di coda e spesso coloro che ricoprono cariche pubbliche sanno che la funzione pubblica è il miglior canale per consolidare il proprio interesse privato, come accade nei Paesi del quarto mondo.


Obiettivo n.4

Abrogazione delle parole “fondata sul matrimonio” dall’art. 29 della Costituzione: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale”.

Il matrimonio è una invenzione giuridica e l'unione naturale è l'unione di due persone, uomo-donna, donna-donna, uomo-uomo.

Queste unioni sono sempre esistite in natura e solo con l’invenzione delle religioni sono state disciplinate nella finalità della procreazione e nella certezza della paternità.

Si ritiene che le società naturali non debbano più sottostare al confinamento giuridico del matrimonio.

Un nucleo familiare può ben essere costituito da soggetti che non hanno la finalità procreativa, oppure che hanno un legame affettivo, non necessariamente sessuale, senza finalità alcuna, se non il compiacimento e il reciproco sostentamento nella convivenza.

Queste forme familiari devono trovare tutela giuridica.

Nel pieno rispetto dell’autodeterminazione, “ordinare gli istinti” non significa necessariamente reprimerli.

La legislazione sulle unioni civili, nota come Legge Cirinnà, ha creato una gerarchia legislativa che differenzia unioni eterosessuali da unioni omosessuali, e crea ancora le premesse per una sostanziale discriminazione.

Democrazia Atea auspica una legislazione che superi qualsivoglia differenza in base all'orientamento sessuale delle persone che intendono legarsi nel vincolo giuridico del matrimonio, consentendo l'adozione secondo i criteri di valutazione di cui alla legge 184/1983 estesi anche a coppie dello stesso sesso.

Obiettivo n.5

Difesa e piena attuazione della Legge sull’interruzione di gravidanza (194), con iniziative a tutela della maternità e all’inserimento di programmi educativi nelle scuole, che consentano una sessualità consapevole.

Nonostante la presenza dal 1978 di una normativa che tutela l’interruzione di gravidanza in determinate fattispecie, allo stato attuale negli ospedali pubblici avere assistenza sanitaria è quasi impossibile.

Nel corso degli anni, medici e personale infermieristico, nascondendosi dietro l’obiezione di coscienza, hanno fatto prevalere i loro preconcetti di stampo religioso sugli obblighi derivanti dalla loro funzione professionale all’interno di strutture pubbliche.

Grazie alla connivenza di una classe politica subalterna al potere religioso, si sta scientemente cercando di equiparare l’obiezione di coscienza alla Libertà di Coscienza, diritto fondamentale inviolabile che trova la sua fonte nella Costituzione e nelle Convenzioni internazionali sui diritti fondamentali dell’uomo.

Diversamente con l’obiezione di coscienza non si denuncia alcuna incostituzionalità della norma che si intende disattendere e ciò che si invoca sono i personali convincimenti, politici o religiosi, attraverso i quali si ritiene di poter legittimare il proprio rifiuto.

Tenuto conto che la scuola è il luogo ideale di socializzazione e di discussione, è nostra convinzione che sia anche teatro ideale per lo scambio di conoscenze in materia di sanità; si ritiene che potenziando i progetti educativi indirizzati alla conoscenza del proprio corpo e dei metodi di contraccezione, si possa abbassare la percentuale delle maternità indesiderate, avviando la popolazione ad una sessualità consapevole e libera, specchio di una società altrettanto matura e responsabile.

Obiettivo n.6

Diffusione di asili nido pubblici con oneri a carico dello Stato, ovvero degli Enti Locali.

Democrazia Atea chiede l’inserimento degli asili nido tra le scuole dell’infanzia e quindi nell’ordinamento scolastico della Pubblica Istruzione.

Gli asili nido infatti da una parte svolgono una funzione di sostegno alle famiglie nella cura dei figli facilitando l’accesso dei genitori, e soprattutto delle madri, al lavoro; dall’altra, e non meno rilevante, gli asili nido svolgono la funzione di favorire le potenzialità cognitive, affettive e relazionali dei bambini.

Sostenere i costi degli asili nido deve rientrare nelle priorità dello Stato tanto più che, creare le condizioni per un sicuro aumento dell’occupazione femminile, come già sperimentato in altre nazioni, si traduce in un indubbio miglioramento della qualità della vita e, in generale, del vivere sociale, senza trascurare un aumento del PIL.

Nel progetto complessivo di distruzione della scuola pubblica, il Ministro Fedeli ha elaborato una riforma del segmento 0-6 e si è concretizzato un assoluto peggioramento del sistema degli asili nido.

La scuola dell’infanzia in Italia, per intenderci il segmento 3-6, aveva perfezionato un suo percorso formativo raggiungendo punte di eccellenza riconosciute a livello internazionale e imitate per la qualità del livello educativo.

Il nido invece era riservato al segmento 0-3 e rispondeva prioritariamente alle esigenze e ai tempi di lavoro dei genitori.

Sotto questo aspetto il nido poteva tranquillamente essere considerato un servizio, mentre la scuola dell’infanzia manteneva la funzione di istruzione rispondendo ad una propria specificità didattica ed educativa.

Ora nel calderone 0-6 le specificità proprie dei percorsi di istruzione non si differenzieranno dalle specificità del servizio, sicché anche la scuola materna sarà un servizio, affidato ad enti locali che esternalizzeranno a cooperative con gare al ribasso.

Si aggiunga che se fino ad oggi era prevista una forma di contribuzione solo per i nidi, con il sistema integrato non solo si aprirà la stagione della privatizzazione selvaggia con affidamento a cooperative di dubbia preparazione, ma la contribuzione alle spese potrà essere richiesta per tutto il ciclo “integrato”, non più fino a tre anni, ma fino a 6, con buona pace dell’articolo 34 della Costituzione.

L’unica certezza, ormai, è che l’istituzione scolastica è stata definitivamente e completamente mortificata e che i più piccoli saranno affidati a quello che appare essere una brutta imitazione dell'area giochi dei centri commerciali, per giunta a pagamento.

Democrazia Atea propone di cancellare integralmente la legge attualmente in vigore proponendo l'adozione di modelli all'avanguardia.

Obiettivo n.7

Erogazione di un assegno mensile in favore del genitore affidatario dei figli minori in caso di separazione o divorzio, se non economicamente autosufficiente, delegandone la valutazione al Giudice.

L’esigenza di tutelare la prole da un contesto familiare violento o comunque inadatto, si scontra con la difficoltà di disporre di una abitazione e di un sostentamento economico minimo che garantisca le necessità primarie dei figli.

Nella maggioranza dei casi il genitore che subisce la violenza è anche il genitore economicamente più debole ed è anche quello che avverte per primo la necessità di sottrarre se stesso e i figli dalla patologia familiare.

Spesso invece si rimane vincolati ad un legame familiare distruttivo perché non si ha la forza economica di creare una alternativa possibile.

Sin dalla sua fondazione (2009) Democrazia Atea ha sostenuto che lo Stato dovesse farsi garante della tutela del nucleo familiare che si divide, assicurando un assegno di mantenimento erogato in assenza di altre risorse reddituali all’interno del nucleo familiare.

Con legge del 2016 si è stabilito che lo Stato potrà erogare un assegno in favore del coniuge separato, ma solo se il coniuge versa in stato di bisogno.

La legge non è scevra da criticità.

Si esclude l'erogazione in caso di divorzio o di separazione tra ex conviventi, e soprattutto si focalizza l'erogazione sullo stato di necessità e sulla presenza di figli portatori di handicapp.

Le situazioni di difficoltà sono molto più estese e i criteri adottati per la quantificazione e qualificazione dello stato di bisogno sono insufficienti perchè non tengono conto di ulteriori importanti fattori come ad esempio l'accesso a cure mediche o all'istruzione.

La norma attuale non prevede nemmeno come prevenire l'accesso al beneficio da parte di coloro che accedono al sistema diffuso delle separazioni fittizie.

Il vincolo matrimoniale o l’unione di fatto non devono determinare differenze nella erogazione di un assegno di mantenimento la cui destinazione è in favore di minori in difficoltà economica, che non possono subire una discriminazione in base allo status giuridico dei genitori.

Obiettivo n.8

Adozione di una legge nazionale che dichiari l'incostituzionalità della Dichiarazione Islamica dei Diritti dell'Uomo

La nostra civiltà europea si è tendenzialmente conformata alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo adottata dall’Assemblea Generale delle nazioni Unite nel 1948.

Le società islamiche hanno invece elaborato una Dichiarazione Islamica dei Diritti dell’Uomo, proclamata presso l’Unesco e firmata a Parigi nel 1981.

Per quanto le due Dichiarazioni abbiano apparentemente alcuni punti di contatto, in verità v’è un contrasto incolmabile e insanabile.

Il modello sociale sotteso alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo è laico e libertario.

Il modello sociale sotteso alla Dichiarazione Islamica dei diritti dell’Uomo è teocratico e i diritti esistono solo in quanto promanazione della legge divina.

Non esiste, né potrà mai essere elaborata una legislazione di raccordo tra le due Dichiarazioni.

Non esiste alcuna possibilità che una mentalità teocratica possa trovare un punto di incontro con una mentalità laica e libertaria.

L’una è la negazione dell’altra.

Il multiculturalismo, proteso salvaguardare le specificità culturali e religiose, se trova una sponda legislativa con la Dichiarazione Islamica dei Diritti dell’Uomo, diventa l’innesco di una pericolosità sociale esplosiva.

Inseguire l’integrazione con l’islam è una partita persa, almeno fino a quando le legislazioni nazionali che hanno adottato la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo non dichiarino esplicitamente fuorilegge la Dichiarazione Islamica dei Diritti dell’Uomo.

Obiettivo n.9

Potenziamento dell’edilizia economica popolare

La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo all'articolo 25 include tra i Diritti Umani fondamentali il diritto all'abitazione e l'articolo 2 della nostra Costituzione non si limita a riconoscere i Diritti Umani, ma impone che i Diritti Umani siano garantiti.

Garantire un Diritto Umano Fondamentale significa favorire l'adozione di misure economiche e legislative che possano rendere concreto un diritto, impedendo che resti una semplice aspirazione.

Il diritto ad avere una casa, dunque, è un diritto umano e la Corte Costituzionale ha più volte ribadito che tra i compiti fondamentali delle Amministrazioni Pubbliche si deve includere la rimozione di tutti gli ostacoli che impediscano alle persone di poter godere di una abitazione.

Lo strumento attraverso il quale le Amministrazioni possono rendere concreto e attuato il diritto all'abitazione, è costituito prevalentemente dall'adozione di piani di edilizia economica e popolare.

Il diritto all'abitazione, inserito nel sistema dei diritti fondamentali, si risolve anche nella necessità di una pianificazione urbanistica più estesa, non solo di quella rivolta alle fasce più deboli.

Spesso il tessuto criminale di una società si innesta e ramifica in contesti nei quali non c’è mai stata una pianificazione urbanistica nella quale includere analisi sociologiche e prospettive culturali, in aree nelle quali il rispetto delle norme è stato ignorato sia dagli amministratori che dagli amministrati.

Rigorosi piani di recupero del territorio devono essere rivolti alle cosiddette aree urbane degradate, e il potenziamento della edilizia economica popolare, lungi dal costituire la premessa per barbare speculazioni edilizie, deve prioritariamente privilegiare il recupero di strutture esistenti, idonee a mantenere la memoria storica di ciò che varrà la pena riqualificare.

Obiettivo n.10

Riqualificazione sociale della figura degli anziani e dei disabili, e loro inserimento in progetti di pubblica utilità. Creazione di strutture d’ospitalità per anziani e disabili ad alta qualità assistenziale, con integrazione dei costi a carico dello Stato. Creazione di una rete assistenziale domiciliare per disabili e anziani, ovvero per persone temporaneamente in difficoltà

Tra i parametri con i quali si misura il grado di civiltà di una comunità, rientra anche quello del ruolo che hanno gli anziani e i disabili.

Una società avvitata nell’egoismo sociale, come quella italiana, esprime una perversa gerontofobia che si manifesta nella costante denigrazione della capacità decisionale delle persone anziane, cui si nega ruolo narrativo e saggezza esperienziale fino ad arrivare, da parte di taluni, a negare agli anziani la partecipazione alla vita politica, anche da semplici elettori, in assenza di competenze informatiche di base.

La risultante immediata è la marginalizzazione sociale che rende più facile alle fasce produttive, negare dignità assistenziale.

Occorre riqualificare il ruolo degli anziani per ricreare un circolo virtuoso di legami affettivi e socialmente costruttivi.

La prospettiva di diventare oggetto di denigrazione sociale al compimento dell’età pensionabile non giova al naturale avvicendarsi delle stagioni della vita.

Aver trascurato programmi di inserimento delle persone anziane nella socialità è un’imperdonabile trascuratezza che si paga con l’aridità delle giovani generazioni.

La qualità della vita delle persone anziane passa attraverso il monitoraggio costante delle loro necessità e l’immediato intervento nelle criticità, tanto più che l’isolamento sociale è causa dell’aumento delle malattie.

La Comunità europea ha stanziato fondi per superare il divario tra le diverse regioni europee, e in Italia, parte di questi fondi, sono stati destinati alle regioni del meridione.

Le modalità con le quali saranno gestiti non lascia intravedere alcuna prospettiva di incidenza sulla sensibilizzazione culturale, l’unica che può restare anche in assenza di nuove erogazioni.

Obiettivo n.11

Sostituzione dell’ora di “religione” con l’ora di “storia delle religioni”, i cui insegnanti dovranno essere inseriti nelle pubbliche graduatorie, e dovranno aver sostenuto esami universitari in antropologia

L’introduzione dell’ora di religione nei programmi scolastici si è decisamente trasformata in catechesi cattolica.

L’insegnamento deve mantenere il rigore della neutralità rispetto alle credenze, e il valore del principio di laicità, cui deve essere uniformata la nostra società, stride con l’insegnamento di una sola religione.

La religione cattolica attualmente viene veicolata come accadeva durante il regime dittatoriale fascista, ovvero come se fosse “religione di Stato” quando invece non lo è.

Nelle aule scolastiche italiane c’è la presenza di studenti appartenenti a comunità religiose differenti e a famiglie di non credenti.

Nei confronti di costoro l’insegnamento della religione cattolica costituisce un momento di autentica discriminazione atteso che non esiste la possibilità, nei programmi ministeriali, di sostituirla con l’ora di ebraismo, di islam, di ateismo, di buddismo, di qualunque altra religione o corrente filosofica cui gli studenti non cattolici facciano riferimento.

Il fenomeno religioso è tuttavia un fenomeno umano rilevante nella storia dell’umanità e dunque è necessario che sia inserito come materia di studio purché non si trasformi in momento di indottrinamento.

E’ per questo che sorge la necessità di un insegnamento improntato allo studio antropologico del fenomeno religioso nella prospettiva di una emancipazione culturale che ponga lo studente nella condizione di conoscere tutto per poter scegliere liberamente un percorso religioso o razionalista.

Il fine dell’insegnamento è sempre quello di elevare il livello di conoscenza e conseguentemente la capacità critica dello studente, ed è in questa ottica che deve essere salvaguardata la possibilità, per ogni studente, di scegliere senza imposizioni foriere di discriminazioni.

Obiettivo n.12

Abrogazione della legge 107/2015 nota come "Buona scuola". Adozione della Legge di Iniziativa Popolare per la Scuola della Costituzione

Il Trattato di Lisbona è all'origine del progetto eversivo di distruzione della scuola pubblica, con la precisa finalità di creare studenti "utilizzabili" dal mercato senza alcuna formazione critica.

Il progetto neoliberista di distruzione della scuola pubbblica ha trovato in Italia il suo definitivo traguardo con l'approvazione della legge 107/2015 che toglie alla scuola pubblica definitivamente qualità e valore.

Anche il linguaggio si è uniformato alle necessità del mercato sicchè alla "conoscenza" è stata sovrapposta la "competenza" mentre dal linguaggio finanziario sono statiti mutuati termini come "crediti" e "debiti".

Democrazia Atea propone di abrogare integralmente la legge 107/015 perchè è vergognosa e inqualificabile, e con essa propone di abrogare integralmente tutti i decreti attuativi ad essa collegati.

Nel contempo propone l'adozione della LEGGE DI INIZIATIVA POPOLARE PER LA SCUOLA DELLA COSTITUZIONE (http://lipscuola.it/blog/).

Una scuola pubblica, laica e pluralista: capace di garantire a tutte e tutti il diritto all’istruzione.

La scuola pubblica deve essere posta al centro dell’attenzione per la rinascita del livello culturale della Nazione.

È l’unica strada per sperare in un percorso virtuoso di civilizzazione e di qualità della vita.

Obiettivo n.13

Incentivazione al ritorno in Italia di ricercatori scientifici, docenti universitari, medici e altre personalità, concordandone la continuità professionale

Il rapporto tra PIL e investimenti in ricerca scientifica è l’indice di innovazione e sviluppo di un Paese.

Nel 2016 l'European research council ha premiato 314 ricerche (per 650 milioni di euro totali).

Soltanto 14 ricerche sono state sviluppate presso scuole, università o centri di ricerca italiani.

La classifica riguarda complessivamente 23 Paesi.

Le ricerche premiate per il Regno Unito sono state 58, per la Germania 48, per la Francia 43, per l'Olanda 29, per la Spagna 24, per la Svizzera 22, per Israele 15, per l’Italia 14.

Ma il dato più preoccupante sta nel fatto che in totale 25 ricerche premiate sono state vinte da italiani che lavorano stabilmente presso centri di ricerca all’estero.

I ricercatori italiani, in Italia, trovano una occupazione più o meno stabile anche dopo dieci anni dal dottorato, ed è un tempo vergognoso.

E’ evidente che occorre investire nella ricerca quantomeno una percentuale del PIL pari a quella investita dagli altri Paesi e il problema dell’emigrazione dei nostri ricercatori sarebbe risolto alla radice.

Obiettivo n.14

Introduzione del divieto della obiezione di coscienza per medici e farmacisti nel rispetto della libertà di coscienza

La libertà di coscienza e l’obiezione di coscienza spesso sono confusi e sovrapposti e spesso anche da chi, per mestiere o per funzione, dovrebbe teoricamente essere in grado di conoscere le differenze tra l’uno e l’altro concetto.

La libertà di coscienza è un diritto fondamentale inviolabile che trova la sua fonte nella Costituzione e nelle Convenzioni internazionali sui diritti fondamentali dell’uomo.

La libertà di coscienza è un diritto supremo, che non può trovare limitazioni, che obbliga gli Stati a non compiere attività che possano limitarlo, è un diritto che non accetta deroghe.

Nessuno può accettare di compiere un’azione oppure di omettere un’azione che leda diritti assoluti, che incida sui diritti fondamentali.

Ognuno può legittimamente rifiutarsi di compiere un atto imposto se dall’esecuzione di quell’atto ne possa derivare una lesione di diritti fondamentali inviolabili, e del pari nessuno può rifiutarsi di compiere un atto doveroso se dall’esecuzione di quell’atto ne possa derivare una lesione di diritti fondamentali inviolabili. I diritti assoluti sono, a titolo esemplificativo, il diritto all’uguaglianza, alla non discriminazione, alla laicità dello Stato, il diritto alla salute, cioè tutti i diritti di rango costituzionale.

Nessun organo dello Stato può incidere in maniera pregiudizievole e comprimere i diritti assoluti.

Chi si rifiuta di compiere un atto dovuto perché ritiene di subire la lesione di diritti inviolabili, non entra in conflitto con altri valori costituzionali, ma denuncia, al contrario, che le attività da cui ci si sottrae con il rifiuto, sono attività che contrastano esse stesse con la Costituzione o con la Convenzione dei diritti dell’uomo, e, attraverso il rifiuto, si sollecita il Legislatore a ripristinare la legalità.

Con l’obiezione di coscienza invece non si denuncia alcuna incostituzionalità della norma che si intende disattendere e ciò che si invoca sono i personali convincimenti, politici o religiosi, attraverso i quali si ritiene di poter legittimare il proprio rifiuto.

Nel caso della libertà di coscienza il rifiuto è motivato dalla lesione di diritti costituzionali, nel caso della obiezione di coscienza il rifiuto è motivato dalla lesione di convinzioni personali.

Nel caso della libertà di coscienza il cittadino, con il suo rifiuto, può sollecitare il Legislatore a ripristinare principi costituzionali violati; nel caso della obiezione di coscienza il cittadino con il suo rifiuto non può pretende che il Legislatore si adegui alle sue convinzioni personali.

L’obiezione di coscienza nel nostro Paese è il paravento della misoginia religiosa.

Se partiamo dalla premessa antropologica secondo la quale il Potere passa attraverso il controllo della sessualità femminile e questo controllo, a sua volta, si declina nella limitazione all’accesso all’educazione sessuale, alla fecondazione assistita, alla contraccezione, alla interruzione di gravidanza, si spiega come mai l’obiezione di coscienza ruota sempre attorno alla sfera sessuale femminile.

Se recandoci in un ospedale pubblico trovassimo un medico che si rifiuta di praticarci una trasfusione di sangue per motivi religiosi, la nostra rabbia e la nostra indignazione sarebbe giustificata dalla considerazione che è inaccettabile un’obiezione di coscienza legata a una pratica medica che il legislatore ritiene lecita.

Se alla trasfusione di sangue sostituiamo l’interruzione di gravidanza dovremmo giungere alle stesse conclusioni, e invece il discorso cambia perché in questo caso il Legislatore ha permesso ai medici di rifiutarsi, per motivi religiosi e di coscienza, di praticare un’assistenza lecita e dovuta.

Noi demoatei non vogliamo comprimere le remore morali dei ginecologi che si rifiutano di dare assistenza sanitaria alle donne, ma vogliamo che questo diniego non sia possibile esercitarlo nelle strutture pubbliche o nell’espletamento di un pubblico servizio.

Noi demoatei vogliamo che nell’esercizio delle professioni sanitarie nelle strutture pubbliche non ci siano remore morali e pertanto se la religione impedisce ad un medico di praticare le trasfusioni di sangue come terapia lecita, sicuramente quel medico dovrà scegliere di non fare l’ematologo, mentre se la religione impedisce ad un medico di praticare l’interruzione di gravidanza, quel medico potrà sempre scegliere di fare il dentista o l’ortopedico, non deve necessariamente fare il ginecologo, ovviamente se opera nella sanità pubblica.

Obiettivo n.15

Abrogazione di ogni forma di finanziamento alle scuole private, comprese le paritarie di matrice religiosa. Divieto di esposizione di simboli religiosi nelle scuole e nei luoghi pubblici, rimozione di simboli religiosi da tutti gli uffici pubblici e da tutte le scuole pubbliche e paritarie

Le scuole private non sono amministrate dallo Stato che non può influenzarne alcuna scelta.

L'articolo 33 della nostra Costituzione ne sanciva la differenza sostanziale, dando la possibilità ad enti e privati di istituire scuole private senza oneri a carico dello Stato.

L’articolo 33 della Costituzione è stato aggirato con Decreti Ministeriali con i quali si è consentito di versare fondi a favore di scuole private e a riconoscerne la parificazione con le scuole pubbliche.

Si da il caso che la maggior parte di queste scuole sia di natura cattolica ed appartengano al Vaticano.

700 milioni di euro l'anno arrivano alle scuole cattoliche dal MIUR, dalle regioni e dai Comuni.

Nello stesso tempo le scuole pubbliche sono fatiscenti, non sono sicure sotto il profilo sismico, non sono sufficientemente riscaldate d'inverno, non hanno laboratori adeguati, palestre, arredi.

Abolire i decreti che consentono il finanziamento delle scuole cattoliche avrebbe il vantaggio di recuperare quelle somme alle scuole pubbliche, sempre più in difficoltà, ma soprattutto avrebbe il vantaggio di garantire la qualità della formazione critica degli studenti che, nelle scuole cattoliche, è negata a favore di una formazione confessionale.

Il diritto allo studio, in conformità al dettato costituzionale, deve essere garantito rendendo accessibile le scuole di ogni ordine e grado, investendo sugli aggiornamenti del corpo docente e adeguando le strutture alle esigenze della sicurezza oltre che della formazione, e nella Costituzione è espressamente vietata l’erogazione di fondi statali alle scuole private, siano esse cattoliche o coraniche.

Le scuole sono il luogo nel quale la convivenza tra culture differenti deve trovare condizioni di uguaglianza e di non discriminazione e dunque nelle scuole, come negli uffici pubblici, la non discriminazione è garantita eliminando le simbologie religiose di un solo gruppo.

La rimozione delle simbologie religiose deve partire proprio dalle scuole e non in riferimento al diritto umano che garantisce la libertà religiosa, quanto piuttosto in riferimento al diritto alla non discriminazione.

Obiettivo n.16

Politica della tolleranza nei confronti dell’uso e della diffusione delle droghe leggere. Utilizzo esteso degli oppiacei nei protocolli sanitari. Riforma complessiva della legislazione in tema di sostanze stupefacenti sul modello olandese

L’hashish è una sostanza stupefacente che deriva dalla cannabis.

L’assunzione delle sostanze psicotrope è antica ed è sicuramente precedente al conferimento della delega all’on.le Giovanardi sulle tossicodipendenze.

Le politiche punitive adottate dal governo clericale e fascista, hanno avuto la sgradevole conseguenza di far lievitare i procedimenti penali e amministrativi a carico di soggetti eccessivamente criminalizzati.

Altri Paesi prima di noi e meglio di noi hanno affrontato il problema delle droghe leggere e delle droghe pesanti e i risultati sono stati soddisfacenti.

Nella legislazione olandese la priorità dello Stato è riservata alla salute.

Le droghe sono classificate tra quelle che presentano rischi per la salute preoccupanti e gravi (droghe pesanti) e quelle che, derivate dalla canapa, sono considerate con un rischio inferiore (droghe leggere).

In Olanda i tossicodipendenti non sono considerati criminali ma persone da curare.

La politica adottata dall'Olanda ha mirato essenzialmente alla riduzione del danno tollerando la vendita di droghe leggere ma con un costante monitoraggio per aiutare i giovani a tenersi lontano dalle droghe pesanti.

In Italia, dove la legislazione è fortemente repressiva, i tossicodipendenti, in percentuale, sono quasi sette volte più numerosi degli olandesi.

La politica olandese di tolleranza si è accompagnata ad una severa e rigorosa lotta contro le organizzazioni criminali con risultati soddisfacenti.

In Italia invece la politica di repressione si è accompagnata a un aumento crescente degli introiti delle organizzazioni criminali che sul traffico degli stupefacenti hanno creato un impero.

Obiettivo n.17

Sensibilizzazione pubblica sui vantaggi della procedura di cremazione. Creazione di inceneritori per ogni cimitero provinciale. Regolamentazione nazionale delle tariffe per la cremazione. Istituzione di sale di commemorazione per i non credenti, in ogni area cimiteriale

Scegliere la cremazione è senza dubbio un atto di civiltà ed è per questo che i maggiori impedimenti alla sua diffusione provengono dalle religioni che legano alla cremazione un ostacolo al raggiungimento delle loro finalità: i veneratori del fuoco non vogliono che questo elemento entri in contatto con le impurità dei cadaveri, i credenti nella resurrezione ritengono che un cadavere bruciato abbia difficoltà a risorgere, altri credenti ritengono che se si brucia il cadavere l’anima non potrà più raggiungere la pace eterna.

Dunque ogni religione interferisce esprimendo il suo contrasto alla eliminazione dei cadaveri attraverso la cremazione, e condizionando la legislazione dei Paesi in base alle proprie superstizioni e ai propri tabù.

Diffondere invece gli aspetti positivi della cremazione resta un atto di civiltà.

L’accesso alla cremazione trova un ostacolo nella diffusione dei centri, decisamente più diffusi nel centro nord, e dunque è auspicabile che ogni provincia possa disporre del proprio inceneritore.

Le sale di commiato per coloro che non appartengono alla religione cattolica, devono invece essere istituite in ogni Comune.

Quanto alle tariffe, un recente decreto del 2006 ha stabilito che la tariffa massima per ogni cremazione non possa superare la somma di € 424,95 e quindi l’incentivazione alla cremazione, auspicabile anche sotto il profilo urbanistico, passa attraverso il mantenimento della regolamentazione nazionale delle tariffe, evitando che le tariffe possano essere gestite dai Comuni o da società private.

Obiettivo n.18

Revisione dei criteri di concessione mineraria; abrogazione della legge sulla privatizzazione delle acque

Il demanio idrico, il demanio marittimo e il demanio minerario, sono sempre stati oggetto di concessioni gestite direttamente dallo Stato.

Con la riforma del Titolo V della Costituzione e il trasferimento alle Regioni di potestà legislative statali, anche il demanio idrico e minerario è passato alla gestione delle Regioni che hanno visto attribuirsi il potere concessorio e la determinazione dei canoni concessori.

Solo il demanio marittimo, per ora, è rimasto nelle mani del potere statale centrale.

Nella regolamentazione del codice civile -art.822- “appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico (...) i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia”.

Una legislazione del 1998, prima ancora che la riforma costituzionale trasferisse alle Regioni i poteri statali sul demanio, aveva già consentito che “alla gestione dei beni del demanio idrico provvedono le regioni e gli enti locali competenti per territorio” e che “i proventi dei canoni ricavati dalla utilizzazione del demanio idrico sono introitati dalla regione”.

Il passaggio legislativo successivo, sul quale è necessario intervenire, è stato quello di concedere ai privati lo sfruttamento delle sorgenti d’acqua.

La revisione dei criteri di concessione mineraria deve portare a rendere impraticabile l’imbottigliamento delle acque minerali da parte di società private.

La gestione pubblica delle acque ad uso domestico e industriale, come pure la gestione delle acque reflue e di depurazione, deve portare, come naturale conseguenza, l’applicazione di tariffe congrue e l’eliminazione di tariffe ingiustificate che invece ancora vengono applicate da parte delle società erogatrici private.

L’acqua, in tutte le sue derivazioni e in tutti i suoi utilizzi, deve restare un bene pubblico svincolata da logiche di profitto.

Obiettivo n.19

Abrogazione del reato di “Offesa a una confessione religiosa mediante vilipendio di persone” (art. 403 del codice penale)

Le confessioni religiose sono generalmente molto sensibili alle critiche, proprio per l’impossibilità di sostenere la validità delle loro affermazioni sul piano razionale.

L’incapacità di porsi su un piano di confronto e di accettazione del contraddittorio ha sempre portato la religione cattolica ad imbavagliare la libertà di espressione.

Nel 2006 è stato riformulato l’articolo 403 del codice penale: “Offese a una confessione religiosa mediante vilipendio di persone. - Chiunque pubblicamente offende una confessione religiosa, mediante vilipendio di chi la professa, è punito con la multa da euro 1.000 a euro 5.000. Si applica la multa da euro 2.000 a euro 6.000 a chi offende una confessione religiosa, mediante vilipendio di un ministro del culto.”

Per il principio di uguaglianza e considerando che le associazioni di atei sono equiparabili alle associazioni religiose, sul piano dei diritti umani, si dovrebbe intendere che chi pubblicamente offende l’ateismo mediante vilipendio di chi si dichiarata tale, deve soggiacere alle stesse pene.

In realtà l’articolo penale in questione ha rilievo per DA non per l’equiarazione dei diritti tra atei e religiosi, ma per la grave limitazione che determina in contrasto con l’articolo 10 della Convenzione sui diritti umani.

Per quanto si sia assistito, nelle formulazioni del reato, ad una progressiva attenuazione delle prescrizioni precettive nonché delle sanzioni, è ancora diffusa una mentalità che inibisce la libertà di espressione quando si parla di culti e di religioni.

La Raccomandazione 1805 (2007) dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, in relazione a blasfemia, insulti religiosi e discorsi di odio contro le persone a motivo della loro religione, ha stabilito che “La libertà di espressione è applicabile non solo alle espressioni che vengono accolte con favore o considerate come inoffensive, ma anche a quelle che possono scioccare, offendere o disturbare lo stato o qualsiasi settore della popolazione”.

Nella stessa Raccomandazione si legge: “L'Assemblea ritiene che la bestemmia, come un insulto alla religione, non dovrebbe essere considerata un reato penale.”

L’art.403 del codice penale italiano costituisce ancora un ostacolo alla piena attuazione del rispetto dei diritti umani ed, in particolare, del diritto alla libera espressione e alla critica.

Rivendicare il diritto alla blasfemia non significa avere la libertà di offendere gratuitamente i sentimenti altrui, ma significa attuare pienamente l’articolo 10 della Convenzione sui diritti umani, perchè la libertà di espressione non accetta le limitazioni imposte dalle credenze religiose, e non è un caso che proprio i Paesi dove si soffre maggiormente la libertà di critica e di opinione, come la Russia e la Cina, hanno ottenuto dall’ONU l’adozione di risoluzioni anti-blasfemia.

Obiettivo n.20

Revisione del codice di procedura civile

Non si può pensare che la riforma della giustizia civile, ed in particolare, del codice di procedura civile, sia un problema per i soli 'addetti ai lavori'.

Il punto di degrado cui si è giunti in questo settore è sconcertante. Abbiamo un arretrato di 5 milioni e 625.057 procedimenti civili, quei procedimenti che riguardano la generalità dei cittadini: il recupero di un credito, il risarcimento da una assicurazione, una divisione ereditaria.

La maggior parte dei cittadini non ha una frequentazione diretta con il 'falso in bilancio' oppure con il ‘legittimo impedimento’, ma è assai probabile che abbia urgenza di risolvere una questione condominiale.

Una seria e organica riforma del codice di procedura civile non si limiterebbe a rendere possibile una soluzione rapida dei conflitti, ma si tradurrebbe anche in un impulso all'economia che da decenni è bloccata da una giustizia troppo lenta.

Uno dei luoghi comuni più diffusi è che i magistrati italiani sono più numerosi dei magistrati europei ma producono di meno.

Ebbene la Commissione europea per l'efficacia della giustizia (CEPEJ) smentisce questo assunto e rileva (statistiche 2006-rapporto 2008) come in Italia per ogni 100.000 abitanti ci sono 14,8 magistrati mentre, ad esempio, in Germania ce ne sono 30,7, in Grecia 33,1, in Austria 22,8 e meno di noi c’è il Regno Unito con 11,6.

Il numero dei magistrati va posto in raffronto con il numero di cause che ogni anno gli vengono assegnate.

Dalle tabelle della Commissione europea si apprende che un giudice italiano ha come sopravvenienze civili, ovvero i nuovi procedimenti che ogni anno si aggiungono al suo carico di lavoro, un numero di affari 2 volte superiori ai colleghi del Belgio, della Francia e della Spagna, 8 volte superiore a quelli della Germania e dell’Austria, 17 volte superiore rispetto a quello dei paesi scandinavi.

Un giudice italiano infatti ha 438,06 sopravvenienze annuali mentre un giudice austriaco, ad esempio, ne ha 67,96, e un giudice svedese ne ha 25,6.

Il dato più interessante riguarda lo smaltimento degli affari civili e penali.

Un giudice italiano mediamente smaltisce 411,33 procedimenti civili e 181,09 procedimenti penali ogni anno.

In Austria un giudice civile smaltisce in un anno 65,89 cause civili e un giudice penale 16,11 procedimenti penali.

In Germania un giudice civile smaltisce in un anno 78,86 cause civili e un giudice penale 42,91 procedimenti penali.

I magistrati non sono divinità totemiche, né sono migliori o peggiori rispetto ad altre categorie professionali, ma i mali della giustizia italiana non vanno ricercati nella produttività della categoria giudicante.

Le motivazioni sono prevalentemente di natura sociale ed etica.

Il tasso di litigiosità della popolazione o l’inclinazione a delinquere degli italiani sono motivazioni aggravate da un sistema che non contiene più né l’uno né l’altra e la soluzione deve essere politica.

I processi, compresi quelli civili, celebrano le patologie dei rapporti interpersonali.

Rendere i rapporti interpersonali meno patologici è una responsabilità della politica, che, dal canto suo, in sintonia con la popolazione che l’ha espressa, ieri impersonava la menzogna degli affaristi, oggi si veste del turpiloquio degli insulsi.

La mancanza di magistrati e di personale di cancelleria, l’accorpamento di più tribunali, la soppressione di oltre il 40% delle sedi giudiziarie faranno implodere la giustizia italiana perché altrove qualcuno ha già deciso di renderla inefficiente per far meglio digerire la sua privatizzazione con la mediazione.

E’ già accaduto con la sanità e con l’istruzione.

Ora sta accadendo con la giustizia.

Attaccare la magistratura intesa come istituzione significa indebolire lo Stato di diritto.

La dignità dell’istituzione va difesa anche da quegli stessi magistrati che talvolta l’hanno disonorata, nell’esercizio della loro funzione giudicante e inquirente, o nell’esercizio dell’azione disciplinare.

L’alternativa è il far west della prevaricazione del più forte.

Obiettivo n.21

Azzeramento della partecipazione delle banche private alla redistribuzione degli utili e del patrimonio della Banca d’Italia. Richiesta alla Banca Europea della redistribuzione degli utili conseguenti alla cessione del diritto di signoraggio

La nostra Costituzione ci dice che la Sovranità appartiene al popolo.

Questo principio fondamentale dovrebbe costituire anche il cardine per la gestione del patrimonio finanziario.

In altri termini lo Stato dovrebbe essere il "proprietario" del denaro che noi utilizziamo e dovrebbe essere lo Stato a “fabbricarlo” perché questa è la regola negli Stati democratici.

Quello che accade nella realtà è ben diverso: gli Stati hanno ceduto alle banche private il diritto di “fabbricare” moneta e le banche private successivamente la “prestano” allo Stato facendosi pagare un interesse che costituisce debito pubblico.

Questo sistema fa si che il debito pubblico resti inestinguibile e sia desinato a crescere a dismisura perché per le banche private è un introito irrinunciabile. Nel programma politico di DA si prevede una riforma complessiva del sistema con l'azzeramento della partecipazione delle banche private alla redistribuzione degli utili e del patrimonio della Banca D'Italia.

Il mantenimento dello Stato democratico non può prescindere da un sistema bancario pubblico perché quello privato si pone in contrasto con il principio costituzionale della sovranità popolare.

Continuare a consentire alle banche private di mantenere il controllo sulla circolazione della moneta equivale a pagare la propria schiavitù.

Obiettivo n.22

Introduzione di una tassa sul patrimonio immobilire di proprietà di cittadini o Stati stranieri, escluse le Sedi diplomatiche e le Ambasciate.

Obiettivo n.23

Abrogazione della legge n.1 del 20 aprile 2012 che ha modificato l'articolo 81 della Costituzione

L’originaria formulazione dell’art. 81 della Costituzione includeva già il metodo per contenere i costi e rendere efficiente la spesa, e già imponeva l’obbligo del pareggio sostanziale di bilancio:

«Le camere approvano ogni anno i bilanci ed il rendiconto consuntivo presentati dal governo.

L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi.

Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese.

Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte.».

L’articolo 81, nella formulazione del 1948 già dava quale indicazione, che le spese dovessero essere coperte con entrate reali senza ricorrere all’indebitamento.

Il Parlamento aveva la funzione di valutare l’allocazione ottimale delle risorse, che doveva essere raggiunta attraverso un confronto parlamentare sulle proposte di legge e ogni qual volta una proposta di legge comportava un onere di spesa, i proponenti avevano l’obbligo di indicare con quali mezzi si doveva darne copertura senza ricorrere all’indebitamento.

Il pareggio sostanziale di bilancio era stato rispettato fino a quando la Corte Costituzionale, con la sentenza n.1 del 1966 legittimò la possibilità di ricorrere alla copertura di spese future con l’emissione di prestiti.

C’era comunque un obbligo di rendicontazione annuale da inviare alla Corte dei Conti che, a sua volta, aveva l’obbligo di informarne i parlamentari.

Nel corso degli anni sia il pareggio di bilancio che l’obbligo di rendicontazione sono stati disattesi.

Attraverso anche una modifica dei regolamenti parlamentari, per aggirare il vincolo costituzionale, progressivamente l’art.81 è stato destrutturato e eluso.

L’articolo 81 della Costituzione Italiana è stato sostituito dall'articolo 1 della legge costituzionale 20 aprile 2012, n.1:

«Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico.

Il ricorso all'indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali.

Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte.

Le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo.

L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi.

Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei principi definiti con legge costituzionale. ».

In apparenza la nuova formulazione ha avuto come obiettivo quello di riaffermare il principio costituzionale del pareggio di bilancio.

L’interpretazione prevalente tuttavia, è andata nella direzione di ritenere che la modifica dell’art.81 fosse una necessaria costituzionalizzazione delle indicazioni di pareggio di bilancio contenute nel Fiscal Compact.

Il Fiscal Compact (letteralmente Patto di Bilancio) è il termine che si usa per indicare il Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell'unione economica e monetaria, approvato da 25 Stati (su 28) dell’UE, attraverso il quale gli Stati che lo hanno sottoscritto si sono impegnati al rispetto di cinque parametri economici ritenuti essenziali:

-obbligo del perseguimento del pareggio di bilancio;

-obbligo di non superamento della soglia di deficit strutturale superiore allo 0,5% del PIL (e superiore all'1% per i paesi con debito pubblico inferiore al 60% del PIL);

-significativa riduzione del rapporto fra debito pubblico e PIL, pari ogni anno a un ventesimo della parte eccedente il 60% del PIL;

-impegno a coordinare i piani di emissione del debito col Consiglio dell'Unione e con la Commissione europea.

La sottoscrizione del Trattato non obbliga gli Stati firmatari a modificare la propria Costituzione, perché in termini di obbligatorietà è sufficiente l’adesione al Trattato.

Se non si rispettano gli obblighi del Trattato si aprono le procedure di infrazione e lo Stato che non ha rispettato il vincolo entra in un regime sanzionatorio.

In altri termini gli Stati non possono intervenire per il mancato rispetto di una norma costituzionale interna, ma possono intervenire solo per il mancato rispetto di un obbligo derivante dal Trattato, e a maggior ragione l’inserimento del pareggio di bilancio diventa un inutile fuor d’opera.

La motivazione dell’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione in effetti, ha tutt’altra finalità che consiste nella costituzionalizzazione della perdita della sovranità finanziaria dello Stato italiano, da non confondere con la sovranità monetaria che è già stata ceduta con l’introduzione dell’euro.

La sovranità monetaria consiste nella facoltà che ha uno Stato di emettere o stampare moneta in linea con la propria politica monetaria.

La sovranità finanziaria si concretizza, invece, nella facoltà che ha lo Stato di riconoscere i propri debiti ma soprattutto di stabilire quali debbano essere le forme di pagamento e l’eventuale loro estinzione.

Da una attenta lettura della nuova formulazione dell’art.81 si deduce che i fattori non prevedibili ai fini dell’equilibro finanziario e di bilancio, sono legati solamente al “ciclo economico” e solo dunque i fattori legati al ciclo economico, come le crisi finanziarie, possono giustificare un eventuale indebitamento, non ad esempio le catastrofi naturali o le epidemie, che non sono legate a cicli economici.

Nemmeno le recessioni possono consentire il ricorso all’indebitamento perché dovrebbero avere la connotazione di gravità, che è esclusa quando invece la recessione, per il suo protrarsi nel tempo, diventa strutturale.

Gli oneri del debito pubblico sono gli unici che possono consentire il superamento del principio del pareggio di bilancio, mentre tutte le altre spese sono assoggettate al vincolo.

La presa in carico della spesa per il finanziamento del debito, con questa formulazione costituzionalizzata, diventa una variabile non controllabile né dal Governo e nemmeno dal Parlamento della Repubblica.

Si aggiunga che i cicli economici negativi generano aspettative sulla solvibilità del debito pubblico che per effetto della percezione negativa, tende ad aumentare.

Sono molti gli economisti, tuttavia, che sostengono che il costo del debito pubblico non dipenda affatto dal ciclo economico quanto piuttosto dalle fluttuazioni speculative della moneta e quindi, la formulazione dell’attuale articolo 81 non solo non risolve il problema, ma lo aggrava, perché subordina l’equilibro di bilancio alle fluttuazioni dei capitali, prevalentemente speculative, e l’andamento del debito pubblico, da quando è stato modificato l’articolo 81, ne è una conferma.

Occorre ritornare alla originaria formulazione dell’articolo 81, modificando e abrogando, nel contempo, tutte le leggi collegate che nel tempo avevano indebolito il principio costituzionale in esso enunciato.

Occorre ripristinare l’azione parlamentare e reintrodurre un meccanismo competitivo tra le diverse forze politiche che, nella assoluta trasparenza, induca i parlamentari a proporre disegni di legge che, pur comportando nuove spese, dovendo indicare i mezzi con cui farvi fronte, e dovendo evitare nuove imposizioni fiscali, darebbero il via alla ricerca di capitoli di spesa ritenuti inutili o secondari, per sostituirli con nuovi capitoli in una inevitabile competizione sulla migliore allocazione delle risorse.

Democrazia Atea ritiene che debba essere reintrodotto il principio costituzionale così come previsto dai Costituenti del 1948, e pertanto parteciperà alle iniziative volte alla abrogazione della attuale formulazione dell’articolo 81 della Costituzione.

Obiettivo n.24

Innovazione del tessuto industriale con detassazione degli investimenti in tecnologia e formazione

La finalità di ogni azione politica è, o dovrebbe essere, quella di portare benessere nelle società.

E' sempre prioritario creare le premesse che possano incentivare lo sviluppo economico attraverso la crescita.

Le scelte legislative dunque devono orientarsi verso quegli strumenti che, più di altri, possono materialmente incidere sui processi produttivi per facilitarli.

La detassazione degli investimenti in tecnologia è uno strumento auspicabile ma poiché l’innovazione, intesa anch’essa come elemento essenziale per lo sviluppo economico, non può riguardare solamente i mezzi di produzione, è necessario investire soprattutto sui lavoratori dipendenti.

E’ auspicabile una detassazione costante che garantisca una formazione adeguata e aggiornata, al fine di assicurare ad ogni lavoratore dipendente, la possibilità di rimanere inserito nel mondo del lavoro e di non subirne l’esclusione a causa di repentini e ingestibili mutamenti delle innovazioni tecnologiche.

Obiettivo n.25

Revisione dei criteri di inserimento dei farmaci nei prontuari farmaceutici. Esclusione dai prontuari del Ritalin Metilfenidato. Razionalizzazione della spesa farmaceutica

Il Prontuario Farmaceutico Nazionale (PFN) comprende tutte le informazioni sui medicinali che possono essere prescritte a carico del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e raccoglie tutti i provvedimenti riguardanti l'introduzione e la rimborsabilità dei nuovi medicinali.

I criteri adottati per l’inclusione o l’esclusione di un farmaco dai prontuari, sono affidati a commissioni regionali le quali, nell’ambito di una propria autonomia regolamentare, individuano autonomamente i metodi di indagine sulle evidenze scientifiche disponibili.

La composizione delle Commissioni regionali è sicuramente l’anello chiave per condizionare l’inclusione o l’esclusione di un farmaco dai prontuari.

Una corretta metodologia dovrebbe orientarsi nel senso della verifica del conflitto di interessi tra i soggetti che compongono le commissioni e coloro che dalla inclusione di un farmaco ricavano indubbiamente dei profitti o dei vantaggi.

Il conflitto di interessi eticamente più sconveniente nel settore si è avuto quando il Ministero per le politiche sociali e farmaceutiche è stato ricoperto da Maurizio Sacconi e contemporaneamente il Presidente di Farmindustria era sua moglie Enrica Giorgietti.

Dal prontuario farmaceutico dovrebbe essere escluso il Ritalin la cui introduzione è stata richiesta sin dal 2004 dalla Novartis.

L’uso del Ritalin è stato oggetto di critiche severe per l’uso che se ne è fatto negli Stati Uniti per sedare i bambini affetti da iperattività, a fronte di una crescente incapacità genitoriale che ha preferito sedare farmacologicamente i propri figli piuttosto che mettere in discussione il proprio stile di vita.

Una crescente incapacità genitoriale si registra anche in Italia e la conseguenza si registra nell’aumento significativo di bambini che mostrano iperattività e deficit di attenzione.

L’introduzione di questo farmaco si prospetta anche in Italia come soluzione farmacologica alla incapacità genitoriale.

L’introduzione di questo farmaco, in assenza di un monitoraggio sulle condizioni di assunzione, porterà alla eccessiva medicalizzazione ed è certo che si tenderà a celarne i gravi effetti collaterali, tra i quali la morte, l’alterazione cromosomica e la ideazione suicidaria, che il Ritalin produrrà nei bambini.

Contrastare il Ritalin significa operare una scelta politica atteso che le famiglie saranno poste nella sconcertante alternativa tra ricorrere ad un farmaco pericoloso e non risolutivo, che però sarà posto a carico del servizio sanitario nazionale, oppure pagarsi autonomamente le terapie psichiatriche non medicalizzate, lunghe nel tempo ma risolutive.

La scelta cadrà inevitabilmente, come accaduto negli Stati Uniti, sulla risolutività immediata garantita dal farmaco, a scapito di una terapia lunga e costosa.

Impedire che questo farmaco possa essere diffuso significherà operare una scelta di rieducazione psichica e sociale dei bambini, impedendo l’assunzione di un prodotto che li renderebbe terminali di un processo redditizio legato al profitto farmacologico.

La razionalizzazione della spesa farmaceutica comporta inevitabilmente la eliminazione dai prontuari di quei farmaci che contengono principi attivi onerosi in misura sproporzionata rispetto ai benefici, spesso inseriti senza una adeguata comparazione con altri principi attivi meno onerosi e altrettanto efficaci ma che sono sottratti alle logiche affaristiche e clientelari finora prevalenti.

Obiettivo n.26

Incentivazione dell’agricoltura con la riduzione se non eliminazione delle filiere

L’agricoltura è senza dubbio il settore nel quale l’Unione Europea è intervenuta maggiormente

Il 40% del bilancio europeo è destinato all’agricoltura.

In Europa si contano circa 12 milioni di agricoltori, 46 milioni di lavoranti, 15 milioni di imprese agricole e agroalimentari, ma si contano anche oltre 500 milioni di consumatori.

Dopo un periodo di crisi, le normative comunitarie sull’agricoltura hanno subito un progressivo mutamento con un irrigidimento dei vincoli normativi e una progressiva adattabilità ai criteri suggeriti dal WTO, la più potente organizzazione intergovernativa in tema di politiche commerciali planetarie.

Le multinazionali dell’agroalimentare hanno impoverito l’agricoltura italiana ponendola di fronte alla difficoltà di dover competere con prodotti stranieri fatti circolare sul mercato con etichettatura italiana.

Le logiche finanziarie imposte dal WTO hanno modificato le politiche sostenibili e di sicurezza alimentare con le speculazioni finanziarie, sostituendo progressivamente le eccellenze con gli OGM.

Le filiere sono costituite da tutti quegli agenti che intervengono nel processo di produzione dalla fase iniziale, fino ad arrivare al consumatore finale.

La filiera serve essenzialmente a garantire la tracciabilità dei prodotti agricoli ed ha un senso che sia potenziata e mantenuta se indirizzata a garantire e tutelare la validità iniziale, intermedia e finale del prodotto.

Devono invece essere eliminate le filiere della distribuzione quando si pongono come intermediarie non necessarie tra produttore e consumatore, perché incidono sul prezzo finale a scapito di entrambi e ad esclusivo vantaggio degli intermediari commerciali.

Il tipico esempio di filiera corta, sempre auspicabile, è proprio il mercato dei contadini che vendono direttamente i l

Tuttavia, per quanto auspicabile, la filiera corta non è praticabile in modo diffuso e soprattutto non risolve il problema degli sprechi.

Circa il 3% della produzione agricola italiana infatti viene buttata, con costi aggiuntivi per lo smaltimento dei rifiuti.

La razionalizzazione dell’utilizzo delle produzioni eccedenti, nella eliminazione delle filiere commerciali protese esclusivamente al profitto, eliminerebbe sprechi e consentirebbe un risparmio complessivo sullo smaltimento dei rifiuti.

L'agricoltura italiana rappresenta il 17% del PIL nazionale.

Nel rapporto dell'Istituto Nazionale di Economia Agraria 2013 si trova una descrizione accurata della situazione italiana.

L'appartenenza al sistema economico europeo ha visto in alcuni casi un allungamento eccessivo della filiera agroalimentare, cioè l’itinerario seguito da un prodotto nell’apparato agroalimentare dalla fase di produzione fino al consumatore finale, con relativo aumento dei prezzi; e dall'altra uno sradicamento della funzione produttiva dai contesti, rurale e sociale, nel quali si sviluppa.

Fortunatamente la Comunità europea stessa ha cambiato direzione e nel Dicembre 2013 ha promulgato un regolamento, il 1305/2013 sul sostegno allo sviluppo rurale da parte del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale, nel quale si auspica la creazione di filiere corte e di mercati locali, che apporterebbero maggiori garanzie di controllo per il consumatore e si ripercuoterebbero positivamente sul tessuto sociale.

Questa direzione deve essere seguita con ogni sforzo possibile, studiando un piano di riforma strutturale dell'agricoltura che da una parte sostenga le aziende, e dall'altra includa tutto in un quadro logico più ampio dove si trovi l'attenzione e la tutela per l'ambiente, della biodiversità, il benessere animale e il rispetto per la dignità dei lavoratori.

Obiettivo n.27

Abrogazione del Job Act e riaffermazione dello Statuto dei Lavoratori

La più importante riforma del lavoro in Italia fu quella introdotta con la legge 300/1970, meglio nota come Statuto dei Lavoratori.

Dallo Statuto dei Lavoratori al Job Act non si sono modificate solamente le tipologie contrattuali e le tutele del lavoro.

La flessibilità dei contratti di lavoro, introdotta in un mercato padronale irrispettoso delle regole e con una supponenza neoliberista, si è trasformata in precarietà diffusa le cui ripercussioni sulla società italiana non si sono fatte attendere. L’impossibilità, ad esempio, per le giovani coppie di accedere al credito in assenza di garanzie legate ad un lavoro stabile, ha indebolito le prospettive di intere generazioni. Non c’è stato solo un calo dei consumi e di produttività, ma un generale decadimento anche delle potenzialità di crescita in ogni settore. A distanza di 10 anni dalla introduzione di quella sciagurata riforma, chiamata Biagi sull’onda della strumentalizzazione emotiva della sua uccisione, ma che sarebbe corretto chiamare Maroni, Ministro del Lavoro della Lega Nord, un’altra rovina si è abbattuta in Italia sul mondo del lavoro, ovvero la riforma del Ministro Fornero, da tutti gli osservatori economici definita unanimemente come la più fallimentare.

Alla legge Fornero è seguitao il cosiddetto Job act, un pasticcio legislativo che ha avuto come finalità principare quello di rendere irreversibile il processo di precarizzazione del lavoro.

Nel momento in cui la crisi finanziaria del secolo doveva essere contrastata con politiche in grado di far aumentare il PIL, le riforme sciagurate sono andate nella direzione opposta, rendendo ancora più instabili le forme di occupazione che dovrebbero invece contribuire a spingere verso la crescita. Due dati: tasso di disoccupazione generale in Italia del 12%; tasso di disoccupazione giovanile in Italia del 40%.

Era evidente la necessità di cambiare rotta per porre soluzione alla crisi occupazionale che attanaglia il nostro Paese da ormai troppo tempo e ciò sarebbe stato possibile solo con un serio percorso di risanamento che doveva prevedere una significante e duratura riduzione del cuneo fiscale, una riduzione della pressione fiscale e in ultima ma non meno importante, un ricambio generazionale.

Il cosiddetto “total tax rate”, il totale della tassazione sulle imprese, in Italia, secondo la Banca Mondiale è attualmente al 68,5%, il livello più alto nell'Unione europea.

La media europea è del 44,2%, quella mondiale al 47,8 per cento.

Tutto ciò induce le aziende a spostare le loro sedi in paesi con una tassazione minore, causando gravi perdite di occupazione in Italia.

Non possiamo altresì pensare ad un serio rilancio dell’occupazione senza un adeguato ricambio generazionale.

In questa prospettiva appare fondamentale reintrodurre la pensione di anzianità abolita dal governo Monti, attraverso il sistema pensionistico cosiddetto “a quota 100”, ovvero un sistema che consenta di sommare l'età anagrafica del lavoratore alla sua anzianità contributiva per raggiungere appunto il valore 100 necessario a maturare il diritto di collocamento a riposo con la massima contribuzione.

L'età anagrafica minima di uscita dovrà essere di 60 anni.

Il futuro delle nuove generazioni è più importante delle casse confuse e malate del nostro istituto previdenziale; una cattiva gestione dell'INPS ci ha portati ad una commistione tra sistema assistenziale e sistema previdenziale affossando il secondo, senza contare i capitoli di spesa destinati a categorie privilegiate che usufruiscono di un sistema previdenziale agevolato.

La successiva unificazione con l'istituto previdenziale pubblico (INPDAP) ha contribuito a dare il colpo di grazia, visti i bilanci inquinati della previdenza pubblica dove i contributi versati dai lavoratori sono solo figurativi.

Le risorse economiche necessarie si aggirano attorno ai 10 miliardi e siamo sicuri che come sono stati raccolti 20 miliardi in qualche giorno per sanare la crisi economica di alcune banche, sarà possibile reperire quanto necessario in egual tempo, addirittura senza ricorrere alle ingenti somme che regaliamo ogni anno senza motivo ad uno stato estero extracomunitario.

Inutile aggiungere che investimenti in produzioni sostenibili, formazione, ricerca, scuola pubblica, università, sono ingredienti fondamentali, in linea con i precetti costituzionali.

Abrogare le mostruosità legislative in tema di lavoro, ripristinano le tutele che erano state disegnate dallo Statuto dei lavoratori, è una delle priorità di Democrazia Atea.

Obiettivo n.28

Potenziamento degli ispettori del lavoro

Occorre preliminarmente puntualizzare che la qualifica di Ispettore del lavoro appartiene al linguaggio comune e non a quello giuridico in senso stretto.

Le funzioni degli ispettori del lavoro sono state assorbite dai servizi ispettivi delle Direzioni Provinciali del Lavoro.

Il sistema padronale italiano ha risentito più di altri dell’influenza della concezione del lavoro scaturita dalla religione cattolica.

Fondamentali sono i riferimenti che scaturiscono dalla cosiddetta “Patristica” ovvero un compendio di teorie barbare i cui autori sono venerati ancora oggi perché è ritenuto attuale il loro messaggio sociale.

Singolari sono le affermazioni di Sant’Agostino: “che gli schiavi siano soggetti ai loro padroni, e che li servano con animo leggero e con buona volontà, servendo non con fraudolento timore, ma con fedele affezione”.

Chi pensa che il corso dei secoli abbia mutato la concezione del lavoro nella religione cattolica, si illude.

Arriviamo al 1891 e un pontefice, Leone XIII affermò: “Le condizioni bestiali di vita operaia non si possono risolvere senza ricorrere alla religione e alla Chiesa. La proprietà privata è intoccabile e le differenze di classe sono volute da dio. L’operaio deve servire fedelmente il padrone”.

Dunque la società è improntata ad una mentalità di sottomissione sociale veicolata e giustificata dalla religione ca

I sistemi padronali hanno trasformato le legittime richieste della classi lavoratrici in pretese incompatibili con il precetto morale di “servire con fedeltà il padrone”.

La concezione schiavista agostiniana è ancora sottesa alle dinamiche sociali e le leggi elaborate a tutela del lavoro e soprattutto dei lavoratori, hanno bisogno di un monitoraggio costante che freni la religiosa tendenza a privare di dignità i lavoratori in condizione di subordinazione.

Gli ispettori del lavoro hanno la funzione di vigilare sulla corretta applicazione delle norme poste a tutela del lavoro e dunque occorre potenziarli affinché, anche attraverso la sanzione, sia possibile veicolare una mentalità che ne faccia percepire la mancata attuazione come disvalore.

Obiettivo n.29

Riconoscimento dell'assistenza sessuale ai disabili

Con la sentenza n. 561 del 18 dicembre 1987 la Corte Costituzionale ha sancito che i diritti sessuali devono essere considerati diritti umani la cui violazione costituisce violazione dei diritti all'uguaglianza, alla non discriminazione, alla dignità e alla salute (art. 2 della Costituzione).

In coerenza con quanto contenuto nell’art. 2 del programma, Democrazia Atea auspica l'emanazione di leggi sulla persona scevre da limitazioni etico-religiose, e tra queste, auspica l’approvazione del Disegno di Legge sull’assistenza sessuale ai disabili, che attende una calendarizzazione già dal 9 aprile 2014.

Ad oggi l’assistente sessuale per disabili è una figura professionale presente e legalizzata in Germania, Olanda, Danimarca, Austria e Svizzera dove l’assistenza sessuale è un fatto acquisito, un aiuto a superare il tabù dell’amore, fisico e sentimentale, che accompagna l’esistenza delle persone diversamente abili.

In Italia invece, continua a restare un problema confinato ai margini della civiltà, e per questo, i diversamente abili vivono una condizione di discriminazione che affonda le radici nelle forti limitazioni etico - religiose veicolate da una politica devota allo Stato Vaticano.

Chiunque ha il diritto di sperimentare le proprie emozioni intime, l’erotismo e l’amore, mentre nell’immaginario collettivo, sembra comune la fantasia secondo cui le persone con disabilità non possano vivere un’intimità erotico-sessuale di coppia e autoerotica, allontanandosi inevitabilmente dallo sperimentare l’esperienza sessuale.

“La salute sessuale è l’integrazione degli aspetti somatici, affettivi, intellettuali e sociali dell’essere sessuato, allo scopo di pervenire ad un arricchimento della personalità umana e della comunicazione dell’essere” questo è ciò che afferma l’Organizzazione Mondiale della Sanità.

E’ inimmaginabile negare tutto questo ad una persona.

La sessualità non può essere ridotta alla dimensione genitale del sesso, ma comprende una vasta gamma di aspetti culturali e sociologici come pure di sensazioni ed emozioni.

Compete alla politica consentire che siano patrimonio anche dei disabili.

Il diritto alla sessualità rientra tra i diritti inviolabili della persona umana.

Obiettivo n.30

Potenziamento degli ammortizzatori sociali ed estensione dell’assegno di disoccupazione a tutte le categorie di lavoratori. Introduzione del reddito sociale minimo

La crisi generale del sistema finanziario si è declinata nella perdita di posti di lavoro dipendente, innalzando le percentuali di disoccupazione oltre una soglia sopportabile.

Già nel 1998 fu depositata presso la Corte di Cassazione una proposta di legge di iniziativa popolare, promossa da organizzazioni sindacali e associazioni impegnate nel sociale, che raccolse circa 63.000 firme e che chiedeva l’introduzione di un reddito sociale minimo.

Nell’anno successivo, nel 1999, alcuni parlamentari raccolsero quelle istanze in un progetto di legge volto a istituire il reddito sociale minimo (rsm) proprio al fine di contrastare la prepotente finanziarizzazione dell’economia reale che erodeva progressivamente la classe lavoratrice trasformandola in categoria del lavoro negato.

Il rsm, equiparabile ad un assegno di disoccupazione, se fosse stato introdotto, avrebbe avuto, come effetto, anche il rafforzamento contrattuale della classe lavoratrice occupata, e avrebbe indebolito le richieste assistenziali e di elargizione caritatevole, sempre care ai neoliberisti dell’ultim’ora, che tendono a costruire il profitto preferendo le contrattazioni individuali.

La solidarietà sociale invece si costruisce nella redistribuzione dei redditi e nella erogazione di ammortizzatori sociali a tutte le categorie di occupati, inoccupati, precari, ma anche a coloro che, pur se assunti, sono sottopagati.

Democrazia Atea intende richiamare quella esperienza di proposta legislativa.

Occorre anche garantire la certezza dell’accesso al diritto, regolamentando una tempistica di erogazione che non amplifichi il disagio.

Affinché la società maturi il valore della responsabilità sociale, compatibilmente con le professionalità specifiche di cui ogni soggetto dispone, si deve anche prevedere che i fruitori di un ammortizzatore sociale possano accettare una occupazione alternativa all’ammortizzatore sociale ove fosse proprio lo Stato a crearla e proporla, non oltre 50 km dal luogo di residenza.

Obiettivo n.31

Obbligatorietà della concertazione con tutte le organizzazioni sindacali per la definizione di tutti i contratti di lavoro, fino a quando non sarà applicato un Contratto di lavoro europeo

L’articolo 46 della Costituzione recita: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”.

La portata di questo articolo era rivoluzionaria: le forze lavoratrici avrebbero potuto progressivamente entrare nei processi decisionali delle scelte aziendali.

Questo articolo è stato totalmente disatteso e le rappresentanze sindacali che avrebbero dovuto farsi intermediarie in una evoluzione dei rapporti tra lavoratori e datori di lavoro, hanno radicato invece la conflittualità allontanando la possibilità che i lavoratori potessero avere una rappresentanza negli organismi di gestione delle aziende.

Inevitabile è stato, successivamente, il declino dello stesso sindacato che soffre oggi di una crisi di rappresentanza di difficile soluzione.

Ristabilire un equilibrio tra le parti sociali necessita di provvedimenti legislativi.

La necessità di una semplificazione legislativa e di una codifica è senza dubbio una priorità avvertita ormai unanimemente.

La conflittualità sociale sul tema del lavoro affonda le sue radici anche nella copiosa produzione di norme che l’esperienza ha reso ingestibili perché foriere di interpretazioni contrastanti ed elusive.

La gerarchizzazione dei ruoli ha accentuato il contrasto tra lavoratori da una parte e datori di lavoro dall’altra, in una altalenante contrapposizione nella quale ogni volta tutelare gli interessi di una parte sembrava dovesse costituire necessariamente detrimento degli interessi dell’altra, ed abbiamo assistito sempre ad un tirarsi una coperta troppo corta che, si sa, lascia al freddo se non tutti, molti.

E’ plausibile pensare che in una ottica siffatta sia mancata totalmente un’etica della solidarietà sociale nella quale ognuno può affermare i propri diritti nel contestuale e reciproco riconoscimento dei diritti altrui.

La linea della negazione dei diritti tracciata dal WTO è stata recepita dal Trattato di Lisbona nel quale il libero mercato è favorito per rafforzare il valore speculativo della finanza a scapito del valore sociale del lavoro.

Nel Trattato di Lisbona infatti non compare il “diritto al lavoro” che è stato sostituito dal “diritto alla libertà di commercio” e ciò renderà più facile al libero mercato spazzare via gli aspetti sociali delle politiche del lavoro, in perfetta adesione alle politiche neoliberiste.

Già da tempo si propone di sostituire la formulazione “Statuto dei Lavoratori” per far posto a “Statuto dei Lavori” togliendo quindi la centralità agli esseri umani per porla sulla loro capacità produttiva.

Per contrastare lo strapotere contrattuale di imprenditori schiavisti, come delineato nelle prospettive del Trattato di Lisbona, e in attesa che si arrivi alla elaborazione di un contratto unico europeo , è necessario ristabilire i meccanismi di concertazione sindacale.

Obiettivo n.32

Controllo sulla destinazione effettiva dei fondi erogati dallo Stato in favore delle imprese, al fine di verificare se il loro utilizzo abbia o meno salvaguardato i posti di lavoro

La Commissione Europea ha stabilito le modalità attraverso le quali si possono attivare aiuti alle imprese senza interferire con le regole del mercato.

Gli aiuti possono essere elargiti sotto forma di erogazioni in denaro a fronte di spese sostenute e giustificate, ovvero sotto forma di credito di imposta.

In ogni caso le imprese in fase di avvio ovvero le imprese che ricevono aiuti regionali o statali, hanno il dovere di mantenere il livello di occupazione che giustifica l’erogazione in denaro o il credito d’imposta.

Gli italiani normalmente non percepiscono l’aiuto all’impresa come una opportunità di sviluppo, né la ricevono con senso dell’onore impegnandosi a fare ciò che loro si richiede in cambio delle erogazioni ricevute.

L’imprenditore italiano medio vede nell’aiuto d’impresa una opportunità di guadagno personale cui non avrebbe potuto avere accesso se non avesse scelto, in via preventiva, il politico corrotto con funzione di intermediario, pagandone la campagna elettorale.

La classe politica italiana è infatti, per molta parte, espressione di una imprenditoria insana che la sostiene affinché le sia garantito un tornaconto economico a scapito delle classi lavoratrici.

Dove non c’è spontanea adesione alle regole, è necessario intensificare i controlli e verificare con puntualità se l’utilizzo degli aiuti di Stato abbia o meno portato a garantire l’occupazione.

Al rilievo penale delle condotte illecite dovrebbe seguire anche un rilievo sanzionatorio accessorio che impedisca ai soggetti incriminati di continuare ad essere imprenditori.

Obiettivo n.33

Equiparazione alla media europea degli stipendi dei dipendenti pubblici, compresi gli insegnanti, le forze dell’ordine e i vigili del fuoco

Sovente si è sentito dire che i dipendenti pubblici hanno uno stipendio tre volte più alto della media Europea.

Questo è vero ma solo in parte.

Analizzando questa informazione in modo più approfondito si scopre che la realtà è un po' diversa: sono solo i dirigenti pubblici ad avere stipendi spropositati e soprattutto sproporzionati; altre classi di dipendenti pubblici sono bistrattate e mal pagate.

L’Italia è l’unico Paese dell’area dell’OCSE che dal 1995 non ha aumentato la spesa per studente nella scuola primaria e secondaria.

Lo stipendio degli insegnanti è al 17° posto dei 23 paesi OCSE, e gli insegnanti del nostro Paese raggiungono il massimo salariale solo dopo 35 anni di servizio, gli scozzesi per esempio lo raggiungono dopo soli sei anni.

Inoltre il massimo salariale non è molto diverso dallo stipendio di inizio carriera, e non aumenta con l'aumentare del grado di istruzione nel quale si lavora.

Questa situazione è parallela ad un continuo finanziamento, peraltro contro il dettato costituzionale, verso le scuole private cattoliche.

Poliziotti, carabinieri, finanzieri, forestali, in sostanza tutti quegli uomini in divisa chiamati a garantire sicurezza agli italiani, sono dallo Stato ignorati se non addirittura osteggiati.

Oltre ad uno stipendio basso devono fronteggiare blocchi degli straordinari, dei rimborsi delle missioni e carenze di mezzi e personale.

L’ultimo concorso indetto per entrare nel corpo dei vigili del fuoco risale al 2008 e l'età media dell'organico è di 47 anni.

L'insegnamento e la sicurezza non possono essere trascurate così, ai loro lavoratori deve essere data dignità e rispetto, con un trattamento economico adeguato e trovando risorse dove sarebbe davvero necessario effettuare tagli.

Il loro lavoro è un argine contro il declino culturale e morale del Paese, che evidentemente è in atto da anni nella rassegnazione e nell’indifferenza.

Obiettivo n.34

Inserimento di un tetto allo stipendio dei manager pubblici

Il rapporto Government at a Glance 2013 dell'Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica evidenzia come in Italia i dirigenti pubblici di più alto livello percepiscano uno stipendio che risulta essere il più alto in Europa, addirittura tre volte la media.

Negli altri paesi europei, nessuno escluso, lo stipendio massimo raggiunge a volte la metà del nostro o la supera di poco, la maggioranza si attesta sotto la metà del valore italiano.

Per i dirigenti di livello medio lo stipendio percepito in Italia è tra i più alti in Europa, insieme a quello di Francia, Inghilterra e Polonia, solo per fare un esempio.

É guardando invece lo stipendio dei cosiddetti professional, i giovani, o non più giovani, che sono al primo livello dirigenziale, che la tendenza si inverte: il nostro Paese ha un valore poco al di sotto della media, ed è superato da Francia, Spagna, Germania ed altri.

Questo significa molto, anche ad una lettura non approfondita.

Il sistema deve cambiare, non si possono sprecare risorse per garantire stipendi eccessivi a vertici dirigenziali mentre si racconta a chi vorrebbe accedere ad un posto fisso - che significa, oltre allo stipendio, la possibilità di pianificarsi un futuro – che non ci sono fondi a sufficienza.

Devono cambiare le retribuzioni, con l'inserimento di un tetto massimo per i manager pubblici; e deve cambiare il sistema di incentivazione alla produttività, che adesso è solo un aggiungere altro denaro a chi ne guadagna fin troppo.

Obiettivo n.35

Nomina dei Direttori generali delle ASL e della RAI con pubblici concorsi per titoli ed esami

Le Giunte Regionali si occupano della programmazione sanitaria mentre i Direttori Generali sono responsabili della gestione delle aziende sanitarie.

I Direttori Generali vengono selezionati in base a graduatorie di merito e scelti tra gli iscritti nell’apposito elenco presso il Ministero della sanità.

Il Direttore Generale della ASL detiene i poteri di gestione ma anche quelli di rappresentanza e per quanto i criteri di selezione e scelta siano formalmente riconducibili e qualifiche e meriti specifici, nella realtà dei fatti i Direttori Generali sono nomine fortemente influenzate dalle appartenenze politiche.

Il superamento di questo limite si ravvisa nella indizione di pubblici concorsi attraverso i quali, a parità di competenze e meriti, si aggiunge un criterio di selezione neutrale che garantisce imparzialità e competenza.

Anche il Direttore Generale della RAI, eletto dal Consiglio di Amministrazione della RAI (anche se in effetti la nomina è suggerita dal Ministro dell’Economia) dovrebbe essere scelto e selezionato attraverso pubblici concorsi, perché solo la valutazione oggettiva di un concorso può neutralizzare la logica del favoritismo clientelare.

Obiettivo n.36

Adozione per le forze di polizia di un codice deontologico unitario con la creazione di una Commissione Disciplinare interforze che ne verifichi e sanzioni la eventuale disapplicazione. Introduzione dei codici identificativi sulle divise delle Forze dell'Ordine

Non è infrequente che agenti appartenenti alle Forze dell’Ordine, sentendosi coperti da una sostanziale impunità, si siano resi protagonisti di episodi penalmente rilevanti e che abbiano disatteso una assunzione di responsabilità nelle maglie larghe di una giustizia lenta e fallace.

I comportamenti scorretti delle Forze dell’Ordine non devono incontrare solamente la sanzione penale ma è necessario che la barbarie dell’impunità sia sostituita dalla cultura del disonore della sanzione disciplinare.

Il rilievo penale e quello disciplinare attengono a sfere giuridiche differenti che, per quanto possano incontrarsi, in definitiva possono essere valutati separatamente e con sistema sanzionatorio non necessariamente coincidente.

Ogni violazione, ogni mancanza che pregiudichi il decoro e l’interesse generale degli ordinamenti cui le Forze dell’Ordine appartengono, deve trovare l’applicazione di una sanzione disciplinare.

Le Forze dell’Ordine devono improntare le proprie azioni a principi e doveri di rettitudine e di rispetto in relazione alla funzione istituzionale assegnata. L’introduzione di un codice identificativo, peraltro già adottato in altri Paesi europei, si pone in continuità rispetto alla necessità di interpretare, da parte della popolazione, il ruolo delle Forze dell’Ordine come istituzione a difesa della sicurezza e non come “organizzazione di manganellatori anonimi”.

Obiettivo n.37

Progressiva sostituzione delle fonti energetiche non rinnovabili con quelle alternative, escluso il nucleare. Dismissione delle centrali nucleari in disuso

Nel 2011 il fabbisogno nazionale lordo di energia elettrica in Italia è stato coperto per il 65,6% dall'utilizzo di combustibili fossili, per il 21,3% da fonti rinnovabili e il rimanente 13,1% è stato importato dall'estero.

La maggior parte delle centrali termoelettriche italiane sono alimentate a gas naturale, di cui l'Italia è il terzo

L'Italia nel 2007 era classificato come il paese europeo maggiormente dipendente dal petrolio; è il settimo importatore mondiale di petrolio e il nono importatore mondiale di carbone.

Inoltre l'Italia è stata nel 2011 il primo paese al mondo per importazione netta di energia elettrica in valore assoluto.

Questi dati non sono sostenibili non solo dal punto di vista ambientale ma soprattutto dal punto di vista economico.

La produzione di energia in Italia, deve essere indirizzata progressivamente verso fonti alternative rinnovabili e sostenibili come, l'energia idroelettrica, quella solare, eolica, marina e geotermica.

Deve essere programmato un piano graduale che in 30 anni aumenti la percentuali di energia derivante dalle rinnovabili e diminuisca quella dipendente dal petrolio.

L'installazione o l'implementazione di centrali già esistenti devono avvenire nel rispetto del contesto socio-ambientale in cui si inseriscono e non devono pregiudicare né la biodiversità né la salute delle popolazioni umane che vi risiedono.

La gestione delle rinnovabili deve rappresentare una risorsa economica, che non deve essere data in mano a privati e concessionarie, ma devono restare a totale beneficio di chi risiede nella zona interessata.

Il nucleare non è assolutamente l'alternativa al petrolio, per quanto di ultima generazione le centrali nucleari rappresentano un pericolo per tutti, e presentano il problema di residui radioattivi non rinnovabili.

Gli Italiani si sono espressi contro il nucleare nel 1987 e nel 2011.

La politica deve rispettare questa scelta e non tentare più di percorrere questa strada.

Devono inoltre continuare ed essere portate a termine le dismissioni delle centrali di Latina, Garigliano, Caorso e della Enrico Fermi II, anche per diminuire le tariffe sull'energia elettrica, che ad oggi comprendono il reperimento dei fondi per queste dismissioni.

Obiettivo n.38

Equiparazione della legislazione italiana a quella tedesca per la gestione della energia fotovoltaica

Nel 2011 il fabbisogno nazionale lordo di energia elettrica in Italia è stato coperto per il 65,6% dall'utilizzo di combustibili fossili, per il 21,3% da fonti rinnovabili e il rimanente 13,1% é stato importato dall'estero.

La maggior parte delle centrali termoelettriche italiane sono alimentate a gas naturale, di cui l'Italia è il terzo importatore mondiale.

L'Italia nel 2007 era classificato come il paese europeo maggiormente dipendente dal petrolio; è il settimo importatore mondiale di petrolio e il nono importatore mondiale di carbone.

Questi dati non sono sostenibili non solo dal punto di vista ambientale ma soprattutto dal punto di vista economico.

Le soluzioni da prendere ad esempio ci sono e non sono lontane da noi.

La Germania ha promulgato una legislazione sulle energie alternative, ed in particolare sul fotovoltaico, che è all'avanguardia e dimostra modernità e lungimiranza.

La legge, il cui testo integrale in inglese è disponibile su http://www.erneuerbare-energien.de/fileadmin/Daten_EE/Dokumente__PDFs_/eeg_2013_bf.pdf,

si prefigge l'obiettivo di raggiungere nel 2050 una percentuale dell'80% di energia prodotta con le rinnovabili, a cui sono collegati degli incentivi, per chi installa il fotovoltaico, che si ridurranno progressivamente man mano che la quota prefissata si avvicina.

L'Italia è già al secondo posto come produttore di energia dal fotovoltaico in Europa, ma il nostro potenziale deve essere grandemente espresso.

Tantissimo si può fare per incentivare il fotovoltaico, soprattutto nelle ristrutturazione e negli edifici di nuova costruzione.

Questa scelta ridurrebbe considerevolmente la spesa oggi sostenuta per l’acquisto del petrolio, e nello stesso tempo contribuirebbe ad una consistente riduzione delle emissioni di CO2.

Sarebbe auspicabile che anche in Italia si realizzassero realtà come quella di Feldheim, un piccolo paese indipendente dal punto di vista energetico, che si è distaccato dalla rete elettrica nazionale nel 2013; o come Wildpoldsried, che produce il 321% di energia in più rispetto a quella usata e la maggior parte di essa è prodotta attraverso risorse naturali e rinnovabili.

Obiettivo n.39

Implementazione del modello adottato dall'area metropolitana di Berlino in Germania per lo smaltimento e il riutilizzo dei rifiuti

La gestione dei rifiuti in Italia non è considerato dal punto di vista ambientale, ma purtroppo, come molte altre cose che riguardano l'ambiente, solo dal punto di vista economico e di potenzialità redditizia.

La criminalità organizzata ha preso in mano da anni queste attività, creando il fenomeno delle Ecomafie.

Non è un caso che il nostro paese abbia 33 procedure di infrazione aperte per il mancato recepimento di direttive europee sul tema ambientale.

La collusione tra politica e criminalità impedisce al nostro Paese di fare progressi in questo campo, mette a rischio la salute dei cittadini e dell'ambiente, e grava sui cittadini anche dal punto di vista economico a cause delle conseguenti sanzioni.

La direttiva 2008/98/CE è stata in realtà recepita con il DL 205/2010 ma il rapporto Rifiuti Urbani 2013 dell'ISPRA mostra un quadro sconfortante.

La percentuale di raccolta differenziata in Italia, analizzata nel suo complesso, ha raggiunto il 52,6%, poco al di sopra della percentuale obiettivo del 2007.

L'obiettivo 2012, che è del 65% è troppo lontano da raggiungere; a livello regionale solo Veneto e Trentino hanno raggiunto l'obiettivo 2011 del 60%, e a livello provinciale, solo 19 province italiane si sono adeguate a questo obiettivo.

L'analisi di questo documento potrebbe occupare pagine e pagine, ma il risultato è che l'Italia deve rivedere e aggiornare tutto il sistema di gestione, adeguandosi e anche proponendo soluzioni alternative rispetto alla legislazione europea.

Il primo caposaldo deve essere, invece della parola riciclaggio, la parola riduzione.

La parola riciclaggio ci autorizza a produrre tonnellate di rifiuti nell'utopia che possano essere riciclati, e ci deresponsabilizza.

Dobbiamo produrre meno rifiuti, cambiando le modalità di produzione e distribuzione, riducendo al minimo gli imballaggi superflui, e anche trovando nuove modalità igienicamente compatibili che permettano utilizzo di materiali non plastici.

Il secondo caposaldo deve essere: no alla plastica.

La plastica non è riciclabile, può essere riutilizzata ma prima o poi diventa un rifiuto da smaltire, la cui combustione, se non effettuata sotto un controllo competente, può produrre materiale tossico.

Il terzo caposaldo: chi produce rifiuti paga per lo smaltimento.

I cittadini non possono pagare un prodotto ad un prezzo che comprende anche il suo imballaggio o contenitore, e poi dover pagare anche per lo smaltimento dello stesso.

Questo autorizza le industrie a non curarsi della quantità di rifiuti che producono.

Sarebbe auspicabile, per alcuni prodotti, il vecchio vuoto a rendere, che permetteva un riciclo vero e continuo, senza creare inutili intermediari che si occupano del riciclaggio.

Il quarto caposaldo: responsabilizzare.

I cittadini devono essere informati e responsabilizzati sulla quantità di rifiuti che producono e sui metodi alternativi.

Sapere che tutto ciò che esce da casa finisce in una discarica in qualche lontano luogo ci fa disinteressare, almeno fino a quando, come è successo, il lontano luogo diventa un luogo vicino casa nostra.

Il quinto caposaldo: i rifiuti devono essere gestiti creando un reddito alla comunità interessata.

L'esempio di Berlino è un esempio di come lo smaltimento dei rifiuti possa rappresentare un modo di trovare risorse per la comunità.

Le scelte legislative hanno responsabilizzato i produttori e i consumatori ed è stata veicolata una propensione al riciclo che oggi costituisce fonte di ricchezza.

Il metodo adottato a Berlino non privilegia tuttavia il parametro della redditività, ma antepone sempre la salute dei cittadini e dell'ambiente.

Obiettivo n.40

Attuazione di un programma di lavori pubblici che renda prioritario il rifacimento della rete ferroviaria nazionale, sia delle tratte principali che delle tratte secondarie. Adeguamento della rete ferroviaria alle necessità dei collegamenti transnazionali. Potenziamento del trasporto merci su rotaia e depotenziamento del trasporto su gomma

La rete ferroviaria nazionale consta di circa Km 15.974 di cui una percentuale non indifferente, pari al 62% è costituita da tratte che viaggiano su un solo binario.

L’adeguamento di queste tratte è prioritario non solo in relazione al trasporto delle persone ma anche delle merci atteso che si è consentito, al contrario, un aumento incontrollato del trasporto merci su gomma.

Il mercato del trasporto su gomma ha avuto percentuali preoccupanti in termini di costi ricaduti sul prezzo finale delle merci trasportate, ma anche in termini di inquinamento.

La Commissione Europea aveva sollecitato i Governi a legiferare nella direzione del potenziamento del trasporto su rotaie, e aveva anche erogato finanziamenti sufficienti a riqualificare le tratte esistenti e a realizzarne di nuove.

In Italia si è presa la direzione della realizzazione di tratte ad alta velocità su percorsi inutili e dispendiosi, oltre che inquinanti, come ad esempio la tratta in Val di Susa o in Trentino, mentre le tratte a percorrenza unica sono rimaste invariate, la qualità del trasporto di persone ha subito un peggioramento, le realtà del pendolarismo sono inqualificabili, la privatizzazione delle società controllate si è tradotta in uno sbilanciamento in favore delle fasce sociali più ricche, le sole a poter contare su un trasporto di qualità.

La politica di intervento sulla rete ferroviaria italiana ha disatteso, sino ad oggi, sia il dettato costituzionale e sia la Carta dei Diritti dell’Unione Europea.

Obiettivo n.41

Eliminazione della tassa sulla proprietà degli autoveicoli e abrogazione dei pedaggi autostradali

La tassa di proprietà sugli autoveicoli è una tassa regionale.

La Commissione europea, in tema di tassazione sugli autoveicoli, ha chiarito che c’è un ampio margine di discrezionalità in capo agli Stati membri e che dunque tassare gli autoveicoli non contrasta con alcuna legislazione europea.

La tassazione tuttavia si è negli anni delineata come iniqua e ingiusta atteso che nella determinazione del calcolo sono stati adottati criteri legati ai cavalli fiscali e non al valore commerciale, arrivando al paradosso che alcune automobili, prive di un valore commerciale di scambio, paghino somme di tassazione sproporzionate rispetto al loro valore reale.

Tassare in modo esagerato un bene che ha un modesto valore di mercato è senza dubbio una forma di indebita vessazione fiscale.

Né si giustifica la eccessiva onerosità dei criteri di calcolo adottati dalle singole regioni su un bene, l’automobile, attorno al quale, di fatto, si è avvitata tutta l’economia italiana.

Quanto ai pedaggi autostradali costituiscono un inutile balzello se posto in relazione con le sue finalità.

Le autostrade italiane sono state da sempre nella gestione dell’ANAS, ente concedente della rete autostradale, la quale ha operato vigilando sulle 24 concessionarie che operavano sulle tratte autostradali.

Con una recente riforma le competenze dell’ANAS sono state trasferite al Ministero delle Infrastrutture e la loro manutenzione continua ad essere finanziata con i soldi dell’erario.

La tassa sul pedaggio va ad accumularsi alla tassa di proprietà dell’autoveicolo cui si aggiungono le tasse pagate con l’acquisto del carburante.

Le autostrade sono state costruite con i soldi pubblici, sono manutenute con i soldi pubblici, il pagamento del pedaggio incide negativamente non solo sulla utenza, ma anche sulla competitività commerciale e turistica.

L’abolizione del pedaggio infatti potrebbe dare maggiore impulso a settori economici sui quali questo balzello incide in maniera sproporzionata e ingiustificata, come il trasporto merci e come il transito di turisti.

L'eliminazione del pedaggio è il primo passo verso la nazionalizzazione.

Obiettivo n.42

Riorganizzazione e potenziamento della rete internet (banda larga e WiFi gratuito). Obbligatorietà di una tariffa telefonica unica, non superiore a € 30,00, che includa traffico illimitato per telefonia fissa, mobile e adsl. Cancellazione del canone telefonico

La giungla tariffaria posta in essere dalle compagnie telefoniche è l’esempio più lampante del neoliberismo italiano.

L’impraticabilità per la maggior parte degli utenti di comprendere clausole contrattuali disinvolte e contraddittorie, è lo specchio della politica incapace di dare indicazione al mercato che, lasciato nella assenza di regole, calpesta anche quelle più elementari.

La telefonia italiana ha bisogno di essere regolamentata perché il diritto a comunicare è un diritto costituzionalmente garantito e non può essere degradato ad un labirinto di trappole gestite senza responsabilità.

Le tariffe telefoniche devono partire da un prezzo base che copra i costi del gestore, che lasci spazio ad un guadagno, ma che non superi un prezzo calmierato che faccia giustizia di ciò che finora è stato ingiustificatamente strapagato.

Obiettivo n.43

Eliminazione degli oneri a carico dello Stato delle figure di conforto spirituale, religioso o non religioso, nelle carceri, negli ospedali, nell’esercito e in qualunque altro contesto riconducibile a enti o istituzioni pubbliche

I sacerdoti nelle strutture carcerarie, le suore o i preti nelle corsie d’ospedale, i cappellani militari nelle caserme dell’esercito, una valanga ingiustificata di denaro pubblico viene spesa ogni anno per pagare una casta parassitaria di soggetti, peraltro già ingiustificatamente mantenuti con i soldi derivati dalle tasse e sottratti a servizi pubblici.

Lo Stato non può pagare un servizio privato, atteso che non v’è alcuna legittima qualificazione giuridica che consenta di annoverare, ad esempio, la confessione o la recita del rosario tra i servizi pubblici.

Chi desidera un servizio spirituale dovrà pagarselo ovvero, a rigor di logica, attendere che gli sia reso gratuitamente da chi lo fa per “vocazione".

Obiettivo n.44

Legalizzazione della prostituzione su modello legislativo dei Paesi del Nord Europa

Il modello proibizionista adottato dalla legislazione italiana, quella che più di altre è influenzata dalla morale religiosa cattolica, è il sistema che crea un costo sociale più alto che in altri Paesi.

I trafficanti di esseri umani e gli sfruttatori criminali hanno bisogno di una legislazione come quella attualmente vigente in Italia per elevare i propri profitti a danno delle donne, sempre più spesso minorenni.

Nei Paesi dove c’è regolamentazione del fenomeno, invece, i vantaggi per lo Stato sono visibili.

Pur tenendo in conto che una parte dell’attività di prostituzione, per le ragioni più svariate, resterebbe sommersa, tuttavia una regolamentazione in senso antiproibizionista incrementerebbe la possibilità di un controllo sanitario, ridurrebbe drasticamente i costi sociali dello sfruttamento e della tratta di esseri umani, e infine, l’equiparazione della prostituzione ad altre attività produttive consentirebbe un gettito fiscale il cui totale oggi si riversa esclusivamente nelle casse della criminalità organizzata.

Fino a quando ci saranno i cattolici moralisti al governo, avremo circa novantamila prostitute sfruttate ed emarginate sulle strade, destinate ad offrire i loro servizi senza alcuna sicurezza o tutela.

Le motivazioni per una legalizzazione della prostituzione non sono né possono essere solo economiche, è necessario valutare la difesa e la tutela di altri esseri umani che non hanno, nella maggior parte dei casi, alcuna possibilità di sedere in Parlamento.

Obiettivo n.45

Riforma della Rai sul modello anglosassone (BBC Network). Cancellazione del canone Rai e liberalizzazione delle concessioni di pubblicità

Da sempre il modello di TV inglese della BBC attira gli osservatori internazionali per l’alto livello qualitativo dei suoi programmi.

La TV in Italia da molto tempo non ha più funzione culturale e educativa, da quando cioè si è avventurata nella concorrenza con la TV commerciale di basso profilo culturale e di alta appetibilità nell’imbarbarimento generale.

Il ventennio berlusconiano si porta appresso anche la grave responsabilità di aver inquinato la televisione pubblica italiana, infiltrandola con i suoi dipendenti e controllori, trascinando nella volgarità demenziale anche i programmi della TV pubblica.

E’ pur vero che gli inglesi sono orgogliosi di pagare il canone della loro TV.

In Italia invece il canone non è stato mai pagato volentieri perché si è sempre avuta la consapevolezza che si sia trasformato in un obolo alla classe dirigente per consentirle di usare la TV pubblica per fini personali o quantomeno di parte.

Una buona produzione televisiva e una seria riforma delle concessioni pubblicitarie, renderebbero inutile il pagamento di una tassa ormai odiosa per la volgarità dei programmi che ha offerto e che continua ad offrire.

Si aggiunga che la pianificazione ordita attraverso la RAI per l’abbrutimento delle masse, non ha trascurato la messa in onda di programmi di propaganda della confessione religiosa della monarchia confinante, nel totale disprezzo del pluralismo religioso e soprattutto dell’ateismo.

Anche questo è un motivo in più per eliminare una tassa che è stata colpevolmente utilizzata per disattendere e disprezzare i Principi Costituzionali di uguaglianza e di pari dignità delle opinioni differenti.

Obiettivo n.46

Cancellazione dell’Ordine dei giornalisti

Nel programma politico di Democrazia Atea è stata inserita l'abolizione dell'Ordine dei Giornalisti tra gli obiettivi economici e non tra gli obiettivi etico-sociali.

La ragione risiede nel fatto che l'informazione è uno dei pilastri fondamentali della democrazia e lo sviluppo economico di un Paese è legato a doppio filo con una corretta informazione.

Quando i gruppi di potere economico rafforzano se stessi a scapito della popolazione, devono passare attraverso il controllo preventivo dell'informazione.

Attraverso la censura o attraverso l'informazione tessuta ad arte per distrarre, le oligarchie reprimono e impoveriscono senza troppi ostacoli.

L'Ordine dei Giornalisti è stato istituito nel 1963 e non era troppo dissimile dall'impianto delle corporazioni fasciste.

Il bilancio che se ne trae oggi è pessimo.

L'Ordine non garantisce la professionalità né riesce ad essere garante della pluralità dell'informazione ed anzi, nella protezione della categoria, è complice della degenerazione del sistema.

L'unico aspetto positivo della legge istitutiva dell'Ordine, è il codice deontologico che tuttavia, pur abrogando l'Ordine, in una legislazione di sistema, potrebbe tranquillamente essere incluso.

L'art.21 della nostra Costituzione non pone limiti alla libera espressione e chiunque ha qualcosa da dire, su un social network o su un blog, sulla carta stampata o sui canali radiofonici o televisivi, potrebbe essere un giornalista.

Non dovrebbe esserci il recinto di un Albo per esprimere le proprie opinioni e la capacità di fare giornalismo si misura nell'assenza di offese gratuite o nell'assenza di corbellerie: per le prime c'è il codice penale, per le seconde c'è il pubblico ludibrio.

In entrambi i casi, l’esistenza di un Ordine appare del tutto superflua poiché nel pubblicare ci si deve assumere la responsabilità di ciò che ne consegue, come in tutte le altre cose. L’Ordine dei giornalisti non è stato in grado di assumere posizioni di contrasto nei confronti dell’asservimento del giornalismo ai gruppi politici tanto che la Freedom of the Press, dell'istituto di ricerca statunitense Freedom House, ha classificato l’Italia un Paese «parzialmente libero» (partly free) attribuendo le cause al controllo dell’informazione, compresa quella del servizio pubblico, operata da Berlusconi e aggravata dalla legge Gasparri che ha fintamente regolamentato il conflitto di interessi pur di mantenerlo inalterato nella sua devastante mostruosità.

Paesi dove l'informazione è libera, e non come in Italia dove è soggetta a gruppi finanziari o di potere, non ci sono gli Ordini dei Giornalisti.

Gli Ordini, le caste, gli albi, sono retaggi medievali.

L’editoria piuttosto va sostenuta, come accade in tutte le democrazie che vedono nel pluralismo dell’informazione una ricchezza, se non con finanziamenti diretti, quantomeno con agevolazioni indirette.

Una regolamentazione generale del sistema che includa la diffusione delle testate on line e ridisegni il ruolo delle concessionarie pubblicitarie, garantirebbe il sostegno necessario all’editoria senza necessariamente gravare i bilanci statali.

Obiettivo n.47

Adozione di una legge costituzionale che codifichi e sancisca il diritto alla conoscenza

“Tutti gli uomini per natura desiderano sapere” lo sosteneva Aristotele nel IV secolo a.c. e nell’era di internet il desiderio di conoscenza non è cambiato.

Il diritto alla conoscenza non significa tuttavia che qualsiasi informazione debba essere immediatamente disponibile a tutti, in qualsiasi modo, dovendo tener conto dei diritti alla riservatezza e alla privacy la cui tutela deve essere parimenti garantita.

Come pure deve essere garantito il diritto all’oblio inteso come il diritto alla cancellazione di informazioni già conosciute.

Il diritto alla conoscenza può rivolgersi, ad esempio, ad una serie di aspetti della vita di persone che rivestono funzioni pubbliche, e quindi detengono un potere, il cui controllo diventa una modalità della trasparenza quale connotato della democrazia.

Solamente una equilibrata codificazione del diritto alla conoscenza impedisce che si possa incorrere nella estremizzazione della metafora nazista del cosiddetto “uomo di vetro” ovvero colui che afferma di non avere nulla da temere e che spavaldamente invita ad indagare su di lui.

Siffatta estremizzazione è funzionale ai regimi totalitari perché nega qualunque forma di tutela alla sfera privata nella quale l’uomo libero dispone della propria coscienza, e consente un controllo di regime su ogni aspetto della esistenza e della potestà decisionale di ognuno.

La conoscenza e la trasparenza devono essere codificate in maniera tale da garantire che il risultato finale sia, invece, la maggiore democrazia possibile.

Il diritto alla conoscenza attiene non solo alla sfera dei privati, ma anche a quella degli Stati.

Fenomeni come le rivelazioni di banche dati enormi, ha posto il problema della conoscenza di informazioni di alcuni Stati su altri Stati, e l’assenza di una regolamentazione sulla esistenza stessa di queste smisurate banche dati, ha dato la dimensione di come possano costituire un rischio sociale perché la loro conoscenza può non essere immune da rischi e ripercussioni sulla sicurezza dei cittadini.

Da ultimo, ma non per ultimo, c’è un altro aspetto della conoscenza che integra i le molteplici angolazioni di quello che dovrebbe essere anch’esso un diritto umano, ovvero il diritto a conoscere, nella trasparenza, le motivazioni sottese a tutte le decisioni dei poteri governativi la cui incidenza si risolve nella limitazione dei diritti costituzionali e dei diritti umani.

L’era contemporanea pone una infinita panoramica di sfaccettature che rendono non più rinviabile una codificazione condivisa su come il diritto alla conoscenza possa assurgere a diritto umano.

Obiettivo n.48

Abrogazione della destinazione dell’8 per mille in favore delle organizzazioni religiose. Destinazione dell’8 per mille alla ricerca scientifica. Destinazione del 5 per mille ad associazioni, riconosciute o non riconosciute, fondazioni o altro purché abbiano sede legale nello Stato Italiano. Esclusione del 5 per mille alle associazioni che non siano antifasciste.

In uno Stato ove si tutela il principio di laicità, le organizzazioni religiose non possono essere mantenute con sistemi di tassazione obbligatoria.

Il meccanismo di tassazione posto a carico dei cittadini italiani per mantenere le organizzazioni religiose è stato congegnato in modo tale da consentire che oltre l’89% del gettito sia erogato in favore della sola chiesa cattolica.

La misura di tassazione posta obbligatoriamente a carico dei contribuenti, corrisponde all’8 per mille del reddito dichiarato.

Un segnale di discontinuità culturale si realizzerebbe se, anziché destinare somme alle organizzazioni religiose, le stesse somme fossero invece destinate a organizzazioni scientifiche.

Alle organizzazioni religiose non dovrebbe nemmeno essere consentito di partecipare alla distribuzione delle somme raccolte con la tassazione del 5 per mille.

La tassazione del 5 per mille, pur lasciando ai contribuenti la scelta sulla destinazione, dovrebbe escludere tutte le organizzazioni che, per quanto operino sul territorio italiano, dipendono da altri Stati nei quali non sono rispettati i diritti umani, ovvero quegli Stati che si pongono in contrasto con i nostri principi costituzionali, come ad esempio lo Stato del Vaticano.

Devono essere escluse dalla destinazione del 5 per mille, anche tutte quelle associazioni le cui finalità statutarie siano anticostituzionali o che siano in relazione diretta con organizzazioni fasciste.

Obiettivo n.49

Revisione dei criteri di incompatibilità e di ineleggibilità alle cariche elettive. Divieto di elettorato passivo per coloro che hanno riportato condanne penali di particolare gravità. Introduzione del limite a due soli mandati per i parlamentari.

Incandidabilità, ineleggibilità e incompatibilità sono criteri di valutazione scontati nelle democrazie evolute.

Nel Paese di Pulcinella le leggi in questa materia diventano cavilli interpretabili secondo convenienza.

Un popolo eticamente sano percepirebbe una condanna penale, per quanto non definitiva, una precondizione tacita per non poter accedere a cariche elettive.

Da noi invece le condanne penali, soprattutto se legate alla amministrazione truffaldina della cosa pubblica, non sono accompagnate da un sentimento generale di disvalore, né da parte dei protagonisti, né da parte della popolazione.

L’immoralità del popolo italiano rende necessario articolare con puntualità tutte le ipotesi che impediscono l’accesso alle cariche elettive, senza lasciare alcun margine a dubbi interpretativi nei quali gli “impresentabili” possano farsi beffa del rigore morale che si richiede al ruolo.

E poiché la rappresentanza istituzionale non è percepita come impegno civile ma come opportunità individuale, è anche necessario limitare a due soli mandati la possibilità di candidarsi.

Obiettivo n.50

Modifica della legge elettorale


Obiettivo n.51

Abrogazione degli automatismi nella determinazione degli avanzamenti di stipendio dei parlamentari. Trasparenza e pubblicità delle spese sostenute dai parlamentari e dai rappresentanti del Governo. Introduzione di un tetto di spesa.

Conoscere i criteri di determinazione dello stipendio dei parlamentari è dirimente rispetto alle modifiche che si vorrebbero apportare.

Sul sito della Camera è possibile consultare le informazioni circa il trattamento economico dei deputati: http://leg16.camera.it/383?conoscerelacamera=4.

Con una norma del 1965 l’indennità parlamentare è stata ancorata allo stipendio lordo dei presidenti di Sezione della Corte di Cassazione ed è su questo meccanismo automatico di avanzamento degli stipendi che si rende necessario intervenire.

Si rende necessario anche affidare alla Corte dei Conti il controllo sulle spese dei parlamentari e dei partiti, ma anche di quelle dei rappresentanti del Governo, da non confondere con le spese dei singoli dicasteri.

Oltre al controllo delle spese sostenute, eliminando i criteri di aumento automatico degli stipendi, sarà possibile introdurre anche un limite alle spese che ogni parlamentare potrà sostenere.

Obiettivo n.52

Esame prioritario, nei lavori parlamentari, delle leggi di iniziativa popolare.

Negli auspici dell’Assemblea Costituente la Democrazia Rappresentativa avrebbe dovuto trovare un naturale bilanciamento negli strumenti di Democrazia Diretta.

Temendo che la Democrazia Diretta potesse ostacolare eccessivamente la Democrazia Rappresentativa, si decise di limitarla a poche ipotesi come il referendum abrogativo, quello confermativo e l’iniziativa popolare.

Eppure un progetto assai ampio di Democrazia Diretta era stato presentato da Costantino Mortati il quale aveva persino ipotizzato un referendum arbitrale con poteri di indizione in capo al Presidente della Repubblica.

Tuttavia lo spettro della dittatura mussoliniana era ancora storicamente recente e nessun partito aveva intenzione di ampliare i poteri del Presidente della Repubblica.

Le ipotesi di Democrazia Diretta elaborate da Mortati furono accantonate.

Oggi possiamo affermare che la naturale contrapposizione tra Democrazia Diretta e Democrazia Rappresentativa si è trasformata in prepotente conflitto.

Ma non si può ignorare che la Democrazia Diretta, nella sua prevedibile degenerazione, assumerebbe i contorni di una deriva plebiscitaria difficilmente arginabile dal contrappeso della Democrazia Rappresentativa.

L’arretratezza culturale e etica del popolo italiano si è tradotta nella degenerazione della Democrazia Rappresentativa che si esprime nelle scomposte espressioni di una casta privilegiata fatta di indegni politicanti.

La soluzione non risiede nel ridimensionamento della Democrazia Rappresentativa a favore di un potenziamento della Democrazia Diretta.

Le degenerazioni valoriali hanno soluzioni culturali altrimenti ci si ritrova peggio di prima.

Circola l’insana convinzione che i cittadini, posti nella condizione di esercitare la sovranità popolare in modo diretto, siano migliori di quei rappresentanti che loro stessi hanno eletto attraverso la mediazione della rappresentanza.

Che i cittadini siano migliori dei loro rappresentanti è una ingenuità che fa sorridere quando non diventa pericolosa oclocrazia.

E’ indispensabile avere bene a mente che certi rappresentanti condividono la stessa assenza di riferimenti etici dei loro rappresentati, e che gli uni si pongono in comunanza di intenti e di malaffare con gli altri.

E dunque la Democrazia Diretta non è una valida alternativa alla Democrazia Rappresentativa se non si modificano le condizioni culturali e di civiltà del popolo che dovrebbe esprimerla.

Ciò non toglie che alcuni istituti di Democrazia Diretta potrebbero essere modificati.

L’art.71 della Costituzione (Il popolo esercita l'iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli) consente che l’iniziativa legislativa possa essere affidata al popolo.

La raccolta di firme di almeno cinquantamila elettori si trasforma in un impegno notevole che tuttavia viene vanificato dal fatto che i lavori parlamentari, nella calendarizzazione dell’esame dei progetti di legge, omettono di inserire le proposte che provengono dall’iniziativa popolare.

Rendere prioritario il loro esame è un dovere politico e istituzionale.

Obiettivo n.53

Abrogazione della legge Delrio e ripristino delle elezioni provinciali

L’art.114 (La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato), l’art.118 (Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza), l’art.119 (I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell'equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l'osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea), l’art.132 (Si può, con l'approvazione della maggioranza delle popolazioni della Provincia o delle Province interessate e del Comune o dei Comuni interessati espressa mediante referendum e con legge della Repubblica, sentiti i Consigli regionali, consentire che Province e Comuni, che ne facciano richiesta, siano staccati da una Regione ed aggregati ad un'altra) e l’art.133 (Il mutamento delle circoscrizioni provinciali e la istituzione di nuove Province nell'ambito d'una Regione sono stabiliti con leggi della Repubblica, su iniziativa dei Comuni, sentita la stessa Regione) sono gli articoli che disegnano e stabiliscono le funzioni delle Province.

L’attuale assetto istituzionale non ha più l’equilibrio originario, irreversibilmente modificato, dal 2001, dalla riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione.

La Provincia, nell’ordinamento dello Stato originario, si poneva come istituzione intermedia tra Comuni e Regioni, con una funzione di raccordo che, nelle intenzioni dei costituenti, avrebbe reso maggiormente efficace l’attività amministrativa.

Molte delle prerogative delle Province sono state assegnate direttamente ai Comuni, e molte invece sono state assegnate direttamente alla Regione, depotenziando le Province quale Enti intermedi.

Il progetto di riforma della Costituzione promosso dal Governo Renzi, prevedeva la soppressione delle Province, ma quel progetto è stato bocciato con il referendum del 4 dicembre 2016 e le Province non sono state soppresse.

In adesione alla volontà referendaria le Province vanno mantenute nella loro funzione e nella pienezza della rappresentatività.

La legge Delrio, formulata con l’arroganza di pensare che la riforma costituzionale sarebbe stata approvata dal referendum, ha ridisegnato gli enti territoriali, e dopo il referendum ciò che resta è un pasticcio foriero di conflitti.

A questo punto occorre rimettere mano alla riorganizzazione degli enti territoriali, abrogando la legge Delrio che, allo stato, è in gran parte incostituzionale, ivi compresa l’elezione “di secondo livello” che toglie agli elettori il potere di decidere i propri rappresentanti.

Obiettivo n.54

Elaborazione di un Testo Unico sull'informazione e l'editoria

La libertà d’informazione non può essere disgiunta dal diritto del lettore alla correttezza dell’informazione.

La strada che, a più riprese, il legislatore tenta di percorrere per evitare che l’informazione sia distorta e veicolata con contenuti sostanzialmente non veri (fake news) è quella della censura e della punizione penale.

In realtà ciò che non si sa gestire, generalmente si vieta, e così l’incapacità di gestire una popolazione di utenti non in grado di distinguere una notizia vera da una notizia falsa, si tenta di risolverla nella censura e nella punizione.

Democrazia Atea non condivide né la censura né la punizione penale al di fuori delle norme già esistenti sulla diffamazione.

C’è una componente non trascurabile nell’analisi di questo fenomeno, che risiede nel livello di analfabetismo di ritorno da parte della popolazione italiana e nella incapacità di distinguere il vero dal falso.

Una popolazione allevata nella credenza e nell’irrazionalità è più incline a credere in modo acritico anche a ciò che viene veicolato come “vero” perché l’attitudine alla credenza dell’inverosimile fa parte delle sovrastrutture mentali della popolazione italiana, inibita fin dalle scuole materne a percorrere la razionalità.

In questo quadro si inseriscono, a cadenze cicliche, le proposte di legge volte a condannare chi fa circolare notizie infondate.

Quanto alle notizie infondate, ci si chiede quali soluzioni adottare, ci si chiede se l’ordinamento debba predisporre punizioni per tutti coloro che “diffondono” notizie false, o soltanto per coloro che le “fabbricano”, per tutti i giornalisti che ripropongono le informazioni false veicolate dai rappresentanti delle istituzioni, o solamente per qualche blogger buontempone.

Ferma la diffamazione per la quale la legge penale già c’è, resta il problema su come qualificare ad esempio una falsa dichiarazione, veicolata dalla stampa, proveniente da una carica istituzionale.

Prendiamo il caso della notizia infondata circa il possesso delle armi di distruzione di massa da parte di Saddam Hussein negli arsenali iracheni, indicata come vera da Tony Blair.

In questo caso si sarebbero dovuti perseguire i giornalisti che l’hanno diffusa o si sarebbe dovuto deferire Tony Blair ad una Corte internazionale per aver distrutto una nazione giustificando l’attacco militare con una menzogna?

Nessuno strumento sanzionatorio esiste per contrastare la portata di simili “fake news” e resta solo la condanna della storia per aver scatenato la guerra in Iraq con tutto quel che ne è seguito.

Se invece una notizia falsa viene propalata dal un blogger in cerca di visualizzazione, per i censori dovrebbe seguire una abnorme condanna penale.

Da più parti si invoca la regolamentazione dei blog e nel vuoto normativo i blog vengono equiparati alle testate giornalistiche pur senza averne né i requisiti né le tutele, come ad esempio l’insequestrabilità.

Occorre ridisegnare tutto il sistema generale dell’informazione, ma se si focalizza l’attenzione normativa su un solo settore, come i blog, e non si riconsidera l’articolo 21 della Costituzione in una visione più ampia che ridefinisca sia la testata giornalistica, sia la testata telematica, sia il prodotto editoriale, quali siano i requisiti formali perché un prodotto possa qualificarsi come professionale o amatoriale, è evidente che la reale volontà politica risieda nel mantenimento dello stallo perché è funzionale al potere manipolativo.

La legge sull’editoria (L.62/2001) è già obsoleta e comunque non esaustiva rispetto alle nuove realtà della comunicazione.

La lungimiranza con la quale fu elaborato l’articolo 21 della Costituzione, non merita la disattenzione del nostro Legislatore.

Obiettivo n.55

Riaffermazione del principio di unità della Magistratura con il mantenimento della separazione delle funzioni in via permanente.

Quando a parlare di giustizia sono i condannati non è umanamente pensabile che non abbiano, quale autentico interesse, quello di eludere la responsabilità derivante dalle proprie azioni criminali, come accade ormai da un ventennio.

La Costituzione italiana prevede che i magistrati inquirenti e quelli giudicanti facciano parte di un unico ordine e che abbiano un unico governo di autocontrollo, il Consiglio Superiore della Magistratura.

L’Assemblea Costituente affrontò con serio dibattito l’eventualità di due ordini separati e le perplessità espresse allora, tornano di attualità ogni volta che qualcuno ripropone l’idea della separazione dei due ordini.

Si motiva questa richiesta con la preoccupazione che il giudice possa avere maggiore propensione ad accogliere le tesi accusatorie del pubblico ministero, facendo parte dello stesso ordine, piuttosto che quelle difensive, con minor garanzia per l’imputato.

Ogni motivazione apparente in realtà riconduce ad una motivazione più autentica e non spendibile.

La vera motivazione è quella di porre i pubblici ministeri sotto il tallone dell’esecutivo che può decidere quali reati perseguire e quali è meglio tralasciare.

A nessuno sfugge che siamo un paese ad elevata mafiosità, ad elevata corruzione e che lo sport nazionale è la truffa.

Porre sotto il controllo dell’esecutivo la magistratura inquirente significa aumentare l’impunità per i gruppi di potere a scapito della delinquenzialità minore, significa salvare imprenditori malavitosi e banchieri truffatori e dirottare le procure contro i ladri di polli.

Del resto questo era esattamente il programma piduista.

In un Paese con un indice di criminalità fisiologico, la separazione delle carriere potrebbe costituire una modalità come un’altra di esercizio dell’azione giudiziaria penale.

Nel nostro Paese invece, con una classe politica gravemente collusa con la criminalità organizzata, una simile eventualità costituirebbe la certezza della impunità per i reati più gravi.

La nostra Costituzione, del resto, non preclude che le funzioni inquirente e giudicante, pur accessibili attraverso un concorso unico, possano procedere separatamente mantenendo, per i magistrati, le stesse funzioni sin dall’inizio della propria carriera.

L’indipendenza della magistratura può essere garantita solo con il mantenimento di un unico ordine di riferimento per entrambi i ruoli.

L’una e l’altra funzione, inalterate per tutta la carriera, ottimizzerebbero le peculiarità e le esperienze maturate essendo improbabile, per esempio, che un magistrato che per decenni abbia svolto indagini sui reati contro l’ambiente, possa poi assumere, da un giorno all’altro, le funzioni di giudice in un tribunale per minorenni.

Sarebbe come chiedere ad un medico, che per trenta anni si sia occupato di ortopedia, di diventare da un giorno all’altro cardiochirurgo.

Obiettivo n.56

Potenziamento delle Procure a rischio e indizione di concorsi. Abrogazione della norma che neutralizza il segreto delle indagini.

Sono oltre cento le procure italiane a rischio chiusura per mancanza di magistrati e per assenza di finanziamenti in grado di renderle operative.

La strategia della impunità si è risolta in un progressivo depotenziamento e svilimento della funzione inquirente, proprio nelle regioni dove la criminalità organizzata è più radicata, come la Sicilia e la Calabria.

È necessario ristabilire la funzionalità delle Procure italiane attraverso l’indizione di concorsi e l’abrogazione della norma, voluta dal governo berlusconiano, che impedisce ai magistrati a inizio carriera di ricoprire le funzioni di pubblico ministero e che ha portato le procure al collasso operativo, con carichi di lavoro insostenibili.

Ma anche il governo renziano ha contribuito a depotenziare le procure.

Con il decreto che ha imposto l’assorbimento del Corpo Forestale dello Stato si è inserita una norma, contenuta nel quinto comma dell’art.18 del decreto legislativo n.177 del 19 agosto 2016, falsamente giustificata da un criterio di inesistente “coordinamento informativo”, attraverso la quale il presidio di polizia che collabora con il magistrato nelle indagini, avrà l’obbligo di trasmettere al proprio superiore gerarchico le notizie relative all’inoltro delle informative di reato dell’autorità giudiziaria, vanificando il criterio della segretezza delle indagini.

Non è difficile supporre che una “fuga di notizie autorizzata” si verificherà ogni qualvolta l’indagato sia un esponente della criminalità organizzata, o un noto esponente politico ovvero un noto esponente del mondo economico e finanziario.

Sarà possibile sapere in anticipo delle indagini in corso e si potranno assumere quelle “precauzioni” necessarie ad eliminare le prove del crimine sul quale si sta indagando (ad esempio bonificare dalle microspie i propri uffici, ovvero evitare di scambiare informazioni attraverso i telefoni intercettati).

L’eliminazione della predetta norma costituirà elemento sufficiente per non neutralizzare fin dall’inizio le indagini delle procure.

Obiettivo n.57

Adozione di criteri di accoglienza e di integrazione improntati al rispetto dei diritti umani. Riqualificazione degli hotspot da centri di detenzione a centri di accoglienza. Revisione degli accordi con i Paesi di provenienza per un miglior controllo dei flussi migratori. Abrogazione degli accordi stipulati con la Libia. Erogazione di finanziamenti finalizzati allo sviluppo dei Paesi di provenienza degli immigrati.

Le politiche di respingimento degli immigrati, caratterizzate da una forte spinta razzista, sono sfociate nella degenerazione di misure coercitive e degradanti verso persone già traumatizzate.

L’Unione Europea ha chiesto all’Italia di allestire hotspot, centri di identificazione per migranti, e le segnalazioni di violenze sui migranti non sono più casi isolati.

La classificazione imposta dall’Unione Europea tra “migrante economico” e “migrante che può chiedere asilo” mostra il lato più disumano della politica dei respingimenti.

Le organizzazioni umanitarie come “Medici senza frontiere” e “Amnesty International” hanno denunciato i trattamenti brutali e degradanti, degenerati fino alle umiliazioni sessuali, ai pestaggi, alle interviste che si trasformano in interrogatori violenti, e tutto questo avviene nei confronti di persone gravemente disorientate, traumatizzate e debilitate.

L’identificazione dei migranti non sempre si avvale di interprete, e diventa impossibile per il migrante esprimere la reale condizione di pericolo dalla quale è fuggito, di fatto non gli è garantita la possibilità di verificare l’effettiva condizione di richiedente asilo.

Le violazioni del diritto internazionale sono costanti e l’Italia ha una grave responsabilità per quanto accade, a nulla rilevando che in questa disumana politica di respingimento, stia mettendo in atto le indicazioni dell’Unione Europea.

Affidare il controllo e l’identificazione dei migranti a Paesi come la Libia o il Sudan, significa accettare la normalità della tortura e della eliminazione fisica.

Fuggire dalla violenza, dalla guerra, dalla povertà non può significare essere criminalizzati.

La barbarie dei respingimenti trova l’indifferenza di una parte della popolazione arida e incivile.

La politica dell’accoglienza e della integrazione trova timide aperture anche da parte di chi non vuole perdere consenso elettorale.

La necessità di una politica dell’accoglienza ha bisogno di una classe politica in grado di superare le barriere dell' opportunismo, di rimuovere il filo spinato della barbarie, di non erigere i muri della vergogna.

Un migrante è un essere umano che ha bisogno di accoglienza, non riconoscere questa evidenza significa essere già nella disumanità e una democrazia non può consentire che accada.

Obiettivo n.58

Introduzione nel codice penale italiano del reato di tortura.

Nel 1984 l’ONU ha adottato una Convenzione contro la tortura e i sistemi inumani e degradanti.

L’Italia ha ratificato la Convenzione nel 1988 e si è impegnata ad adeguare la propria legislazione penale interna nel senso imposto dalla Convenzione.

Nonostante l’Italia abbia preso questo impegno, dal 1989, il Parlamento italiano ha legiferato in modo insufficiente e farsesco.

Un atto qualificabile come tortura, secondo la legge approvata di recente, per sussistere “deve essere stato compiuto con crudeltà e mediante più condotte e deve provocare un verificabile trauma psichico”.

Questo semplice inciso rende inutile la legge.

I trattamenti inumani e degradanti, commessi dalle forze dell'ordine non sono tollerabili in uno stato di diritto.

E ciò vale anche per i trattamenti vessatori commessi su persone in stato di detenzione.

Obiettivo n.59

Superamento del concetto di multiculturalismo e di multiconfessionalismo, e affermazione di un processo di evoluzione interculturale.

Il multiculturalismo è generalmente riferibile ad un sistema normativo nel quale, ribadito il principio universale per cui tutti i cittadini sono uguali, le legislazioni tendono alla coesistenza tutelata delle differenze culturali all’interno di una stessa società.

I cittadini, nei sistemi che tutelano il multiculturalismo, mantengono la propria identità culturale, sono garantiti nel riconoscimento della propria etnia e soprattutto della propria religione.

Il multiculturalismo, però, nelle applicazioni pratiche, si è concretizzato in un miope multiconfessionalismo attraverso il quale le peculiarità religiose che stabiliscono comportamenti e rituali per gli appartenenti ad una precisa comunità religiosa, trovano una tutela giuridica che segna una separazione netta con gli altri individui appartenenti alla stessa società ma non praticanti la stessa religione.

Sovente la tutela rigorosa di religioni diverse ha comportato una separazione e una divisione generatrice di esclusioni e razzismi.

Occorre che non solo il Legislatore definisca i criteri entro i quali sia possibile tutelare le differenze religiose senza limitare l’applicazione della legge generale, ma soprattutto occorre che il Legislatore indichi le modalità attraverso le quali le diverse culture possano interagire tra di loro in una interculturalità che porti alla integrazione e non alla esclusione.

L’intercultura consente di rimuovere le barriere che si creano tra culture differenti che da un lato impediscono l’applicazione di regole di giustizia sociale e dall’altro limitano le potenzialità economiche in grado di creare maggior benessere con un criterio ugualitario.

Obiettivo n.60

Abrogazione della legge Bossi-Fini e attuazione della legge Napolitano-Turco.

Non si può disgiungere la vendita delle armi dal fenomeno delle migrazioni.

Nel 2014 l’Italia ha esportato armi nei Paesi asiatici e africani per 2,9 miliardi di euro.

Nel 2015 l’esportazione di armi verso quei Paesi è lievitata fino a 8,2 miliardi di euro.

La conflittualità e l’insicurezza dei Paesi da cui provengono i migranti è anche diretta conseguenza delle politiche scellerate attuate dal neoliberismo in tema di esportazioni di armi.

Esportiamo allegramente guerra e disperazione e non sappiamo gestirne le conseguenze.

Il fenomeno migratorio non ha le dimensioni catastrofiche che certa politica vuole far credere, mentre ciò che è catastrofica è l’incapacità politica di gestire l’accoglienza e l’integrazione, alimentando paure e razzismo.

I dati reali danno la misura di quanto il fenomeno migratorio, in termini numerici, abbia assunto dimensioni apparentemente ingestibili solo nella strumentalizzazione dei partiti xenofobi e populisti.

La Germania ha registrato il numero totale più elevato di immigrati (884 900) nel 2014, seguita dal Regno Unito (632 000), dalla Francia (339 900), dalla Spagna (305 500) e dall'Italia (277 600).

In rapporto al totale della popolazione residente, il tasso di immigrazione più elevato nel 2014 è stato registrato dal Lussemburgo (40 immigrati per 1 000 abitanti), seguito da Malta (21 per 1 000 abitanti) e dall'Irlanda (15 per 1 000 abitanti).

Un immigrato, un rifugiato un profugo, rispondono a condizioni umane differenti e la tutela giuridica che ne consegue è altrettanto differente.

Gli immigrati sono coloro che lasciano il proprio Paese in cerca di una condizione di vita migliore, e la permanenza nello stato in cui giungono è regolamentata da autorizzazioni amministrative.

Il profugo è un immigrato che lascia il proprio Paese fuggendo da guerre, da persecuzioni o catastrofi. Ma è profugo anche chi subisce queste condizioni pur non riuscendo a fuggire dal proprio Paese.

Il richiedente asilo, dal punto di vista giuridico-amministrativo, è una persona cui è riconosciuto lo status di rifugiato perché se tornasse nel proprio paese d’origine potrebbe essere vittima di persecuzioni per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale.

Gli immigrati che arrivano nel nostro Paese per tentare di migliorare le proprie condizioni di vita sono soggetti alla regolamentazione della legge che prende il nome dai suoi primi firmatari ovvero Bossi-Fini, e che ha sostituito la precedente legge Napolitano-Turco.

La ratio contenuta nella Bossi-Fini aveva una chiara finalità repressiva e l’effetto, ampiamente previsto, ha alimentato nella società una legittimazione agli istinti della xenofobia che nel corso degli anni si è trasformata in consenso politico verso quelle formazioni che hanno fatto del razzismo la loro bandiera.

Democrazia Atea propone di abrogare la legge Bossi-Fini e di ripristinare, con correttivi per le mutate condizioni anche del quadro internazionale, la legge Napolitano-Turco.

Quanto al diritto d’asilo occorre ricordare che già nella Roma imperiale aveva una sua regolamentazione, e l’evoluzione normativa, nel corso dei secoli, è approdata alla Costituzione italiana nella quale all’art.10 si statuisce che «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.»

Nel 2003 è intervenuta la Convenzione europea di Dublino II, che fu ratificata in Italia quando il Governo era sostenuto da Forza Italia e dalla Lega Nord. Furono dunque queste due forze politica a ritenere quel trattato idoneo a regolamentare i flussi migratori in Italia, e oggi possiamo misurare quanto fu miope la loro prospettiva.

Nel 2013 la Convenzione di Dublino ha subito ulteriori implementazioni con la Convenzione Dublino III e anche in questo caso sono state due forze politiche di destra ad occuparsene, il Partito Democratico e il Nuovo Centro Destra.

Il disastro umanitario, per ciò che attiene all’Italia, si è vergognosamente aggravato con gli accordi bilaterali per il respingimento dei migranti nei centri di detenzione libici che l’Italia ha sottoscritto in spregio ad ogni ragionevole sensibilità umanitaria.

Credere di poter arrestare la migrazione umana equivale a credere di poter fermare le onde del mare.

Democrazia Atea ritiene, piuttosto, che sia doveroso fermare immediatamente la violenza dei centri di detenzione dei migranti nei quali si consuma una barbarie disumana.

E nel contempo ritiene che siano necessari progetti di integrazione affidati a soggetti qualificati e non ad organizzazioni criminogene, come si è maggiormente fatto fino ad ora.

Ma non è sufficiente.

Democrazia Atea ritiene che occorra educare gli italiani alla conoscenza dei diritti umani, solo così saranno in grado di conoscere i propri diritti e difendere quelli altrui.

Obiettivo n.61

Abrogazione della norma che istituisce le cosiddette “ronde”

L’istituzione delle ronde si inserisce nel più largo obiettivo di criminalizzazione della diversità promosso dalla destra italiana.

Le squadracce fasciste, istituite a suo tempo per reprimere l’opposizione al regime con la falsa prospettiva di “mettere ordine” tra la popolazione, si sono evolute e hanno assunto le sembianze di volontari pronti a terrorizzare con la propria presenza gli stranieri in circolazione sulle nostre strade e comunque presenti sul nostro territorio.

Furono istituite sulla spinta propagandistica della Lega Nord, in un afflato di razzismo e xenofobia.

Sulla normativa che le istituiva intervenne la Corte Costituzionale la quale, pur dichiarandone la conformità al dettato della Costituzione, ne ha opportunamente limitato il raggio d’azione, di fatto neutralizzandole.

Poiché il vero obiettivo delle ronde era quello di consentire a taluni individui, non inseriti in attività di pubblica o privata vigilanza, e dunque senza alcuna preparazione né funzione specifica, di agire in maniera repressiva e violenta contro gli stranieri, le limitazioni imposte dalla sentenza della Corte Costituzionale hanno immediatamente depotenziato la loro esistenza e dunque le decine di ronde che si costituirono dopo il via libera legislativo, sono svanite, come svaniscono generalmente gli entusiasmi che si alimentano dei bassi istinti.

A tutto voler concedere, credere poi che chi si predispone a delinquere, e che quindi ha già deciso di sfidare le autorità e le conseguenze del proprio agire, possa desistere di fronte ad una ronda, non è semplice ingenuità, ma rasenta la stoltezza.

Le ronde vanno soppresse perché restano pur sempre un’onta in uno Stato di diritto, essendo prossime alla barbarie, ed è auspicabile che sia lo Stato sempre e comunque a farsi carico della sicurezza.

Obiettivo n.62

Elaborazione di una norma penale che impedisca l’applicazione di attenuanti per motivi culturali, etnici e religiosi.

Nella determinazione della pena il giudice può tener conto di alcune circostanze che attenuano la responsabilità dell’autore del reato.

Le circostanze attenuanti, o semplicemente attenuanti, nel nostro diritto sono tipizzate e determinano una diminuzione della pena.

Tra le attenuanti previste nel nostro ordinamento c’è quella dell’ “aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale”.

Nelle pieghe di una simile formulazione può insinuarsi, quale attenuante ai comportamenti delittuosi, l’aver agito per motivi religiosi o legati a ragioni etniche e culturali.

La previsione specifica di un simile divieto potrà impedire che i reati commessi in forza delle proprie convinzioni morali, possano trovare una sponda giustificativa che minerebbe alle fondamenta il sistema democratico imperniato sulla tutela dei diritti umani.

Obiettivo n.63

Imposizione progressiva della tassazione fiscale.

La nostra Costituzione disegna un principio di portata generale quando all'articolo 53 dice che "Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva".

La capacità contributiva dei soggetti, nel nostro sistema costituzionale, non può prescindere dalla funzione solidaristica del tributo perché attraverso il tributo si attua un dovere legato alla convivenza sociale, alla necessità che uno stesso gruppo sociale sia posto nelle condizioni di poter condividere le spese comuni per accedere ai servizi essenziali.

Affinché la funzione solidale del tributo possa compiersi, è necessario che i soggetti con la stessa capacità contributiva siano gravati dalla stessa prestazione tributaria, e che i soggetti con una capacità contributiva differente, siano gravati in modo differente.

E' noto che la maggior parte delle entrate provengono da tributi indiretti i quali, purtroppo, attuano una progressione a rovescio perché essendo legati ai beni di consumo, gravano maggiormente sulle classi più deboli e in questo modo non si ha più un carico tributario progressivo ma regressivo, di per sé ingiusto ed iniquo.

Un sistema progressivo potrà garantire che l'imposizione fiscale non si traduca in una ingiustizia sociale e perché questo accada lo stesso sistema non potrà strutturarsi in modo assolutamente rigido ma dovrà bilanciarsi con imposte progressive in grado di tener conto delle condizioni economiche, familiari e sociali di ogni singolo contribuente.

I nostri costituenti hanno indicato le linee di principio generali le quali prevedendo che i sistemi tributari possano essere modificati in modo flessibile, purché mantengano una uniformità al principio di ragionevolezza e siano in grado di contemperarsi con altri diritti costituzionali, come ad esempio il diritto alla salute o al lavoro.

Ciò che più opprime, tuttavia, non è solo una pressione fiscale non proporzionata alla propria capacità contributiva, ma è la consapevolezza che i propri sforzi siano costantemente vanificati da una pessima gestione delle risorse sottratte all'interesse collettivo, predate da interessi particolari, nella totale sfacciataggine di intere categorie privilegiate, come il clero, indifferenti a tutti i sistemi tributari perché comunque odiosamente esentate.

Obiettivo n.64

Apertura delle strutture carcerarie già edificate e mai ultimate. Riorganizzazione delle strutture carcerarie esistenti, adozione di iniziative di riabilitazione attraverso il lavoro e lo studio, in vista di un reinserimento nella società. Indagine conoscitiva sullo stato di violazione dei diritti umani all’interno delle strutture carcerarie italiane.

In Italia la popolazione carceraria nel 2016 è stata di 55.381 detenuti di cui circa 9.729 in attesa di giudizio e quindi senza una sentenza di condanna definitiva.

Le strutture carcerarie esistenti possono ospitare circa 45.000 detenuti.

In Svezia le strutture carcerarie chiudono.

In Olanda furono affittate, qualche anno fa, per una diminuzione dei detenuti e per assicurare continuità lavorativa al personale carcerario.

Di certo la legislazione italiana ha aggravato il sistema carcerario penalizzando comportamenti che, in altri Paesi, costituiscono violazioni amministrative e non penali.

L’uso di sostanze stupefacenti, ad esempio, costituisce una percentuale del 40% circa della popolazione carceraria.

La funzione costituzionale della pena dovrebbe essere quella della rieducazione in vista di un reinserimento, ma è stata soppiantata dalla spinta tribale della popolazione che confonde la funzione democratica della giustizia con la detenzione, indotta a credere, barbaramente, che l’una possa sostituirsi all’altra.

L’Italia nei confronti della popolazione carceraria ha un immorale senso di indifferenza, e il giustizialismo, declinato come condizione frustrante della convivenza civile, è diventato un sentimento diffuso.

In Italia si contano 205 strutture carcerarie funzionanti cui si aggiungono altre 40 edificate e non collaudate.

Un enorme sperpero di risorse che è naturale conseguenza di una amministrazione politica inefficiente e corrotta.

Il recupero di quelle strutture e la loro utilizzazione avrebbe conseguenze positive su più fronti.

La popolazione carceraria sarebbe posta in condizioni di scontare la pena con umana dignità.

L’utilizzo di nuove strutture porrebbe l’Amministrazione statale nella necessità di assumere nuovo personale dipendente.

La funzione di recupero dei detenuti si tradurrebbe in una diminuzione drastica della possibilità, per gli ex detenuti, di reiterare le condotte criminali una volta scontata la pena.

Se queste finalità, ovvie e collaudate, non vengono percorse, è evidente che giova perseguirne altre come ad esempio la privatizzazione del sistema carcerario.

Durante il governo di Mario Monti questa idea infelice trovò la prima sponda legislativa: il decreto legge n1/2012, cosiddetto “Decreto Liberalizzazioni” conteneva un importante passaggio (Titolo II Capo 1, art. 43) che consentiva l’adozione di disposizioni urgenti per “fronteggiare la grave situazione di emergenza conseguente all’eccessivo affollamento delle carceri”.

Venne introdotta la modalità del project financing alla gestione carceraria.

La gran parte della progettazione ed esecuzione dell’opera pubblica viene realizzata con capitali privati, mentre una quota residuale rimane di competenza dello Stato.

In cambio la società privata gestisce per almeno un ventennio la struttura e con essa i detenuti.

Il nuovo carcere di Bolzano è il primo caso di project financing riferito all’edilizia carceraria che dovrà essere inaugurato nel giugno del 2018, ed è a tutti gli effetti il primo penitenziario privato.

La costruzione del carcere se l’è aggiudicata “INSO spa”, un raggruppamento di imprese riconducibile a “Condotte per l’acqua spa”, la stessa società che ha firmato la costruzione della centrale nucleare di Montalto di Castro, il Mose di Venezia e la progettazione del ponte di Messina, opere già nate fallimentari.

Le organizzazioni umanitarie internazionali hanno da tempo sollevato critiche alla privatizzazione delle carceri analizzando quanto accade nei Paesi ove questo sistema è stato già adottato e quindi, prima di affidare ad una società privata la gestione di un carcere, si sarebbe dovuto procedere quantomeno con una analisi comparativa rispetto ad altri sistemi, ma l’amministrazione penitenziaria e il governo sono stati omissivi anche per questo aspetto.

La liberalizzazione della gestione carceraria, che nel carcere di Bolzano trova la sua prima attuazione, pone degli interrogativi legittimi, oltre che inquietanti.

E’ scontato che chi intravede un profitto nella gestione dei detenuti non avrà alcun interesse ad occuparsi della loro riabilitazione.

La soluzione del sovraffollamento, piuttosto, non coincide con provvedimenti di clemenza come l’amnistia o l’indulto, ma risiede nella totale abrogazione di norme liberticide e indegne di uno Stato di Diritto.

Stupri, pestaggi, ricatti, sporcizia, disturbi psichiatrici, sono le conseguenze di una colpevole disattenzione verso i detenuti che la privatizzazione non risolverà, posto che la finalità sarà quella del profitto.

La privatizzazione delle carceri, nei Paesi ove è già stata adottata, non ha risolto nemmeno l’auspicato risparmio da parte dello Stato e anzi i costi di una criminalità non rieducata, sono addirittura aumentati.

Sarebbe stato più logico procedere con una estesa depenalizzazione riferita al maggior numero di reati minori per i quali la forza deterrente risiede più nel comminare una sanzione pecuniaria che non detentiva.

Con la privatizzazione della gestione delle carceri lo Stato si vuole spogliare della funzione principale della detenzione che è quella della rieducazione e del reinserimento sociale, a vantaggio del profitto.

Intanto nell’immaginario collettivo si è alimentata la predominanza della funzione punitiva delle carceri, propria delle società tribali, a tutto svantaggio della finalità rieducativa che, in Italia, ha rango costituzionale.

L’articolo 27 della Costituzione così recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

La mercificazione della detenzione va in senso diametralmente opposto al dettato costituzionale.

Obiettivo n.65

Abrogazione del segreto militare sul censimento e sulla mappatura delle basi militari straniere sul territorio italiano, rendendo disponibili i dati sul sito del Governo, previa revisione dei trattati internazionali già sottoscritti.

Qualcuno ci ha definito il 51esimo Stato e ogni trovata giornalistica ha il suo perché.

Sul nostro territorio si contano circa 120 basi militari statunitensi all'interno delle quali vige un criterio di extraterritorialità pari, se non superiore, a quello delle sedi diplomatiche.

Ciò significa che il nostro Presidente della Repubblica o un nostro Senatore della Repubblica o un nostro Procuratore della Repubblica non può accedervi senza essere preventivamente autorizzato, anche se la disponibilità di quei territori è stata concessa dall'Italia attraverso trattati internazionali.

I militari americani usano il nostro territorio come se fosse il loro, senza minimamente sentirsi ospiti, ma con la prepotenza di chi spadroneggia.

Nessuno ha dimenticato il Cermis.

I vertici militari statunitensi invocano extraterritorialità e difetto di giurisdizione ogni volta che le Autorità italiane osano entrare in contatto con queste debordanti realtà.

La compiacenza dei nostri Governi del resto è quasi stucchevole.

E' pacifico che all'interno di quelle aree si compiono attività che, secondo le nostre leggi, sono autentici crimini, come ad esempio la detenzione di armi "non convenzionali" (mine anti-uomo o armi chimiche e nucleari).

Non c'è ragione di mantenere in essere dei Trattati internazionali che violano sfacciatamente la nostra Costituzione e che pongono in pericolo di vita i nostri connazionali.

Rendere pubbliche le informazioni militari sulle basi militari statunitensi ci consentirà di difenderci dalla colonizzazione militare straniera che non ha altre finalità se non quella di approfittare della nostra posizione strategica per soddisfare delle deprecabili mire espansionistiche trasformando lo "Stivale" nella loro "naturale" base di lancio.

Noi di Democrazia Atea siamo pronti alla rottura dei Trattati forieri di morte.

Obiettivo n.66

Ritiro immediato dei militari italiani da tutti i paesi in guerra. affidamento del coordinamento e della gestione della protezione civile all’esercito con possibilità per lo stato italiano di utilizzare le forze militari in caso di disastri e calamità naturali. Abrogazione della figura del cappellano militare e di tutte le leggi che ne regolamentano lo stipendio, la pensione e i gradi militari.

Nel 2016 si sono contati 67 conflitti che hanno interessato 29 paesi africani, 16 paesi asiatici, 9 paesi europei, 7 paesi mediorientali, con il coinvolgimento di eserciti nazionali ma anche di gruppi di guerriglieri, terroristi, separatisti, con connotazione islamica o appartenenti ai cartelli della droga.

L'Italia è tra i maggiori produttori di armi al mondo e parte di quei conflitti costituiscono una parte consistente delle nostre esportazioni.

Anche le armi sono il nostro Made in Italy.

L’export di armi italiane nel mondo è passato da 2,9 miliardi nel 2014 a oltre 8,2 miliardi di euro nel 2015.

La legge 185 del 1990 vieta l'esportazione e il transito di armamenti verso i Paesi in stato di conflitto e verso i I Paesi responsabili di gravi violazioni dei diritti umani.

Questa legge negli ultimi anni è stata gravemente disattesa.

L'Italia ha inviato le proprie truppe speciali su territori in conflitto armato senza alcuna votazione parlamentare.

Le operazioni militari con le truppe italiane, sono in contrasto con l’art.11 della Costituzione e la qualifica di “operazione di pace” è solo un escamotage per aggirare un divieto che non solo contrasta con la Costituzione, ma con il sentimento di non belligeranza che connota la maggioranza degli italiani.

L'Italia è responsabile di guerre di aggressione, anche se diversamente denominate, che Democrazia Atea condanna senza riserve.

Il SIPRI, un istituto di ricerca con sede a Stoccolma, ha calcolato che l'Italia nel 2016 ha speso 64 milioni di euro al giorno per spese militari.

2,5 milioni di euro l’ora.

Queste cifre sono vergognose se si pensa che per sostenerle è stata ridotta la spesa per l'assistenza sanitaria, per l'assistenza sociale e per l'istruzione, se si pensa che il trasporto ferroviario dei pendolari è da quarto mondo e che l'edilizia scolastica è fatiscente.

Continuiamo a comprare cacciabombardieri e ci sono sale operatorie prive di defibrillatori, inauguriamo gigantesche portaerei mentre interi nuclei familiari sono privi di un reddito minimo di sopravvivenza.

L'esercito italiano, secondo il dettato costituzionale, potrà sicuramente continuare ad avere la funzione primaria della difesa, ma siccome è assai improbabile che si possano prefigurare per il nostro Stato scenari di guerra d'invasione da parte di altri Stati, questa funzione, di fatto, resterà pressoché teorica.

E sarà anche auspicabile evitare quegli scenari di occupazione militare delle città italiane cui talvolta abbiamo assistito, a testimonianza della incapacità della politica di governare pacificamente i territori amministrati.

L'esercito italiano addestrato alla difesa da attacchi militari, potrà utilmente essere utilizzato sul territorio italiano per intervenire, come talvolta è già lodevolmente accaduto, per disastri e calamità naturali, svolgendo compiti di coordinamento e gestione della Protezione Civile, assumendo una valenza dallo spessore umanitario ben più nobile.