Questo sito vuole riportare la mia personalissima esperienza sulla Biennale Arte di Venezia del 2024.
Ho cominciato col raccogliere le impressioni della mia prima visita dal 22 al 24 aprile. Naturalmente le prime impressioni possono essere ingannevoli, e verranno poi magari raffinate o modificate da visite successive - ma le prime impressioni hanno anche il pregio di una certa freschezza che cercherò di preservare.
Ho aggiunto le impressioni di una seconda breve visita, fatta il 10 maggio, che mi è servita per rivedere alcuni padiglioni a cui non avevo dedicato sufficiente tempo ed attenzione la prima volta.
Ho aggiunto le impressioni della terza visita dal 6 all'8 agosto. Questa visita l'ho dedica principalmente a completare la visione dell'Arsenale e del Padiglione Centrale ai Giardini.
Ho fatto la quarta visita dal 3 al 6 novembre.
Non sono né un collezionista, né un esperto di arte, solo un appassionato frequentatore di musei e mostre (ma, anche come tale, dilettante), quindi i miei commenti e le mie scelte sono del tutto personali, e vanno presi cum grano salis.
Le citazioni virgolettate sono riprese dai siti dei padiglioni, o dai cartelloni che introducono i padiglioni e gli altri interventi, e vanno quindi attribuite ai curatori, i cui nomi ho cercato di indicare ovunque. Alcuni di questi testi sono ottenuti mediante riconoscimento automatico, e potrebbero presentare qualche imperfezione. I restanti testi (tipo questo), le foto e i filmati sono tutti opera mia, e sono rilasciati in CC-BY-NC-SA.
Andrea Caranti
andrea.caranti@gmail.com
Il tema della Biennale Arte di quest'anno è
Foreigners Everywhere/Stranieri Ovunque.
Cito dall'introduzione del curatore Adriano Pedrosa:
"Il contesto in cui si colloca [la mostra] è un mondo pieno di crisi multiformi che riguardano il movimento e l’esistenza delle persone all’interno di Paesi, nazioni, territori e confini e che riflettono i rischi e le insidie celati all’interno della lingua, delle sue possibili traduzioni e della nazionalità, esprimendo differenze e disparità condizionate dall’identità, dalla cittadinanza, dalla razza, dal genere, dalla sessualità, dalla libertà e dalla ricchezza. In questo panorama, l’espressione Stranieri Ovunque ha più di un significato. Innanzitutto vuole intendere che ovunque si vada e ovunque ci si trovi si incontreranno sempre degli stranieri: sono/siamo dappertutto. In secondo luogo, che a prescindere dalla propria ubicazione, nel profondo si è sempre veramente stranieri."
Questo tema è declinato in molti dei padiglioni (non tutti), con un'attenzione a temi quali le migrazioni, il colonialismo, l'identità sessuale, le disparità economiche, ecc. Personalmente mi è sembrato che ci fosse frequentemente una certa discrasia fra le intenzioni dichiarate dall'artista, e l'opera in mostra - nelle opere mi è spesso risultato difficile leggere la trascrizione delle intenzioni - queste intenzioni e il risultato finale mi sono sembrate due oggetti distinti che non interagiscono.
Però ho cercato comunque di rappresentare i temi della mostra, citando in particolare i testi associati alle opere, lasciando che parlino da soli, in genere senza sovrapporre il mio eventuale modesto pensiero.
Un paio di osservazioni generali.
Mi è parso che nei padiglioni ci fosse molta musica, sfondi sonori tendenzialmente miranti a un coinvolgimento emotivo, ad esempio con l'uso di bassi profondi. Magari è una pratica consolidata, ma questa volta l'ho particolarmente notato.
Poi, ho visto veramente molto praticato il tema dell'acqua, statica o che scorre - magari dipenderà dal fatto che siamo a Venezia.
Ah, c'è anche molto colore, su toni sgargianti, vedi ad esempio la facciata del Padiglione Centrale che fa da sfondo al titolo del sito, e il Padiglione USA.
Indice
Fra i padiglioni meglio riusciti. L'artista Anna Jermolaewa (sito personale, pagina di Wikipedia), nata in Russia, è stata una rifugiata politica, ed ha vissuto quindi direttamente l'esperienza della migrazione.
Dalla pagina del padiglione:
"Jermolaewa traccia un arco che, partendo dalla sua esperienza personale di migrazione come rifugiata politica, approda ai significati della resistenza pacifica contro i regimi autoritari. In Rehearsal for Swan Lake, realizzata in collaborazione con la coreografa ucraina Oksana Serheieva, Jermolaewa fa riferimento a un ricordo legato all’adolescenza. In tempi di disordini politici, ad esempio la morte di un capo di Stato, la televisione sovietica sostituiva le trasmissioni previste dal palinsesto con Il lago dei cigni di Čajkovskij per giorni e giorni. Nella memoria culturale sovietica, il famoso balletto divenne il codice per un cambio di potere. Jermolaewa e Serheieva trasformano il balletto da strumento di censura e svago in una forma di protesta politica: qui, i ballerini fanno le prove per il cambio di regime in Russia."
Curatrice: Gabriele Spindler
Il padiglione si articola in cinque spazi. Nel primo vediamo una esposizione di vasi di fiori. Che significa? L'indispensable (credo) spiegazione chiarisce che ogni pianta rappresenta una "rivoluzione a colori", ad esempio la rivoluzione dei garofani nel 1974 in Portogallo.
È ricorrente nella Biennale che le opere necessitino di una spiegazione - ma non è che questo sia diverso da quanto accade nell'arte più antica, dove occorre conoscere l'iconografia dei santi, o il significato simbolico nei quadri degli animali che vi compaiono e, per l'appunto, delle piante.
Struggente il video nella stanza successiva, Anna Jermolaewa è stata essa stessa rifugiata, ed ha dormito su questa panchina alla Westbahnof di Vienna. Ora che è un'artista affermata riprova a dormirci, ma questo le è reso difficile dai braccioli installati nel frattempo proprio per prevenire l'uso della panchina come un letto.
Dopo l'esposizione delle cabine telefoniche del campo per rifugiati presso cui Anna Jermolaewa ha vissuto, c'è una esposizione delle lastre radiografiche che i russi incidevano a mo' di vinili per scambiarsi musica occidentale proibita
E poi una prova del Lago dei Cigni, col significato simbolico già citato più sopra.
Proprio accanto a quello dell'Austria, un altro eccellente padiglione. Il titolo, Exposition coloniale, riprende quello della mostra Exposition coloniale internationale che si tenne a Parigi nel 1931 con l'intento (cito Wikipedia) di "esibire le diverse culture e le immense risorse dei possedimenti coloniali francesi". Mostre simili arrivavano a presentare degli zoo umani (un concetto che oggi fa rabbrividire).
L'artista Aleksandar Denić e la curatrice Ksenija Samardžija rivoltano il concetto, e pongono come soggetto dell'esposizione coloniale l'Europa. Il padiglione è ricco di varie installazioni, che non sto a riportare tutte - quel che segue è una piccola selezione.
Cominciamo con qualcosa di leggero: un juke-box che presenta una vasta scelta di brani ispirati all'Europa. Nel brano che seleziono (K3: Euro Song, del Dubioza kolektiv, un gruppo hip-hop bosniaco) potete sentire citato Berlusconi! Il video include anche una carrellata sullo spazio circostante.
Qui potete vedere la scelta completa: ci sono i REM, Dave Gahan, la Nona di Beethoven diretta da von Karajan, ecc.
All'estremità destra del padiglione, troneggia una scritta EUROPA vista da dietro, a mo' di portale di ingresso...
[...] ma andando oltre, si vede che la scritta luminosa, apparentemente accogliente, non si può vedere se non da sotto, perché dietro di noi c'è una parete. Difficile non pensare a un'Europa che rimane attrattiva col miraggio del benessere per tutti, ma poi chiude le porte.
L'ironia della scritta West (Occidente) è che è quella di una marca di sigarette. Forse rappresenta l'Occidente ridotto a un modello consumistico e tossico?
All'interno del casottino, fuori dal quale sono appoggiati indumenti di operai edili, una branda a due piani. La branda in basso ha come materasso delle pile di volantini di un noto supermercato economico.
La branda di sopra è coperta con un materassino macchiato.
Il padiglione australiano, curato da Ellie Buttrose, ospita kith and kin dell'artista Archie Moore, e ha vinto il Leone d'Oro. Da qualche tempo l'Australia ha affrontato a viso aperto l'oscuro passato coloniale. In questo sobrio padiglione pallidamente illuminato l'artista ha impiegato mesi per riportare in gesso su pareti di lavagna 65 mila anni di genealogia delle First Nation - un'opera effimera, che rappresenta la "fragilità di questo desolato archivio" (dal Guardian). In mezzo alla sala, una piscina di acqua scura, a rappresentare tutti i nativi morti in prigionia, e sopra di essa una grande tavola, con gli atti ufficiali delle inchieste relative. Mi sembra che questo padiglione, così emotivamente coinvolgente, rappresenti al meglio lo spirito e il tema di di questa Biennale.
Negli anni ho sempre apprezzato l'offerta del padiglione giapponese. Quest'anno presenta un padiglione leggero, ironico, creativo e paradossale, slegato dal tema della Biennale - il titolo è COMPOSE, l'artista è Yuko Mohri, e il curatore è Sook-Kyung Lee.
Due i temi.
"Decomposition genera suoni e luci con l’inserzione di elettrodi in alcuni frutti, convertendone lo stato di umidità in impulsi elettrici. Le condizioni interne dei frutti mutano costantemente, modulando il tono del suono continuo e l’intensità della luce mentre iniziano a emanare l’afrore del decadimento, sciogliendosi e avvizzendo."
Moré Moré (Leaky) "[si ispira] a vari espedienti adottati nelle stazioni della metropolitana di Tokyo per fermare le perdite d’acqua, [creando] artificialmente delle perdite e poi cercherà di ripararle, utilizzando oggetti domestici comuni presenti in loco per costruire una scultura cinetica."
Beh, io ho visto più di una volta cose del genere (alla stazione AV di Bologna, alla stazione Quattro Venti di Roma, ...), ma in quei casi si tratta di espedienti mondani - qui c'è un gusto per l'assurdo veramente delizioso.
Questo tamburo viene suonato dai movimenti di un tubo flessibile attraverso cui scorre l'acqua
Luci dalla frutta
Un padiglione piuttosto coinvolgente, fra musica, immagini e colori.
"The title Thresholds emphasizes the present as a place of transition, of overwriting, and transmission. Yael Bartana [and Ersan Mondtag create] a possible future beyond gravitation. Ersan Mondtag bestows presence on the unwritten chapters in post-migrant and East German history. [...]
With Light to the Nations, Yael Bartana approaches a threshold in space and time the current reality of Planet Earth on the verge of ecological and political devastation. In an act of salvation, a spaceship takes humans to unknown galaxies. With her works, including Farewell, a video work an display in the pavilion's apse, Bartana superimposes the mystic teachings of Kabbalah on speculative technologies."
Curatore: Çağla Ilk
L'inizio di the space in which to place me appare molto PC:
"Jeffrey Gibson [...] is an interdisciplinary artist whose hybrid visual language draws from American, Indigenous, and Queer histories with references to popular subcultures, literature, and global artistic traditions. [...]
A member of the Mississippi Band of Choctaw Indians and of Cherokee descent, Gibson reveals how taste, notions of authenticity, and persistent stereotypes of Indigenous and Queer people are used to delegitimize cultural expressions that exist outside the mainstream. [...] Expanding Indigenous traditions of painting and weaving, Gibson's use of pattern and abstract geometries confronts the chromophobia of contemporary art."
E in effetti il padiglione non è piaciuto a tutti. Ma a me questa idea di sfidare la cromofobia dell'arte contemporaneo non è dispiaciuta.
Per uno come me che perde interesse per un video dopo pochi istanti, il video dell'ultima stanza (che vi riporto per intero) è risultato attraente e ipnotico,
Curatrici: Kathleen Ash-Milby, Abigail Winograd
Magari gli uccellotti di perline colorate sono già visti, ma li ho comunque visti con piacere.
"Petticoat Government è uno scenario multidisciplinare che riunisce sette gigantə folcloristicə esistentə presə in prestito a varie comunità dei Paesi Baschi spagnoli, del Nord della Francia e del Belgio. Insieme alla loro compagna di viaggio, i colossi hanno condiviso un festoso pic-nic sulle acque gelate del lago di Resia nelle Alpi, hanno ballato tuttə insieme nella stamperia della Gazzetta di Padova e hanno attraversato in barca la laguna di Venezia. Con il loro arrivo al Padiglione belga si apre un nuovo capitolo che durerà sette mesi e sette giorni. Le prossime tappe di questo viaggio saranno Dunkerque e Charleroi."
Espositori: Denicolai & Provoost, Antoinette Jattiot, Nord, Speculoos
Nel padiglione della Russia, che quest'anno ospita la Bolivia, la curatrice Esperanza Guevara presenta il progetto Looking to the futurepast [sic], we are treading forward (Qhip Nayra Untasis Sarnaqapxañani):
"Qhip Nayra Untasis Sarnaqapxañani is a principle of living well of the Aymara people, who out of respect for their ancestral territory reject borders and live between three countries. The territorial unity is also reflected in its concept of time: the past and the future are not dichotomous, but rather advance intertwined, continually meeting and giving meaning to the present.
The past is not to be considered outdated and frozen in time, we must keep our eyes fixed on it as we move towards the future. It offers many tools, including wisdom and the ability to strive, to create a more fair and sustainable future. By carefully exploring its depths, we can cultivate the foundations of the world we want to build.
Bolivia's presence in the Biennale is realized because there are people and institutions who have believed in this project, therefore I consider it important to thank those who made all this possible.
[...]
Thanks to the Ministry of Cultures, Decolonization and Depatriarchalization of Bolivia, which reminds me every day of my mission: to protect all cultures; to guarantee them equal dignity and the right to exist. To fight any attempt at hierarchization. And to pursue our goal of a more equal and just society.
Thank you to all the artists, no matter which pavilion their works are in or which nation they represent, their works all speak the same language, and it is that language, that voice that we must be able to hear, no other. Art and Culture show us the way to stay human, regardless of what our differences are. We are all foreigners somewhere and therefore all the same."
Un progetto informativo ed attraente al tempo stesso.
Nella prima sala viene documentata la tradizionale attività andina della filatura. Traduco con Google Translate:
"Imparare a filare è molto diverso dall’esperienza delle comuni aule con lavagna e schermo, sono logiche che non si adattano all’ambiente comunitario. Mentre ti insegnano le nonne, osserva l'arcolaio mentre gira, osserva come le dita sentono, ascolta il tuo corpo mentre riceve, ascolta l'arcolaio mentre gira e canta tra le tue dita. Lascia che le tue dita si nutrano delle tessiture per poter identificare le cose, ascolta come il sangue scorre attraverso il tuo corpo mentre giri, come vede i tuoi piedi mentre cammini mentre fili."
Nella seconda, ampia sala una varietà di opere di diversi materiali.
Olga Rivero Diez,
La donna del fango
Yanaki Herrera, Gravidanza
[consiglio di zoomare]
María Eugenia Cruz Sanchez,
Vallegrande in stocchi di mais
Alexandra Bravo Oruro, Nessuno al mondo è illegale
Alexandra Bravo Oruro, Donne senza documenti anelano al proprio ambiente naturale e soffrono di mal di paese
Nelle ultime due sale l'artista Alexandra Bravo, espone le sue opere, basate sull'arte tradizionale dell'uso delle piume.
Quando ci sono stato io l'artista era presente di persona, e ci illustrava la realizzazione della sua arte plumaria , raccontandoci anche (in uno spagnolo comprensibilissimo) la sua storia di profuga prima dalla Bolivia al Cile, poi dal Cile (dopo la caduta del governo Allende) in Svizzera.
All'interno dell'architettura brutalista di Carlo Scarpa, Esperienza partecipativa di Juvenal Ravelo è una mostra semplice ma attraente, bella colorata.
Curatore: Edgar Ernesto Gonzalez
Quello che era il padiglione della Cecoslovacchia ospita quest'anno all'esterno una mostra della Slovacchia, e all'interno la mostra The heart of a giraffe in captivity is twelve kilos lighter della Repubblica Ceca, che ha come sottotitolo "Eva Koťátková in collaboration with Himali Singh Soin and David Soin Tappeser (Hylozoic/Desires), Gesturing Towards Decolonial Futures, groups of children and older people".
Vale la pena citare ampiamente dal testo della curatrice Hana Janečková, che parla della "violenza della cattività", prendendo la giraffa rimossa dal suo ambiente naturale per essere collocata in uno zoo come una ampia metafora.
"Lenka the giraffe was captured in Kenya in 1954 and transported to Prague Zoo to become the very first Czechoslovak giraffe. She survived only two years in captivity, after which her body was donated to the National Museum in Prague, in the museum's taxidermy workshops, her insides were dissolved, leaving only her skin, while her remains were reportedly released into the public sewer system.
With The heart of a giraffe in captivity is twelve kilos lighter, Eva Koťátková brings together multiple collaborative recollections of Lenka's life to not only explore the violence of captivity, but also possibilities for healing and recovery. [...]
The exhibition aims to question the hierarchies and extractive practices embedded in the way we encounter, view and learn about animals. [...] The low nocturnal hum of a sleeping giraffe is interspersed with subtle renditions of the national anthems of all the countries Lenka visited on her journey.
Lenka makes herself present in the pavilion to testify to another stage of her life: her endless retirement as an object of science in the museum's storage facility. For this exhibition, the giraffe's aged taxidermy was scanned in situ and its parts were cast, focusing on the damage and cracks. Transformed by the artist into tactile objects, the texture of the cracks is imprinted in the sculpture and repeats on the pavilion floor. The performance continues this excavation; activated by the imaginative invitations of a child narrator, notions of resuscitation, care and burial, are recalled and shared."
In mezzo al padiglione è stato scavato un buco nel pavimento, attraverso il quale si vedono i tubi che passano sotto - mi è sembrato un rimando alle arterie e vene del collo della giraffa.
Il collo della giraffa
Vene e arterie dell'interno del collo...
,,, sono riprese nel buco del pavimento
Il padiglione dei Paesi Bassi ospita il lavoro The international celebration of blasphemy and the sacred del collettivo Cercle d'Art des Travailleurs de Plantation Congolaise (CATPC), in collaborazione con l'artista Renzo Martens e il curatore Hicham Khalidi.
Tutto il padiglione gronda quello che sembra sangue, ma è arancione, il colore dei Paesi Bassi. Le immagini presentate sono molto forti.
"Come lavoratori delle piantagioni, l'opportunità di esporre in un cubo bianco nell'Occidente è un privilegio malsano. I nostri antenati hanno sofferto, e noi soffriamo ancora, come persone schiavizzate per fornire beni al Paesi ricchi. Sentiamo di doverci assumere la responsabilità dei privilegi che questa opportunità ci offre, mentre altri, anche all'interno della nostra stessa comunità, lottano per sopravvivere. Da qui la necessità non solo di presentare uno spettacolo bellissimo al nostro pubblico, ma anche di garantire il massimo impatto positivo sulle piantagioni esaurite, come quella in cui viviamo a Lusanga [...] questo villaggio nel profondo della Repubblica Democratica del Congo era un tempo la capitale di un immenso impero di olio di palma caro ai Lever Brothers (oggi conosciuta come Unilever). Il loro sfruttamento della natura e le riduzione in schiavitù di intere popolazioni a Lusanga e altrove hanno permesso di accumulare grandi ricchezze e di finanziare musei di cubi bianchi in tutta Europa, L'opportunità di affiancare un cubo bianco in una piantagione a un cubo bianco al vertice del mondo dell'arte permette di comprendere reciprocamente questi due mondi e le loro disuguaglianze. Le questioni della cura, della riparazione, della guarigione e della restituzione diventano ineludibili, poiché nessun cubo blanco può dirsi decolonizzato finché queste piantagioni continueranno a esistere
L'obiettivo di questa mostra è quella di realizzare uno scenario in cui il bene contamina il male e i problemi diventano soluzioni. Uno scenario in cui il sudore e i frutti del lavoro nelle piantagioni (cacao e olio di palma) si trasformano da macchie impure in strumenti di riparazione, mentre noi, CATPC, esprimiamo le nostre idee per mezzo di materiali che produciamo. Possiamo continuare a riacquistare le nostre terre confiscate per rigenerare la Foresta Sacra e dare vita a un coesistenza pacifica tra uomo e natura."
Come è noto, l'artista Ruth Patir e le curatrici Mira Lapidot, Tamar Margalit hano deciso di tenere chiuso il padiglione fino al cessate il fuoco e alle liberazione degli ostaggi. Comunque il padiglione, pur chiuso e piantonato dall'esercito, è in funzione, e dalle vetrate si può vedere un video (parte della installazione (M)otherland) di cui vi mostro uno spezzone.
Qui c'è tanto di quel materiale che c'è da perdersi - la mia selezione è provvisoria e lacunosa. Trovate altro materiale sul Padiglione più sotto, e poi più sotto ancora.
La decorazione (anche qui multicolore) della facciata, che vedete nel titolo di questo sito, è dovuta al Movimento dos Artistas Huni KUin (MAHKU).
"Nel grande murale realizzato per la facciata del Padiglione Centrale, MAHKU ha dipinto la storia di kapewë pukeni (il ponte-alligatore). Il mito descrive il passaggio tra il continente asiatico e quello americano attraverso lo stretto di Bering. Per attraversarlo, gli uomini trovarono un alligatore che si offrì di portarli sulla schiena in cambio di cibo. Tuttavia, man mano che attraversavano, gli animali diventavano sempre più scarsi e gli uomini alla fine ricorsero alla caccia di un piccolo alligatore, tradendo la fiducia del grande alligatore, che si inabissò nel mare. Da qui ebbe origine la separazione tra popoli e luoghi diversi."
Una installazione che segue in pieno il tema della Biennale, e lo fa in maniera attraente, che invita a soffermarsi.
"L'installazione concettuale è basata su materiali di archivio e esamina le persistenti strutture coloniali attraverso la lente dell'esperienza di Porto Rico. L'isola caraibica - a partire dall'arrivo di Cristoforo Colombo nel 1493, che ha portato alla dominazione spagnola ha vissuto oltre cinquecento anni di dominio coloniale. Dopo la guerra ispano-americana del 1898, Porto Rico è diventato un territorio non incorporato degli Stati Uniti e ha dovuto affrontare diversi effetti politici ed economici negativi, tra cui l'espropriazione capitalistica, la gerarchia razziale e un'idea di cittadinanza senza diritto di voto alle elezioni presidenziali statunitensi. Il titolo dell'installazione fa ironicamente riferimento alla complicità dei musei e alla marca di una bibita statunitense molto popolare a Porto Rico, evidenziando come il potere e la presenza degli Stati Uniti siano fondati sullo sfruttamento coloniale. The Museum of the Old Colony comprende una miriade di oggetti, fotografie, giornali, film e riviste di varia provenienza che raccontano molteplici storie legate alla dominazione spagnola e statunitense sulle comunità indigene e native, nonché sulle persone di origine africana, producendo un arazzo intricato delle travagliate vicende di Porto Rico."
"TYPICAL NATIVE FARMERS. The farming class is about on a par with the poor darkies down South, and varies much even in race and color, ranging from Spanish white trash to full-blooded Ethiopians."
"A COLORED BELLE OF PUERTO RICO. The mixture of African with Spanish blood is not found in all of the people of this island. The higher classes of white people hold themselves as strictly in their own society as in any other country. This attractive colored girl is of the higher type of that race."
"An Outing. The above shows the American, enjoying himself in the tropics. After walking two or three miles in the hot sun, nothing can so refresh one as to drink the water from one or two cocoanuts. The native has just been up the tree and cut down as many as the "Americanos" wanted. The cocoanuts are also sold on the streets of the Capital every morning, and are a very pleasant and healthy drink."
Laura Cosendey scrive: "lone Saldanha ha coraggiosamente esplorato nuovi supporti pittoriali con un uso energico e caratteristico del colore. I suoi Bambus (anni Sessanta) rappresentano una modalità radicale di forzare confini fra linguaggi artistic dando corpo e anima alla pittura: Nel suo appropriarsi di un elemento naturale, la stessa organicità del supporto rivendica le sue proprietà scultoree. [...] Questi lavori ci invitano a sperimentare il colore mentre ci giriamo attorno."
Sullo sfondo vedete opere astratte che documento più in dettaglio più sotto.
Adriano Pedrosa scrive:
"This section of the Nucleo Storico gathers over 100 portraits and representations of the human figure by artists who worked in the twentieth century in Africa, Asia, the Middle East and Latin America.
Modernism travelled throughout the world, and many artists in the Global South encountered European modernism through travel, study, or books. They appropriated and cannibalised what they saw to produce something singular and of their own, often blending indigenous, native and personal images and narratives. [...]
A crisis of representation of the figure defined much of twentieth century art, and assumes more radical features in the Global South, as it often reflects political dimensions. Most works depict nonwhite characters which in Venice, at the heart of the Biennale Arte, becomes an emblematic feature of the International Art Exhibition itself, posing the questions: who could be represented, by whom, and how?"
Ahmed Morsi, Portrait of the artist with a broken mirror
Ismael Nery, Figura decomposta
Camilo Mori, La viajera
Magari non piacerà a tutti, ma io questo progetto di Massimo Bartolini, con la curatela di Luca Cerizza, l'ho trovato attraente. In una sala, al centro di un labirinto di tubi (un accorgimento già visto) un cuore pulsante ipnotico di acqua e argilla (primo video). In sottofondo suonano due organetti meccanici (secondo video).
Nella seconda sala, due grandi pareti colorate fiancheggiano una lunga struttura cava.
Anche qui, per apprezzare questo bell'intervento, la spiegazione è quasi indispensabile. Adriano Pedrosa scrive:
"Kiluanji Kia Henda nasce a Luanda nel 1979, quattro anni dopo l'indipendenza dell'Angola dal Portogallo e l'inizio della guerra civile. Kia Henda presenta tre opere che, benché realizzate nell'arco di sette anni, sono tra loro strettamente collegate.
The Geometric Ballad of Fear (2015) comprende nove fotografie che documentano le ringhiere metalliche protettive dipinte di bianco che si trovano negli edifici e nelle case dell'Angola e che sono una preminente caratteristica nelle grandi città del Sud globale, contraddistinte da notevoli disparità tra le popolazioni.
Anche The Geometric Ballad of Fear (Sardegna) (2019) consiste in nove fotografie in bianco e nero, con le medesime griglie, questa volta nere, sovrapposte come elemento grafico a vedute del paesaggio sardo affacciato sul Mediterraneo.
A Espiral do Medo (2022) utilizza le ringhiere metalliche prese dagli edifici e dalle case di Luanda che nel 2015 hanno attirato l'interesse dell'artista. Seppure costituita da ringhiere metalliche che un tempo offrivano una solida protezione a chi si trovava all'interno, la scultura di grandi dimensioni appare ora permeabile e alquanto instabile - come una sorta di rovina - e funge da mero emblema della paura"
The Geometric Ballad of Fear
The Geometric Ballad of Fear (Sardegna)
A Espiral do Medo (La spirale della paura)
Semplice e veramente molto piacevole. Teresa Kittler scrive:
"Greta Schödl è una poetessa visiva [...] La recente serie Scritture,[...] è caratteristica del pluriennale approccio al lavoro di Schödl. La scrittura ricopre interamente le facce piane o curve degli oggetti, dando forma alle sue parole. Su queste pietre, scelte per la loro qualità tattile, Schödl ripete, scritte a mano, le parole "marmo", "granito" o "quarzite" distinguendo così la loro composizione materiale. Isola poi una lettera della parola ("o" o "q" in questi casi), sulla quale viene apposta la foglia d'oro. I riflessi dorati appaiono come linee delicate che percorrono la pietra e creano un ritmo sulla superficie, trasformando la scrittura in un disegno astratto. Queste linee sono descritte dall'artista come "vibrazioni" che registrano le variazioni della scrittura e l'esperienza o il processo di creazione dell'artista."
Un esempio di arte molto "politica", sul tema della Biennale. A voi ogni valutazione,
Tracy Fenix scrive: "Emmi Whitehorse, artista indigena diné, lavora principalmente su paesaggi poetici, astratti e di grandi dimensioni, degli Stati Uniti sud-occidentali. I suoi dipinti innescano la bellezza e la caotica tensione della rottura. L'artista mette in evidenza le ecologie native utilizzando il concetto tradizionale diné/navajo di Hózhó, che esprime l'interconnessione tra terra e persone per raggiungere l'armonia e la bellezza. Le sue opere su carta e su tela rappresentano le temporalità spirituali dei Diné, che vedono nel paesaggio una sinfonia nel tempo. È una partitura sorprendente, composta da armonie naturali e dalle innaturali dissonanze provocate dai rapaci scavi postcoloniali sulla terra indigena. Le tecniche di marcatura sensoriale del paesaggio di Whitehorse, presentate attraverso composizioni disorientanti, mettono in luce strategie alternative per preservare l'indigenità e resistere alla violenza e all'estrazione coloniali."
Aziza Kadyri, Don't miss the cue
"Come si mette in scena il senso d’appartenenza? Come ci si cala nei panni di uno “straniero”? Aziza Kadyri, artista della diaspora uzbeka, esplora le esperienze delle donne dell’Asia centrale e il modo in cui reimmaginano le proprie identità durante il processo di migrazione. In una quinta teatrale decostruita, i costumi diventano sculture insieme al lavoro audiovisivo co-creato con il collettivo Qizlar di Tashkent, radicato nelle storie di donne, che esplora le memorie fisiche, le pratiche collettive e la relazione tra il corpo e il suo ambiente. L’installazione mette in relazione il Suzani, il ricamo uzbeko, con un generatore digitale di immagini, portando così alla luce i pregiudizi presenti nell’intelligenza artificiale e il suo impatto globale sulle memorie collettive. All’interno dell’opera, lo spettatore è invitato a interpretare sia l’osservatore che l’osservato, spostandosi tra gli stati di esposizione: cambiamenti percepibili solo da chi si trova al di fuori di questo spazio di performance accidentale."
Curatore: Center for Contemporary Art Tashkent
La pittura tradizionale australiana è sempre affascinante - in genere è coloratissima, ma qui il bianco e nero è molto attraente, e le minuscole intrusioni di colore risaltano piacevolmente. Jessica Clark scrive:
"Naminapu Maymuru-White è una Grande Anziana yolņu la cui pratica artistica contemporanea spazia dalla pittura all'intaglio, dalla stampa alla tessitura e al batik. I suoi iconici disegni miny'tji riflettono il concetto yolņu di Milniyawuy, che rappresenta contemporaneamente il fiume Milniyawuy che serpeggia attraverso il paese dei Mangalili e la Via Lattea celeste. I suoi dipinti su corteccia ospitano tentacolari fiumi di stelle che si torcono e ruotano sulla superficie per trasmettere una visione immersiva della costellazione nel cielo notturno. Maymuru-White raffigura Milniyawuy dall'alto e dal basso, dal cielo e dalla terra, per riflettere la convergenza dei regni fisico e ancestrale. Ha spiegato che ogni stella rappresenta le anime mangalili passate, presenti e future. Il cielo pieno di stelle e i paesaggi fluviali dell'artista - delicatamente realizzati con il sacro gapan (ocra bianca), un marwat (pennello tradizionale fatto con capelli umani) e uno stecchino di legno - sottolineano una comprensione multidimensionale del paese; l'inestricabile legame tra il mondo ancestrale e quello vissuto che attraversa le generazioni, il tempo, lo spazio e il luogo. I dipinti di Maymuru- White pulsano di energia e conferiscono strati di forma e significato al concetto ciclico di vita e morte."
Un'esposizione forte e inquietante.
Iva Lulashi, Love as a glass of water
"The "theory of the glass of water" dates back to the pre-revolutionary Russian period and is linked to the radical thinker and feminist Alexandra Kollontai [...] It is a theory based on the idea of a sexual and sentimental revolution, where impulses are seen as a simple human necessity that must be satisfied with the lightness and carefreeness that a glass of water is usually drunk with.
Love, desire - especially of feminine nature - impulse, and sexuality are at the core of Iva Lulashi's work: universal subjects able to transcend differences and overcome boundaries. The images in her paintings are mostly taken from erotic film and video stills which serve as the painting's initial detonator. They are mainly populated by female bodies and suggest scenarios where the erotic act is potentially involved as if they were a "right before" or "right after" - without explicitly showing it. They are an ode to feminine desire, encompassing strength, fear, hope, a desire for freedom, dark sides, and vitality: inseparable themes from a not-yet-past past, laden with global political issues, which one must deal with every day and every night.
[...] The Pavilion becomes an artwork itself, a gigantic sculpture turned into a display for the paintings, between intimacy, voyeurism and sensuality.
Iva Lulashi embodies the theme Stranieri Ovunque - Foreigners Everywhere. Born in Albania in 1988, at the age of ten she moved to Italy with her family and currently lives in Milan. Her style blends the Albanian pictorial tradition with the Italian and Venetian one. Indeed, she trained as a painter at the Accademy of Fine Art in Venice, a cosmopolitan city par excellence."
Curatore: Antonio Grulli
Più pallida dell'erba
Il silenzio di latte
Un'altra bella installazione, molto evocativa.
Gülsün Karamustafa, Vuoto e rotto - uno stato del mondo
"Mi trovo dinanzi ad un mondo che è stato svuotato a causa delle guerre, dei terremoti, delle migrazioni, della minaccia nucleare e dei problemi naturali e ambientali che costantemente affliggono e minacciano l'umanità.
Mi sforzo di evocare fisicamente ed emotivamente il fenomeno del vuoto, della vacuită, della frattura prodotta dalla devastazione diventata comune, dal dolore inimmaginabile che continua a colpire ad intervalli incessanti, dai valori vuoti, dalle lotte di identità e dalle fragili relazioni umane.
D'altro canto, sono attratta dallo scenario di questo edificio, un tempo emblema della potenza militare di Venezia su terra e mare, dal modo in cui quasi avvolge la questione in oggetto, e, senza dubbio, sono spinta a far ricongiungere le due antiche città, Venezia ed Istanbul, fra le quali ho continuato a spostarmi avanti e indietro durante tutto il processo creativo.
Le colonne incarnazioni di "forza" che, nel contesto dell'architettura rappresentano stabilità, potenza, resilienza e vittoria, la stessa forza che, nel corso dei secoli, ha mantenuto il mondo in allerta per mezzo di guerre e saccheggi sono sostituite da forme vuote, le quali possono sorreggersi soltanto con l'ausilio d'impalcature di supporto.
I vagoni che scorrono su rotaie lungo binari senza inizio né fine, sono carichi di vetri rotti.
I lampadari realizzati con vetro veneziano frantumato, alludono alle tre fedi abramitiche che nel corso della storia non hanno mai cessato di provocare conflitti, sono visibili solo attraverso una nube carica di dolore.
Il suono emanato dalle immagini in bianco e nero che scorrono sullo schermo seguono lo spettatore ad ogni passo.
La luce lotta per raggiungere ed illuminate qualsiasi elemento.
Il mondo, un campo di battaglia su cui ci si sposta incessantemente."
Commissario: Istanbul Foundation for Culture and Arts (İKSV)
Le colonne sono sostituite da forme vuote, le quali possono sorreggersi soltanto con l'ausilio d'impalcature di supporto.
I lampadari realizzati con vetro veneziano frantumato
I vagoni che scorrono su rotaie lungo binari senza inizio né fine, sono carichi di vetri rotti
"Shifting Sands: A Battle Song tunes into the energy of Saudi women during a period of profound cultural transformation. In her installation, Manal AlDowayan (born 1973, Dhahran) brings together the sonic and geological features of the desert with the voices of women, in a collective expression that defies misconceptions about their lives.
Large-scale petal-like sculptures take their forms from the desert rose, a crystal commonly found in the desert sands near the artist's hometown of Dhahran. The surface of these sculptures is silkscreened with texts about Saudi women from local and international media. A cacophony of prejudiced opinions, these words and archives have distorted self-representation and limited women's voices, hemming them into the straitjacket of outsider perspectives.
Through participatory workshops held in three major cities across Saudi Arabia Al Khobar, Jeddah, and Riyadh, AlDowayan has offered women and girls a platform to assert their own voices, both individually and collectively. Their self-expression is channeled through the distinctive "singing sands" of the Rub' al-Khali (Empty Quarter) a vast desert where the towering dunes hum and drone as they shift. AlDowayan has recorded the deep vibrations of the earth to enact the shift at the center of the work. Following the structure of battle ceremonies traditionally performed by men, the installation is shaped around a central motivating element. Here, it is the voices of Saudi women boldly proclaiming themselves, through song, speech, and drawings."
Describing her vision for this installation, AlDowayan said: "I hope this artwork will empower women to look within themselves and to lean on their community of women to find their voice and their space within this new chapter in history, much of which is still unwritten.""
Curatrici: Jessica Cerasi, Maya El Khalil
Il padiglione From Caspian to pink planet: I am here, che si trova proprio di fronte all'ingresso dell'Arsenale in Campo della Tana, è curato da Luca Beatrice e Amina Melikova.
Irina Eldarova, Girls Prefer Oilmen
"La vita di Irina Eldarova dimostra chiaramente la sua stessa affermazione che le donne in primis sono straniere: si sposano, lasciano la casa dei genitori, a volte persino il proprio paese. Mescolando la propria storia all'immaginario cinematografico americano, la şerie di dipinti Girls Prefer Oilmen racconta l'amore immaginario tra due eroi mitizzati dai mass media negli anni Sessanta e Settanta; un lavoratore del giacimenti petroliferi del Mar Caspio e la diva di Hollywood Marilyn Monroe. Nella cornice di una quotidianita industriale si verifica l'incontro improbabile tra l'effimero femminile e la brutalità del duro lavoro, un acuto fotoromanzo per quadri che coglie diversi stereotipi della narrazione popolare. Audace nella sua concezione e realizzazione, la combinazione dei due miti - i luminosi ideali del comunismo e il sogno americano - concorre alla creazione di un'atmosfera irreale, come quella che vive chi si ritrova in un ambiente sconosciuto, in cui solo la gentilezza e l'attenzione possono trasmettere la forza di diventare se stessi in un posto nuovo, che un giorno diverrà casa."
Rashad Alakbarov, I Am Here
"L'installazione site-specific I Am Here si presenta come un gruppo di pareti dalla forma labirintica; ma se si osserva l'opera da una diversa prospettiva, attraverso uno specchio posto in alto nella parete di fronte, si puo leggere distintamente il titolo, confermando in Alakbarov un debito culturale nei confronti delle teorie della percezione che furono alla base, già negli anni Settanta, dell'arte cinetica. Ogni lettera della frase "I Am Here/lo sono qui", realizzata con frammenti di tappeti tradizionali della cultura azera, afferma in modo deciso la propria esistenza, il qui e ora, l'hic et nunc. Il suo lavoro richiama elementi architettonici come gli specchi e i muri quali metafore dell'individuo, ponendo l'accento sul legame tra il singolo e i luoghi che ha abitato."
Venerdì 10 maggio 2024 sono andato a prendere un collega all'aeroporto di Venezia, così ne ho approfittato per rivedere alcuni padiglioni che avevo trascurato la prima volta.
Questa volta sono riuscito a vedere il padiglione-dentro-il-padiglione in cui Ersan Mondtag rende omaggio al nonno, immigrato morto di asbestosi.
Questo spazio su più piani è, come vedrete dal filmato, ricoperto di povere. Mi è parsa una riflessione sulle polveri che hanno rovinato i polmoni del nonno, e sulla polvere dell'oblio che il tempo posa sulle storie.
"At the center of Ersan Mondtag's Monument eines unbekannten Menschen (Monument of an Unknown Man) lies the question of collective memory.
His point of reference is the story of his grandfather Hasan Aygün who came from Central Anatolia to West Berlin in the 1960s, built up a new life by working in the factories of the Eternit asbestos company and died as a result of this work.
On the threshold of a post-industrial landscape, Mondtag poses questions about post-heroic historiography, representation, and storytelling.""
Giochi di luce nel padiglione
Lettera di referenze di Eternit per Hasan Aygün - traduzione sotto
Lettera di referenze
Il signor Hasan Aygün, nato il 1 aprile 1940, ha lavorato nella nostra azienda dal 17 gennaio 1969 al 31 dicembre 1996
Il signor Aygün è stato assunto come addetto alla produzione per la produzione di tubi, dove è stato impiegato in modo flessibile in vari luoghi di lavoro, con particolare attenzione all'ispezione delle estremità dei tubi. Le sue responsabilità includevano anche la registrazione dei dati sulla qualità. Nel 1975 il signor Aygün fu assunto presso la fabbrica di pannelli e ricevette una formazione come operatore di macchine. La formazione è stata effettuata in tutte le postazioni di lavoro su una macchina per lastre. Dopo aver acquisito le conoscenze necessarie, è stato assunto come operatore di macchina, dove era responsabile del rispetto delle specifiche di quantità e qualità, nonché dell'impostazione e del controllo dei dati di produzione e della loro registrazione. Era inclusa anche la manutenzione della macchina e quelle minori
I lavori di riparazione fanno parte dei suoi compiti. Nel corso dei molti anni trascorsi presso l'azienda, il signor Aygün ha acquisito vaste conoscenze e competenze che lo hanno reso universalmente applicabile.
Ha sempre svolto i compiti affidatigli con la massima cura, diligenza e affidabilità con nostra completa soddisfazione. Particolarmente degni di nota sono il suo impegno e il suo senso di responsabilità. Il suo comportamento nei confronti dei superiori e dei colleghi è stato sempre impeccabile.
Il rapporto di lavoro ha dovuto essere interrotto a causa di limitazioni della produzione.
Auguriamo al signor Aygün tutto il meglio per la sua vita futura.
12355 Berlino, 27 febbraio 1997
ETERNIT AKTIENGESELLSCHAFT Edilizia Divisione Est
Mentre la parte interna, di cui segue le descrizione, continua a lasciarmi perplesso, i filmati, anche qui acquatici e ipnotici, stavolta mi hanno attratto.
"La vista del matoutou falaise [una tarantola della Martinica] è un dono quando appare nelle fitte foreste, sulla corteccia degli alberi della pioggia o sulle rocce delle coste della Martinica. Richiede un legame profondo con l’ambiente, un occhio che spazia sui contorni e scivola sulle trame. Si tratta di apparizioni e sparizioni, di ciò che è dato, protetto e anche non visto... Questo modo di vedere è senza dubbio ciò che Julien Creuzet cerca di offrire attraverso l’esperienza del proprio lavoro. Descrive l’immersione in una poesia di forme e suoni, volumi e linee in movimento, incontri colorati che formano nuovi linguaggi: un’esperienza da vivere fino in fondo. Questa tarantola, endemica della Martinica, potrebbe senz’altro essere il simbolo di un modo di esistere nell’arte che la storia non ha ancora scritto. Nutre e protegge, nell’insegnare una comprensione sensibile e poetica del mondo offre uno sguardo più morbido con cui avvicinarsi alle molteplici ecologie della vita. Le forme di Creuzet nascono da uno spazio di emancipazione, che deve essere intimamente sentito per vedere davvero. È un momento di apprendimento e disapprendimento come riconciliazione con i nostri sensi, nonché uno spazio in cui essere non tradotti e liberi."
Curatrici: Céline Kopp, Cindy Sissokho
“Listening All Night To The Rain [by John Akomfrah] alludes to the performative power that the sonic will hold in the Pavilion. The final ensemble of installations – iterations of acoustemology – detours back to questions of memory and of memorial but from a different vantage point, questioning the architectonics of the present and the spectres of the past, with the idea of listening as activism in mind. I sense that one can know the world – that you can find a name, an identity and a sense of belonging – via the sonic.”
Padiglione vasto e complesso, suddiviso in diversi Canti, principalmente basato su video. Nonostante la mia scarsa propensione per il genere, l'ho apprezzato - i video sono di straordinaria fattura, con il giusto equilibrio tra l'aspetto estetico e la storia soggiacente, che in questo caso è quella del colonialismo. Anche qui molto scorrere d'acqua che, se mi passate la battuta, rende l'esperienza molto immersiva.
Uno dei primi ricordi di politica internazionale che ho riguarda l'assassinio di Patrice Lumumba. Avevo solo nove anni, ma le notizie mi colpirono fortemente, e rivedere nel padiglione il filmato di Lumumba, sbeffeggiato dai suoi torturatori, che sorride tristemente all'obbiettivo, mi ha colpito molto.
Curatrice: Tarini Malik
Rivedendolo, mi è parso un bellissimo progetto, minimalista all'aspetto, ma delicato e poetico. L'artista Koo Jeong A ha creato il progetto Odorama Cities per descrivere come "profumi e odori contribuiscano [alle] memorie [del suo paese]".
"[Una] open call ha generato più di 600 dichiarazioni scritte su profumi e odori coreani. Alcune memorie sono molto personali e descrittive, altre sono ridotte a una parola o una frase. I profumieri, armati di queste storie e parole chiave, hanno assunto il compito di interpretarle incorporandole nella creazione di 16 fragranze per il padiglione e un singolo profumo commerciale. Tutte le memorie legate agli odori possono essere lette online sul sito: korean-pavilion.or.kr."
"Koo ha selezionato storie che presentano le seguenti parole chiave per trasformarle in esperienze olfattive al Padiglione Coreano: Profumo della Città, Aria Notturna, Profumo delle Persone, Odore di Seoul, Odore Salato, Profumo della Magnolia di Siebold, Odore di Sole, Nebbia, Odore di Albero, Jangdokdae, Odore di Riso, Odore di Legna da Ardere, Casa dei Nonni, Mercato del Pesce, Bagni Pubblici, Vecchia Elettronica e, ultimo ma non meno importante, Odorama Cities. Il profumo non ha confini."
Curatori: Jacob Fabricius, Seolhui Lee
La natura collabora con l'arte - un ragno vicino a una delle ampolle che emanano profumo
Nastro di Moebius, e una figura che emette profumo dalle narici
Nello spoglio ma suggestivo padiglione, notate le decorazioni sul pavimento, e un secondo nastro di Moebius in fondo a destra.
Antonella Camarda scrive: "Filippo de Pisis - dandy, aristocratico, scrittore e pittore trascorre i suoi anni tra Roma, Milano, Venezia e Parigi, alla ricerca di ispirazione artistica ed esperienze di vita.
Famoso per i paesaggi e le nature morte pervase di malinconia come Vaso di fiori (1942) e Vaso di fiori con ventaglio (1952), de Pisis sl dedica anche al nudo maschile, soprattutto a Parigi dove può vivere più apertamente la propria omosessualità. Invita spesso giovani prostituti nel suo studio di rue Servandoni 7 dove li ritrae in pose languide dal vago sapore rinascimentale, dando origine a una sospesa atmosfera erotica.
I delicati Volto di ragazzo (1931) e Ragazzo con cappello (metà anni Trenta) esemplificano la sua abilità nel cogliere la personalità dei soggetti.
La bottiglia tragica (1927) allude a un drammatico episodio della vita del pittore: durante una conversazione, due ragazzi che aveva invitato nel suo studio allimprovviso lo aggrediscono tentano di rapinarlo. Dopo essere riuscito a respingerli, de Pisis osserva il suo tavolo, ornato da una tovaglia colorata e sovraccarico di vari oggetti, tra cui la sua tavolozza. L'immagine gli rimane impressa nella mente, lspirando una simbolica natura morta."
Da sinistra in alto, in senso orario:
Pugile, anni quaranta
Nudo maschile, 1927
Vaso di fiori, 1952
La bottiglia tragica, 1927
Ragazzo con cappello, metà degli anni trenta
La sala più o meno centrale del Padiglione Centrale ospita la sezione dedicata ai pittori astratti, tipicamente delle First Nations. Più sopra ho già mostrato i pali colorati di Ione Saldanha.
Dal 6 all'8 agosto ho compiuto la mia terza visita, che è stata dedicata principalmente all'Arsenale (dove mi sono reso conto di quante cose avevo mancato nelle visite precedenti) e al Padiglione Centrale dei Giardini (dove mi sono confermato nell'idea che a volte le seconde o terze impressioni possono essere molto diverse - principalmente in meglio - della prima). Ho anche visto alcuni (pochi) dei padiglioni nazionali sparsi per la città.
Mi auto-cito ripetendo qui quanto ho scritto all'inizio: "Personalmente mi è sembrato che ci fosse frequentemente una certa discrasia fra le intenzioni dichiarate dall'artista, e l'opera in mostra - nelle opere mi è spesso risultato difficile leggere la trascrizione delle intenzioni - queste intenzioni e il risultato finale mi sono sembrate due oggetti distinti che non interagiscono." Questo si applica a diverse delle opere qui sotto - ma vi riporto sempre anche il testo che le accompagna, così potete formarvi una vostra opinione.
La prima opera è nel Padiglione Centrale ai Giardini, la seconda all'Arsenale.
Amanda Carneiro scrive: "L'opera di Dean Sameshima tutela le fragili narrazioni delle sottoculture, compresa la documentazione di paesaggi anonimi con attività sessuali nascoste. Cattura e rielabora anche immagini della cultura queer e dei movimenti underground. Saldamente radicato nella tradizione fotografica concettuale, l'artista impiega la ripetizione, la serialità e l'appropriazione per esplorare un terreno intimo. La capacità di scavare e reinterpretare le complessità dell'identità e del desiderio permette a Sameshima di colmare il divario tra esperienze personali ed esperienze comuni. In questi dipinti, e sempre proteggendo l'anonimato, l'artista crea varietà incorporando parole legate a individui queer, come omosessuale, frocio [faggot nell'originale] o addirittura piacere."
All'ingresso dell'Arsenale da Campo della Tana, si viene accolti da questo "astronauta rifugiato".
Sofía Shaula Reeser del Rio scrive: "Yinka Shonibare, artista britannico- nigeriano, supera l'artificiale concetto di cultura attraverso un corpus di opere acclamato a livello internazionale. La serie Refugee Astronaut (2015- in corso) presenta un astronauta nomade a grandezza naturale ornato di tessuto "africano", equipaggiato per affrontare crisi ecologiche e umanitarie. Portando con sé una rete colma di beni terreni, la figura simboleggia le sfide poste dal dislocamento. Nata dalla contemplazione dello spazio come potenziale rifugio, l'opera mette in guardia contro la negligenza ambientale e il capitalismo, contestando l'insostenibile ricerca di crescita perenne; sovverte inoltre le connotazioni coloniali, presentando un rifugiato astronauta in netto contrasto con l'istinto coloniale di conquistare il mondo. In tono cautelativo, Shonibare sottolinea che l'opera serve da monito, esortando a meditare sulle potenziali conseguenze dell'inazione riguardo all'innalzamento del livello delle acque e al conseguente spostamento delle persone. Per l'artista, la questione generale dell'umanità è incredibilmente varia e ribadisce che non esiste un unico modo di essere umani."
Questa installazione, come vedete dal testo qui sotto, contiene una forte carica ideale. Ma lo stesso testo ne mette in risalto l'attrattività diretta, che deriva dal modo in cui l'installazione sfrutta appieno le possibilità del grande spazio in cui è ambientata, offrendoci un affascinante e intrigante gioco di luci ed ombre. [Avrete forse notato da altre foto che sono molto attratto dalle ombre, a volte più da loro che dall'oggetto che le proietta.]
Amanda Carneiro scrive: "Mataaho Collective - formato dalle artiste mäori Bridget Reweti, Erena Baker, Sarah Hudson e Terri Te Tau - collabora da un decennio alla realizzazione di vaste installazioni in fibra che si addentrano negli intrichi della vita e dei sistemi di sapere māori. Il takapau è una stuoia tessuta finemente, tradizionalmente usata nelle cerimonie, in particolare durante il parto. In Te Ao Māori, l'utero racchiude un significato sacro in quanto spazio in cui i bambini sono in connessione con gli dei. Takapau segna il momento della nascita, come transizione fra luce e buio, Te Ao Marana (il regno della luce), e Te Ao Atua (il regno degli dei). I tiranti usati nell'installazione di Mataaho Collective incorporano materiali minuziosamente selezionati, attrezzi per mettere in sicurezza e per sostenere carichi in movimento e che sono allo stesso tempo economici e facilmente accessibili. Questa scelta intenzionale vuole dare visibilità a lavoratori spesso ignorati, sottolineando la forza che deriva dall'interdipendenza e celebrando un patrimonio che merita di essere riconosciuto. L'installazione Takapau, osservabile da molteplici prospettive, rivela la sua intricata struttura nel gioco di luci e ombre su motivi intessuti, offrendo un'esperienza multisensoriale."
Malta presenta sempre un'offerta profonda ed intrigante. La riflessione sull'arte prodotta attraverso IA/AI la trovate nel testo virgolettato qui sotto.
Poi, il pubblico poteva contribuire a un'opera, prendendo su un QR code e disegnando una nave. I vari contributi venivano sovrapposti. Il risultato lo vedete qui a lato, e poi più in grande qui sotto. Non cercate di indovinare i miei, di contributi, che sono piuttosto infantili.
"In "I WILL FOLLOW THE SHIP", Matthew Attard drives into the multifaceted world of contemporary drawing, meticulously exploring its performative and time-based nature. He co-authors his work with an eye tracker: a sophisticated technological device captures his eye movements and transforms them into data points. To the artist, the eye-tracker is an extension of himself, offering a platform to explore the hybrid territory between humans and machines. The title itself, suggestive of the interplay between 'I' and 'eye', underscores the subjective and objective nature of Matthew's work.
Rather than merely applying new technologies to generate imagery, the interest of the project is to dissect and delve into the processes of AI and digital technologies in our daily lives through an artistic approach.
Within the pavilion, visitors are greeted by a juxtaposition of physical and technological elements represented via a series of walls. The sculptural wall, featuring pen-plotted drawings on reconstituted stone panels, is a contemporary interpretation of the ship-laden exteriors of wayside chapels. At the core of the space surrounded by three screens, the audience engages with the dissection of an eye-tracking process, symbolically representing the multilayered overlaps between human intention, technological interpretation, and co-authorship. The eye, as a metaphor and a point of connection, embodies human and technology, showcasing an interplay between Matthew's eye, the eye-tracker's 'eye' and an algorithmic eye. The dialogue is epitomised by a continuously-generated drawing of a ship, blurring the line between intentional human input and automated creation. A large screen visually narrates this exploration, transforming wave movement data into a symbolic search for ships, encapsulating humanity's enduring quest for hope amidst uncertainty. The QR codes invite visitors to engage in digital drawing, expanding the realm of collective authorship through algorithmic transformation. Individual contributions merge seamlessly into a unified representation, underscoring the collaborative nature of the artistic process within the digital landscape.
In I WILL FOLLOW THE SHIP, the ship itself emerges as a timeless symbol of hope and possibility, transcending the constraints of time and uncertainty. Whether carved into weathered chapel walls or digitally rendered, this symbol resonates in today's age of technological progress. What was once a physical vessel, transformed into tangible markings on walls, now exists as a series of points and lines of code in the virtual domain; its journey chartered by technology.
Much like the boundless sea, the realm of data is edgeless, steadily expanding, provoking questions. As we navigate the currents of time, both real and imagined, we are reminded of the interconnectedness of all things - past, present and future."
Curatrici: Elyse Tonna, Sara Dolfi Agostini
La prima volta quest'opera non mi aveva detto niente. Poi ho visto che all'amico Piersandro Pallavicini (chimico inorganico, scrittore, collezionista, bon vivant, ...) era piaciuta, allora l'ho riguardata con attenzione, e vi ho trovato una piacevolezza lirica. Anche in questo caso ci si può chiedere se la spiegazione qui sotto sia indispensabile, o se dell'opera si possa comunque fruire così com'è.
Natasha Conland scrive: "Cresciuto nel pieno del movimento artistico māori contemporaneo, la pratica artistica di Brett Graham ha esteso e consolidato la posizione di uno specifico linguaggio visivo māori, ampliandone le connessioni con le questioni indigene globali.
La scultura Wastelands colloca un pātaka (magazzino) Intagliato su ruote, evocando le nozioni di mobilità, transitorietà e separazione dalla patria. Struttura architettonica rialzata su pali, il pätaka era tradizionalmente usato dal Māori come deposito di cibo e beni, spesso con intagli particolarmente ricercati sull'architrave, indicativi della ricchezza e del prestigio della comunità iwi. Invece di utilizzare i tradizionali motivi intagliati, Graham ricopre I suoi pätaka di anguille, in riferimento alla fonte di cibo e in segno di riverenza verso il mondo naturale del suo popolo Tainul. Nel 1858, come parte del progetto coloniale, il governo neozelandese aveva approvato il Waste Lands Act, che trasformava la definizione di grandi terre paludose - una ricca risorsa per i Māori - in "waste", "rifiuti", appunto. La legge rivendicava queste vaste paludi come terre non occupabili, ridefinendole come territori di zone umide da prosciugare e destinare all'agricoltura. La presentazione di questo magazzino da parte di Graham ricorda che per i Māori queste riserve di anguille erano preziose quanto miniere d'oro."
Anche qui, ci si può chiedere se questo video (che ho trovato bello e suggestivo) si possa apprezzare anche senza il sottotesto politico ("patriarcato imperiale", "un dio non binario", "postumano queer").
Jaya Jacobo: scrive: "Joshua Serafin è un artista multidisciplinare nato a Bacolod, nelle Filippine. La calma evocata in VOID (2022-in corso) non è il vuoto, ma un intervallo di tempo basato sul possibile, realizzato attraverso una divinità non binaria che immagina un mondo nuovo e lo mette in atto tramite gesto, espressività e movimento. La visione tropicale e futurista del corpo bruno nello spazio primordiale di VOID infrange i concetti del patriarcato imperiale non solo di potere e bellezza, ma anche di esistenza e della stessa esperienza. Attingendo ai miti che raccontano la creazione dell'arcipelago filippino attraverso performance queer e trans, VOID immagina un futuro che evoca incarnazioni di una specie non binaria nel regno della diversità di genere. Questa visione è prefigurata da un dio non binario che danza in uno spazio in continua evoluzione. Al limite della cancellazione e dell'écriture, Serafin presenta un'allegoria dell'assenza per proporre risonanze di una certa ri-presenza. Il vuoto è quel momento generativo in cui l'essere si trasfigura come élan vital del divenire-aperto, un paradosso volutamente abbracciato solo dal postumano queer che è anche umanamente trans-divino."-
Il padiglione dell'Ucraina parla ovviamente della guerra. Ma mi ha molto colpito l'approccio ironico agli stereotipi che in Europa abbiamo riguardo ai rifugiati ucraini. Vi riporto dei fermo immagine dei video - i video sono strutturati come ricerca di attori per impersonare questi stereotipi - prendetevi del tempo per leggere i testi - vi do solo un paio di esempi. La exemplary Ukrainian (type 6, la prima delle serie):
"should be able to pose for a portrait wearing ukrainian traditional clothes, jewellery and/or national symbols, looking strong-spirited and active but also with a hint of sadness."
o la badante (tipo 3, seconda della serie)
"needs to be 40-50 years old, weary face, shadeless body, looking older for her age age would be a plus. should be able to pose for a portrait wearing clothes that give off the impression of a previous higher social stance, looking sad but not tragic"
"Comfort Work di Andrii Dostliev e Lia Dostlieva indaga in modo ironico gli stereotipi e le aspettative imposte ai rifugiati in Europa, e permette giocosamente agli ucraini con esperienza di sfollamento di rivendicare la propria autonomia decisionale.
Attraverso diverse esperienze personali di guerra, emigrazione e integrazione sociale, il padiglione ucraino affronta il tema dell’alterità in dialogo con Stranieri Ovunque, titolo di questa Biennale."
Curatori: Viktoria Bavykina, Max Gorbatskyi
Ticio Escobar scrive: "Julia Isídrez - artista e ceramista indigena guaraní - ha appreso le tecniche della ceramica dalla madre, Juana Marta Rodas [per la quale si veda qui di seguito]. Isídrez opera all'interno della tradizione guaraní, secondo la quale il mestiere di ceramista deve essere tramandato di madre in figlia, e sempre dalla madre ha appreso a raccogliere la sfida di incorporare audacemente forme e funzioni appartenenti a periodi diversi. Dopo la scomparsa della madre, ha continuato a percorrere nuove strade che non cancellano quelle ereditate: le sue continue e innovative sperimentazioni non le fanno dimenticare la forza elementare dell'argilla, né le antiche tecniche guaraní. Nutriti da mondi diversi, mossi dalla pura pulsione estetica, i vasi plasmati passano da una figurazione fantasmagorica, a volte barocca, all'esattezza di volumi austeri e linee pulite. Alimentata da un'immaginazione febbrile e sostenuta da una vocazione impeccabile per quanto riguarda la forma, il suo lavoro è oggi uno dei più riconosciuti nel suo paese."
Ticio Escobar scrive: "Juana Marta Rodas – nata in un villaggio contadino – è stata iniziata all’arte della ceramica dalla nonna Maria Balbina Cuevas [ahimé, di cui in mostra non c'è niente], seguendo una tradizione popolare paraguaiana di trasmissione di saperi tra madri e figlie. La ceramica, una delle più significative manifestazioni dell’arte popolare in Paraguay, prosegue una tradizione millenaria che resiste alle continue sfide poste – o imposte – da colonizzazione, modernità e globalizzazione. A questa tradizione Juana Marta Rodas imprime audacemente una brusca svolta, sovvertendone le forme e i temi e sviluppando uno stile singolare, che si rifà alle sue origini guaraní ed esprime una sensibilità unica influenzata dall’arte contemporanea. Le antiche brocche, i vasi e le fontane di origine mestizo-indigena si trasformano, incorporano forme zoomorfe e antropomorfe e assumono fantasiose protuberanze e concavità. Le figure di Rodas qui presentate rifiutano le grandi dimensioni dei vasi convenzionali; l’artista crea invece un bestiario di animali immaginari ed esseri ibridi, guidata da un’immaginazione libera da qualsiasi dipendenza dalla rappresentazione naturalistica."
Un progetto di Hildigunnur Birgisdóttir, curato da Dan Byers. "Commerzbau" mi pare un riferimento al "Merzbau" di Kurt Schwitters.
"[Il pannello su cui si legge questo testo] è una porzione di PAVIMENTO riciclato da Biennale Architettura 2023. È adornato con i loghi di aziende, fondazioni, società e fornitori i cui prodotti e servizi hanno reso possibile questa installazione.
Le PARETI della galleria accolgono sculture create dai giocattoli di plastica delle case delle bambole, scansionati, ingranditi e riprodotti da un'azienda tedesca. Qui li vediamo rielaborati in scala, a dimensione di adulti. Ma perché questi oggetti sono stati ritenuti cosi importanti da produrre per i giochi dei bambini, essendo loro progettati per trasmettere solo le informazioni necessarie a comunicare la loro funzione e a produrre desiderio? Quali tipi di piacere ci sono in queste forme di cartone animato? Quali tipi di saggezza nella loro riproduzione digitale? Che sensazione possono dare averli in mano?
L'artista ha rimosso il muro per offrirvi una vista. Guardate fuori dalla FINESTRA
Delizia, persino poesia assurda e perplessa, possono essere estratte dai sistemi di produzione globale. Le capacità delle fabbriche, delle aziende commerciali, delle compagnie di navigazione e le ricchezze algoritmiche di Internet sono materiale e metodo per sculture e stampe. Hildigunnur Birgisdóttir apre spazi di tensione tra le proprie fantasticherie nel MONDO delle cose fabbricate e le conseguenze collettive di milioni di tali mondi di cose.
Tutte le opere sono state realizzate in collaborazione con diversi produttori. Birgisdóttir integra nel suo processo artistico le specifiche competenze commerciali, la CULTURA della produzione e gli effetti dei prodotti di queste aziende. La vita sociale di queste collaborazioni permea le opere arte che ne derivano."
Il pannello di cui sopra
La finestra di cui sopra
Sofia Gotti e Adriano Pedrosa scrivono: "Questa sezione del Nucleo Storico riunisce opere di artisti italiani che hanno viaggiato e vissuto all'estero, costruendo la propria carriera in Africa, Asia e America Latina, nonché negli Stati Uniti e in Europa. Molti di loro si sono del tutto inseriti nelle culture locali o ne hanno subito la profonda influenza, spesso contribuendo allo sviluppo di narrazioni moderniste locali. Se diaspora e migrazione sono intese come formazioni culturali inestricabili dalla modernità, l'emigrazione degli italiani nel mondo rivela alcune delle sue inaspettate trame transnazionali.
Gli artisti qui presentati hanno lasciato l'Italia per svariate ragioni; si va dagli orientalisti che hanno prodotto visioni esoticizzate dell'Asia e dell'Africa agli artisti al seguito dei convogli inviati durante le brevi ma brutali imprese coloniali. Altri ancora fuggivano dal terrore fascista e dalle leggi antiebraiche, o emigravano a causa delle disastrose condizioni economiche nel periodo attorno alla Seconda Guerra Mondiale.
Una delle principali destinazioni degli italiani nel XX secolo è rappresentata dal Sudamerica, in particolare Brasile e Argentina che ospitano le più estese comunità diasporiche italiane nel mondo. È quanto si riflette in questa sezione, dove la metà degli artisti proviene da questi due Paesi. Le opere sono esposte su cavaletes de vidro di Lina Bo Bardi, visionaria architetta, designer e allestitrice italiana trasferitasi in Brasile nel 1946. II suo cavalete de vidro, o cavalletto di vetro, è un'icona nella storia degli allestimenti."
Libero Badíí - Autorretrato Siniestro, 1978
Sonla Becce scrive: "L'artista argentino di origine italiana Libero Badii arriva a Buenos Aires con la famiglia all'età di undici anni, Badii non è stato solo scultore, disegnatore, pittore, ceramista e stampatore, ma anche autore di oltre cinquanta libri d'artista. L'Arte Siniestro (arte del perturbante) è emersa a metà degli anni Sessanta come reazione alle avanguardie dell'epoca. Pur essendo stata sviluppata da Badli e dal pittore argentino Luis Centurión, è stato Badíî a porre il perturbante al centro della propria produzione artistica dalla fine degli anni Sessanta fino agli anni Settanta. Per Badli, l'idea del perturbante nell'arte è legata a forme sconosciute o, forse, prossime a essere conosciute - provenienti dalle culture indigene delle Americhe, a lui familiari e nel contempo sconosciute, in contrapposizione alla tradizione estetica classica europea. Come per altre sue opere di questo periodo, il processo di produzione del policromo Autorretrato Siniestro prevedeva l'assemblaggio di tavole e aste di legno e la collocazione di ritagli di legno sulla superficie dell'opera. La figura richiama alla mente le culture indigene che tanto avevano colpito l'artista durante il suo viaggio nell'Altipiano sudamericano."
A me ricorda un po' Fortunato Depero.
Linda Kohen - El Sillón, 1995
Piacevolissimo minimalismo.
Lucia Neirotti scrive: "Linda Kohen - artista ebrea nata in Italia fugge dal fascismo nel 1939, ancora adolescente, per iniziare una carriera che dura da sessant'anni a Montevideo, Uruguay. In El Sillón, un'opera tratta da una serie di studi, Kohen realizza una poltrona completamente bianca a partire da volumi curvi, scorciati ma inequivocabili. La tenue tavolozza di bianchi e ocra e l'abbozzata luminosità della pittura diluita riducono il soggetto alla sua essenzialità. Dipingendo a memoria, con un approccio minimalista alla rappresentazione Kohen comunica l'ordinarietà della vita di tutti i giorni e l'intimità della vita privata. Lo stile idiosincratico di Kohen, che nasce dall'ansia di registrare e ricordare, si sviluppa dopo decenni di spostamenti forzati e di lutto. Sedie, letti, tavole da pranzo: oggetti vuoti in interni disabitati sono ricorrenti nella sua opera come fossero ritratti di custodi assenti. Desolato e silenzioso, El Sillón viene dipinto appena pochi mesi dopo la morte della madre dell'artista, avvenuta nel 1998. Con una composizione dall'ingannevole semplicità, Kohen dipinge l'assenza, osservando come la memoria trasformi gli scenari domestici familiari in spazi carichi di solitudine e nostalgia."
Zamansele Nsele: scrive: "Il talento di Edoardo Daniele Villa per la scultura si manifesta precocemente nella città natale di Bergamo, dove gli vengono commissionati numerosi bassorilievi per case private ancor prima di compiere vent'anni. È membro del collettivo artistico degli Amadiozi, guidati dall'etica del riflettere su ciò che li circonda creando opere chiaramente ispirate all'Africa. Le sculture di Villa evidenziano la verticalità della figura umana, come si nota nell'opera allegorica Mother and Child Nella sua semplicità astratta e purista, la resa di Villa evoca una struttura compositiva stereometrica. Stiliforme nella sua posizione eretta, Mother and Child è un flusso continuo di linee geometriche che accentua marcatamente lo stile degli elementi formali africani a cui si ispira. Villa dà priorità a linee, forme e dimensioni sferiche anziché scegliere espressioni facclall distinguibili, sottintendendo un principio universallsta. A Johannesburg, negli anni Sessanta, Villa può avere accesso a collezioni pubbliche e private di arte africana. In questo periodo si osservano somiglianze stilistiche tra la sua opera e l'arte dell'Africa centrale,"
Queste piacevoli composizioni, così regolarmente scandite, mi hanno ricordato Basquiat.
Jessica Clark scrive: "Marlene Gilson è una Wathaurung/ Wadawurrung [Australia] Elder e Traditional Owner la cui pratica pittorica contemporanea è caratterizzata da una meticolosa attenzione ai dettagli. I sual dipinti pongono rimedio a una storia dell'arte che ha cancellato le persone, le comunità e la cultura aborigene. Gli ampi paesaggi panoramici del deserto, della della spiaggia e della savana spalancano vie di accesso molto dettagliate e culturalmente ricche sul passato, popolate dai suoi riconoscibili personaggi immersi nella loro vita quotidiana. Nell'intera sua opera, l'artista mette in evidenza Il coinvolgimento dei Wathaurung/ Wadawurrung in eventi storici, Tra questi, l'Eureka Stockade (1854) e le interazioni tra gli abitanti delle Prime Nazioni e gli immigrati di altre culture, tra cui William Buckley (1780- 1856) - un evaso britannico che visse con i Wathaurung/Wadawurrung per trentadue anni prima di tornare nella società coloniale e i cammellieri afghani Compaiono anche importanti siti culturali come le cascate di Moorabool, legate a Bunjil, il creatore ancestrale della nazione Kulin. Attestando la presenza degli antenati Wathaurung/Wadawurrung e dei relativi significanti culturali, i dipinti di Gilson assumono la forma di racconto di una verità personale. L'autrice afferma che ogni pennellata contribuisce a collocare la storia della mia famiglia sulla mappa del mondo e a riportarla nei libri di storia".
Un'altra vista (da sotto) del portico d'ingresso al Padiglione Centrale
Adriano Pedrosa scrive: "Figura pionieristica dell'arte coreana e argentina [è nato in Corea del Nord, ed emigrato in Argentina], attiva nella scultura, nella pittura e nella stampa, Kim Yun Shin ha viaggiato molto nel corso della vita, esperienza profondamente riflessa nella sua opera. Kim Yun Shin presenta un gruppo di otto sculture, quattro in legno realizzate tra il 1979 e il 1986 e quattro in pietra, prodotte tra il 1991 e il 2001. In modo concettuale, tutte le sue opere a partire dalla fine degli anni Settanta riportano lo stesso titolo: Add Two Add One, Divide Two Divide One, Add e Divide sono collegati allo Yin e allo Yang della filosofia cinese, che a loro volta rappresentano dicotomie multiple e concetti opposti strettamente interconnessi: due che sono uno, uno che è due. Lo Yin rappresenta la frammentazione, la scissione, la divisione, mentre lo Yang rappresenta la convergenza, l'integrazione, l'aggiunta. Le operazioni e il processo scultoreo dell'artista sono proprio questo: divide, separa, estrae dalla pietra e dal legno per costruire le proprie opere. In questo senso, al centro dell'opera scultorea di Kim in legno e pietra si esprime il contrapposto rapporto tra arte e natura, cultura e paesaggio, geometria e organico che, attraverso il laborioso processo scultoreo, diventano uno e due."
Qui mi sono piaciuti particolarmente i delicati mobiles ("oggetti appesi al soffitto" nel testo qui sotto).
Raphael Fonseca scrive: "Kang Seung Lee tratta diversi linguaggi artistici, fra cui il disegno, il ricamo, l'installazione e l'appropriazione di materiali e oggetti organici. Alla Biennale Arte 2024, l'opera di Lee combina le possibilità narrative e iconografiche di figure artistiche come Goh Choo San, Tseng Kwong Chi, Martin Wong, José Leonilson e Joon-soo Oh, insieme ad altri artisti deceduti a causa di complicazioni dovute all'AIDS Nell'ambiente creato dall'artista, il fruitore è in grado di riconfigurare le narrazioni queer in modo transnazionale e trans-storico. Disegni, ricami con linee placcate oro a 24 carati, oggetti appesi al soffitto e altri elementi installati alle pareti permettono al fruitori di attraversare narrazioni che rendono omaggio, in modo antimonumentale, ai nomi fondamentall per la cultura queer. Lee preferisce una visione pluralistica della storia anziché una narrazione enciclopedica, facendo in modo che micro e macro storia coesistano. all'interno di un'unica installazione."
Qui la seconda/terza vista è stata essenziale, stavolta sono stato veramente preso dall'installazione. In genere il mio attention span per i video è molto breve - al cinema non ho problemi a seguire un film molto lungo - credo che sia una questione di contesto. Gabrielle Goliath ha scelto la soluzione descritta nel testo di Amanda Carneiro:
"Frutto di una scelta intenzionale, fatta con il consenso dei collaboratori, dalle registrazioni video è stato tolto l'audio delle parole. Goliath enfatizza elementi paralinguistici come respiri e deglutizioni. Questo gesto artistico sfida le norme della "leggibilità" e "credibilità" tipicamente associate a tali resoconti; crea un ambiente di sostegno in cui le testimonianze non possono mai essere disconosciute o sminuite."
Questa scelta rende i video di più immediato impatto, certamente per me molto più facili da apprezzare.
Il resto del testo di Amanda Carneiro recita: "Le installazioni e le performance immersive di Gabrielle Goliath [Sudafrica] esplorano contesti di disuguaglianza e oppressione, evidenziando in che modo e quando queste condizioni possono essere trasformate. Personal Accounts è un progetto transnazionale attualmente in corso, inaugurato nel 2014 e realizzato in città come Johannesburg, Como ed Edimburgo. Le installazioni, create attraverso l'uso di video e suoni, affrontano la normatività globale della violenza patriarcale. Il progetto registra le testimonianze di persone nere, di pelle scura, indigeni, femme, queer, persone non-binarie e trans. Ogni racconto svela le strutture quotidiane che preservano gli ordini patriarcali, razziali e coloniali. Queste storie hanno a che fare con la violenza e il trauma. Ma fanno anche luce sui "modi creative e sfuggenti attraverso cui i sopravvissuti affermano la vita e la possibilità". "
Sofia Gotti scrive: "Nedda Guidi è stata in attrito con il mondo dell'arte contemporanea come donna lesbica, femminista impegnata ed educatrice che scelse di lavorare con la ceramica, da molti considerata una tecnica minore. Emblematiche della sua pratica sono sculture modulari come Modulare III (1967-68) o Otto B "Naturale- \Artificiale" (1974), dove ogni modulo corrisponde a una lettera del suo linguaggio geometrico. Con precisione millimetrica, Guidi stampa elementi che si assemblano in molteplici formazioni, fatti di impasti diversi ciascuno che richiede un calco, tempi e temperature di cottura particolari .Dopo aver padroneggiato la smaltatura, Guidi si è dedicata a processi di ossidazione naturale per colorare la terracotta, mescolando argilla con gli elementi chimici della tavola periodica: manganese, ferro, piombo, litio. A dimostrazione della sua maestria alchemica nel processi naturali di tintura dell'argilla, De-posizione (o De positione) (1977) è costituita da una sequenza di elementi rettangolari nei toni del blu. L'opera ingloba due indicatori del potere patriarcale: il cattolicesimo, con riferimento alla Deposizione di Cristo, el linguaggio, traducendo io spazio che l'artista ha posto tra le lettere del titola nella struttura dell'opera. De-posizione (o De-positione) è stata esposta per la prima volta nel volta 1977 negli spazi della Cooperativa Beato Angelico, pionieristico collettivo femminista artiste co-fondato da Guidi l'anno precedente a Roma."
Xavier Robles Armas: scrive: "Il lavoro di Dean Sameshima si pone in equilibrio tra una malinconica posizione psicosociale e la nostalgia degli spazi che indaga attraverso la fotografia. In sintonia con lo spazio e il gesto queer, Sameshima documenta le sale cinematografiche per adulti di Berlino per creare la serie del 2002, being alone, per la quale fotografa di nascosto figure solitarie. Mentre fissano gli schermi, gli spettatori rivolgono lo sguardo anche verso un orizzonte di (im)possibilità. Qui Sameshima mette in campo la fotografia in modo tale da integrare un linguaggio di desiderio e piacere in un tempo che fu, suggerendone nel contempo il ritorno. Oscillando tra più spettatori, l'artista rivela le sfumature del cruising e l'azione continua del "guardare". Che si tratti di pagine gialle, librerie o sale cinematografiche, l'artista ci ricorda che questi spazi di svago e piacere possono farci sentire soli e insieme, rendendoci allo stesso tempo anonimi."
Sebastián Eduardo: scrive: "Dalla metà degli anni Sessanta del XX secolo, Miguel Ángel Rojas lavora con vari linguaggi, quali il disegno, l'incisione, il ricamo e la videoarte. La sua opera affronta diverse tematiche, tra cui l'omosessualità e il conflitto armato interno in Colombia, concentrandosi in particolare sull'esplorazione delle varie sfaccettature dell'esperienza e sul corpo maschile. Analogamente ad altre serie fotografiche di quel periodo, El Emperador (1973-1980) prende il nome da un cinema della capitale colombiana che negli anni Settanta era usato come punto di ritrovo per incontri sessuali illegali tra uomini. Nelle stampe in bianco e nero vediamo il contorno delle parti del corpo contro un muro rivestito di mattonelle. Le fotografie di El Negro (1979) inquadrano in un cerchio l'immagine sfocata di un uomo. Sono state scattate da un foro nella porta del bagno del Teatro Mogador, un altro cinema nel centro di Bogotá in cui avevano luogo incontri intimi. Il tipo di ambientazione impedisce a Rojas di catturare il corpo intero, generando così ritratti anonimizzati che mettono l'osservatore nella posizione di voyeur. Il titolo della serie indica l'origine africana del soggetto ed evidenzia l'interesse di Rojas nel mostrare frequentatori appartenenti a diverse sfere sociali. Il modo accurato con cui tratta luci e ombre sottolinea la relazione ambivalente tra segretezza ed esibizione."
Juan Manuel Silverio scrive: "Louis Fratino è un artista i cui dipinti e disegni del corpo maschile e degli spazi domestici catturano l'intimità e la tenerezza trovate nella vita quotidiana queer. Per questa mostra, Fratino presenta nuovi dipinti che esplorano i modi in cui le persone LGBTQ+ socializzano per navigare nel mondo come "outsider, Questo nuovo corpo di opere critica la complessità delle dinamiche familiari che le persone queer devono affrontare, a partire dall'infanzia e fino all'età adulta. Attingendo a fonti visive personali, Fratino contrappone l'immagine della famiglia a viscerall immagini omoerotiche come modo per rendere visivamente complesse le tensioni tra I due mondi. Da decenni, le comunità queer sopportano il peso di essere "altro", sottoposte a vari gradi di violenza sia in ambito domestico che pubblico permessi in certi paesi dal valori tradizionali della famiglia e persino dalla legge. Il nuovo lavoro di Fratino connotato da un urgente peso emotivo-svela un ulteriore livello di risposta politica al clima sociale che le persone LGBTQ+ si trovano ovunque a dover affrontare."
Vedi anche subito sotto l'opera di Giulia Andreani, che a Madge Gill si ispira.
Sybilla Griffin: scrive: "I disegni, i tessuti e gli scritti di Madge Gill sono stati accolti talvolta come comunicazioni medianiche provenienti da un altro mondo, capolavori visionari e opere influenzate dalle sfide da lei affrontate nell'ambito della salute mentale. I suoi disegni sono popolati da enigmatici volti femminili, scale vertiginose e piani a scacchiera che sembrano proliferare all'infinito in una fitta rete di segni ripetitivi. Nelle sue immense dimensioni, Crucifixion of the Soul è una reiterazione dello stile caratteristico dell'artista, sebbene si discosti dall'abituale tavolozza monocromatica. La composizione - che per la fulgida complessità e il processo frammentario di realizzazione ricorda una vetrata in frantumi - si è sviluppata via via che il tessuto di calicò veniva srotolato in sezioni, per dispiegarsi poi nell'insieme finale. Si ipotizza che i volti che punteggiano l'opera siano autoritratti, immagini dello spirito guida di Gill o espressioni sublimate di isolamento, sospese in paesaggi instabili."
Michela Alessandrini scrive: "Il lavoro di Giulia Andreani rivela e sovverte la storia affrontando questioni legate all'amnesia e generando nuovi strati di significato, interrogando le narrazioni veicolate dagli archivi fotografici, setacciando le pieghe della storia ufficiale per liberarie.
Il lavoro di Andreani prende le mosse da un dialogo con l'artista autodidatta Madge Gill [per la quale si veda subito sopra]. Lavorando sotto l'influenza. di Myrninerest, Il suo spirito guida, il lavoro di Gill è risultato delle sue traumatiche esperienze di vita e della sua capacità di essere medianicamente connessa ad altri mondi. Tracciando un collegamento tra la sua storia e la storia dell'accesso delle donne alla pratica artistica, i cinque dipinti e la scultura in vetro di Andreani mettono in risalto il movimento per il suffragio femminile in Gran Bretagna agli inizi del XX secolo. In dialogo con il capolavoro di Gill, Crucifixion of the Soul (1930), l'opera di Andreani trae ispirazione in parte dagli archivi che documentano le donne pioniere dell'epoca e dalla posizione di Gill come donna e artista in quel periodo. Esplorando i possibili legami tra femminismo e spiritualismo come forma di emancipazione e resistenza, Andreani si occupa delle invisibili affinità emotive tra i corpi femminili creativi."-
Curatrice: Olivia Chow
Un padiglione molto liquido, che ho trovato piacevolissimo
"[Trevor] Yeung esplora le esperienze personali e le relazioni tra gli esseri umani e gli ecosistemi acquatici, attingendo a riferimenti che includono il ristorante di pesce dei suoi genitori, i negozi di animali, le composizioni feng shui e i pesci domestici, suoi compagni d'infanzia. Nei suoi paesaggi di acquari senza pesci, Yeung mette in mostra la brama, il desiderio e il potere. Le sue opere contemplano l'assenza e l'attaccamento come un modo per commentare i sistemi che strutturano la nostra vita facendo al tempo stesso allusione all'attuale crisi climatica. La mostra richiama la nostra attenzione sulla disconnessione emotiva e sulle dinamiche di potere che caratterizzano la società odierna."
Stiamo lavorando per voi!
Interessante mostra nella bella cornice di Palazzo Bollani. Mi pare che siano evidenti le influenze di Francis Bacon e Lucian Freud (la London School of Painters citata nel testo qui di seguito).
Il curatore, autore e poeta Lemn Sissay, scrive: "Tesfaye Urgessa, born in 1983 in Addis Ababa, Ethiopia, embarked on his artistic journey at the Ale School of Art and Design at Addis Ababa University under the mentorship of Tadesse Mesfin, a modern master. Continuing his education at the Staatlichen Akademie der Bildenden Künste Stuttgart, he was influenced by German Neo-Expressionism and the London School of Painters, shaping his artistic style. Urgessa's unique approach blends Ethiopian iconography with a profound interest in traditional figurative painting, delving into themes of race and identity politics within domestic contexts. Urgessa's figures convey a spectrum of emotions, from fragility to confidence, without judgment, revealing their true selves.
"Prejudice and Belonging' presented at the first Ethiopian Pavilion reflects over a decade of Urgessa's study and artistic exploration throughout his time in Germany and onto his return to his hometown of Addis Ababa. Underscored by his personal experience of migration, Urgessa's artistic practice became a powerful means of expressing the complexities inherent in displacement and cultural identity."
Dalla pagina dell'Etiopia sul sito della Biennale: "Tesfaye Urgessa collects “things” and places them in a conceptual “basement”, tiny images, large ideas, a hand, a torso, turned feet, a song. It is an eternal space of precious objects and ideas. “The basement is where you keep what is important to you”.
In Prejudice and Belonging Tesfaye Urgessa paints a number of canvases at the same time, say five or ten. “I look at my paintings and then kind of imagine in which painting this particular certain image might work, so I try on one canvas, sometimes it works and I continue and sometimes it doesn’t work and I have to destroy it.” He moves around the studio from one canvas to the other seeking “the chemical reaction” to initiate a “chain reaction”.
This exhibition arises over the thirteen years he spent in Germany, helping with translation in immigration camps: “People tend to think I am painting victims in my canvases but it’s completely different. The figures hold all kinds of emotions, fragility as well as confidence. It is the figure presented without any judgement. It is saying this is who I am, this is what I am.”
In Prejudice and Belonging Urgessa is “not following natural laws” but the laws of painting. His figures are not defined by their scars but by the incredible ability to heal."
La curatrice Erëmire Krasniqi scrive: "L'installazione scultorea Gli Echeggianti Silenzi del Metallo e della Pelle affronta il tema del lavoro femminile e della disuguaglianza sul posto di lavoro. Esplorando sia la deindustrializzazione dell'economia che la deregolamentazione del mercato del lavoro, Doruntina Kastrati si confronta con le forme (im)materiali del precariato nelle industrie leggere all'indomani della guerra del Kosovo del 1999.
Lo sfruttamento di genere nelle industrie come quelle della produzione alimentare ha reso le donne economicamente vulnerabili e le ha spinte ai margini della politica. Il progetto di Kastrati interagisce con le esperienze delle lavoratrici di una fabbrica di dolci turchi a Prizren, in Kosovo. Quasi un terzo delle dipendenti si sottopone a un intervento chirurgico di sostituzione del ginocchio, come conseguenza del lavoro svolto in piedi. Gli oggetti metallici, impiantati nelle loro ginocchia, sono tracce materiali delle lunghe ore di lavoro che producono scarso guadagno. Più lungo è il turno, maggiore è l'accumulo di lavoro non retribuito.
Attivate dal suono, le sculture creano un ritmo distintivo nello spazio espositivo. Realizzate in alluminio, esse alludono contemporaneamente agli impianti chirurgici e alla produzione industriale. Attraverso la scelta dei materiali, Kastrati riproduce la freddezza meccanica della fabbrica di dolci turchi e il gelo inquietante del metallo estraneo nelle ginocchia delle lavoratrici. Cariche di significato simbolico nel riferirsi all'estraneazione delle donne provenienti dalla classe lavoratrice, le parti costituenti del padiglione si uniscono in una rete di associazioni, riferimenti e storie."
L'esposizione è ospitata nel Museo Storico Navale.
I curatori Valentinas Klimašauskas e João Lain scrivono:
"This project brings together the distinct experiences of artists belonging to two generations and explores the inflammation of mation of (post)human bodles under today's economic and social conditions. Marija Teresé Rožanskaitė's paintings and a sculptural installation by Pakul Hardware (with assistance from the architectural duo išora x Lozuraltytė) are connected by themes of medicine and hospitals, as well as natural, cosmic, and Industrial landscapes. The combined presentation conveys the interconnectedness of bodies and environments in crisis while offering a metabolic balance, helping to "cool" the burning human and planetary bodies.
The fused aluminum and glass sculptures by Pakul Hardware resemble enlarged nervous systems and hot spots of inflammation. They were molded on scorched earth (the aluminum elements) and shaped in sweltering heat (the glass elements). Like bodies, they come to l life when touched by a burning beam that resemble spatial or organ scanning. The prosthetic motif-u @f-using silicone membranes and medi edical or laboratory materials-is furt rther expanded by the connections between the individual elements, which merge into a larger unified installa- tion, a techno-organism
In the paintings is by Rožanskaitė, unnamed diseases, storile operating theaters and medical consultation rooms, visceral-themed assemblages, and machine-like objects irradiate a chronic inflammation of the cosmic flesh. The works refer to abandoned, exploited carcasses-well-being ripped from human life.
The project draws direct Inspiration from Marya Rupa and Raj Patof's 2021 book Inflamed: Deep Medicine and the Anatomy of Injustice, which invokes inflammation as a metaphor for the systemic harm being inflicted on humanity and the planet. Inflammation, according to the authors, is the body's normal response to toxic conditions, and the most urgent things to be "treated" are not Individual unb nhealthy organs but the very sy systems- economic and social-that cause chron onic allment nts be passed from one generation to t the nex xt. The book and the exhibition connect the human and the planetary scales: not only are our bodies aflame, but so is the Earth. Another critical thread, which has also been evolving in the artists' work, is the questioning of Western cosmology, characterized by a constant fragmentation or separation-of mind from body, of human from nature, of what is conside Idered "our own" from w what belongs to the realm of "the other."
Accordingly, in this delirious post-landscape, it is difficult to distinguish between what is attributed to nature and what is considered a human creation. Objects referring to human bodily systems in a state of inflammation, architecture, a post-natural landscape of hybrid soil, light, and other technologies merge into a unified hybrid techno-organism."
"The artistic project "The Measure of the Sea," by artist Stjepan Skoko and cunator Marin Ivanović, deals with reading the layered meaning and symbolism of the sea, its depth and spaciousness, civilizational conditioning, and role in the identity of the individual. According to Fernand Braudel, the Mediterranean preserved its continuity more in the hinterland than along the coast. The Mediterranean cultural space belongs to Herzegovina, which is the nomeland of Stjepan Skoko, so the authenticity of his work is manifested in the inherent belonging to the sea, which is physically just within reach
The first part of the sculptural ensemble consists of square sections formed from aluminum painted at bright blue color with some elements that covered with rust or sandblasted in raw aluminum. Those square elements represent "the measure of the sea" the eternal human need to know the world by means of categorization organization, and calculation the sea is divided into latitudes and longitudes, geographical coordinates that are drawn with regular lines on nautical charts and form "quadrants" distances are measured in nautical miles, speed is expressed in knots, the direction of movement is determined with.a compass, and the rose of winds is inextricably linked to it, and winds are the greatest help and greatest threat to a man at sea
The second part of the sculptural ensemble evokes the undersea mussels, and other shells. These sculptural elements are made of iron forged in a traditional fonge in Kreševo, and with this, the author connected the sea with the deep interior of Bosnia and Herzegovina, very close to its geographical center. Individual circular elements are welded to each other and are shaped like verticals, thus evoking the method of growing mussels on vertically placed ropes. Others, on the other hand, are arranged on the stone floor, pointing to the rocky seabed covered with a variety of life."
Grazie anche a due addetti disponibili e competenti, ho compreso questo padiglione che avevo trascurato le volte precedenti.
"Kapwani Kiwanga è un’artista multidisciplinare che indaga le forme di potere: le loro storie soppresse e gli effetti quotidiani. L’artista trasforma il padiglione canadese attraverso un’installazione scultorea site-specific all’interno e all’esterno dell’edificio, trasformandolo in un tableau di grandi dimensioni. Le distinzioni tra interno ed esterno si annullano; quando ci si muove attraverso l’architettura a spirale, questa si dispiega, moltiplicando le prospettive.
L’installazione è costituita principalmente da conterie (perle di vetro), storicamente utilizzate come moneta e oggetto di scambio, diffusesi a livello globale dall’isola di Murano e inglobate in varie culture materiali. Kiwanga le utilizza per costruire il monumentale a partire da una scala minuscola; ogni perla funge da testimone di transazioni passate che hanno cambiato il paesaggio socioeconomico del XVI secolo e oltre. L’opera affronta la storia del commercio e il modo in cui il commercio di queste perline ha plasmato il mondo. Altri materiali relativi alle transazioni con le conterie salgono dal pavimento verso le pareti e si riversano nel giardino. Incontrando le perline, formalizzano un luogo di scambio, stimolando una riflessione sui temi del valore, dell’estetica e delle relazioni economiche globali."
Curatrice: Gaëtane Verna
"Senza guardare indietro. È così che viaggia il migrante quando lascia la sua casa per non rimanere ancorato al passato, trasformato in sale come Edith, che, secondo un passo biblico, fu avvertita e non poté evitarlo. Il migrante, perennemente straniero, desidera e vuole tornare a qualcosa che non esiste più, e allo stesso tempo non finisce mai di appartenere a nessun luogo.
Nel 2019, Erick Meyenberg, artista messicano di origini tedesche e libanesi, ha riunito una famiglia attorno a un tavolo nella campagna del Nord Italia per celebrare un rituale di coesistenza tra celebrazione e lutto. La famiglia Doda è emigrata più di trent'anni fa da Tirana, la capitale dell'Albania, in Italia, un Paese in cui si è integrata senza perdere le proprie tradizioni, realizzando un'immersione nella cultura locale e conservando al contempo i legami più profondi con la propria terra d'origine. Le particolarità di quella vita familiare e le loro abitudini personali sono ciò che l'artista traduce in questa videoinstallazione con una strategia estetica e concettuale volta a comunicare le cose uniche che ci uniscono nella nostra singolarità di esseri umani: modi di onorare, amare e mancare, gesti ed emozioni che sono primordiali per tutti noi. Così, una sedia vuota, lasciata nel video, è il deposito di un altro rituale: l'accensione di una candela in attesa del ritorno di qualcuno che se ne va, un riferimento storico alla tradizione albanese del parco pubblico Lëndina e Lotëve (Il prato delle lacrime).
Ci allontanavamo, tornavamo sempre evoca in modo poetico sia il viaggio del migrante sia la possibilità di un radicamento momentaneo attorno a un tavolo. Momenti reali nella loro condizione ciclica tra gratitudine e dolore, che vanno e vengono tra ciò che è stato adottato e ciò che continua a essere perso. Un omaggio, anche, a chi non è arrivato o sta per arrivare a una nuova realtà di vita. Un invito all'apprezzamento dello straniero per immaginare connessioni dal comune più intimo: un ammiccamento, un bacio, una carezza o un addio come vitalità condivisa, al di là delle coordinate o dei confini. [...]
Al centro del padiglione messicano si trova un tavolo, incorniciato da schermi angolari che mostrano la famiglia riunita intorno all’altro tavolo. L’opera evoca poeticamente lo spostamento del migrante insieme al radicamento che un pranzo condiviso può rappresentare. Quando la “terra”, luogo di origine o di crescita, è lontana o impossibile, il cibo e la musica diventano portatori di appartenenza, oltrepassando i limiti fisici e simbolici delineati dall’essere umano."
Curatrice: Tania Ragasol
"L’antico carattere cinese “集” raffigura tre uccelli appollaiati su un albero. Usato come verbo può definire il raccogliere, riunire, combinare, prendere, mentre come sostantivo può essere tradotto come “atlante”, una raccolta di arte, cimeli culturali o conoscenza. Entrambi gli utilizzi di “集” enfatizzano l’integrazione e la convergenza e creano spazio per il dialogo, la comunicazione e la comprensione reciproca. Qui usiamo “集” al fine di sottolineare l’integrazione, rappresentando l’incontro globale della diversità: identità, razze, credenze, concetti, scopi, media, background e culture diverse. L’“incontro” è in grado di creare un’opportunità di dialogo, comunicazione e comprensione reciproca.
Negli ultimi cinquant’anni, gli esseri umani sono stati ossessionati dal discorso della “differenza”, dall’opposizione tra soggetto e oggetto, dal concetto di io e “altro”, determinando il protrarsi nel tempo di lotte e di confronti. Oggigiorno, l’umanità si trova ad affrontare il deterioramento dell’ambiente naturale e il dilemma dell’essere “ovunque fuori dagli schemi”. L’auspicio è dunque di realizzare un discorso attivando e trasmettendo la saggezza dell’“armonia senza differenza”, “armonia e simbiosi” ed “estetica” all’interno della cultura tradizionale cinese."
Curatori: Wang Xiaosong, Jiang Jun,
Espositori: Che Jianquan, Jiao Xingtao, Shi Hui, Qiu Zhenzhong, Wang Shaoqiang, Wang Zhenghong, Zhu Jinshi, project team of A Comprehensive Collection of Ancient Chinese Paintings
Un'antica stele...
... riprodotta con la carta
"Quiet Ground è una riflessione rispetto alle differenti forme di dislocazione di terra e acqua, e riconosce che la nostra relazione rispetto alla terra è fisica, spirituale e ontologica. La rimozione violenta e forzata dalla terra dai suoi antenati, risulta come una disorientazione dell'essere. Nonostante il continuo spostamento, le continue strategie di riconnessione al territorio continuano ad essere costantemente implementate. L'esibizione si focalizza su questi perpetui momenti di riparazione, dove i popoli privati di terra attingono a metodi ancestrali per connettersi con essa.
L'esibizione mette in primo piano la materialità, l'azione e la soggettività della terra e celebra la sua capacità di trattenere la memoria e di agire come mediatore tra diverse generazioni. La mostra ci illumina su momenti di riposo in mezzo all'agitazione politica e focalizza l'attenzione sulla voce della terra e su come essa esprime se stessa e trova conforto e sollievo in seguito alle conseguenze della lotta.
Quiet Ground presenta Dinokana, un'installazione sonora a otto canali di MADEYOULOOK che esplora la restituzione e la riparazione della terra nonostante le svariate iterazioni di trasferimento e porta all'attenzione della concomitante relazione tra terra e acqua. Comprendendo due componenti principali - un paesaggio che rende omaggio al terreno montagnoso del Sud Africa, e il suono che agisce come una celebrazione di pioggia e acqua - il santuario immersivo enfatizza l'acqua come infrastruttura di riparo. Dinokana si riferisce a piccoli ruscelli e fiumi la cui rete di affluenti allude a un approccio comunitario reciproco e interconnesso della vita dei neri. Fa affidamento alla pianta della resurrezione una pianta che appare morta e prende vita grazie a poche gocce di acqua come un simbolo per il ciclo di perdita e rigenerazione."
Curatrice: Portia Malatjie
Espositori: MADEYOULOOK (Molemo Moiloa, Nare Mokgotho)