Bar marion

Rubrica di Paola Franchina per Il giornale di Rodafà


Dov’è tuo fratello?


Paola Franchina

12 febbraio 2023


Sabato 29 Gennaio, l’associazione Casa Alta – di cui sono Vicepresidente - ha organizzato un incontro dal titolo “Noi siamo colloquio”, il quale voleva essere un colloquio informale con due relatrici di grande spessore umano e culturale, Franca Feliziani Kannheiser e Silvia Bicciato. Il titolo, che riprende le parole del poeta Friedrich Hölderlin, risulta provocatorio in un mondo in cui l’individualismo pare essere l’unica soluzione ragionevole.

Ribadire la forza del legame sembra paradossale nel postmoderno, in cui l’importanza della relazione viene misconosciuta; dinnanzi al volto sofferente dell’altro, l’uomo risponde: «Son forse io custode di mio fratello?» Gen 4,10. L’unica legge vigente sembra essere quella dell’indifferentismo. Dio, però, con un atto di amore convoca Caino, provocandolo con la domanda: «Dov’è Abele, tuo fratello?» Gen 4,9. L’ interpellanza di Dio intende riportare l’uomo a sé stesso, conducendolo a riscoprire il luogo ove risiede il senso vita, ovvero il legame.

Chi è Abele? Abele è Mahsa (Zhina) Amini, arrestata a Teheran il 13 settembre 2022 con l’accusa di aver indossato l’hijab nel modo sbagliato e deceduta tre giorni dopo, a causa delle violenze subite nel percorso di “rieducazione” a cui è stata sottoposta. Zhina è Abele: la sua morte, come quella di ogni Abele sulla terra, continua ad interpellare l’umanità.

A seguito del decesso di Mahsa Amini si sono innescate una serie di proteste al grido di «Donna, vita, libertà». Questo diviene lo slogan del movimento indipendentista curdo: un atto di ribellione nei confronti della repubblica islamica dell’Iran. Qual è il motivo della protesta? In un paese, in cui il gruppo etnico dominante è quello persiano, il governo è espressione della minoranza araba – ricordiamo che gli arabi in Iran costituiscono circa il 2% della popolazione - , la quale si contraddistingue per una confessione di fede sunnita. Le cause storiche di questo paradosso sono da ricercare nella rivoluzione iraniana del 1979, in cui prende il potere un governo rivoluzionario nazionalista, sciita islamico, determinando l’avvicendarsi di un’economia capitalistica in direzione di un sistema politico-economico e culturale che vietava le influenze occidentali.

Uno squarcio su questa vicenda ci viene offerto dal regista da Jafar Panahi, il quale è da tempo perseguitato dal regime a causa dei suoi film di denuncia, in cui vengono poste sotto gli occhi della popolazione mondiale le efferate violenze che prendono forma in Iran. In particolare, ricordiamo il film Gli orsi non esistono, il cui titolo intende provocare l’osservatore: gli orsi sono, infatti, segno icastico di tutte le paure che ci costringono all’interno dei nostri confini mentali e che ostacolano il cambiamento.

I film di Jafar Panahi vogliono essere un grido al mondo: gli orsi che ci impediscono di guardare oltre il recinto delle nostre case, che ci confinano nella prigione della nostra indifferenza non devono farci paura, perchè non esistono.

Quello che vi starete chiedendo è: perché ricordare tutte queste vicende in occasione del 700 esimo numero de Il giornale di Rodafa? Il motivo è semplice, il giornale vuole essere un grido lanciato al mondo: “Gli orsi non esistono”. La fatica di informare e di stimolare un pensiero critico è funzionale a corrodere le false paure e il conformismo del pensiero unico, suggerendo percorsi nuovi e forme alternative di stare al mondo. Il cinema, la letteratura, l’arte, la musica e la bellezza, in generale, contengono in sé la forza di convocare l’uomo e di sollecitarlo con la domanda: “Dov’è Abele, tuo fratello?”.

Vi annuncio una grande gioia

Paola Franchina

25 dicembre 2022


Nella Notte Santa viene annunciata una grande gioia: «Vi annuncio una grande gioia […] oggi è nato per voi un Salvatore che è Cristo Signore!» (Lc 2,10-11). L’annuncio evangelico ci invita a partecipare a questa gioia e a diffonderla al mondo intero: la nascita di Gesù di Nazaret.

Tuttavia, lo squarcio di luce rischia di rendere ancor più desolante la presenza del buio. Come Scrive E. Dickinson nella poesia, Se non avessi visto, la conoscenza della gioia e della luce può servire ad illuminare la condizione di squallore in cui versiamo, rendendola insostenibile:

Se non avessi visto il sole

Avrei sopportato l’ombra

Ma la luce ha reso il mio deserto

ancora più selvaggio[1].

Dinnanzi all’esortazione evangelica di abbandonarci alla gioia, non si può fare a meno di pensare alle infrastrutture energetiche ucraine distrutte dai bombardamenti russi: è possibile intercettare il lamento di un popolo che teme di non sopravvivere all’inverno, a causa del freddo e del buio. E, insieme al grido di aiuto sollevato da un popolo, si pensa a tutti quei conflitti che, lontani dai nostri occhi, non smettono d’infiammare parti del nostro pianeta.

Dinnanzi a tutto questo male, la salvezza donata da Dio all’umanità prende la forma di un bambino innocente, avvolto in un lenzuolo bianco e deposto in una mangiatoria. Nella mente affiora il dipinto del 1512, in cui il Correggio raffigura la nascita di Gesù Bambino, con a destra la madre rivestita di rosso e, più indietro, Giuseppe, raffigurato nell’atto di riposare. Sullo sfondo dense di significato le rovine in penombra di un tempio pagano, le quali - si scrive nella lettera apostolica Admirabile signum – sono il segno di un’umanità distrutta, corrotta e intristita. 

Tali rovine sono i cocci di un’umanità ferita, traccia vibrante della gratuita violenza, della spietata indifferenza, della rincorsa affannosa verso il denaro a qualunque costo. In questo buio e tra queste macerie, tuttavia, Gesù nasce. Dio sceglie non guardare la realtà da lontano, ma entra nel buio del dolore, per abitarlo e per non lasciare l’uomo nell’insignificanza del nulla. Dio ama così profondamente l’uomo da non poter guardare a distanza l’abisso e sceglie di riempire della sua presenza le notti della sofferenza e della solitudine, sporcandosi con la nostra umanità.

L’eterno si fa tempo, assume la carne per vincere definitivamente la morte e il peccato, ovvero tutto ciò che fa del male e impedisce alla nostra umanità di fiorire pienamente. Così, in questa notte, un bambino in una mangiatoria è in grado di accendere il mondo degli uomini di stupore, portando un amore così semplice e così bello, da non poter essere solo umano.

E allora, dinnanzi questo amore è possibile, nonostante il buio, gioire di gioia grande, perché la speranza incarnata è venuta ad abitare la notte.

Buon Natale!



[1] E. Dickinson, Se non avessi visto, in https://www.isoladellapoesia.com/poesie_famose/123-poesia-dickinson-sole.php.


Buon voto!

Paola Franchina

25 settembre 2022


Il noto testo platonico La Repubblica, in greco πολιτεία, è un dialogo composto tra il 380-370 a.C. Nei capitoli II-III prende spazio una riflessione articolata sullo stato ideale: tale meditazione è occasionata dal critico momento storico in cui versa la città di Atene: a seguito della guerra del Peloponneso si assiste, infatti, all’instaurarsi del governo oligarchico dei Trenta Tiranni, il quale viene a sua volta avvicendato dalla democrazia. Fu proprio la democratica Atene a compiere uno dei delitti più atroci dell’umanità; nel 399 a.C, presso l’acropoli, si riunisce l’Areopago: sul bancone degli imputati vi è Socrate, la cui straordinaria passione per la verità era divenuta un’arma di seduzione capace di ammaliare i giovani; il dubbio socratico, strumento corrosivo di smascheramento delle false certezze millantate dai sapienti, diviene una seccatura per gli ateniesi, al punto che Socrate viene investito del titolo di tafano, insetto noto per la sua molestia in grado di infastidire sia uomini che gli animali. Il processo vede il filosofo intento a far crollare a una a una le accuse mediante semplici domande. La fine della triste vicenda è nota a tutti: Socrate si uccide, avvelenato con la cicuta.

È in questo momento storico che si avvia la riflessione di Platone sullo stato ideale. Tale meditazione è contemporanea alle teorizzazioni di Alcmeone di Crotone, il quale, attraverso un’analogia tra l’ambito medico e quello politico, arriva a sostenere che, se la salute di una società consiste nell’equilibrio (isonomia) tra proprietà (dynameis) opposte, la tirannia può essere considerata alla stregua di una malattia in cui un elemento prevale sugli altri.

Nel solco della teorizzazione di Alcmeone, Platone, nella Repubblica, offre una ricostruzione fenomenologico-genetica della nascita e dello sviluppo della polis: in principio vi era un piccolo villaggio connotato da forti legami di solidarietà, successivamente, si assiste ad un processo di arricchimento e complessificazione interna che determina una graduale degenerazione sia morale che fisica. L’infrangersi dell’idillio iniziale diviene spunto per una riflessione inerente un’utopica città.  Lo stato ideale platonico è connotato da una rigida divisione interna– ciascuno dovrebbe infatti specializzarsi in una sola techne - , costringendo gli abitanti a collaborare per provvedere alle proprie necessità; la società sarebbe così divisa: i lavoratori, la cui caratteristica è la temperanza, i guardiani, la cui caratteristica è il coraggio, e la classe governativa caratterizzati dalla saggezza. Questi ultimi, secondo Platone, disponendo delle facoltà intellettuali, possono presiedere la città, evitando che essa finisca nel caos. Al centro della Repubblica platonica vi è il tema cardine della giustizia, concepita come un’armonia tra le classi dei cittadini.

Con Platone si avvia, così, una riflessione che vedrà impegnati filosofi e teologi. Aristotele arriva a concepire la giustizia come partecipazione all’essenza della virtù: essa diviene medietà, che non consiste nel dare a tutti allo stesso modo, ma costituisce una quantità variabile che muta a seconda del bisogno. Agostino, invece, mette in evidenza lo scarto sussistente tra la conoscenza del giusto e l’azione giusta: quest’ultima, infatti, esige la partecipazione della grazia divina.

Le meditazioni sulla giustizia hanno consumato carte e, ancora, oggi mantengono il loro fascino, sia per l’interesse del tema, o forse, semplicemente a motivo della constatazione che la giustizia non è ancora stata realizzata. Essa, infatti, si insinua in un equilibrio precario tra il già e il non ancora, fungendo da principio critico che orientare le nostre scelte. Lecito, dunque, almeno sperare che non siano, ancora una volta, la demagogia e i populismi a sacrificare, con illusorie promesse, il tafano fastidioso della Verità. 

Buon voto!

I teologi

Paola Franchina

11 settembre 2022


Passeggiando per le vie del meraviglioso centro storico medievale di Basilea mi imbatto nella maestosa cattedrale romanico-gotica, nella cui navata sinistra è custodita la tomba di Erasmo da Rotterdam: una lapide, incorporata in un pilastro, raccoglie la memoria del celere umanista olandese. Dinnanzi alla vista accidentale di quella tomba tornano alla mente alcuni stralci, custoditi dalla memoria, della mia lettura universitaria dell’Elogio della follia.

Ripenso alle parole senza tempo, ancora capaci di colpire, con l’acume di una critica sferzante, la società di oggi. L’arguzia di Erasmo consiste nella scelta di dar parola a Follia, la cui voce narrante appare completamente, o, almeno in parte, delirante.

Follia ci viene presentata come una Dea che pronuncia un’apologia in favore di se stessa: in questo encomio, il lettore è accompagnato in un processo di smascheramento dell’umana debolezza. Come su un palcoscenico, si avvicendano svariati personaggi: dagli umili membri del popolino, ai più illustri esponenti della società.  Follia passa in rassegna le varie categorie dell’umano: i cacciatori, i costruttori, gli alchimisti, i giocatori, i devoti superstiziosi, e gli intellettuali. Tutti, nessuno escluso, sono colpiti dalle parole graffianti di donna Follia: fra tutti gli intellettuali, però, i più bersagliati sono certamente i teologi. Pur amando tale disciplina – ricordo, infatti, che Erasmo conseguì il baccellierato in teologia a Parigi –, l’umanista sceglie di riservare le sue frecce più acute nei confronti di alcuni rappresentanti della categoria, i quali, pur di occuparsi di soavissime nenie, non hanno neppure un momento per leggere i testi sacri e per coltivare la devozione personale.

Vediamo ora quali sono queste soavissime nenie di cui parla Erasmo:

Vi è un momento nella generazione divina? Vi sono più filiazioni in Cristo? È possibile la proposizione: Dio padre odia il figlio? Dio avrebbe potuto materializzarsi in una donna, in un diavolo, in un asino, in una zucca, in una pietra? E in tal caso, come la zucca avrebbe parlato alla folla, avrebbe compiuto miracoli, sarebbe stata crocifissa? E Pietro cosa avrebbe consacrato, se avesse detto messa nel tempo in cui il corpo di Cristo pendeva dalla croce? E in quel momento Cristo poteva essere detto uomo? E dopo la risurrezione sarà permesso mangiare e bere? [1].

I teologi si prodigano in queste futilità, senza preoccuparsi di rafforzare la fede. Le frivolezze sovra citate vengono rese ancor più complesse dalle principali scuole del tempo - Realisti, Nominalisti, Tomisti, Alberisti, Occamisti e Scotisti –, accusate di prodigarsi nella creazione di inutili sofismi, tra i quali viene enumerato il problema dell’allitterazione della fricativa alveolare sorda, cifra icastica della futilità di tali questioni.

Follia rende il prodigarsi degli studiosi piacevole e oltremodo necessario. Essi, proprio grazie ai benefici di Moria, sembrano non accorgersi della vanità dei loro sofismi, ma, anzi, «credono di reggere coi puntelli dei loro sillogismi la Chiesa universale altrimenti destinata a crollare, così come nei poeti Atlante sostiene il cielo sulle sue spalle»[2]. La massa dei teologi sembra smarrirsi nel dedalo di quaestiones vuote e lontane dalla pratica del Vangelo.

La riflessione sollevata da Eramo è ancora aperta: sono in grado i teologi di far proprio il metodo suggerito da Gesù, ovvero, incarnarsi nel loro tempo e occuparsi di questioni rilevanti per l’esperienza umana dell’uomo, oppure, continuano a rincorre la chimera di una teologia astratta e futile, arenandosi nella discussione di inutili cavilli?! Si sa, incarnarsi significa assumere la propria fragilità e accettare il rischio di soffrire: tuttavia, rischiare di sbagliare è la condizione per chi vuole tentare di vivere.



[1] E. Da Rotterdam, Elogio della follia, C. Carena (a cura di), Einaudi, Torino 2014, 170.

[2] E. DA ROTTERDAM, Elogio della follia, C. CARENA (a cura di), Einaudi, Torino 2014, 182.


Sansone e Dalila

Paola Franchina

28 agosto 2022


Addentriamoci nel racconto di Sansone e Dalila, una delle storie più suggestive della Bibbia, intrisa di tensioni politiche, seduzione e inganno. L’autore biblico riprende i colori della mitologia e ci introduce in un racconto dal sapore fiabesco. Il noto giudice, il cui nome ebraico Shimshon significa piccolo sole, appartiene alla famiglia dei daniti: la tribù, discendente dal quinto figlio di Giacobbe, in seguito all’arrivo dei Filistei, stabilitisi nella costa meridionale della Palestina, è stata costretta a ritirarsi a Nord; in questo scenario di tensione politica si insinua la vicenda affettiva ed erotica di Sansone e Dalila. Il possente eroe è figlio di Manoach e della moglie Manoa, i quali avevano ricevuto il dono provvidenziale di Sansone in età ormai avanzata. I due genitori, a motivo della senilità, sono privi della fibra e del vigore educativo proprio di una giovane coppia: essi, infatti, non si oppongono all’unione tra Sansone e una donna straniera, da lui conosciuta nella città di Timna, priva dei valori condivisi dal popolo d’Israele.

Il racconto incalza con la descrizione del progressivo tradimento da parte del protagonista degli oneri previsti dal voto di nazireato: non toccare cadaveri, non bere bevande alcoliche e non tagliarsi i capelli. In primo luogo Sansone trafuga il miele dalla carcassa di un leone, sulle cui ossa si era venuto a creare un alveare di api; secondariamente, partecipa ad un banchetto animato da bevande inebrianti. Infine, la storia di trasgressione raggiunge l’apice in occasione dell’incontro con Dalila, straniera della valle di Sorek, di cui Sansone si innamora.

Alla donna, il cui nome ha origini ebraiche e significa misera o povera, viene consegnata dai Filistei un’ingente somma di denaro per ammaliare il possente giudice e scoprire il segreto della sua forza: Dalila, così sollecitata, persevera nel circuire l’eroe ed estorcere da lui la verità. I tentativi della prostituta, in un primo momento, paiono vani: prima fa legare Sansone con sette corde d’arco fresche, poi con funi nuove non ancora adoperate, infine, si mette a tessere le sette trecce della testa nell’ordito e le fissa con il pettine del telaio. Dalila, purtuttavia, non si arrende e continua a colpire Sansone con le implacabili frecce di Eros. Dinnanzi alle incalzanti richieste della donna, il giudice apre il suo cuore e rivela il segreto della sua forza, confessando: «Non è mai passato rasoio sulla mia testa, perché sono un nazireo di Dio dal seno di mia madre; se fossi rasato, la mia forza si ritirerebbe da me, diventerei debole e sarei come un uomo qualunque»[1].

Viene, così, sancita la condanna a morte del protagonista: Dalila fa addormentare Sansone sulle sue ginocchia, ammansendolo, mentre un uomo nemico procede a tagliargli i capelli.

I filistei, dopo aver sottratto la forza al giudice, possono cavargli gli occhi e legarlo con catene di rame. All’accecamento fisico, segue una rinnovata capacità di visione interiore: Sansone, costretto a far girare la macina nella prigione alla stregua di un animale da circo, torna in sé e con un grido invoca il Signore il quale non fa mancare il suo aiuto e conferisce nuovamente al giudice la sua forza. Così, nel momento finale della storia, l’eroe si riscatta, uccidendo tutti i Filistei e pronunciando la frase divenuta celere: «Ch’io muoia insieme coi Filistei»[2].



[1] Gdc 16,17

[2] Gdc 16,30


«Mosè, Mosè!» (Es 3,4)

Paola Franchina

31 luglio 2022


Lasciamoci travolgere da un racconto senza tempo ambientato in Egitto, terra del papiro, della ninfea loto, canna e acacia. Su questo suolo, popolato da ippopotami, ghepardi, leoni e una invidiabile avifauna, nacque Mosè. La venuta al mondo del profeta non ebbe luogo in un momento propizio per un ebreo: a motivo dell’incessante crescita e proliferazione degli israeliti, infatti, il nuovo re aveva emanato un’ordinanza che ingiungeva di gettare nel Nilo ogni figlio maschio. 

La madre di Mosè, per sfuggire al decreto regio, dopo aver concepito il figlio, lo tenne nascosto per tre mesi, per porlo, in un secondo momento, in un cesto di papiro tra i giunchi. 

A trovarlo fu la figlia del faraone, la quale lo accolse come un figlio a cui diede il nome di Mosè, dall’ebraico Moshe; come suggerisce la locuzione latina, nomen omen, il nome, che in senso passivo indica l’essere salvato dalle acque, suggerisce come un presagio il destino di Mosè, chiamato a salvare il popolo di Israele attraverso le acque del Mar Rosso. Mosè crebbe, così, tra gli agi e i fasti della corte, fino a che un giorno, dopo aver visto un Egiziano vessare un ebreo, decise di fare giustizia e di colpire a morte l’egiziano, nascondendo in un secondo momento il cadavere sotto la sabbia. Il fatto, però, non passò inosservato, la notizia ebbe eco e giunse fino all’orecchio del faraone, il quale ordinò di far cercare Mosè per metterlo a morte. In questo momento della storia, il protagonista in preda al timore fugge dalle sue origini e dal suo passato, rifugiandosi nella terra di Madian, ove sposerà Sipporà, la figlia di un sacerdote. Il Signore, tuttavia, non permette a Mosè di divetare straniero a se stesso e interviene, mostrandosi quale fiamma ardente al centro di un roveto.  La scena, che da sempre incanta i lettori, viene rappresentata da Chagall con un’arte che sfugge alle leggi di profondità e di tridimensionalità. 

Al Museo Nazionale del Messaggio Biblico è conservato il quadro Mosè davanti al roveto ardente capace di impressionare l’osservatore per la straordinaria capacità di evadere da ogni misura o canone. L’artista sollecita lo spettatore a leggere il quadro da destra verso sinistra, come avviene per la scrittura ebraica. Procedendo da destra, vediamo Mosè indossare una tunica bianca, immagine della debolezza umana. Mosè non indossa i calzari: essi vengono tolti prima di avvicinarsi al luogo sacro. Evidente il rimando al rito dello scalzamento, secondo il quale il gesto di levarsi le scarpe ha lo scopo di consegnare il diritto al riscatto al parente più prossimo. Pertanto, la riproposizione di tale gesto in questo contesto sembra suggerire l’atto di consegna da parte di Mosè del compito di riscattare il popolo al parente prossimo, ovvero Dio stesso: se Mosè, per legame di sangue, risulta essere fratello del popolo ebraico, Dio, invece, si trova in un grado di prossimità maggiore in quanto padre. Questa sottigliezza, dunque, ci rivela il legame viscerale e figliale che unisce Israele al suo Dio, qui rappresentato come un angelo, le cui ali, al contatto con i rami, determinano l’accendersi di fiamme dalle tonalità calde in forte contrasto cromatico con il blu che impera sulla tela, evocando alla memoria le acque da cui è stato salvato Mosè alla nascita e, nel contempo, le acque del mar rosso. 

Proseguiamo nella lettura del quadro, fino a giungere al bordo destro, ove troviamo la vicenda cruciale del racconto esodico: la traversata del mar Rosso. Al centro un’onda in forma di nuvola bianca si insinua tra la compagine degli Ebrei e l’esercito di Egiziani. Questi ultimi sono guidati nell’impresa da una testa luminosa, immagine di Mosè, il cui sguardo è rivolto alle tavole della legge che il popolo riceverà come dono sul monte Sinai. 

Come ci ricorda il testo di M. Walzer Esodo e Rivoluzione, infatti, non basta sconfiggere il faraone per approdare nella terra promessa: la libertà richiede un giudizio costante e critico nei confronti di tutti quei sistemi di oppressione e corruzione che possono continuamente riproporsi nell’oggi: occorre, pertanto, il dono della legge, la quale diviene strumento di disciplina costante contro il rischio del faraone di ogni tempo, sia esterno che interno. 

Il paradosso dell’amore


Paola Franchina

17 luglio 2022



Passeggiando per New York, sulla cinquantatreesima strada, tra la Quinta e la Sesta Avenue, ci imbattiamo nel MoMa: il museo di arte moderna. 

All’interno del Museum of Modern Art sono conservati capolavori dell’arte moderna e contemporanea mondiale. 

All’occhio dell’osservatore non può sfuggire il suggestivo quadro di Magritte dal titolo, Les Amants, grande capolavoro del surrealismo onirico. 

Nell’opera, i due amanti sono tratteggiati nell’atto di baciarsi, sorprende, però, il fatto che la loro fusione sia impossibilitata da un velo. Ad essere messo in scena è il paradosso, dal greco parà e doxa, ovvero qualcosa di singolare che sfugge ad una prima opinione superficiale. 

Magritte sovverte i nostri canoni di realtà e, attraverso un effetto straniante, insinua dubbi sull’effettivo. 

Il velo impedisce agli amanti di toccarsi, di essere unità e giungere al sogno romantico di fusione totale dell’anima e del corpo. 

I due, sia pur travolti dalla passione, subiscono un annebbiamento della sensibilità a motivo del panno bianco che si insinua tra i loro corpi e che rende impossibile una reale conoscenza. Lo strato, infatti, non solo impedisce ai due innamorati di toccarsi realmente, ma anche di guardarsi nel volto e conoscersi in profondità. La reale identità dell’altro sfugge ad ogni ingabbiamento, ad ogni tentativo di assorbire la diversità all’interno di un orizzonte di precomprensione. 

Il marcato panneggio del drappo va a suffragare il senso di mistero che avvolge i due protagonisti. 

Il velo, inoltre, non solo funge da ostacolo per una conoscenza reciproca dei due innamorati, ma anche per l’osservatore, il quale non potrà mai giungere ad una spiegazione definita del quadro, ma sarà costretto ad accettare la possibilità dell’ambiguo.

La conoscenza appare una meta asintotica che continuamente sfugge nella sua sovrabbondanza inafferrabile. 

Dinnanzi al presentarsi del mistero dell’altro, risulta fallimentare ogni tentativo di possesso. 

Alla mente giunge il comando radicale di Dio rivolto al patriarca Abramo di sacrificare l’oggetto del suo amore nell’episodio del sacrificio di Isacco. 

L’imperativo sollecita la rinuncia al dominio del figlio yahid, affinché questi sia riconosciuto come segno di una relazione e non come oggetto di possesso. 

All’ordine divino corrisponde la prontezza dell’esecuzione da aprte di Abramo, il quale, senza neppure lasciar passare la notte, si alza di buon mattino e giunge al monte che Dio gli aveva indicato. 

Ciò che rende Abramo un personaggio simpatico è proprio la sua umanità: egli, infatti, sebbene da un lato non obietti al comando divino ed esegua in modo solerte i preparativi, nelle azioni messe in atto non è privo di quelle ambiguità proprie di un padre che è legato al figlio. 

Giunti nel luogo del sacrificio, il narratore biblico, sapientemente, lascia grande spazio alla 'aqad, ovvero la legatura del figlio, quasi a suggerire l’idea di un vincolo soffocante dal quale Isacco deve essere sciolto per poter vivere la sua esistenza liberamente come soggetto distinto dal padre. 

L’episodio consente al patriarca di giungere ad una conoscenza di se stesso e delle disposizioni profonde che animano il suo cuore. 

In affidamento al Padre, Abramo rinuncia al possesso bramoso del figlio e al desiderio di volersi assicurare autonomamente il proprio futuro. Interessante far notare una piccola sottigliezza, al termine del racconto Abramo libera un ariete che era rimasto intrappolato in un cespuglio. 

Questa immagine intende suggerire una paternità, di cui l’ariete è figura, che viene svincolata dalla propria possessività. 

L’episodio del sacrificio di Isacco custodisce ancora oggi la sua intensità e bellezza in virtù della capacità di illuminare il cuore dell’uomo e offrire una promessa eterna. 

Come gli amanti nel quadro di Magritte, l’uomo non può possedere l’oggetto del proprio desiderio, non può assicurarsi la garanzia del proprio compimento: il comando divino a liberare Isacco, dunque, appare provvidenziale. 

L’ingiunzione senza tempo è rivolta ad ogni uomo e sollecita alla rinuncia della pretesa di possesso sull’altro e sul futuro, affinché essi siano ricevuti come dono. 

Curioso notare che al termine dell’episodio della legatura di Isacco, dopo che Abramo torna a Beèr-Shèba, il figlio non venga più nominato. 

Il lettore è, così, chiamato ad intuire in questo gap narrativo una lacuna che suggerisce l’atto di slegatura che finalmente è compiuto. 

Abramo può amare Isacco poiché lo lascia libero, nella sua assoluta alterità, rinunciando alla bramosia del possesso. Così gli amanti di Magritte potranno finalmente amarsi, quando si lasceranno condurre dalla pedagogia del Padre in un percorso che riconosca in primo luogo il velo che copre sia l’altrui che la propria identità, con la consapevolezza che solo a Dio è dato custodire l’insondabile profondità del mistero umano.

Buen camino

Paola Franchina

3 luglio 2022


Sul molo della Madonnina, il porto di Viareggio accoglierà per tutta l’estate tre meravigliose sculture di Bruno Catalano; l’artista è noto per la sua capacità di plasmare con il bronzo immagini di viaggiatori che sembrano rarefarsi man mano che incedono: le sagome non hanno i contorni definiti e si confondono con il paesaggio. Tra le mani i viandanti hanno l’inconfondibile valigia, segno iconico dell’homo viator: ciascuno porta con sé ricordi segnati dal tempo, incontri durati un’istante di eternità, volti conosciuti e lasciati lungo la strada.

Partire significa rinunciare alle proprie sicurezze, in direzione di un ignoto da scoprire: nonostante l’incertezza, il viaggio da sempre chiama l’uomo ad affrontare ciò che non conosce. Neppure la paura di precipitare dal bordo della Terra poteva intimorire gli antichi marinai: essi salpavano privi di garanzia alcuna fuorché la posizione del sole e delle stelle nel sereno e l’osservazione dell’orientamento delle onde oceaniche con il coperto. Poi arrivò la bussola, con un ago sensibile al campo magnetico terrestre, la quale consentì di riconoscere con maggior sicurezza i punti cardinali. Sia pur mutando gli strumenti di viaggio, i viaggiatori da sempre condividono il medesimo anelito che li rende  mendicanti di senso. In particolare, L. M. García in Il cammino di Santiago. Una visione storica da Burgos alla meta, ci narra la forza attrattiva di un fenomeno che incanta pellegrini da tutto il mondo, Il cammino di Santiago. Esso ebbe, così, inizio:

nell’anno del Signore 830, nel giorno in cui il vescovo di Iria Flavia, Teodomiro, avvisato dall’eremita Pelagio e accompagnato da numerosi fedeli, riconobbe in un monumento funerario antico, scoperto in una località della Galizia, la tomba che custodiva i resti dell’apostolo Giacomo. Il suo vescovo non perse tempo e avvisò immediatamente il re delle Asturie, Alfonso II, che a sua volta ordinò la costruzione di una cappella idonea a ospitare il sepolcro e a offrire rifugio ai primi devoti che vi si recavano in preghiera. In quel preciso istante sorgeva la città di Santiago de Compostela e aveva inizio il fenomeno[1].

Nell’arco di un secolo, la notizia che la tomba di San Giacomo si trovasse in Galizia si diffuse per tutta Europa, sollecitando l’iniziativa di migliaia di pellegrini da ogni dove.

Come ci suggerisce il suggestivo Monumento Ai pellegrini del Monte Do Gozo, i primi pellegrini sentirono la necessità di dotarsi di simboli di identificazione, partendo dal vestiario. Essi si abbigliavano in modo molto semplice e portavano con loro bastone, la bisaccia, una mantellina, la zucca (o borraccia), un cappello a tesa larga e la nota conchiglia.

I viaggiatori non camminavano soli, una delle precauzioni fondamentali era quella di organizzarsi in gruppo: la comitiva poteva essere formata da alcuni membri della comunità di origine, oppure, nel peggiore dei casi, essa veniva costituita non appena si iniziava il cammino. Diverse fonti mettono in evidenza che, durante il tragitto, era abitudine dei pellegrini cantare per rendere più leggero il viaggio; suggestivo, a tal proposito, lo spettacolo descritto dal Codex Calixtinus di coloro che, giunti a Santiago, si preparavano a vegliare tutta la notte cantando e suonando. Ancora, oggi, la magia del cammino si rinnova con vigore: la strada diviene un luogo catartico che riabilita l’uomo nella sua globalità, quale sinolo di corpo e spirito; essa rappresenta una palestra di vita, «un antidoto efficace contro la vita urbana e sedentaria, lo stress, l’individualismo, il localismo che emargina e altre miserie del mondo contemporaneo»[2]. E, così, sulle tracce delle note frecce gialle, i pellegrini rendono fiorente una pratica vitale: armati di zaino, sacco a pelo, materassino, gavetta e un pizzico di follia prendono il volo in direzione della Cattedrale di San Giacomo. 



[1] L. M. García L. M., Il cammino di Santiago. Una visione storica da Burgos alla meta, Messaggero di Sant’Antonio Editrice, Padova 2009, 10.

 

[2] Ivi., 172.

Zuppi, in cammino per il Regno


Paola Franchina

29 maggio 2022



La nomina del Cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna, in qualità di presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) il 24 Maggio ci ha strappato un sorriso: la scelta appare coraggiosa, un cambiamento in direzione della carità e della gratuità. Ancora una volta, Papa Francesco ha affidato un incarico di rilievo ad una persona che si è dimostrata docile alla parola, divenendo strumento vivo del vigore prorompente della Buona Notizia. Il Vangelo, infatti, in coloro che lo accolgono sollecita un dinamismo e una creatività vitale. Esemplificative, in tal senso, risultano essere due parabole presenti in Matteo 13: quella del tesoro nel campo e quella della perla preziosa. La prima ci parla di un uomo che, dopo aver trovato un tesoro nascosto in un campo, vende tutto ciò che possiede pur di comprarlo. La seconda, invece, ci parla di un mercante che trova in mezzo alla merce una perla e, in seguito a ciò, vende tutto, custodendola. Il focus di queste parabole è rappresentato dal comportamento messo in atto dagli uomini. Infatti, nulla ci viene descritto del tesoro e della perla, di entrambi ci viene detto essere di grande valore, ma nulla più: l’evangelista preferisce lasciare spazio all’immaginazione. Così anche la descrizione della scoperta è presentata in modo sommativo. Maggior attenzione viene dedicata alla descrizione della condizione iniziale dei due uomini, il primo è un salariato, mentre il secondo è un ricco mercante. Dopo la scoperta, il contadino «va», «vende» e «compra»[1]. Allo stesso modo, sebbene nel secondo caso l’aspetto del verbo sia puntuale aoristo, anche il mercante «andò», «vendette» e «comprò»[2]. Entrambi i personaggi prendono decisioni radicali con estrema naturalezza. Quello che il contadino possiede non è molto, ma il campo ove vi è il tesoro ha un maggior valore: pertanto, la scelta di vendere tutto per comprarlo appare la più conveniente. Il ricco mercante, sia pur avendo un patrimonio di rilievo rispetto al povero salariato, anche in questo caso, vende la merce che ha un valore esiguo rispetto alla preziosissima perla.

Per concludere, possiamo dire che entrambe le parabole intendono mettere in evidenza non tanto che il regno dei cieli sia simile ad un tesoro o ad una perla, quanto piuttosto che esso è reso presente, sia pur in forma incoativa e dinamica, dal complesso di azioni messe in atto a seguito del ritrovamento. Il regno dei cieli, dunque, non si identifica con il possesso di qualcosa, sia pur di inestimabile valore, ma richiede una decisione, anche radicale. Sebbene il dono iniziale si offra nella sua eccedenza gratuita, la coscienza del valore del dono è inseparabile da un processo di appropriazione. Processo che non deve essere percepito con spirito di abnegazione e sacrificio, ma quale frutto naturale e spontaneo di una scoperta di inestimabile valore. Dinnanzi alla bellezza e alla radicalità della grazia scoperta l’uomo che accoglie questo dono va, vende e compra. Queste azioni sono animate dalla gioia, la quale è il corrispettivo antropologico della grazia. Riprendendo il versetto matteano: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo»[3].

Come ci mostrano le parabole del Regno, la religione ben lungi dall’essere l’oppio dei popoli. Il rischio in cui incorrono i credenti è quello di considerare opportunisticamente la fede alla stregua dell’oppio, ovvero, uno strumento a cui fa ricorso un sofferente per ridurre un dolore mediante l’alimentazione delle illusioni. In queste parabole, invece, abbiamo mostrato come l’Evangelo si imponga con una forza rivoluzionaria, capace di sollecitare e incalzare spontaneamente un processo che incida significativamente nella storia. La religione è ben lungi dall’essere una razionalizzazione della realtà esistente, ma invita al cambiamento e ad un intervento di cooperazione nella realizzazione del regno. L’augurio, dunque, che il Cardinale Matteo Maria Zuppi possa continuare a servire il mondo, con il coraggio e la tenacia richiesta a tutti coloro che scoprono il tesoro nel campo e, pieni di gioia, contribuiscono a realizzare il Regno in terra.



[1] Mt 13,44.

[2] Mt 13,45-46.

[3] Mt 13,44.





Tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali


Paola Franchina

15 maggio 2022


Lasciamoci trascinare dall’entusiasmo coinvolgente di Cyrano de Bergerac, un sognatore animato da amore nobile: questo scontroso spadaccino, protagonista della commedia teatrale di Edmond Rostand, è capace di mandare in visibilio il pubblico, toccando, col suo lunghissimo naso e con la potenzialità espressiva delle sue parole, le corde dello spettatore. In particolare, la nostra riflessione prende abbrivio da alcuni versi del cantautore F. Guccini che nella canzone Cirano offre una critica corrosiva alla società. Nessuno può sottrarsi alle sferzate pungenti dello spadaccino: tra i destinatari della sua invettiva vi sono i materialisti, accusati di misconoscere la dimensione trascendente e simbolica dell’effettivo. Così canta Cirano:  

E voi materialisti, col vostro chiodo fisso

Che Dio è morto e l'uomo è solo in questo abisso

Le verità cercate per terra, da maiali

Tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali[1]

 

Lasciamoci sollecitare da questi versi per mettere in luce uno dei rischi più comuni in cui possono incorrere le scienze: la fallacia naturalistica. I dati scientifici, sia pur di fondamentale importanza per garantire una riflessione globale, rischiano di scadere in un naturalismo materialistico che riconduce dolore, gioia, senso del bene e altri contenuti della coscienza a semplici meccanismi nervosi emersi per selezione naturale[2].

Le scienze incorrono nell’alea di presentarsi come conoscenza esaustiva della realtà: la resistenza solipsistica può portare ad un riduzionismo che semplifica la complessità ai suoi elementi quantificabili. La frammentazione delle conoscenze nei vari saperi impedisce di ripensare alla densità simbolica dell’effettivo, obliando le interrogazioni essenziali della vita: «Il fondamento di quei processi come il pensare, l’amare, il credere, il pregare, che anticamente veniva considerato di natura spirituale, viene compreso, oggi, nella realtà materiale e, quindi, considerato di natura soltanto neuronale[3].

Si insinua, così, una frattura tra il mondo della scienza e Lebenswelt, il mondo della vita di husserliana memoria, laddove quest’ultimo indica una conoscenza del mondo che viene percepito dall’io. Come abbiamo a più riprese mostrato, alla conoscenza logico-obiettiva si deve affiancare l’evidenza originaria, che rimanda ad uno stadio pre-logico in cui l’io soggettivo è coinvolto. Si rende, dunque, auspicabile un dialogo positivo e costruttivo con altre forme di sapere, quali la teologia e la filosofia, affinché queste possano provocare, in modo positivo, la riflessione contro il rischio di ogni deriva riduzionistica del sapere. 

Scrive D’Onghia:

Cercare di rinchiudere l’ampia e diversificata esperienza dell’uomo nei meccanismi cerebrali significa, in realtà, non prendere in debito conto tutto il valore simbolico dell’esistenza. La teologia può contribuire, con la visione relazionale, unitaria e dinamica della persona, a tenere desta la consapevolezza che la questione antropologica non potrà mai dirsi conclusa, in quanto, offre la ragionevolezza della possibilità di un’apertura dell’uomo al trascendente. Nel rispetto dell’integrità dell’uomo, la teologia può essere coscienza critica nei confronti dei vari riduzionismi e aprire nuove vie per la riflessione[4].

 

 


[1] F. Guccini, Cirano, in https://www.google.com/search?client=firefox-b-d&q=cyrano+guccini#wptab=s:H4sIAAAAAAAAAONgVuLRT9c3LDYwLcxKSkt5xGjOLfDyxz1hKb1Ja05eY9Tg4grOyC93zSvJLKkUkuJig7IEpPi4UDTy7GLSS0lNSyzNKYkvSUyyyk620s8tLc5M1i9KTc4vSsnMS49PziktLkktssqpLMpMLl7EKpdWlJiXnFqcnK-QXpqcnJmXqZCcCRTKVyhJLS7JBwCpdDUvnAAAAA

[2] Cf. D’Onghia, N., «Il Sé relazionale. Spunti di riflessione tra neuroscienza e teologia», in R. Massaro – N. D’Onghia, ed., Il Sè tra ragione ed emozione. Come le neuroscienze interrogano la teologia, Ecumenica Editrice, Bari 2019, 59.

[3] Ivi, 58.

[4] Ivi, 63.



Rosso, giallo e nero

Paola Franchina

1° maggio 2022


Forse tra i miei venticinque lettori vi è qualche fortunato che ha potuto trovarsi dinnanzi alla straordinaria tela Blue Poles: l’opera, realizzata da Jackson Pollock, si estende per 4,86m in larghezza e 2,1m in altezza, ed è attualmente conservata alla National Gallery of Australia.

In questa fusione di colori, l’oggetto è indecifrabile: l’effetto è quello di un dedalo scomposto, realizzato mediante il Dripping, da to drip “sgocciolare”: tecnica pittorica che consiste nel far colare sulla tela il colore direttamente dal barattolo o dal pennello. 

Il metodo del Dripping trae ispirazione nell’ambito della scrittura automatica, che consiste in una trascrizione dei sogni su carta, realizzata con una certa celerità per permettere al subconscio di esprimersi, senza la mediazione e la cesura della coerenza logica. Il confine tra conscio e inconscio, così, si allenta: le forme definite e nette lasciano il posto a grovigli indistinti.

All’interno di queste macchie inconsce, si stagliano otto segmenti neri, che danno nome al quadro. Essi rappresentano icasticamente l’anelito umano verso una definizione, chiara e distinta. Quante volte nella nostra esistenza ci siamo confrontati con lati opposti del nostro carattere, talvolta accogliendoli all’interno del dinamismo personale, altre volte, invece, sprecando tempo ed energie per cercare di soffocarli, censurando la complessità. Gli psicologi presentano due tipi di polarità: quelle ego-aliene e quelle ego-sintoniche. Le prime sono rappresentate dagli aspetti del nostro carattere che tentiamo di soffocare in quanto percepiti dal soggetto come inaccettabili; le polarità ego-aliene, invece, sono quelle che un individuo può accogliere ed integrare con maggiore serenità.

La psicologia junghiana ci sollecita ad un ripensamento dell’Io come Totalità: l’individuo viene concepito come una multipolarità che non richiede sintesi. Anche nella scuola della Gestalt, Fritz Pers ritiene che maggiori sono le tensioni polari che il soggetto include nella sua personalità, più vi è progressione. Le personalità complesse sono, così, in grado di esprimere e integrare le potenzialità latenti o atrofizzate presenti nel proprio repertorio caratteriale. La terapia deve, infatti, accompagnare il soggetto a ricercare una maggior fluidità nel modo di percepirsi, integrando stabilmente le tensioni. La complessità del vivente, dunque, sollecita una cura olistica che consenta di superare ogni falsa dicotomia e di giungere ad una sintesi che non annulla, ma mantenga polarità sempre più differenziate.

Questa postura filosofica nei confronti di sé stessi e della propria complessità consente un nuovo sguardo sul mondo, favorendo un’apertura «all’enorme ricchezza della realtà». Affinché questo accada, occorre una disposizione contemplativa che esca «dalla parzialità della visione in molti modi praticata, ossia proprio da ciò che in essa viene percepito come astratto, per arrivare così alla “filosofia del concreto-vivente”»[1]. Come mette in evidenza R. Guardini, nel testo L’opposizione polare, l’opposizione non è una caratteristica accessoria di ciò che è reale o vivo, ma è lo stesso vivente. La tensione diviene il principio strutturante la realtà: l’abilità del soggetto sta nel «cogliere con la maggior chiarezza possibile ciò che si è trovato», affinché l’opposizione non sfoci nella contraddizione che porterebbe «a una dilacerazione delle forze». Mentre il contraddittorio vede due polarità escludersi in senso incondizionato, nell’opposizione si assiste a «due cose a un tempo: relativa esclusione e relativo collegamento di forze in una sola e medesima res»[2]. Mentre la contraddizione vede l’impossibilità di coordinare polarità differenti, l’opposizione mantiene la meravigliosa tensione tra i pali neri contorti che cercano di definire e le gocce di colore dalle tonalità rosse e gialle che sfuggono alla precisione come nel quadro di Pollock.


[1] Gerl-Falkovitz, Romano Guardini, la vita e l’opera, 309.

[2] Ivi, 311.


Vide e credette


Paola Franchina

17 aprile 2022



Il vangelo di Giovanni racconta che «Nel giorno dopo il sabato, Maria di Magdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro»[1]. Il termine buio, skotia, presenta numerosi echi nel racconto evangelico di Giovanni. Si pensi al prologo in cui si narra della tensione drammatica tra tenebre e luce: «la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta»[2]. Ancora, rammentiamo il fariseo Nicodemo, uno dei capi dei Giudei, nell’atto di accostarsi a Gesù «di notte»[3]. Infine, si pensi all’enigmatico discorso pronunciato da Gesù nell’incontro con il cieco nato: «Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare. Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo[4]».

Nel passo di Gv 20, il buio esprime l’incongruenza dell’atteggiamento di Maria Maddalena, la cui percezione è caratterizzata dall’incomprensione, come si può facilmente evincere da quanto comunica ai discepoli: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto»[5]. Maria, pertanto, risulta incapace di interpretare la tomba vuota come un segno.

L’annuncio dà abbrivio ad una corsa che vede come protagonisti due discepoli: Pietro e Giovanni. Il discepolo amato arriva per primo e, fermandosi sulla soglia dell’ingresso, «vide le bende per terra, ma non entrò»[6]. Egli arriva a scorgere i panni funebri, othonia, che giacciono, keimena. Subito dopo, giunse Simon Pietro, il quale «entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte»[7]. Nonostante Pietro intraveda di più degli altri personaggi, il suo sguardo si muove ancora nell’orizzonte di una constatazione materiale.

Pietro scorge il fatto, ma non ha l’intelligenza per comprenderlo. Se l’ispezione di Pietro non giunge ad interpretazione credente, ad essa segue quella del discepolo amato.

L’intero racconto è disseminato da verbi di visione: lo scorgere, blepo, di Maria è seguito dal vedere di Pietro, theoreo, infine, si assiste al vedere, orao, di Giovanni. Questa sequenza vede l’avvicendarsi di verbi di visione via via più intensi. Si passa dallo scorgere segnato dall’incomprensione di Maria, al vedere nella fede di Giovanni. Il discepolo amato giunge, infatti, a comprende la morte in croce come un’elevazione, arrivando al registro ermeneutico della fede.

Il dato diviene ora segno, restituito nella sua densità simbolica, Giovanni può essere pertanto annoverato, a ragione, nella schiera di quelli «beati» «che pur non avendo visto»[8] hanno creduto.

Questo brano appella il lettore ad uno sguardo nuovo sul mondo, in filosofia espresso con il termine Weltanschauung; la realtà, nel suo dischiudersi ambivalente, sollecita l’uomo ad una scelta: o scorgere nell’effettivo le bende di un corpo trafugato, o vedere nel reale i segni del Risorto che è vivo in mezzo a noi.



[1] Gv 20,1.

[2] Gv 1,5.

[3] Gv 3,2.

[4] Gv 9,4-5.

[5] Gv 20,2.

[6] Gv 20,5.

[7] Gv 20,6.

[8] Gv 20,29.


Le pietre scartate

Paola Franchina

3 aprile 2022


Pietre scartate: questo è stato per secoli il ruolo della donna nella Chiesa. Solo a partire dal 1965 è stato possibile per la donna accostarsi allo studio teologico: il Concilio Vaticano II diede abbrivio ad un’istanza di rinnovamento che vede il riscatto della condizione femminile dallo stadio di minorità in cui era confinata. Il 22 Novembre 2014 viene consegnato per la prima volta il premio Ratzinger ad una donna, Anne-Marie Pelletier, la quale, in uno studio dal titolo emblematico, Le pietre scartate, offre un’indagine sul ruolo femminile nel cristianesimo e nella Chiesa.

Oggi siamo in compagnia di una delle prime protagoniste del cambiamento culturale che ha avuto luogo nel postconcilio: Catalina Morey Pons. La donna appartiene alla Famiglia Missionaria Verbum Dei, fondata nel 1963 a Maiorca dal sacerdote P. Jaime Bonet Bonet. Questa fraternità presenta al suo interno un caleidoscopio umano che annovera laici, religiosi, ordinati e famiglie accomunati dalla medesima chiamata ad essere Verbum Dei.  All’età di 20 anni Catalina viene inviata alla Pontificia Università Gregoriana ma, una volta giunta a Roma, non le è permesso di accedere agli studi. Un anno più tardi, però, le cose cambiano e, finalmente, Catalina può avere accesso all’Università erede del Collegio Romano fondato da Ignazio di Loyola.

La testimone di questo momento di cambiamento culturale ha compreso, fin da subito, la portata di quanto era in atto; lei stessa afferma: «da missionaria, non comprendevo la necessità di approfondire la teologia, la mia formazione era filosofica, pensavo che per parlare con la gente fosse sufficiente avere un’esperienza personale con Gesù vissuta all’interno di una comunità».

Non senza perplessità, la missionaria inizia questo iter formativo, del quale ricorda alcuni momenti: «ero l’unica donna in mezzo a soli uomini. Mi sono sentita apprezzata da coloro che mi circondavano: noi eravamo un ordine povero e, per mantenerci durante gli studi, avevamo la necessità di lavorare. Dovevo conciliare orazione, missione, studio e lavoro: in quegli anni facevo la donna delle pulizie».

Al termine del suo percorso di studi, Catalina rivede le sue posizioni circa la necessità della formazione teologica: «In Europa ho trovato molto utile lo studio teologico, in particolare per il sostegno della fede delle persone più colte, le quali necessitano di un fondamento solido e di riconoscere l’intrinseca razionalità del messaggio cristiano».

Tuttavia, la missionaria mostra alcune criticità presenti nei percorsi di formazione: «nei paesi di missione la teologia appresa a Roma non serviva. La riflessione è molto europeizzata, occorre che ogni Paese possa creare e sviluppare una teologia propria, nutrita e arricchita della cultura locale. Io, in particolare, ho dovuto approfondire la teologia del popolo, nella quale si esprime la creatività della teologia argentina, a cui si ispira l’attuale Papa».

Al concludersi del nostro incontro, Catalina non si esime dal lanciare un messaggio a tutte le altre donne che intendono accostarsi all’iter teologico: «Le donne hanno tanto da offrire alla Chiesa e al Popolo di Dio, esse hanno un carisma speciale nel comprendere la realtà, che può integrare e arricchire la prospettiva maschile. Non hanno bisogno di rivendicare posizioni o potere in virtù del fatto di essere donne, ma mostrando, con l’uso acuto della ragione, il valore intrinseco del loro contributo».

La lettrice istituita

Paola Franchina

20 marzo 2022


Siamo in compagnia di Deborah Sutera, prima donna ad aver ricevuto il ministero di lettrice da Papa Francesco il 23 Gennaio 2022 nella Basilica di San Pietro.

Nel suo nome riecheggia quello di un personaggio femminile del libro dei giudici, la profetessa Deborah, la quale si distingue per la parresia e l’ardore per la Verità.

Deborah Sutera è nata in una famiglia praticante, ove era solita frequentare la Scrittura, da lei percepita «come una casa». All’età di 22 anni, dopo aver dato abbrivio agli studi filosofici, accede alla lettura delle opere di Santa Teresa D’Avila, nelle quali scorge «la bellezza di un cammino che attraversa la sofferenza». Sostiene, infatti: «Teresa era una donna frantumata affettivamente ma, nonostante questo, il Signore ha fatto grandi cose nella sua vita». Decide, allora, di entrare nelle Carmelitane Scalze di Lucca, attratta dalla «misericordia del Padre». Gli anni del Carmelo sono segnati dallo studio teologico, dalla meditazione della scrittura e dalla vita fraterna.

Il cammino claustrale viene repentinamente interrotto all’età di 28 anni, a seguito della diagnosi di una patologia muscoloscheletrica; le viene, pertanto, consigliato dagli specialisti di interrompere il suo percorso nel Carmelo: la notizia fu per Deborah come una doccia fredda. Deborah si sentiva come «Frodo che, alle pendici del monte Fato, si vede costretto a tornare in Contea».

Una volta lasciata la vita claustrale sceglie di continuare con gli studi teologici, afferma: «il percorso accademico è stata la strada che si è spalancata e ha dato continuità con quanto facevo prima, è stato il modo con cui il Signore mi ha accolta»; questo percorso, tuttavia, non è privo di ostacoli, «in Italia il cammino teologico richiede grandi sacrifici e dà pochissimo merito, soprattutto alle donne, ma, se si vive questo percorso con cuore ardente e saldo, introduce nel cuore del Figlio. Si rende auspicabile un maggior riconoscimento e agevolamento per i laici e le laiche, affinché la riflessione non rimanga prerogativa esclusiva di coloro che intraprendono cammini ministeriali ordinati o religiosi».

Nel corso dei suoi studi teologici, inaspettata appare la proposta di diventare lettrice. Deborah racconta: «non è stato facile per me accogliere l’invito, pur comprendendo l’importanza di questo passo, percepivo che molte questioni restavano aperte da un punto di vista intellettuale».

Sceglie, non senza perplessità, di accettare, sentendo che «questo ministero doveva essere accolto a nome di tutte le altre donne». Deborah, tuttavia, non nasconde come questo passaggio presenti zone d’ombra: «rimangono sospese alcune questioni, tra le quali occorre comprendere cosa significhi il fatto che un laico e una laica possano essere lettori. Il rito vissuto a San Pietro presenta un legame intrinseco tra proclamazione e annuncio, non si riduce al momento occasionale di proclamazione della Parola, ma deve essere ripensato all’interno della dinamica più generale dell’annuncio. Occorre, dunque, riflettere su cosa significhi che un laico possa annunciare la Parola, in virtù dell’autorità ricevuta nel Battesimo».

Dopo due mesi dell’avvenuta istituzione del ministero, Deborah sostiene che ci sia stata una buona accoglienza da parte del clero, tuttavia esprime le sue preoccupazioni: «temo che la riflessione teologica su questi ministeri non progredisca e quanto è accaduto divenga solamente un fatto estemporaneo e marginale». La giovane lettrice auspica un ripensamento del ruolo del laicato all’interno della vita della Chiesa: «Credo che tutto il popolo di Dio sia chiamato ad una grande avventura, un nuovo cammino verso Mordor, ma uniti possiamo farcela; accogliendo con docilità l’invito dello Spirito, è possibile rinunciare ad ogni forma di clericalismo, gettando nelle fiamme del monte Fato l’anello del potere».


Donne impertinenti

Paola Franchina

6 marzo 2022


Oggi ci lasceremo condurre dal testo di Gabriele Maria Corini, Donne impertinenti, all’interno del Libro dei Giudici. L’autore ha il grande merito di portare alla luce un intreccio narrativo al femminile, in cui spiccano figure di donne connotate da un agire non convenzionale e dall’audacia propria di coloro che si lasciano sollecitare dalla parola di Dio. Nella schiera delle donne impertinenti, spicca la profetessa  Deborah, in ebraico דְּבוֹרָה, la quale ci viene presentata con poche note introduttive quale moglie di Lappidot, descritta nell’atto di giudicare sotto la palma.

Il Libro dei giudici narra che un giorno Deborah decida di convocare Barak, comandante israelita, invitandolo a radunare diecimila uomini di Neftali e di Zabulon. Le truppe avrebbero dovuto marciare in direzione del Tabor e, in prossimità del torrente di Kison, il Signore avrebbe messo nelle loro mani Sisara, generale di Iabin.

Barak risponde all’ordine della profetessa, ma chiede che lei sia presente al suo fianco nella marcia. Sorprendente la risposta della donna: «Bene, verrò con te; però non sarà tua la gloria sulla via per cui cammini; ma il Signore metterà Sisara nelle mani di una donna»[1]. Ad uccidere il nemico del popolo d’Israele non sarebbe stato Barak, né alcun altro soldato dell’esercito, ma una donna. Quest’anticipazione sul piano narrativo sollecita la curiosità del lettore, il quale è incalzato nella lettura, al fine di comprendere come Dio porterà a compimento la sua parola nella storia.

La trama prosegue con Barak che convoca Zàbulon e Néftali a Kades e, con un seguito di diecimila uomini, sale sul monte Tabor. A questo punto Sisara, avuta notizia dei fatti, raduna novecento carri di ferro e un esercito, assoldando gli uomini che abitano da Aroset-Goim fino al torrente Kison.

Ricevuto il segnale da Debora, Barak scende dal monte Tabor pronto allo scontro decisivo. Il testo biblico sottolinea come il Deus ex machina, che muove l’ordito delle trame umane, sia il Signore, il quale interviene nella storia, sconfiggendo l’esercito di Sisara con tutti i suoi carri, dinnanzi a Barak. A questo punto, il generale di Iabin è costretto a scendere dal carro e fuggire a piedi, muovendosi in direzione della tenda di Giaele, moglie di Eber il kenita.

Ed ecco, ancora una volta, il Signore sceglie una donna per portare a compimento la sua parola: Giaele, con mirabile ardimento, invita Sisara a ricevere ospitalità presso la sua tenda e, successivamente, fornisce al generale una coperta per ripararsi dal freddo e del latte per placare la sete; una volta che Sisara è caduto tra le braccia di Morfeo, Giaele prende un picchetto della tenda e un martello, si avvicina di soppiatto e conficca il picchetto nella tempia del grande generale, decretando la vittoria degli israeliti. A suggellare tale successo segue, nel capitolo 5, lo straordinario cantico di Deborah e di Barak.

Il lettore è affascinato dal coraggio e dall’intraprendenza con cui queste donne, Deborah e Giaele, hanno risposto alla sollecitazione dello Spirito, osando superare gli schemi interpretativi in cui si era soliti confinarle.

Il testo Donne impertinenti si fa apprezzare non solo per la straordinaria cura per il dettaglio, ma anche per la scelta di mettere in rilievo figure considerate di second’ordine nella tradizione. Accanto alla storia dei vincitori, infatti, viene data voce alla sorte dei vinti. Struggente l’immagine di un’altra donna, madre di Sisara, la quale attende impaziente l’arrivo del figlio:

Perché il suo carro tarda ad arrivare?

Perché così a rilento procedono i suoi carri?

29 Le più sagge sue principesse rispondono

e anche lei torna a dire a se stessa:

30 Certo han trovato bottino, stan facendo le parti:

una fanciulla, due fanciulle per ogni uomo;

un bottino di vesti variopinte per Sisara,

un bottino di vesti variopinte a ricamo;

una veste variopinta a due ricami

è il bottino per il mio collo...[2]

Impossibile non lasciarsi toccare dal dolore di questa donna che, dinnanzi alla prova della morte del figlio, non riesce a rassegnarsi all’amara verità.

Il grido di dolore di questa madre ci richiama alla mente le immagini strazianti di altre donne che in questi giorni hanno riempito le pagine dei giornali: da un lato le madri ucraine, costrette a cucire sugli abiti dei figli il gruppo sanguigno e, dall’altro, l’attivista russa di 77 anni, arrestata nella protesta contro la guerra tenutasi mercoledì a San Pietroburgo.

Siamo dinnanzi a donne di nazionalità diverse, ma unite nel comune rifiuto della disumanità della guerra: donne tenaci, coraggiose e, per la logica umana, donne impertinenti.  


[1] Gc 4,9.

[2] Gc 5,28-30.


L’inverno è passato


Paola Franchina

20 febbraio 2022


Le farfalle allo stomaco, i baci appassionati, la testa fra le nuvole, insonnia, inappetenza: sono solo alcuni dei sintomi dell’innamoramento, esperienza tra le più belle e sconvolgenti della vita. Come cantano Ditonellapiaga e Rettore è una questione di Chimica: ad essere coinvolte sono dodici aree del cervello deputate al rilascio di ormoni.  La feniletilamina stimola la produzione di dopamina che provoca la sensazione di essere “su di giri”, i battiti cardiaci accelerati, l’eccitazione, il senso di vertigine e sudorazioni.

Queste percezioni determinano un allentamento nel controllo di noi stessi: la feniletilamina genera effetti simili a quelli provocati dall’assunzione di droghe pesanti o sport estremi.  La sensazione di spodestamento da sé può essere avvertita dal soggetto come una minaccia al punto che, in certi casi, si può parlare di vera e propria filofobia, dal greco "φιλος" (amore), e "φοβία" (fobia), ovvero ansia eccessiva e ingiustificata di innamorarsi che si manifesta con sintomi psicologici o somatici. L’amore può far insorgere la paura di perdere il controllo, conducendo l’innamorato oltre i limiti del principio di non contraddizione e del governo dispotico della razionalità.

Nel Simposio, Platone mette in scena un dialogo in cui l’amore svolge la funzione di mediazione metodologica tra il regno di follia e quello della ragione. Lo stesso Eraclito asseriva che l’amore è il regno dell’aporia, della tensione tra il giorno e la notte, tra l’inverno e l’estate. Le emozioni aprono uno squarcio nel caos in direzione di un luogo che sfugge agli angusti confini della razionalità, l’a-topia, per dirla al modo di Socrate. L’amore attrae e insieme spaventa.

Nel Cantico dei cantici, l’iniziativa dell’amato, descritto nel movimento dinamico di saltare sui monti e balzar per le colline, provoca la reazione impaurita della donna, la quale si ritrae spaventata dietro un muro.

8Una voce! L’amato mio!

Eccolo, viene

saltando per i monti,

balzando per le colline.

9L’amato mio somiglia a una gazzella

o ad un cerbiatto.

Eccolo, egli sta

dietro il nostro muro;

guarda dalla finestra,

spia dalle inferriate[1].

Il muro è immagine icastica della paura di affidarsi all’altro nella propria debolezza. Dinnanzi alle resistenze della donna, si dischiude lo spazio dell’attesa, in cui è messa alla prova la pazienza dell’amato e la sua capacità di accogliere i tempi e le insicurezze dell’altro. Sarà la forza della parola a vincere le resistenze. L’amato, con tono rassicurante, sollecita la donna ad abbandonarsi all’amore: non ha senso temere, i pericoli sono ormai lontani.

10Ora l’amato mio prende a dirmi:

«Àlzati, amica mia,

mia bella, e vieni, presto!

11Perché, ecco, l’inverno è passato,

è cessata la pioggia, se n’è andata […]»[2].

Dinnanzi alle parole dell’amato, la pioggia diviene, pian piano, una minaccia lontana.



[1] CC 2,8-9.

[2] CC 2,10-11.

In alto i cuori

Paola Franchina

6 febbraio 2022


Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.

C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,

un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.

Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,

un tempo per demolire e un tempo per costruire.

Un tempo per piangere e un tempo per ridere,

un tempo per gemere e un tempo per ballare.

Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,

un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.

Un tempo per cercare e un tempo per perdere,

un tempo per serbare e un tempo per buttar via.

Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,

un tempo per tacere e un tempo per parlare.

Un tempo per amare e un tempo per odiare,

un tempo per la guerra e un tempo per la pace.

Che vantaggio ha chi si dà da fare con fatica?

Ho considerato l’occupazione che Dio ha dato agli uomini, perché si occupino in essa.

Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, ma egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine[1].

In questo spezzone lirico, l’Ecclesiaste offre uno squarcio nello straordinario mistero della vita sotto il cielo.

L’uomo scopre, non senza sofferenza, di non essere sul cuore della terra[2] ed è, così, sollecitato ad un percorso di espropriazione da se stesso; la vita incalza ad un pedagogico esercizio di docilità: il maestro taoista Lao Tzu asseriva: «La vita è una serie di cambiamenti naturali e spontanei. Non gli resistere. Resistergli crea solo dolore. Che la realtà sia la realtà. Lasciate che le cose fluiscano spontaneamente in avanti nel modo che vogliono»[3].

Gli eraclitei esprimevano l’eterno avvicendarsi di attimi con la formula idiomatica panta rei, assimilando la vita ad un fiume che si dissolve e risolve con ritmo incessante in un flusso perenne. Nonostante si tenti di opporre resistenza, la zattera umana è incalzata a lasciar andare i tronchi dell’albero che la compongono: vano il tentativo di trattenere esperienze, frammenti della nostra identità e, ahimè, persone care.

Dinnanzi a questo senso del finito che inchioda l’individuo ad una condizione mortale, tutto sembra perduto. Ma viva e vibrante appare la Buona Notizia, ovvero la promessa di un Dio che offre garanzia di eternità alle schegge della nostra esperienza contingente. Rassicurante appare la parola di Gesù:

25 «Perciò vi dico: non siate in ansia per la vostra vita, di che cosa mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito? 26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro? 27 E chi di voi può con la sua preoccupazione aggiungere un’ora sola alla durata della sua vita? 28 E perché siete così ansiosi per il vestire? Osservate come crescono i gigli della campagna: essi non faticano e non filano; 29 eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro. 30 Ora se Dio veste in questa maniera l’erba dei campi che oggi è, e domani è gettata nel forno, non farà molto di più per voi, o gente di poca fede? 31 Non siate dunque in ansia, dicendo: “Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo?” 32 Perché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; ma il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. 33 Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più. 34 Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno[4].

Dinnanzi all’affanno umano, Gesù sollecita a riposare nell’amore del Padre; l’insegnamento è a perdersi per ritrovarsi: solo arrendendosi alla sconfitta e all’impossibilità di custodire il proprio sé, l’uomo può accogliere l’invito promettente di un Dio che diviene garanzia della specificità singolarissima di ciascuno. In questa dinamica paradossale è possibile accogliere come un dono ciò che la vita offre. Si scopre che il mistero sfuggente della nostra identità è salvaguardato gelosamente dal Padre, pertanto, siamo legittimati a vibrare al ritmo dello Spirito e ad aprirci con fiducia verso il futuro. In ebraico Ruah, spirito, è un vocabolo onomatopeico che imita il fischiare del vento, il respiro, la forza in movimento che sollecita il mutamento. L’azione dello Spirito, dunque, invita ad avere il coraggio di danzare al ritmo della vita ed immergersi nella dinamicità del fiume che scorre.

E allora, dunque, sursum corda: leviamo in alto i cuori e guardiamo con fiducia al mistero del nostro quotidiano.


[1] Qo 3,1-11

[2] S. Quasimodo, Ed è subito sera, in https://www.sololibri.net/ed-e-subito-sera-Quasimodo-parafrasi-analisi-testo.html.

[3][3] Lao Tzu, in https://www.aforismicitazioni.it/frase.php?id=2438#gsc.tab=0.

[4]  Mt 6,25-34.

Una stronzata universale

Paola Franchina

16 gennaio 2022


Oggi ci lasceremo condurre dal testo di Genesi in un racconto senza tempo.

Il lettore viene trasferito all’interno di una tela di Welzer Peter, Adamo ed Eva nel Paradiso Terrestre, nella quale, con straordinario naturalismo, sono raffigurati animali di ogni specie e, al centro, Adamo ed Eva.

La locuzione ebriaca gan ‘eden viene tradotta da Girolamo come paradisus voluptatis, ovvero paradiso di delizie. Gli studi più recenti propongono di far risalire l’etimologia di Eden dal sumerico edenu, che significa deserto. L’Eden, dunque, rappresenta le condizioni straordinarie di vita donate da Dio per l’uomo.

Secondo il racconto biblico, due alberi particolari sono collocati in questo giardino: quello della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male. Il primo è immagine icastica dell’intenzione di bene di Dio per l’uomo, veicolo di una vita divina che non sia condizionata dal veleno della morte.

Invece, l’albero del bene e del male è un merismo - artificio retorico con il quale si intende esprimere tutto ciò che è compreso nei due estremi - mediante cui l’autore figura la possibilità di conoscenza assoluta.

Ad un lettore accorto non potrà sfuggire la struttura triadica della legge divina. In primo luogo si ribadisce il dono che precede ogni ingiunzione: all’uomo è stato offerto di mangiare da ogni albero del giardino: «Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino”»[1].

Su quest’ordine positivo si innesta, in un secondo momento, un comando in negativo: «dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare»[2]. Alla raccomandazione di godere di quanto è stato donato da Dio, viene, ora, posto un limite: dell’albero della conoscenza del bene e del male, infatti, è proibito mangiare.

Importante è sottolineare che non si tratta di un’ingiunzione arbitraria che intende negare il desiderio umano: il limite trova una sua giustificazione nella motivazione. Tale atto, infatti, porterebbe alla morte: «perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti»[3]. Il confine costituisce un argine funzionale ad incanalare il desiderio per garantirne la continuità.

In questo contesto ameno ad un tratto compare un serpente. Si noti come l’antico testamento elabori la sua teologia in forma narrativa: per descrivere il mistero del male viene introdotto un personaggio. Il racconto di Genesi appartiene al genere letterario dell’eziologia metastorica; con questa espressione viene indicata la ricerca dell’origine: quest’ultima non va intesa in senso cronachistico, bensì intende esprimere il cuore della realtà rappresentata in forma di narrazione.

Ad essere introdotto è il serpente, in ebraico nahash, il quale viene presentato come il più astuto di ogni vivente del campo. Questo personaggio è funzionale a mostrare il mistero del male. Paul Ricoeur, in Come pensa la Bibbia, sottolinea che il ruolo del serpente non deve essere totalmente demitologizzato: occorre, pertanto, mantenere il residuo mitico funzionale ad esprimere il carattere insondabile che perverte il desiderio umano e conduce al male. Anche Kant, in La religione entro i limiti della sola ragione, attestava la presenza inspiegabile nell’uomo di una tendenza a pervertire la legge morale, il male radicale.

L’aggettivo attribuito al serpente, arum, può essere tradotto in due modi: nudo o astuto. Il serpente è l’animale più nudo del creato perché è costituito unicamente dal tronco. La sua astuzia, invece, si evince dall’arte oratoria con cui riprende le parole di Dio, sovvertendone l’ordine ed omettendone alcune parti. Tali espedienti sono funzionali a travisare il significato delle parole, insinuando il sospetto che Adonay sia nemico della nostra realizzazione.

Suggestivo, a tal proposito, il monologo di Al Pacino, nei panni di John Milton, nel film L’avvocato del diavolo:

Per chi è che ti incolli tutti quei mattoni, si può sapere? Dio? È così? Dio… Beh Kevin, ti voglio dare una piccola informazione confidenziale a proposito di Dio. A Dio piace guardare, è un guardone giocherellone, riflettici un po’… lui dà all’uomo gli istinti. Ti concede questo straordinario dono e poi cosa fa? Te lo giuro che lo fa per il suo puro divertimento… per farsi il suo bravo, cosmico spot pubblicitario del film. Fissa le regole in contraddizione, una stronzata universale. Guarda ma non toccare, tocca ma non gustare, gusta ma non inghiottire. E mentre tu saltelli da un piede all’altro lui che cosa fa? Se ne sta lì a sbellicarsi dalle matte risate! Perché è un moralista! È un gran sadico! È un padrone assenteista, ecco cos’è! E uno dovrebbe adorarlo?! No, mai![4]

Come si può evincere da questo discorso, ad essere in gioco è il volto promettente e benevolo di Dio. Una visione distorta della morale, che misconosce la ragione profonda della legge e la sua funzione di tutelare la promessa di bene che mi anticipa, compie lo stesso gioco del serpente, insinuando il sospetto che Adonay sia un tiranno capriccioso, nemico dell’uomo. 

 

[1] Gen 2,16.

[2] Gen 2,17.

[3] Ibid.

[4] https://www.michailcechovstudio.com/post/l-avvocato-del-diavolo-monologo-di-john-milton-al-pacino

Mio padre

Paola Franchina

2 gennaio 2022


Lasciamoci condurre dal racconto di Genesi in una vicenda senza tempo, che ha affascinato intere generazioni, un pastiche narrativo in cui tutta la densità dell’umano trova spazio: la vicenda di Giuseppe e dei suoi fratelli. Ecco l’incipit: «Questa è la storia della discendenza di Giacobbe. Giuseppe all’età di diciassette anni pascolava (רֹעֶ֤ה) il gregge con i fratelli»[1].

Fin dal principio possiamo notare qualcosa di peculiare, il verbo רעה è transitivo, pertanto, tale versetto potrebbe essere così tradotto: Giuseppe all’età di diciassette anni governava i fratelli. Questo dettaglio genera un effetto straniante: il fratello più piccolo vuole comandare sui fratelli.

Il racconto biblico prosegue: «Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli, perché era il figlio avuto in vecchiaia, e gli aveva fatto una tunica dalle lunghe maniche. I suoi fratelli, vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non potevano parlargli amichevolmente»[2].

Impossibile non simpatizzare, almeno in parte, con i fratelli. Il padre Giacobbe, infatti, predilige Giuseppe a motivo del fatto che quest’ultimo, non solo è il figlio della vecchiaia, ma è anche figlio di Rachele. Per comprendere l’importanza di questo dettaglio, è opportuno compiere un breve affondo nel passato di Giacobbe. Il patriarca, dopo aver sottratto ad Esaù il diritto di primogenitura, è costretto a fuggire presso lo zio Labano per sottrarsi all’ira del fratello. La vicenda narra che lo zio avesse due figlie, Rachele, «bella di forme e avvenente di aspetto» e Lia dagli «occhi smorti»[3]. Ça va sans dire: Giacobbe si innamorò perdutamente della prima. Per poter ottenere la mano di Rachele, il giovane patriarca dovette servirla per sette anni, ma l’amor rendeva il giogo soave: «gli sembrarono pochi giorni tanto era il suo amore per lei»[4]. A seguito di un tranello, Labano consegnò a Giacobbe Lia in luogo dell’amata: il patriarca, pertanto, dovette prestar servizio altri sette anni per poter coronare i suoi sogni.

Questo breve excursus nel passato di Giacobbe ci aiuta a comprendere quanto fosse importante per lui Rachele e il motivo della sua predilezione per Giuseppe.

La preferenza del patriarca non viene mascherata, tant’è che Giacobbe dona al figlio una tunica lunga, suscitando nei fratelli indivia e gelosia: «i suoi fratelli, vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non potevano parlargli amichevolmente»[5].

Da questo momento in poi la parabola del male prende abbrivio. L’intensità dell’odio covato dai fratelli giunge ad un punto di non ritorno e trova espressione in una catena di peccato.

La storia di Giuseppe permea la memoria collettiva: a tutti è noto lo sviluppo di tale drammatica vicenda: i dieci fratelli maggiori, dopo averlo spogliato dalla sua tunica, lo afferrarono e lo gettarono nella cisterna vuota, vendendolo come schiavo ad una carovana di Ismaeliti, mediante la quale il giovane giunge in Egitto.

A seguito di una serie di peripezie, Giuseppe viene riconosciuto dal Faraone per la sua intelligenza e nominato vice-Re d’Egitto. In seguito, a motivo di una carestia, anche i fratelli giungono in Egitto per acquistare il grano. Giuseppe, dopo aver accusato i fratelli di spionaggio, ne arresta uno e ingiunge gli altri di tornare nuovamente con il fratello minore, Beniamino.

Siamo giunti al culmine narrativo, i fratelli, come da richiesta, tornano con il piccolo di famiglia e Giuseppe tende loro un tranello: fa mettere di nascosto una coppa d’argento nel sacco di Beniamino e lo accusa pubblicamente. La narrazione è incalzante e il lettore è sospeso: il seguito della storia è a tutti noto. Tuttavia, il nostro interesse è quello di mettere in rilievo un dettaglio degno di nota. Nel turning point della vicenda, Giuda interviene, supplicando che sia risparmiato il fratello con le seguenti parole: «Abbiamo un padre vecchio e un figlio ancor giovane natogli in vecchiaia, suo fratello è morto ed egli è rimasto il solo dei figli di sua madre e suo padre lo ama»[6] .

Struggente questo discorso, nel quale si rivela il cammino interiore compiuto da Giuda. Il figlio racconta il padre senza ometterne le debolezze. Egli, infatti, è capace di guardare con amorevolezza il limite del padre: non viene taciuta la particolare predilezione di Giacobbe verso i due figli avuti da Rachele: per il padre esistono solo Beniamino e Giuseppe, mentre gli altri sono una cornice. Il discorso prosegue:

Ma il tuo servo si è reso garante del giovinetto presso mio padre: Se non te lo ricondurrò sarò colpevole verso mio padre per tutta la vita. Ora, lascia che il tuo servo rimanga invece del giovinetto come schiavo del mio signore e il giovinetto torni lassù con i suoi fratelli! Perché, come potrei tornare da mio padre senz’avere con me il giovinetto? Ch’io non veda il male che colpirebbe mio padre[7]!

La predilezione di Giacobbe per Beniamino non è più motivo di odio, perché Giuda ha imparato a guardare con amore le proprie radici, sia pur con la consapevolezza di quello che sono, perché esse non minano più la sua identità: il capitolo 44 di Genesi si chiude, infatti, con אָבִֽי: mio padre.

  


[1] Gen 37,2

[2] Gen 37,4

[3] Gen 29,17

[4] Gen 29,20

[5] Gen 29,4

[6] Gen 44,20

[7] Gen 44, 32-34


La strada che non andava in nessun posto


Paola Franchina

26 dicembre 2021


All’uscita del paese si dividevano tre strade: una andava verso il mare, la seconda verso la città e la terza non andava in nessun posto. Martino lo sapeva perché lo aveva chiesto un po’ a tutti, e da tutti aveva avuto la stessa risposta:

-Quella strada lì? Non va in nessun posto. È inutile camminarci.

-E fin dove arriva?

-Non arriva da nessuna parte.

-Ma allora perché l’anno fatta?

-Ma non l’ha fatta nessuno, è sempre stata lì.

-Ma nessuno è mai andato a vedere?

-Sei una bella testa dura: se ti diciamo che non c’è niente da vedere…

-Non potete saperlo, se non ci siete mai stati[1].

            Così si apre il racconto di Gianni Rodari, La strada che non andava in nessun posto: il lettore è posto dinnanzi a tre vie: una che porta verso il mare, una verso la campagna e la terza che non andava in nessun luogo.

La tecnica utilizzata è molto efficace: la narrazione, infatti, si mantiene in terza persona, fondendo le voci dei personaggi con quelli del narratore. La strategia del discorso indiretto libero consente di penetrare nell’intimo dei paesani, mettendo in evidenza le loro emozioni e i loro pensieri.

Si manifesta, così, la metathesiofobia degli abitanti, ovvero la paura del nuovo: l’irrazionale terrore nei confronti di qualsiasi cambiamento.

Le trasformazioni spaventano e chiedono di allontanarci da quel senso di confort e familiarità che infonde il nostro quotidiano. Tuttavia, l’immobilizzazione prolungata è altresì dannosa e può portare ad uno stato di atrofia: ad ogni uomo non resta che scegliere quale strada percorrere.

Siamo dinnanzi a due forme di esistenza, di heideggeriana memoria: l’esistenza anonima e quella autentica. La prima è propria di tutti e di nessuno, del “si dice” o del “si fa”, caratterizzata dalla chiacchiera inconsistente, vuota e morbosamente tesa verso l’esterno, ove si cerca di soddisfare le proprie frivole curiosità.

La seconda, invece, è quella autentica, la quale ha come tonalità emotiva l’angoscia: il soggetto, attraverso un atto della coscienza, pone una decisione anticipatrice che assume la morte quale cifra della propria vita.

L’esistenza autentica è propria di coloro i quali decidono di accettare il rischio del cambiamento e avventurarsi nella strada che non porta in nessun posto.

La storia è costellata di piccoli eroi del quotidiano, uomini e donne che hanno avuto l’ardire di avventurarsi in sentieri non battuti.

Ricordiamo Rosa Parks, la quale venne arrestata perché si era rifiutata di cedere un posto in autobus ad un bianco. Malala Yousafzai che a soli 11 anni, in un blog, erge il proprio grido contro il regime talebano. Amelia Earhart, prima aviatrice ad attraversare il Pacifico. Fabiola Gianotti, prima donna direttrice generale del Cern. Marie Curie, prima donna ad ottenere una cattedra alla Sorbona, insignita di due premi Nobel: uno per la Fisica e uno per la Chimica. E con loro, infinite storie, non sempre raccontate, di persone che si avviano verso sentieri non battuti.

Il racconto di Gianni Rodari è un invito ad osare, ad assumere il rischio dell’ignoto: un incoraggiamento a tutti coloro che non si fermano dinnanzi alle resistenze degli uomini, anche i più cari e vicini, ma rispondono, ogni giorno, alla chiamata della strada che li interpella ad essere loro stessi, senza preoccuparsi troppo del vociare degli altri: «Era così ostinato che cominciarono a chiamarlo Martino Testadura, ma lui non se la prendeva e continuava a pensare alla strada che non andava in nessun posto»[2].



[1] G. Rodari, Favole al telefono, Einaudi Ragazzi, Trieste 2010, 72.

[2] Ibid.


A te e famiglia

Paola Franchina

19 dicembre 2021


Come la principessa Anna nel celebre film Vacanze romane, lasciamoci condurre da Joe Bradley per le strade di Roma, sostando, per un momento, alle pendici del Campidoglio, di fronte all’arco di Settimio Severo e al Foro Romano, ove sorge la chiesa di San Giuseppe dei Falegnami. Varcando la soglia dell’edificio non può sfuggire la La natività di Carlo Maratta: uno straordinario affresco che va ad arricchire le mura della chiesa.

Su uno sfondo scuro, si staglia l’immagine della Vergine china sul Bambino. Un forte gioco di luci ed ombre impressiona l’osservatore che è costretto a fermarsi, incantato da questa immagine senza tempo. Il fondo nero è in netto contrasto con la luce che promana il bambin Gesù. Ecco, l’incanto del Natale.

L’atmosfera diviene rarefatta: nella mirabile contemplazione dell’eternità che si fa tempo, si accende la nostalgia originaria di un Amore che ci appella da sempre, sollecitandoci a ricercare frammenti di questa affezione nella nostra quotidianità.

Come la samaritana al pozzo ci affanniamo per trovare schegge di luce e, con la nostra anfora, peregriniamo per le strade della vita mendicando un poco d’acqua che sappia irrorare l’arsura del cuore.

E così, nell’avvicendarsi di incontri e legami, sgorgano piccoli rivoli che promettono di irrigare la nostra secchezza, ma, ahimè, le relazioni sono spesso coronate di svenevoli sentimentalismi che promettono l’eterno ma che, al fine, non hanno il vigore di sostenere le intemperie e il peso della fragilità umana.

In questo stanco peregrinare, si dischiude la magia del Natale. Come i cherubini nel quadro del Maratta, possiamo appoggiare dolcemente il volto al mantello di Maria, per contemplare lo straordinario miracolo dell’amore restituito nella sua giustizia originaria.  

Quest’amore, pieno di lógos, porta con sé la percezione originaria dei legami di senso e assume, proprio per questo, il profilo di un’adesione al nómos della verità per l’ingiunzione di una giustizia del rapporto, che non ha bisogno di costringere, apparendo spontaneamente apprezzabile[1].

In questo originario affettivo è dischiusa una promessa: la giustizia dell’amore diviene evento, l’attesa che anima i nostri itinerari singolari non è destinata ad essere delusa. Tale promessa, tuttavia, non investe solo il singolo, ma i fragili legami degli uomini. L’amore si presenta nella sua forza ingiuntiva, sollecitando l’impegno vigoroso e audace.

Si offre una verità che, usando le parole del Poeta, significar per verba non si poria: un’intenzionalità si rivela all’interno di una risonanza emotiva. L’appello che dischiude questo evento è capace di irradiare le nostre vite e i nostri legami con il vigore di questo amore originario.

L’augurio per il Natale, dunque, è che la giustizia dell’agape possa riempire di trascendenza il nostro quotidiano.



[1] D. Cornati, Ma più grande è l’amore. Verità e giustizia di agápe, Queriniana, Brescia 2019, 180.

AD-DIO ad un’amica 


Paola Franchina

12 dicembre 2021



L’epopea di Gilgamesh è uno dei più straordinari capolavori letterari che l’umanità ci abbia consegnato. 

Questa raccolta, appartenente alla cultura mesopotamica, narra delle vicende di Gilgamesh, re dispotico della città di Uruk, e delle sue avventure. 

In questo racconto senza tempo è impossibile non lasciarsi coinvolgere dal dolore e dalla rabbia vissuti dal protagonista dinnanzi alla morte dell’amico Enkidu, compagno fedele di mille peripezie. 

Nei versetti sotto riportati, prende voce il grido potente del protagonista. A testimonianza del suo dolore sono chiamati i giovani e gli anziani. 

Il merisma intende coinvolgere l’intera umanità, nessuno può estraniarsi, la sofferenza della morte tocca tutti.

 

Ascoltatemi, o giovani uomini, ascoltatemi!

Ascoltatemi, o anziani di Uruk, ascoltatemi!

Io piangerò per Enkidu, lamico mio,

emetterò amari lamenti come una lamentatrice.


 

Lascia del mio fianco, larma del mio braccio,

la spada della mia guaina, lo scudo del mio petto,

i miei vestiti festivi, la mia cintura regale,

uno spirito cattivo è venuto e me li ha portati via.

Amico mio, mulo imbizzarrito, asino selvatico

delle montagne, leopardo della steppa,

 

Enkidu, amico mio, mulo imbizzarrito, asino selvatico

delle montagne, leopardo della steppa,

noi, dopo esserci incontrati, abbiamo scalato assieme la montagna,

abbiamo catturato il Toro Celeste e lo abbiamo ucciso,

abbiamo abbattuto Khubaba, leroe della Foresta dei Cedri,

ed ora qual è il sonno che si è impadronito di te?


La morte di una persona cara non può lasciare indifferenti. Il vangelo di Giovanni racconta che persino Gesù, dinnanzi alla morte dell’amico Lazzaro, fremette nello spirito, embrimáomai, espressione che rimanda allo sbuffare di un cavallo imbizzarrito.

Le parole di Gilgamesh portano alla mente e al cuore immagini di volti e ricordi di storie che non possono essere lasciati andare. 

Il mio Enkidu aveva un nome: Joshepine. 

I nostri itinerari personali si sono incrociati nella portineria della Facoltà Teologica di Milano, dove la piccola Jo, così la chiamavo, lavorava.

Ogni mattina, al mio buongiorno festoso, faceva eco il suo: «buongiorno il cazzo». 

Poco convenzionale per una Facoltà di Teologia, eppure, nessuno come lei sapeva incoraggiare e legittimare le persone ad essere loro stesse. 

Jo Jo non aveva certo letto Solo l’amore è credibile di Balthasar e neppure Il corso fondamentale sulla fede di Rahner, eppur sapeva amare.

Ancora oggi risuona in me un verso del Le passanti di De Andrè, oggetto di una delle nostre ultime telefonate: «non c’era tempo e valeva la pena di perderci un secolo in più».

Il dolore per la perdita di un amico non può cadere nell’oblio, ma rivendica giustizia al cospetto di Dio. 

La piccola Jo, prima di morire, aveva avuto l’ardire di chiedere al prete: «Questa è l’ultima volta in cui ci vediamo?!».

In questa vita sì, ma ci rivedremo tra le braccia del Padre, dove sono sicura che, nella portineria celeste, mi accoglierai con un tuo: “Buongiorno il cazzo”.


Ed era cosa molto bella


Paola Franchina

5 dicembre 2021



Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere.[1]

Così descrive il suo stato d’animo Stendhal, il quale, durante il suo Tour del 1817, viene colpito da un’affezione psicosomatica che genera in lui tachicardia, vertigini e confusione. Motivo scatenante di tale reazione è il trovarsi al cospetto di opere d’arte di sublime bellezza.

La sensazione celestiale che viene suscitata dall’arte e dal bello è esaltata anche da Platone, il quale, subendo l’influsso del razionalismo pitagorico, fa coincidere la bellezza con l’armonia. L’equilibrio accomuna le cose esistenti, trascende il sensibile nella sua eccedenza: i rapporti armonici di proporzione sollecitano l’uomo ad un percorso che lo indirizza al sommo Bene.

Nel 450 a.C. fu Policleto a definire la bellezza secondo il modello della razionalità matematica: nel suo Canone, fissa l’ideale paradigmatico di perfezione, inaugurando il periodo classico dell’arte greca. Viene, così, applicato il modulo architettonico all’anatomia umana, convenendo in un ideale di bellezza generato dall’armonia delle parti, misurate secondo il principio della proporzione.  Il doriforo, di cui conserviamo una copia a Napoli, si impone quale espressione di un sublime equilibrio formale.

L’armonia non presiede solo alla composizione armonica dell’anatomia umana, ma rappresenta la legge che regola la creazione del cosmo: il Demiurgo, artefice dell’universo, dà forma al mondo secondo un criterio geometrico, plasmando la materia (chora) in forme perfette. Così, nel testo di Genesi, Dio si compiace della bellezza insita nella creazione: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto tôb (bella e buona)»[2].

La bellezza era per gli antichi una forza attrattiva, principio formale del cosmo, motore che regola il divenire, ma anche telos a cui la realtà materiale tende.

Si racconta che Eris, dea della discordia, adirata a motivo dell’esclusione dal banchetto nuziale tenutosi in occasione del matrimonio tra Peleo e Teti, decise di presentarsi all’evento, gettando sulla mensa imbandita una mela d’oro, sulla quale era incisa la frase: alla più bella.

A concorrere per ottenere l’ambito pomo erano tre dee: Era, la sovrana dell’Olimpo, Afrodite, la dea della bellezza e Atena, la dea della saggezza. Zeus, non volendo entrare nel contenzioso, affida il compito di giudice a Paride.

Si narra che Afrodite, per accaparrarsi la vittoria, offre a Paride l’amore della più bella dei mortali, Elena, moglie di Menelao: casus belli della guerra di Troia.

La bellezza ci viene descritta in questo mito quale forza attraente capace di sedurre e privare finanche gli dei della loro lucidità.  Il fascino dell’ameno si mostra nella sua ambivalenza: l’uomo può fare esperienza di transumanar, oppure cadere in uno stato di offuscamento della mente. Il carattere ambiguo della bellezza dipende dallo sguardo con cui ad essa ci si accosta.

Un esempio, in negativo, ci proviene dalla mitologia; nelle Metamorfosi di Ovidio, Apollo, in seguito ad una diatriba con Cupido, viene punto da una delle sue frecce che lo spinge ad indirizzare il suo amore verso una ninfa, la bellissima Dafne. Non essendo corrisposto dalla Naiade, il Dio del sole e delle arti si lancia in un inseguimento incalzante dell’amata, descritto attraverso lo scenario della caccia:         

La fuga l’ha resa più bella. Ma rinuncia a sprecare altro fiato,

il giovane dio, per sedurla: a spronarlo c’è Amore in persona,

così affretta il passo ad inseguirla. Al modo in cui vede una lepre

in campo aperto un levriero celtico, e corre a cercare

lui la preda, ma lei la salvezza, e convinto di stare per prenderla,

l’uno conta di averla fra un attimo e allarga le fauci

per azzannarle le zampe, ma l’altra gli sfugge tra i denti

lasciandosi indietro quel morso che già la costringe, e non sa

se sia o non sia prigioniera, così corrono il dio e la ragazza,

sospinto dalla speranza lui, spinta lei dal terrore.

Ma le ali d’Amore sostengono quello che insegue:

non le dà tregua, è più rapido e già le sta addosso,

mentre lei scappa, alla schiena, ansandole dentro ai capelli

sparsi sul collo[3].

Dinnanzi alla possessività dell’amore che rifiuta diniego, Dafne è costretta a chiedere aiuto alla madre Gea, trasformandosi, così, in un albero di alloro.

Per chiudere aprendo, la bellezza si offre con il fascino della sua ambivalenza, sollevando in noi tensioni contrastanti: da un lato il desiderio di rispettare l’incanto del dischiudersi indisponibile e, nel contempo, accende in noi l’avidità famelica del possesso. 



[1] G. Rau, Inseguendo Stendhal a Palazzo Medici Riccardi, su https://firenze.repubblica.it/cronaca/2010/07/27/news/la_sindrome_di_stendhal_nel_cortile_del_museo-5870172/.

[2] Gen 1, 29.

[3] Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, Mondadori, Milano 2005, I, 530-543.


Un solo cielo comune


Paola Franchina

28 novembre 2021


Oggi ci lasceremo ammaliare dalle parole di noti oratori, due fuoriclasse dell’arte retorica: Ambrogio e Simmaco. La singolar tenzone si svolge nel 384 d.C. a Milano, ove i due esponenti della società romana danno abbrivio ad una diatriba: in questione vi è la presenza in senato dell’altare della vittoria.  

L’ara, custodita in senato per volontà di Ottaviano Augusto a testimonianza del trionfo su Antonio e Cleopatra, diviene oggetto di reverenza da parte dei senatori, i quali si accostano all’altare e prestano giuramento per celebrare la grandezza e la potenza di Roma.

Nel 313 d.C. con la promulgazione dell’Editto di Milano, noto come editto di tolleranza, viene garantita la libertà per tutti di aderire alla religione preferita. Questo editto dà avvio ad un periodo di convivenza, non sempre pacifica, tra il paganesimo e cristianesimo.

La tolleranza inizia progressivamente ad incrinarsi, nel 357 d.C. l’altare verrà rimosso per un breve tempo in occasione della visita dell’imperatore Costanzo, figlio di Costantino il Grande e dell’imperatrice Fausta. Questo è un segno evidente che la forza politica della nuova religione è in ascesa e rischia di mettere in crisi il culto tradizionale: nel 380 d.C, l’editto di Tessalonica, noto con il nome di Cunctos populos, emesso da Teodosio, Graziano e Valentiniano II dichiara il cristianesimo la religione ufficiale dell’impero, proibendo l’arianesimo e i culti pagani.

Nel 382, Graziano, che già ha rifiutato il titolo pagano di Pontefice Massimo, rimuove l’altare della vittoria dal Senato. È in questa occasione che ha luogo il meraviglioso scambio oratorio che vede coinvolti Simmaco e Ambrogio.

Quinto Aurelio Simmaco, grande oratore, senatore e scrittore romano, prende parola per chiedere che le radici pagane dell’impero romano non vengano estirpate:

Chiediamo pace per gli dei della patria... Dobbiamo riconoscere che tutti i culti hanno un unico fondamento. Tutti contemplano le stesse stelle, un solo cielo ci è comune, un solo universo ci circonda. Che importa se ognuno cerca la verità a suo modo? Non si può seguire una sola strada per raggiungere un mistero così grande[1].

Tale disputa sottende una questione ancor più radicale: il concetto di verità. Dinnanzi alle parole di Simmaco, Ambrogio rivendica il possesso di una verità rivelata direttamente da Dio.

La questione della verità da sempre interroga teologi e filosofi. Aletheia è una parola greca che indica il non nascondimento della verità, il suo rendersi evidente alla comprensione umana.

Nel corso della riflessione teologica, la tradizione manualistica ha portato ad indentificare il disvelamento e la rivelazione come un insieme di verità rivelate: si proce deducendo il particolare dalle verità di fede, viste come dei postulati cristallizzati.

Concepire la verità come dato la riduce ad un patrimonio esclusivo della Chiesa Cattolica nella sua forma storica: chiunque non condivida tale depositum è pertanto escluso dalla Vera Chiesa.

Tuttavia, ci è richiesto di porci alla scuola della Rivelazione, la quale ci conduce a nuova prospettiva in cui la verità non corrisponde ad una res, ma ad una persona: Gesù di Nazareth.  La verità si dà nella storia e, attraverso la vicenda di un logos eterno che diviene sarx, carne, si offre una chiara indicazione di metodo per tutti coloro che vogliano porre in atto una riflessione cristiana credente.

La verità, in quanto storia, ha una sua forma sovrabbondante che eccede il dato e ogni possibile riduzione eidetica. Occorre, dunque, il mantenimento della molteplicità semantica della verità, la quale non si dà, ma si va facendo nella storia.

Solo Dio possiede una visione globale della storia, noi siamo immersi in essa e di essa custodiamo soltanto una sfumatura, una prospettiva, limitata, ma, nel contempo, fondamentale e unica.

Pertanto, una teologia che cerchi la verità che si fa nella storia richiede una prassi sinodale che sappia dialogare costruttivamente e vagliare criticamente i motivi di pertinenza delle varie prospettive, alla ricerca di un’unità che custodisca la molteplicità originaria:

La diversità di lingue e culture caratterizza la Chiesa fin dalle origini ed è ben illustrata nel racconto biblico della Pentecoste (Atti degli Apostoli 2,1-13). Gli apostoli parlano in varie lingue, generando lo stupore dei presenti: «Costoro che parlano non sono forse tutti Galilei? E com’è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio»[2].

Il testo di Pertusati, 50 Piccole storie di chiese divise in cerca di unità, rappresenta un esercizio di sinodalità, in direzione di una riflessione alla ricerca di una verità che non annulli la ricchezza, sia pur complessa e faticosa, della diversità.

 


NOTE


[1] Q. Aurelio Simmaco, Relazione sull'altare della Vittoria, Il Basilisco, Genova 1987.

 

[2] C. Pertusati, 50 Piccole storie di chiese divise in cerca di unità, Effatà Editrice, Cantalupa (Torino) 2021.



Ricordi sbocciavan le viole


Paola Franchina

21 novembre 2021

RICORDI SBOCCIAVAN LE VIOLE[1]

Lasciamoci affascinare dal testo Il Maestro e Margherita, straordinario capolavoro di Bulgakov accolto da Montale come «un miracolo che ognuno deve salutare con commozione»[2].

Nella Mosca degli anni ’30, Satana, dopo aver organizzato un convegno, va errando per la città alla ricerca di una dama che possa accompagnarlo nelle danze. In questa quete dal sapore cavalleresco, il Separatore mette in atto le più tragicomiche angherie con le quali smaschera la corruzione della società. Nessuno è immune alla fascinazione del tentatore, tranne uno, il maestro: uno scrittore tormentato a motivo dello scarto del suo romanzo da parte dagli editori.

Ad inasprire ulteriormente la condizione dell’autore è il suo languire d’amore per una donna sposata, Margherita: la passione con cui la donna in passato corrispondeva allo scrittore va affievolendosi con la stessa velocità con cui appassiscono le rose.

Il Maestro, in preda ad un raptus di follia, decide di distruggere il romanzo in cui riponeva tutte le sue speranze, finendo, così, in manicomio, ove trascorre i suoi giorni nel tormento e nel ricordo della sua amata.

Seguimi lettore! Chi ha detto che non c’è al mondo un amore vero, fedele, eterno? Gli taglino la lingua malefica a quel bugiardo! Seguimi lettore e io ti mostrerò un simile amore! No, si ingannava il maestro quando all’ospedale, verso mezzanotte diceva con amarezza a Ivanuska che essa l’aveva dimenticato. Questo non poteva accadere. Lei naturalmente non l’aveva dimenticato[3].

Questo filone narrativo si intreccia con un secondo, nel quale viene messo in atto il romanzo del Maestro. Al centro vi è Pilato, un personaggio lacerato dai sensi di colpa: il prefetto della giudea, infatti, sia pur consapevole della grandezza di Cristo, lo ha condannato per viltà ad una morte ingiusta.

Il Maestro e Margherita rappresenta uno straordinario capolavoro, in cui a dominare la scena sono tre grandi registri linguistici: l’arte, rappresentata dal manoscritto del Maestro, l’amore e, infine, la religione. Questi tre linguaggi sono in grado di manifestare la mancanza in forma positiva, attraverso il registro immaginario del simbolico.

Come sottolinea Lacan, a differenza del bisogno, che per giungere a compimento necessita di un oggetto specifico, la logica della mancanza, si insinua nello scarto tra bisogno e domanda: l’arte, l’amore e la religione sono le uniche forme che consentono di trasformare tale logica in una connessione di catene simboliche.

Bulgakov mette in atto il dramma dell’espunzione del registro immaginativo: il romanzo viene bruciato, l’amore di Margherita sembra affievolirsi e il Cristo viene ucciso dai meccanismi della storia.

La desolazione della cultura secolare sottrae all’uomo immagini che consentono di arginare lo spazio della mancanza. Il livello preconcettuale dell’attività intuitiva è impoverito, all’uomo contemporaneo non resta che fuggire dal vuoto che gli è connaturale, cercando di soffocarlo, negarlo, rincorrendo oggetti reali che possano colmarlo.

Tuttavia, Bulgakov non si rassegna a questa desolazione, Margherita accetta di accompagnare il Diavolo al ballo pur di riavere il Maestro e il suo romanzo: i due amanti, alla fine, si allontaneranno in volo da Mosca.

A noi piace immaginarli in un’atmosfera onirica, come Gli amanti in blu dei quadri di Chagall: insieme, in un eterno rifugio, immersi in un blu vibrante che li avvolge.


[1] F. De André, La canzone dell’amore perduto, http://testicanzoni.mtv.it/testi-Fabrizio-De-Andr%C3%A9_8243/testo-La-Canzone-Dell%27amore-Perduto-1066144

[2] E. Montale, su https://www.librerialagorai.it/libri/il-maestro-e-margherita/

[3] M. Bulgakov, Il Maestro e Margherita, su https://libreriamo.it/libri/maestro-margherita-frasi-piu-famose-capolavoro-bulgakov/


A me me piace


Paola Franchina

14 novembre 2021


Lo straordinario capolavoro di Wim Wenders del 1987, Il cielo sopra Berlino, si offre come omaggio alle poesie di Rainer Maria Rilke che hanno ispirato il film.

Ad essere messa in scena è la storia di due angeli, Damiel e Cassiel, che, liberi dall’inestricabile dedalo delle trame umane, sorvolano la città, osservando e ascoltando i pensieri dei berlinesi.

Sullo sfondo Berlino, distrutta alla fine della seconda guerra mondiale: Potsdamer Platz, una delle più maestose d’Europa prima dei bombardamenti, è ora una spianata desolata.

Il muro, sistema di fortificazione eretto dalla Germania dell’Est per impedire la comunicazione con la Germania dell’Ovest, è espressione icastica della cortina di ferro, linea immaginaria di confine tra le zone europee occidentali e quelle filosovietiche. Come la muraglia montaliana con cocci aguzzi di bottiglia[1], la barriera di protezione antifascista diviene correlativo oggettivo dell’impossibilità dell’uomo di pervenire ad una riuscita integrale.

Gli angeli osservano la città degli uomini planando dall’alto. Lo spazio d’aria che li separa dalle sabbie mobili dell’umano impedisce un coinvolgimento con la realtà: la conoscenza delle vicende dei mortali è distaccata e impersonale, il mondo appare in bianco e nero: le molteplici sfumature dell’effettivo vengono espunte dagli angusti confini della razionalità.

Damiel, animato dalla passione per Marion, un’acrobata da circo, decide di abbandonare la conoscenza rassicurante della speculazione per abbracciare l’esperienza nei suoi colori, incarnandosi in un corpo.

A seguito di questo movimento di exitus, che implica la rinuncia all’esistenza spirituale, si dischiude una nuova forma di sapere, in cui il soggetto è implicato nella verità conosciuta; Daniel non si limita a planare la città dall’alto, ma è implicato nella realtà che osserva: la visione epistemica di una adaequtio tra un ego cogito cartesiano e l’oggetto viene soppiantata da un accesso al mondo di stampo fenomenologico, in cui i sensi sono coinvolti nella sintesi eidetica.

Torna alla mente il concetto husserliano di Lebenswelt, il mondo della vita, in cui l’originario dischiuso nel fenomeno trova il suo fondamento in un radicamento prelogico della conoscenza e dell’essere.

Damiel, una volta incarnato, perviene ad una forma di conoscenza in cui il corpo e i sensi sono implicati nella determinazione dell’eidos, mettendo in discussione la tradizione platonica che ci ha portato a considerare la materia come una prigione che imbriglia l’anima, secondo l’adagio: soma esti sema. Tale motto viene smantellato dalla prospettiva fenomenologica, la quale riabilita il carattere intenzionale della percezione: io non mi limito ad avere un corpo (Korper), ma sono un corpo (Leib). Illuminante appare, a tal proposito, l’etimologia di sapere, dal latino sàpere, avere sapore: non esiste, infatti, una conoscenza che non abbia un coinvolgimento dei sensi.

L’angelo decaduto, finalmente, può gustare il sapore intenso di un caffè caldo e, in questo afrodisiaco incontro dei sensi, può comprendere la pleonastica sentenza di Gigi Proietti: «a me me piace».



[1] E. Montale, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1984.


La città che sale


Paola Franchina

7 novembre 2021


Il mercato è in continua trasformazione ed esige da parte del soggetto un iperadattamento costante.  L’individuo è travolto dal dinamismo e dalla frenesia caotica del mondo globalizzato. Come nel quadro di Boccioni, La città che sale, tutto è in movimento: la fissità è scardinata da un confuso amalgama di tratteggi cromatici. Le figure non sono chiare e distinte, ma costituite da linee che si aggregano e si disgregano all’interno di uno sconnesso turbinio di colori.

Mancini, nel testo Senso e futuro della politca, rileva che il tempo nella città tende ad essere contratto nella forma del ritmo produttivo. Il soggetto è incentivato a rincorrere affannosamente una società che fugge, inafferrabile. I segmenti operativi e gestionali delle imprese sono soggetti a continua trasformazione, sollecitando gli individui ad una flessibilità costante, a scapito di qualsiasi criterio connesso alla continuità e dignità umane.

Il cambiamento non investe solo la realtà, ma anche le sue rappresentazioni: parole nuove vengono introdotte per denominare trasformazioni del mondo. Si sente l’esigenza di neologismi che possano dare voce a sensibilità differenti: ogni anno vengono accolte dai dizionari parole tratte dagli usi collettivi di una lingua.

Ai lati della carreggiata rimangono tutti coloro che non sono in grado di stare al passo con i tempi. L’elasticità è l’atteggiamento vitale richiesto agli individui e alla collettività per evitare di essere travolti. Da qui, la faccia stranita e un poco perplessa degli anziani nell’udire espressioni giovanili tra le quali l’aggettivo cringe, avente a referenza scene imbarazzanti o comportamenti che suscitano disagio. O, ancora, friendzonare, ovvero, relegare un corteggiatore all’interno della sfera amicale.

I suddetti neologismi sono solo alcune delle parole che fanno da riflesso ai processi di trasformazione del reale. Non si tratta di mere mode passeggere: la storia e l’effettivo, infatti, non sono un elemento accidentale del percorso di riflessione. La Costituzione Pastorale Gaudium et spes offre, in questo senso, linee di orientamento della teologia, esortando a porsi in ascolto dei segni dei tempi.

La categoria segni dei tempi da un punto di vista sociologico o antropologico indica i processi di trasformazione di un periodo storico che diventano identificativi di una fase storica.

I cambiamenti culturali, come mette in evidenza uno dei fondatori della sociologia, Georg Simmel, non sono passeggere estetiche dell’esistenza, ma veri e propri modi di essere.

Da un punto di vista teologico, invece, suggerisce Carlo Molari:

La formula segni dei tempi si riferisce maggiormente all’azione di Dio o alla venuta del Regno nella storia. Per cui non sono gli eventi come tali o le condizioni sociali a costituire i segni dei tempi, bensì il rapporto che essi hanno in ordine al Regno di Dio e quindi le indicazioni dell’azione di Dio nella storia umana che, riconosciuti, possono indicare l’orientamento del cammino della Chiesa.[1]

L’immagine di una Chiesa in ascolto dei segni dei tempi strizza l’occhio al motto: in una mano la Bibbia e nell’altra il giornale. L’adagio, frutto dell’immaginativa del teologo protestante K. Barth, invita a superare la falsa dicotomia tra verità ed effettivo propria dell’impianto manualistico.

Il credente, dunque, non può rinchiudersi nell’immagine parmenidea del solido cuore della Verità ben rotonda, al riparo dalla molteplicità scomposta dei sensi, ma è chiamato a vivere sul confine: tutto ciò che concerne la storia e le sue trasformazioni è infatti strutturale e richiede una revisione epistemologica.

La riflessione non può essere autoreferenziale, pena il rischio di implodere. La teologia non si può estraniare dalla realtà. Il rischio, avverte Christian Duquoc, è quello di vivere in uno stato di esilio, un’inospitalità, a motivo della perdita della forza comunicativa della riflessione.

Occorre rianimarsi dalla fiacchezza che caratterizza la disamina credente per tornare a produrre processi di acculturazione. Affinché questo sia possibile, si rende auspicabile una inversione di metodo, riscoprendo l’effettivo e l’esperienza quali luoghi essenziali del decisivo.



[1] C. Molari, Concilio Vaticano II e i giovani, su https://www.notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=13450:2018-04-12-07-48-00&Itemid=1011



‘A livella


Paola Franchina

31 ottobre 2021


Il giorno successivo alla solennità di Tutti i Santi, la Chiesa latina celebra la commemorazione dei fedeli defunti, preceduta dalla cosiddetta novena dei morti che prende abbrivio il 24 ottobre.

La commemorazione è accompagnata dalle più svariate tradizioni; a Napoli si è soliti preparare il torrone o ‘morticiello; in Sicilia le tavole sono imbandite di leccornie quali i Vincenzi di Catania, i Frutti di Martorana e le Piparelle a Messina. A Roma, invece, si usa consumare il pasto in prossimità della tomba.

Tuttavia, la tradizione più diffusa è la visita ai cimiteri, in cui si è soliti accendere lumi e adornare con fiori i loculi dei cari.

Nella poesia, Il giorno dei morti, Pascoli ricorda tale consuetudine. Il componimento è ambientato nel camposanto, ove il poeta si è recato per onorare i defunti. In questa occasione, i famigliari riprendono vita nella fantasia, andando a ricostituire l’unità ormai perduta.   

L’usanza di recarsi al cimitero viene ricordata anche da Totò, nella celebre poesia liberamente ispirata al Dialogo sopra la nobiltà di Giuseppe Parini: ‘A Livella:  

Ogn’anno,il due novembre,c’é l’usanza

per i defunti andare al Cimitero.

Ognuno ll’adda fà chesta crianza;

ognuno adda tené chistu penziero.

Ogn’anno, puntualmente, in questo giorno,

di questa triste e mesta ricorrenza,

anch’io ci vado, e con dei fiori adorno

il loculo marmoreo ‘e zi’ Vicenza.[1]

In occasione del 2 Novembre un malaugurato, giunto al camposanto per onorare la tomba della zia Vicenza, rimane chiuso all’interno del cimitero.

Mentre fantasticavo stu penziero,

s’era ggià fatta quase mezanotte,

e i’rimanette ‘nchiuso priggiuniero,

muorto ‘e paura... nnanze ‘e cannelotte.[2]

A farsi incontro sono due ombre di differente status sociale, un netturbino e un marchese. Il primo, bardato di tutto punto, si mostra contrariato all’idea di avere al suo fianco un comune spazzino.

 Putevano sta’ 'a me quase 'nu palmo,

quanno ‘o Marchese se fermaje 'e botto,

s’avota e tomo tomo… calmo calmo,

dicette a don Gennaro: “Giovanotto!

Da Voi vorrei saper, vile carogna,

con quale ardire e come avete osato

di farvi seppellir, per mia vergogna,

accanto a me che sono blasonato!

La casta è casta e va, si, rispettata,

ma Voi perdeste il senso e la misura;

la Vostra salma andava, si ,inumata;

ma seppellita nella spazzatura!

Ancora oltre sopportar non posso

la Vostra vicinanza puzzolente,

fa d’uopo, quindi, che cerchiate un fosso

tra i vostri pari, tra la vostra gente”.[3]

Se il marchese rivendica la differenza di classe propria del mondo dei vivi, il netturbino svela la vanità delle realtà profane, livellate della morte.

“Tu qua’ Natale...Pasca e Ppifania!!!

T”o vvuo' mettere 'ncapo... ’int’ a cervella

che staje malato ancora e’ fantasia?...

'A morte 'o ssaje ched'‘e? ...è una livella.

'Nu rre, ’nu maggistrato,'nu grand’ommo,

trasenno stu canciello ha fatt'o punto

c’ha perzo tutto, ‘a vita e pure ‘o nomme:

tu nu t’hè fatto ancora chistu cunto?

Perciò, stamme a ssenti... nun fa’’o restivo,

suppuorteme vicino-che te ‘mporta?

Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive:

nuje simmo serie... appartenimmo à morte!"[4]

Si può percepire l’eco delle parole del Qoèlet, il quale smaschera le borie degli uomini: «Quale guadagno viene all’uomo per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole?».[5] La morte si erge democratica e sbugiarda le millanterie tronfie dei mortali.




[1] A. De Curtis, ‘A livella, su http://www.antoniodecurtis.com/poesia8.htm

[2] Ibid.

[3] Ibid.

[4] Ibid.

[5] Qo 1,3


Sinodo

Paola Franchina

24 ottobre 2021


Dal primo millennio ai giorni nostri le Chiese si sono riunite per definire il proprio consenso e per cercare risposte alle questioni sollevate dalla storia e dalle esigenze dei tempi. Per mantenere vivo lo spirito autentico di collegialità, il 15 settembre 1965 Papa Paolo VI istituisce il Sinodo dei Vescovi con il Motu Proprio Apostolica Sollicitudo.

 Il 10 ottobre, nella Basilica di San Pietro, Papa Francesco ha dato inizio al processo di consultazioni per la Chiesa Universale, che culminerà con l’inaugurazione dell’Assemblea sinodale nel 2023. Tale atto è seguito da quello dei vescovi, i quali, il 17 ottobre, hanno dato avvio al processo consultivo nelle Chiese particolare.

In occasione dell’imminente sinodo, cerchiamo di comprendere il significato di tale evento, lasciandoci istruire dalla disamina condotta da Giuseppe Ruggieri nel volume Chiesa sinodale, Editori Laterza 2017.

Ruggeri inquadra il sinodo all’interno del concetto di sinodalità, conferendo ampio respiro a visioni parziali che riducono il sinodo dei vescovi a mero organo consultivo del Papa o a strumento rappresentativo di tipo democratico. 

Prendiamo ad esame, innanzitutto, la delucidazione offerta dal codice di diritto canonico.

Can. 342 - Il sinodo dei Vescovi è un'assemblea di Vescovi i quali, scelti dalle diverse regioni dell'orbe, si riuniscono in tempi determinati per favorire una stretta unione fra il Romano Pontefice e i Vescovi stessi, e per prestare aiuto con i loro consigli al Romano Pontefice nella salvaguardia e nell'incremento della fede e dei costumi, nell'osservanza e nel consolidamento della disciplina ecclesiastica e inoltre per studiare i problemi riguardanti l'attività della Chiesa nel mondo[1].

Tale definizione, sia pur mantenendo la sua pertinenza, risulta insufficiente per profilare la complessità di quanto accade in ogni evento sinodale. Essa, infatti, riduce il Sinodo dei Vescovi a un mero organo consultivo del Romano Pontefice.

In una linea diametralmente opposta, ma non meno parziale, si colloca chi tenta di inquadrare il Sinodo dei Vescovi all’interno della cornice governativa democratica. Prendendo le distanze da tale logica, Ruggeri fa appello ai canonisti e teologi medioevali: l’autorità, infatti, non è conferita dalla base ecclesiale, bensì da Cristo capo.

Risulta oltremodo opportuna, a tal proposito, una prospettiva avvertita: contro ogni visione quasi magica dell’efficacia dello Spirito di Cristo, occorre sottolineare che non esiste un automatismo formale della Parola, bensì essa acquisisce forza performativa a partire da una reale docilità all’ascolto.

Inoltre, è opportuno specificare che un evento sinodale non ha mai una valenza solo locale, ma è espressione del consenso della chiesa tutta. Affinché la sinodalità non sia una parola alata, incapace di incidere sull’effettività, vi è la necessità che il cuore pulsante del sinodo sia costituito dal dinamismo della Chiesa. Per superare lo iato che si insinua tra linguaggio formale e la dimensione strutturale, urge la promozione di luoghi di scambio dialettici a cui possa prendere parte viva l’intera compagine ecclesiale.

A tal scopo, il Documento preparatorio al Sinodo prevede la nomina da parte di ogni Vescovo di un responsabile della consultazione sinodale, deputato ad accompagnare la riflessione della chiesa particolare. L’elaborazione a livello diocesano culminerà con una riunione pre-sinodale che andrà a chiudere la fase diocesana ed i cui contributi verranno inviati alla Conferenza Episcopale di ogni singola Chiesa locale.

Alla luce della riflessione di Ruggieri, è, dunque, necessario, affinché il Sinodo respiri sinodalità, che esso nasca dal cammino comune non solo dei membri del magistero, ma anche dei laici e le laiche, chiamati a contribuire con coraggio alla condivisione di gioie, preoccupazioni e speranze che li agitano.



Note

[1] Codice di diritto canonico, su https://www.vatican.va/archive/cod-iuris-canonici/ita/documents/cic_libroII_342-348_it.html

La brezza leggera

Paola Franchina

17 ottobre 2021


L’epoca contemporanea è segnata dal tramonto del cielo di stelle fisse che orientano l’esistenza: lo sbigottimento che assale l’uomo, tuttavia, non deve essere letto in chiave unicamente negativa; ad ogni tempo, infatti, pertiene un’ambivalenza: la contemporaneità, con il suo sguardo critico e sconfessante, sbugiarda le presunte verità che si ergono a tiranno, sovrastando l’uomo.

La teologia è chiamata a porsi in ascolto dei tempi, rinunciando a risposte anacronistiche nutrite di paura. Il vaso di Pandora è stato scoperchiato, inopportuno è il tentativo di sigillarlo, rifugiandosi in una mitica età dell’oro. Attraverso il vaglio del postmoderno, la riflessione viene purificata dalle millanterie che hanno permeato la religiosità per secoli.

Un interessante stimolo di riflessione è offerto dalla tradizione psicoanalitica. Nello scritto L’uomo Mosè e la religione monoteistica, Freud propone una rilettura sconfessante del rapporto con il paterno divino; la religione confina l’uomo in una condizione di minorità, in cui il soggetto, anziché provvedere in modo personale ai propri bisogni, delega ad altri la responsabilità del vivere. Solo sciogliendo la terra dalla catena del suo sole[1],  attraverso l’omicidio del Padre, l’uomo potrebbe riscattare la forma del suo desiderio.

L’individuo che non riesce ad emanciparsi dall’idea del divino cade in una nevrosi, dominata da conflitti psichici associati a stati d’ansia. L’uomo religioso è come un infante che si rifugia nella credenza illusoria di un iperuranio a motivo dell’asprezza del vero. Questo atteggiamento, tuttavia, non solo causa la regressione del soggetto, ma altresì della collettività intera, relegata in uno stadio di minorità.

Sulla scia di Freud si colloca la disamina lacaniana che riprende la tradizione psicoanalitica, corrodendola dall’interno. Se Freud distingueva il complesso edipico tra il bambino e il padre da quello di Elettra tra la figlia e la madre, Lacan, invece, preferisce parlare di complesso di svezzamento che vede implicato l’infante, indifferentemente dal genere, e la madre.

La speculazione lacaniana avverte circa il rischio di una ricerca nostalgica della vita vissuta prima dello svezzamento, in cui la mamma costituisce un rifugio dalle avversità; la nostalgia del nido materno, generata dall’idealizzazione della madre, provoca il soffocamento del desiderio. Dunque, il bambino e la bambina, senza differenza di sesso, sono entrambi chiamati a superare l’immagine idealizzata della madre attraverso l’ausilio del padre.

Il padre, attraverso la negazione, aiuta ad uscire dallo stadio del godimento totale della poppata, invitando il desiderio a sopravanzare: conduce, così, l’uomo non solo alla maturità sessuale, ma anche alla maturità etica. Il padre indica un’oltranza e redime lo spazio della trascendenza che era prima occupato da un’immagine sproporzionata della madre.

La prospettiva lacaniana deve, dunque, dissuadere da tutte quelle prospettive religiose che presentano un assoluto dispotico chiamato ad invadere lo iato che si insinua tra l’oggetto dell’aspirazione e la sua realizzazione effettiva. Un’estetica alterata dell’Altro religioso, in cui esso si offre come unica forma deputata a riempire il vuoto, sottrae l’uomo alla responsabilità della libertà, ottundendo il desiderio.

Un’immagine non deformata del divino, invece, apre alle risorse del simbolico, adornando la sproporzione. Il simbolo incoraggia l’uomo ad accostarsi alla voragine dell’eccesso, senza essere atterriti dal senso di vertigine. La teologia assume la responsabilità di aiutare il soggetto ad affacciarsi ad una distanza residuale irriducibile, aprendo al mistero della trascendenza.

 Dio, infatti, non si manifesta in un vento impetuoso e gagliardo o in un terremoto, neppure in un fuoco: la chiamata non si rivela in una forza sovrumana che sovrasta la libertà umana, ma assume la consistenza discreta di una brezza leggera che sollecita la libertà individuale:

Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo, da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì Elia si coprì il volto con il mantello. Uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco venne a lui una voce che gli diceva: che cosa fai qui Elia? [2]

L’appello di Dio, dunque, puntella il desiderio umano, sollecitando ad un itinerario che affranchi dalla minorità. Una religiosità autentica, dunque, non crea un grembo, ma offre uno spazio d’oltranza che emancipa l’uomo dalla paura della propria libertà.


NOTE

[1] Cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza, Einaudi, Torino 1979, aforisma 125.

[2] 1Re 19,11-13.



Pare sia scritto più in là [1]

Paola Franchina

10 ottobre 2021


Il viaggio rappresenta una delle più antiche metafore della nostra esistenza: un modello paradigmatico nella letteratura è costituito dalla straordinaria odissea di Ulisse verso l’amata Itaca, ove ad attenderlo vi è la devota Penelope, descritta nell’atto di tessere e disfare la medesima tela per scongiurare il rischio di addivenire a nuove nozze.  

Anche la Bibbia non è immune al fascino della strada. La storia della salvezza prende abbrivio dall’imperativo divino: Lech-Lecha, tradotto in italiano con «vai, vattene!». Attraverso questo comando, Dio esorta il patriarca Abramo a lasciare le presunte sicurezze e garanzie, in direzione dell’ignoto. Il comando, infatti, non esplicita la meta: «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò».[2]

Le storie di viaggi permeano l’intera narrativa, illuminandosi a vicenda. In particolare, ci lasceremo stupire da un itinerario dai toni fantastici, messo in scena da uno degli autori più eclettici del Novecento, Dino Buzzati.

Il racconto I sette messaggeri, tratto dall’omonima raccolta edita nel 1942, è tratteggiato con pennellate sinistre e alienanti; il realismo fantastico, tipico di Buzzati, dissemina la realtà di tratti magici e incantevoli, restituendo al lettore una prospettiva straniante e attonita.

Nella novella viene narrato il cammino compiuto dal figlio di un re che, avendo varcato di poco la soglia dei trent’anni, decide di avventurarsi in un viaggio in direzione dei confini del regno. Con il proseguire del cammino, la sicurezza iniziale vacilla, la meta diviene illusione ottica, rifrazione della luce attraverso strati d’aria contigui: «Ma più sovente mi tormenta il dubbio che questo confine non esista, che il regno si estenda senza limite alcuno e che, per quanto io avanzi, mai potrò arrivare alla fine»[3].

         Dopo esattamente otto anni, sei mesi e quindici giorni, il protagonista non è ancora giunto alle colonne d’Ercole del regno. Lo scarto che si insinua tra il giovane e il confine appare asintotico: il residuo sembra essere incolmabile.

Una sensazione simile può essere paragonata a quella che pervade un turista che percorre i cinquanta metri di via Niccolò Piccolomini a Roma. Attraverso uno gioco di prospettive, la vista di San Pietro, che domina incontrastata sulla scena, è soggetta ad un singolare effetto ottico. Se doveste imbattervi in tale scenario, potrete notare che, a mano a mano vi avvicinerete alla cupola di San Pietro, quest’ultima, ai vostri occhi, si allontanerà. E, viceversa, più vi allontanerete, più essa parrà avvicinarsi.

Come sotto il medesimo effetto ottico, più il protagonista incede, più il confine del regno si dilata nello spazio. La sensazione è di immobilità:

Penso talora che la bussola del mio geografo sia impazzita e che, credendo di procedere sempre

verso il meridione, noi in realtà siamo forse andati girando su noi stessi, senza mai aumentare la

distanza che ci separa dalla capitale; questo potrebbe spiegare il motivo per cui ancora non siamo

giunti all'estrema frontiera.[4]

Il viaggio, però, non chiama in causa solo la dimensione spaziale: al centro dell’attenzione vi è il tempo, il quale è ben lungi dall’essere una successione di istanti secondo un modello matematico quantitativo, ma diviene fluido e irreversibile: esperienza della coscienza. Il tempo si fa simile al gomitolo bergsoniano, in cui i momenti si compenetrano e avvolgono su loro stessi.

All’interno del racconto, i marcatori temporali, inizialmente precisi e definiti, divengono progressivamente vaghi e indeterminati: l’inesorabile scorrere della sabbia nella clessidra sfugge al controllo. Il taccuino, sul quale il figlio del re annotava il tempo che passa, non è più funzionale, come un orologio molle all’interno di un quadro di Dalì.

I sette messaggeri, la cui importanza si evince dal titolo, sono i testimoni del tempo che scorre. Essi vengono inviati in modo scaglionato verso la città natale, per arrecare notizie. Tuttavia, aumentando le distanze, la possibilità di comunicazione con la città di origine diviene utopia: il passato è ormai un lontano ricordo. Il tempo assume, così, i tratti dell’attesa di un evento conclusivo.

Con l’addentrarsi nella narrazione, le coordinate spazio-temporali si sublimano nell’indefinito: siamo condotti in un’atmosfera surreale, dai confini rarefatti. L’anelito al limes è segno di un protendersi verso il varco che dischiude il senso a cui sembrano rimandare le cose: «una speranza nuova mi trarrà domattina ancora più avanti, verso quelle montagne inesplorate che le ombre della notte stanno occultando».[5]

Per concludere aprendo, possiamo inscrivere la prospettiva di Buzzati all’interno di una matrice platonica che ricerca il definitivo al di là dell’effettivo. Rispetto a questa inclinazione, la rivelazione cristiana offre una chiave di volta, svelandosi nella storia.

 

NOTE


[1] E. Montale, Maestrale, in Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1984.

[2] Gen 12,1

[3] D. Buzzati, I sette messaggeri, in La boutique del mistero, Mondadori, Milano 1968. Copia in PDF a cura di Giorgio Cadorini: http://giorgio.cadorini.org/uni/materialy2/buzzati01.pdf

[4] Ibid.

[5] Ibid.


Dio è morto e anch’io non mi sento molto bene 


Paola Franchina

3 ottobre 2021


Il tema della morte di Dio, caro a Nietzsche, ha affascinato svariati artisti, che si sono cimentati nella rielaborazione personale di tale suggestione. Un esempio ci viene offerto da Woody Allen, il quale, nel copione Dio, mette in atto la morte del Creatore del cielo e della terra.

A comparire sulla scena sono lo scrittore Epàtite e l’attore Diàbete, presentati nell’atto di allestire un dramma.

Scrittore: Siamo personaggi in una commedia e presto vedremo la mia commedia... che è una commedia dentro una commedia. E ci stanno guardando.

Attore: Si. È eccezionalmente metafisico, non trovi?

Scrittore: Non è soltanto metafisico, è stupido!

Attore: Preferiresti essere uno di loro?

Scrittore: (guardando il pubblico) Assolutamente no. Guardali.[1]

I due personaggi decidono di inscenare la storia di uno schiavo, Fidipine, inviato a recapitare un messaggio al re Edipo. Il messaggero, grazie al concorso di eccentrici personaggi, riesce nell’ardua impresa. Le prodezze del protagonista, tuttavia, non sortiscono l’effetto sperato: in luogo di un encomio, il re emette un’amara sentenza di morte che va a gravare sulla testa dello sciagurato messo, colpevole solo dell’essere foriero di notizie. Si assiste ad un crescendo nella tensione narrativa: lo spettatore è incoraggiato ad attendere lo scioglimento dell’intreccio attraverso l’intervento provvidenziale di un deus ex machina.

Scrittore: Ma stai dicendo che Dio arriva alla fine e salva tutto.

Attore: Mi piace! Piacerà al pubblico perché è spettacolare.

Doris: Hai ragione. È come quei film sulla Bibbia fatti ad Hollywood.[2]            

La prolessi induce la platea a sperare nel provvedimento salvifico di Dio. Nondimeno, l’apparecchiatura, deputata a far scendere sul palcoscenico il Demiurgo, si inceppa: ad essere messo in atto è un trapasso paradossale, il Dio che dovrebbe presiedere i fenomeni viene fagocitato dal suo stesso macchinario.

Diàbete: Dio...Dio? Dio? Dio, stai bene? C’è un medico in sala?                                                                                   

Dottore: (dalla platea) Io sono un medico.

Trichìnosi: La macchina si è ingarbugliata.

Epàtite: Psst. Esci. Stai rovinando la commedia.

Diàbete: Dio è morto.

Dottore: Aveva la mutua?[3]

Il taglio delle parche colpisce anche lOnnipotente: a diagnosticarne l’avvenuto decesso è un bizzarro medico, il quale non comprende la gravità dell’avvenimento e si preoccupa di indagare se l’Essere perfettissimo, Signore e Creatore sia iscritto ad un ente di previdenza sociale.  Lo stile è sferzante ed ironico, realtà e finzione si mescolano fino a confondersi. Il delirio onirico diviene  una cartina di tornasole della condizione umana: l’indomabile tensione verso la riuscita soggettiva, di cui il volto provvidenziale di Dio è avallo, è destinata a frangersi contro la molteplicità caotica dell’esperienza.

In questa desolante prospettiva, un uomo che abbandona il teatro indignato è allegoria della delusione dei mortali.

Uomo: Vi faccio vedere io se sono fittizio o no. Me ne vado e chiedo il rimborso del biglietto. Questa è una commedia stupida. Anzi, non è affatto una commedia. Se vado a teatro, voglio vedere qualcosa con una storia, un inizio, un centro e una fine invece di questa merda. Buona notte. (Esce indignato dal corridoio)[4]

Il finale rimane aperto. La sintesi razionale viene scalzata dal disordine: si assiste all’oblio di ogni prospettiva unificante capace di dare un inizio, un centro e una fine all’esistenza. Dinnanzi all’assurda commedia umana, l’unica soluzione è il rimborso del biglietto: la ricerca di una conclusione soddisfacente o, quantomeno, attendibile sembra essere una lotta titanica.

Diàbete: Poco soddisfacente? Non è neanche attendibile. (Le luci cominciano ad abbassarsi) Il trucco sta nel cominciare col finale quando scrivi una commedia. Trovati un buon finale di effetto, e poi scrivi, tornando indietro.

Epàtite: L’ho già provato. Mi è venuta una commedia senza inizio.

Diàbete: Assurdo.

Epàtite: Assurdo? Cosa è assurdo? [5]

         A rimanere sul palcoscenico della realtà è il dominio dispotico dell’assurdo, con le sue aporie: le pretese ottimistiche del positivismo ottocentesco vengono sbugiardate dall’umorismo grottesco che domina l’impianto narrativo. L’epilogo ammicca all’immagine nietzschiana dell’uomo folle che annuncia la fine di ogni orizzonte di senso al di là della storia. Corrosa ogni certezza, a rimanere è la molteplicità vertiginosa dell’interpretazione.

Si incorre, così, in filosofie deboli di vattimiana memoria, incapaci di dare risposte in positivo, con il rischio di arenarsi in un’ermeneutica inesauribile che accoglie il vuoto e la miseria come definitivi.

Diàbete: Era una commedia buona. Mancava solo il finale.

Epàtite: Ma cosa significava?

Diàbete: Niente...assolutamente niente.

Epàtite: Cosa?

Diàbete: Senza significato. È vuota.[6]

La commedia della vita appare vuota, priva di significato. L’unica ancora di salvezza che si profila è abbandonarsi al caos e porsi alla scuola di Dioniso: il Dio pazzo che beve, ride e danza.

Epàtite: Questa è una commedia serissima, con un messaggio! Se va a puttane il messaggio non passa.

Donna: Ma via, il teatro è un divertimento! C’è un vecchio detto, se volete mandare un messaggio, telefonate alla Western Union.[7]

La donna rivendica la licenza di divertirsi, rinunciando ai messaggi edificanti e costruttivi. Epàtite, tuttavia, sembra sottrarsi a siffatta prospettiva. Lo scrittore non può arrendersi alle sabbie mobili del non senso e placare l’indomabile anelito verso un compimento: è proprio in questo spazio, dello sperare contro ogni speranza, che si insinua la Teologia.



NOTE

[1]Copione della commedia Dio di Woody Allen (PDF), su copioni.corrierespettacolo.it.

[2] Ibid.

[3] Ibid.

[4] Ibid.

[5] Ibid.

[6] Ibid.

[7] Ibid.


Paola Franchina

Ha conseguito a Milano, nel settembre 2021, il Baccalaureato in Teologia presso la Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale, con la tesi Jean-Luc Marion. Perdersi per ritrovarsi. Prosegue gli studi per la Licenza in Teologia Fondamentale a Roma presso la Pontificia Università Gregoriana.