La musica di Aida opera da camera
di Philip Gossett (*)
di Philip Gossett (*)
Se amate la musica lirica, Aida ha certamente un ruolo molto significativo nel vostro rapporto personale con il melodramma. Chi può dimenticare i grandi spettacoli in una bella serata d’estate alle Terme di Caracalla o all’Arena di Verona: probabilmente non c’era molto da dire sulla parte musicale, ma come scordare gli elefanti nella marcia trionfale o i cammelli sul Nilo? Mi ricordo una recita alla Lyric Opera di Chicago (ma sarà sicuramente accaduto anche altrove) dove un famoso tenore, diciamo - per essere gentili - di un certo peso, con una bellissima voce, che nella scena del giudizio non poté scendere le scale per raggiungere il sotterraneo. Ebbene: mentre i Sacerdoti si trovavano là sotto, il nostro carissimo Radamès si fece una bella passeggiata fuori scena al livello del palcoscenico, perfettamente a proprio agio. Ero nella mia classe di musica alla scuola media quando ascoltai per la prima volta Ritorna vincitor, ma non capii minimamente che cosa volesse dire (e non credo che la gentilissima maestra ne sapesse qualcosa di più). Era la stessa classe dove avevo sentito quello che noi studenti conoscevamo come il Quartetto del Rigor Mortis… Povero Verdi! Ho anche nitido il ricordo della mia prima Aida in teatro - al vecchio Metropolitan Opera di New York, nei posti in piedi ovviamente - con Leontyne Price nella parte principale: un bellissimo battesimo al capolavoro verdiano. Con tutte queste vicende personali intrecciate con Aida, sembra qualche volta difficile ricordare che l’opera ha anche una sua storia.
a) Venne composta in un momento particolare della storia dell’arte e della politica europea (anche se non fu scritta per l’apertura del canale di Suez).
b) Fu scritta su commissione per il teatro di un paese dove Verdi non ha mai messo piede, neanche per montare una sua opera.
c) Rappresentava per il compositore la sfida di rimanere fedele a se stesso e alla sua arte, ma allo stesso tempo non mostrando indifferenza nei confronti dei cambiamenti che stavano trasformando profondamente la natura stessa del teatro in musica.
In questo contributo vorrei concentrarmi non su Aida come spettacolo ‘orientaleggiante’, né sul suo significato storico, ma piuttosto su Verdi compositore e su questo suo lavoro.
Il 9 agosto 1869 Verdi scrisse al direttore dei teatri del Cairo, indicando che egli sapeva che un nuovo teatro stava per aprirsi in quella città per celebrare l’apertura del canale di Suez. Mentre si dichiarava onorato di essere stato invitato a scrivere un inno per l’avvenimento, rifiutava l’incarico perché non era nelle sue abitudini scrivere musica d’occasione. Dunque il teatro fu inaugurato il 1° novembre 1869 con una rappresentazione di Rigoletto, ma senza nuova musica di Verdi.
Ricordiamo che dal tempo di Un ballo in maschera, opera posposta di quasi due anni per motivi di censura e finalmente offerta al pubblico romano nel febbraio 1859, Verdi non aveva scritto un’opera nuova per l’Italia.
La forza del destino venne composta per San Pietroburgo nel 1861-1862; il rifacimento di Macbeth, anche se concepito in italiano, fu dato per la prima volta in traduzione francese al Théâtre Lyrique di Parigi nell’aprile 1865 e Don Carlos nella sua veste originale, in francese e in cinque atti, vide la luce a Parigi nel marzo 1867. Tuttavia Verdi non era completamente a suo agio nella Ville Lumière, come spiegò all’amico francese Camille Du Locle nel 1869, quando quest’ultimo tentò di convincerlo a scrivere un’altra opera per Parigi:
Io non sono un compositore per Parigi. Non so se ne ho il talento, ma so che le mie idee in fatto d’arte son ben diverse delle vostre. Io credo all’ispirazione: voi altri alla fattura; ammetto il vostro criterio per discutere: ma io voglio l’entusiasmo che a voi manca per sentire e giudicare.
Ma anche se fu pronto a rivedere La forza del destino per Milano nel 1869, ritoccando vari elementi che non lo convincevano della versione di San Pietrobugo, in quegli anni Verdi non accolse le richieste di comporre musica nuova per l’Italia. Poi le proposte dall’Egitto iniziarono a divenire più insistenti e più serie. Erano pronti ad offrirgli tutte le prove che voleva, al Cairo o altrove. Non era necessario per lui recarsi nella capitale egiziana a mettere in scena l’opera. Era stato fatto preparare un soggetto all’egittologo francese Auguste Mariette, lasciando a Verdi il compito di farlo trasformare in un libretto. Verdi si riferì all’affare d’Egitto, insistendo che era un «lavoro di vastissime proporzioni come se si trattasse della Grande Boutique» (come egli usava chiamare l’Opéra di Parigi).
Per il libretto chiese la collaborazione di Antonio Ghislanzoni, che già conosceva e di cui aveva avuto una buona impressione grazie al contributo che il poeta aveva dato alle modifiche milanesi della Forza del destino (Francesco Maria Piave, autore del libretto originale, aveva subìto un ictus cerebrale e non poteva più collaborare). Dal luglio 1870 fino al novembre dello stesso anno Verdi lavorò con Ghislanzoni alla stesura del libretto, facendo alcuni schizzi preliminari della musica e, soprattutto, un ‘abbozzo continuativo’ (in cui, secondo il compositore, avveniva il vero momento creativo). Abbiamo un bellissimo carteggio fra Ghislanzoni e Verdi in cui ogni aspetto del lavoro sull’opera è discusso fra i due. Poi il compositore aveva preparato il manoscritto autografo, fatto la strumentazione, ripensato alcuni aspetti del lavoro, ecc. La prima rappresentazione al Cairo avvenne soltanto il 24 dicembre 1871. Dopo altre modifiche (cambiò un duetto, scrisse una nuova sinfonia, come nel caso della Forza del destino - anche se poi decise di tornare al preludio originale), Aida venne data al Teatro alla Scala di Milano l’8 febbraio 1872 per lo più nella forma in cui oggi la conosciamo. Verdi fu contento della rappresentazione e il giorno dopo scrisse all’amico fiorentino Oprandino Arrivabene:
Ieri sera Aida benissimo, esecuzione d’insieme e di parti buonissima, mise-en-scéne idem... In quanto alla musica, il pubblico le ha fatto buon viso. Non voglio con te affettare modestia e certamente questa è fra le mie delle meno cattive. Il tempo poi le darà il posto che le conviene.
«Fra le mie delle meno cattive»! Una reticenza tipicamente verdiana! Nonostante tutto questo, Aida è un’opera che è stata spesso fraintesa. In parte questo equivoco deriva dal problema di capire esattamente cos’era un melodramma scritto per la Grande Boutique, cioè per l’Opéra di Parigi.
Durante gli anni ‘60 in Italia, l’opera lirica iniziò a subire influenze importanti dalla tradizione francese (e tedesca), con una presenza particolare del coro e con un’enfasi sulle situazioni storiche e culturali. Non è che prima fossero mancati influssi provenienti da Parigi (anche se un’opera come Nabucco aveva attinto i suoi francesismi da un lavoro francese di un compositore italiano, cioè il Moïse di Rossini), ma Verdi non avrebbe mai potuto immaginare un’opera focalizzata quasi interamente su momenti intimi come La traviata o Rigoletto alla fine degli anni ‘60 o all’inizio degli anni ‘70: un’opera teatrale di quel tipo, in quell’epoca, sarebbe sembrata appartenere a un altro universo di valori musicali e drammaturgici.
Pensiamo alle due ultime opere di Verdi prima di Aida e capiremo subito quest’atteggiamento. Gran parte della Forza del destino tratta direttamente dei protagonisti e delle loro azioni, ma l’impressione generale non può non riflettere le grandi scene d’insieme, la scena nell’osteria che riempie la prima parte del secondo atto e l’accampamento militare nel terzo atto (una scena ispirata dal Wallenstein di Friedrich Schiller), altro tableau enorme (nella nuova edizione critica occupa 150 pagine, mentre i primi tre atti in tutto occupano solo 515 pagine). Non sorprende che gli avvenimenti specifici del rapporto Don Alvaro/Don Carlo prendano relativamente meno spazio, anche se sono cruciali per capire la storia dell’opera. E Don Carlos, opera veramente scritta per la Grande Boutique, ha un sottofondo storico complessivo. Non sorprende quindi se abbiamo un’impressione simile anche di Aida, dove si trovano i grandi pezzi d’insieme, le marce trionfali, ecc. Certamente ci sono esempi fondamentali nei primi due atti di quest’opera, con le danze integrate nella partitura e non presentate come un balletto a sé stante alla maniera francese. Nel primo atto troviamo la scena in cui viene annunciata la guerra e dove Radamès è nominato generale delle truppe egiziane. Si ricorda soprattutto il pezzo d’insieme, «Su! del Nilo al sacro lido», che si conclude con le parole «Ritorna vincitor», che danno motivo alla grande scena solista di Aida. L’atto poi termina con la consacrazione, «Possente Fthà», e il coro di sacerdotesse e sacerdoti, con danza e un grande cantabile («Nume, custode e vindice»).
Ma il pezzo d’insieme veramente memorabile è il Gran Finale Secondo, in cui ogni individuo si trova coinvolto nelle forze della storia. Questo Finale presenta non soltanto i personaggi solisti e le masse, ma anche divisioni entro le masse - il popolo egiziano, i guerrieri, i Sacerdoti, gli schiavi etiopi, ciascuno dei quali è presentato con una musica propria. Le preghiere per l’Egitto, la Marcia (con le sei trombe costruite per Aida), poi gli assoli di Amneris, di Radamès, di Amonasro, di Radamès di nuovo, e alla fine il contrappunto fra le varie idee. Il tutto inizia e si conclude nella stessa tonalità con la ripresa di qualche battuta della Marcia.
Non è difficile capire perché queste scene straordinarie sembrano dominare l’opera intera. Per me, tuttavia, quello che è veramente fondamentale di Aida, ancora più di questi momenti pubblici, è la sua natura intimistica. L’opera presenta quattro personaggi e i loro rapporti: Aida, la schiava etiope e suo padre, Amonasro, Re dell’Etiopia e prigioniero di guerra; Amneris, figlia d’Egitto e regina, e Radamès, guerriero egizio. E la storia appartiene ad una tradizione francese, con un gruppo di personaggi e le loro emozioni, nel contesto di forze storiche che non possono controllare. I pezzi più importanti dell’opera sono una serie di duetti.
In ogni caso Verdi e Ghislanzoni lavorarono per evitare la ‘solita forma’, ma spesso non ci riuscirono, e la colpa non fu soltanto del poeta ma anche del compositore stesso. Per il Duetto fra Radamès e Amneris nell’ultimo atto, Verdi scrisse a Ghislanzoni:
«Svolga pure questa situazione com’ella crede meglio, e sia ben svolta, ed i personaggi dicano quel che devono dire senza preoccuparsi menomamente della forma musicale.»
Sembra ‘Verdi il progressivo’! Ma più avanti nella stessa lettera:
«Ben inteso che s’ella mi mandasse dal principio alla fine un recitativo, mi sarebbe impossibile fare della musica ritmica, ma s’ella attaccasse addirittura sul principio un ritmo qualunque e lo continuasse fino alla fine, io non me ne lagnerei affatto. Forse forse bisognerebbe cambiarlo, solo per fare una piccola cabalettina in fine.»
Quando qualche giorno dopo ricevette la poesia da Ghislanzoni, egli rispose:
«[...] la cabaletta, per la situazione, è lunga. Ah! queste maledette cabalette che hanno sempre la stessa forma e che si assomigliano tutte! Veda un po’ se vi è mezzo di trovare qualche cosa di più nuovo.»
Si tratta di uno dei confronti più intensi dell’opera e a Verdi piacque molto il testo, come dichiarò il 5 novembre a Ghislanzoni:
«Ma è molto bello questo duetto! molto, molto, molto! Dopo quello del terzo atto tra Aida ed Amonasro, questo mi pare il migliore di tutti. S’ella può trovare una forma un po’ nuova per la cabaletta, questo duetto sarà perfetto. In ogni modo potremo aggiustare questa, cambiando alcuni versi...»
Per fare un altro esempio, nel Duetto fra Aida e Amneris del secondo atto, Ghislanzoni preparò un dialogo sempre in settenari. Al momento chiave, quando Amneris vuole ingannare Aida, facendole intuire che Radamès è morto, la poesia originale suonava così:
AMNERIS
Per Radames d’amore
ardo e mi sei rivale.
AIDA
Che? voi l’amante? Io l’amo
e figlia son d’un Re.
Verdi trovò la regolarità dei versi inaccettabile e chiese più flessibilità metrica, suggerendo:
«Tu l’ami? ma l’amo anch’io, intendi? La figlia dei Faraoni è tua rivale!»
«Mia rivale? E sia: anch’io son figlia...»
E poi continuò:
«So bene ch’ella mi dirà: E il verso, la rima, la strofa? Non so che dire; ma io quando l’azione lo domanda, abbandonerei subito ritmo, rima, strofa; farei dei versi sciolti per poter dire chiaro e netto tutto quello che l’azione esige. Purtroppo per il teatro è necessario qualche volta che poeti e compositori abbiano il talento di non fare né poesia né musica.»
Ma poi viene la vera magia verdiana del Duetto, cioè la ripresa di «Numi, pietà» in diminuendo che porta al Finale II. E questa conclusione fu un’aggiunta molto tardiva, che Verdi mandò al Cairo per il direttore, Giovanni Bottesini, il 17 dicembre 1871, dicendo:
«Ho fatto un cambiamento nella stretta del duetto delle due donne nel secondo atto. L’ho mandato due o tre giorni fa a Ricordi, che deve già averlo spedito al Cairo. Appena arrivi io ti prego caldamente di farlo ripassare alle due artiste, e di farlo eseguire. La stretta che vi era mi è parsa sempre un po’ comune. Questa che ho rifatta non è tale e finisce bene, se, col ritornare al motivo della scena del 1° atto, la Pozzoni [Aida] lo canterà marciando a stento verso la scena.»
Questa tensione fra le procedure convenzionali e le particolarità di una situazione drammatica è al centro anche degli altri Duetti dell’opera. In realtà ci sono pochi momenti in cui sentiamo i personaggi di Aida in pezzi solistici e sono tutti piuttosto introversi. Si comincia con l’inizio quasi impossibile per il tenore (ben lontano dall’«Esultate» di Otello), «Celeste Aida» di Radamès, con una conclusione famosa sul si bemolle acuto, pianissimo e morendo nella stesura originale. Tutto il pezzo è costruito come una sezione singola, con un breve contrasto nel centro. Diversi tenori hanno chiesto al compositore di trasporre il pezzo più basso per aiutarli a fare l’effetto voluto da Verdi. Esiste anche una lettera autografa in cui il compositore suggerì di tenere la tonalità originale, ma di prendere le ultime battute un’ottava più bassa.
L’uscita solistica seguente è la scena di Aida, in cui la protagonista capisce che quello che ha augurato con tutti gli altri a Radamès, che ama, è contro la sua stessa patria. Il brano è costituito da diverse piccole sezioni che seguono ciascuna con precisione l’idea delle parole. Normalmente ogni sezione, dopo il recitativo introduttivo, ha un sottofondo lirico: l’orrore per le proprie parole, una presentazione ancora più lirica di queste emozioni, una melodia squisita dedicata all’amore (che Verdi riprende nel Duetto con Amneris nel secondo atto) in conflitto fra il padre e l’amante, e l’invocazione agli Dei (anche questa si udrà di nuovo nelle ultime battute del Duetto con Amneris). Si tratta, insomma, di una musica che è attenta ad ogni minima sfumatura del testo, che vuol riflettere ogni cambiamento di idea e di tono, e alla quale non è permesso svilupparsi a lungo. Nel secondo atto non c’è nessun pezzo solistico, anche se i protagonisti hanno da cantare qualche frase nel corso del Finale. Non si ritorna ad un pezzo veramente a solo prima dell’invocazione di Aida alla sua patria perduta nel terzo atto: si tratta della grande «O patria mia», con un’orchestrazione magistrale di Verdi, fra cui un bellissimo solo per oboe. Poi Aida descrive la sua patria, «O cieli azzurri» con fiati e basso pizzicato.
Il pezzo è costruito come una Romanza in due strofe, ma la seconda strofa («O fresche valli») è completamente riorchestrata.
La sola parte nel quarto atto che ha qualche rapporto con un pezzo solistico è la presenza di Amneris nella scena del giudizio, ma la sua parte è talmente integrata nell’insieme, con il coro fuori scena, con Ramfis, il Gran Sacerdote, e col muto Radamès, che è impossibile parlare di ‘un’aria’.
Aida, dunque, è definita soprattutto nei pezzi per uno o due personaggi, con un accompagnamento strumentale studiato con precisione per fare suonare soltanto gli strumenti essenziali ad ogni momento significativo. Qualche volta ho scandalizzato amici e anche studenti dicendo che - lontano da essere un’opera di proporzioni massicce - Aida è piuttosto un’opera da camera. Dicendo questo, ho voluto provocare, senz’altro, ma le mie parole avevano un senso preciso. Si tratta di un’opera di quattro personaggi e delle loro complesse emozioni. Questi personaggi sono collocati in un contesto di guerra e assolutismo religioso, sicuramente, ma il cuore dell’opera resta in loro e nei loro rapporti. Quello che è straordinario della tecnica verdiana in Aida è come egli sia riuscito a far funzionare dentro una forma che minacciava di divenire sempre più enorme grazie ad idee mutevoli che venivano dagli oltremontani, sia l’opera francese e in particolare quella di Meyerbeer da un lato, e la presenza crescente di Wagner e uno stile declamato dall’altro. Il Don Carlos in cinque atti non riesce completamente a uscire da questo problema, anche se la sua musica risulta splendida e getta uno sguardo penetrante nella condizione umana. Aida, invece, ci riporta al mondo delle emozioni, ai personaggi che devono vivere l’amore, il dovere, la gelosia, l’odio, personaggi coinvolti in emozioni che non riescono a dominare e che alla fine portano tutti ad una fine tragica.
Tre di essi (Amonasro, Aida e Radamès) muoiono; il quarto (Amneris) è condannato a vivere. Nessuno può scappare al proprio destino, anche se Aida e Radamès concludono i loro giorni con un Liebestod all’italiana («O terra addio»). Concentratevi su questi personaggi e le loro emozioni, e riuscirete a capire fino in fondo il genio dell’affare d’Egitto di Giuseppe Verdi.
(*) Fonte: http://www.fondazionepetruzzelli.it/wp-content/uploads/2017/09/AIDA-saggio-prova-generale.pdf