Quelli che seguono sono i miei appunti personali per una visita a Villa Gherta.
Ove non altrimenti indicato, le foto sono fatte da me.
Andrea Caranti
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Trento 1900 - Artisti trentini ai tempi della Belle Époque: Cesare Covi
Catalogo della mostra che si è tenuta a Palazzo Trentini, sede della Presidenza del Consiglio della Provincia Autonoma di Trento
a cura di Alessandra Tiddia e Umberto Anesi, 18 marzo - 16 aprile 2022
Di questo testo, grazie al prezioso interessamento di Maria Luisa Brioli, è disponibile la versione PDF.
La vita di un artista: Cesare Covi e il Liberty trentino
di Veronica Saggiorato (Biblioteca della Montagna-SAT – Servizio Civile)
Franz von Stuck: Lucifero moderno
a cura di Franco Marinelli e Alessandra Tiddia
Skira, MIlano 2006
Si tratta del catalogo della mostra tenuta dal Mart al Palazzo delle Albere da venerdì 10 novembre 2006 a sabato 10 marzo 2007 a cura di Alessandra Tiddia e Sergio Marinelli, con la direzione scientifica di Gabriella Belli.
Antonio Giongo, San Giovanni Nepomuceno
di Luciana Giacomelli e Alberto Groff
Varie voci di Wikipedia e immagini da Wikimedia Commons, citate individualmente nel testo
Ove indicato, alcuni testi sono dovuti a Google Gemini
Alcune foto sono riprese, con attribuzione, da vari siti. Le foto senza attribuzione sono state fatte da me personalmente
a cura di Anna Giulia Mattivi, Alessandra Campestrini e Roberto Pancheri
Venerdì 10 ottobre c'è stato un incontro di presentazione della visita a Villa Gherta in occasione delle Giornate FAI d'Autunno.
In tale occasione è stato svelato il perché del nome della Villa. Dopo i Garbari, la Villa era stata acquistata dal Dott. (in medicina) Vitullo, che era sposato a Gerda Walch, nata nel 1910 a Termeno. Gerda Walch diede alla luce quattro figli, e morì nel 1950.
Per commemorarla, il vedovo diede alla Villa il nome della moglie, italianizzato in Gherta
di Umberto Anesi
Testo tratto da
Trento 1900 - Artisti trentini ai tempi della Belle Époque: Cesare Covi
Catalogo della mostra che si è tenuta a Palazzo Trentini, sede della Presidenza del Consiglio della Provincia Autonoma di Trento
a cura di Alessandra Tiddia e Umberto Anesi, 18 marzo - 16 aprile 2022
La produzione artistica di Cesare Covi non riguarda solo opere su tela o tavola: l'artista fu impegnato anche in alcuni apparati decorativi in palazzi a Trento e dintorni, fra cui Villa Gherta a Mesiano. Adagiata in un ampio appezzamento di terreno sulle colline di Trento, fu la residenza dei fratelli Carlo [1869-1937] e Giuseppe [1863-1937] Garbari, e fu edificata tra il 1902 e il 1904 sotto la direzione dell'architetto Emanuele Albertini. Le decorazioni interne ed esterne dell'edificio furono affidate a Cesare Covi e tutt'oggi è ancora possibile vedere la sua firma su una parete esterna. Villa Gherta venne abitata da Carlo fino agli anni trenta. Intorno agli anni settanta venne acquistata dall'imprenditore Quirino Mazzalai, che avviò una serie di restauri delle decorazioni. La famiglia Mazzalai vi abitò fino al 2007, quando la villa fu acquisita dalla Società Patrimonio del Trentino che poi la cedette all'Università di Trento, attuale proprietaria della villa e del parco.
La villa era sorta per volontà di Carlo e Giuseppe Garbari, figli di Luigi Garbari, un ricco commerciante di tessuti che fu anche consigliere comunale di Trento per il partito nazional-liberale, e di Eugenia Cainelli. Essi erano i proprietari dell'omonima ditta Garbari, che in Trentino rivestì, all'inizio del Novecento, un ruolo di primo piano nell'ambito della produzione e della commercializzazione delle stoffe e dei tessuti tra l'Impero austro-ungarico, il Veneto e la Lombardia.
Nel volume intitolato Fotografie di montagna 1893-1895 [Lo scritto di Floriano Menapace, Fotografie di montagna 1893-1895, si trova all'interno del catalogo della mostra Giuseppe Garbari. Fotografie di montagna 1893-1895 [Trento, Palazzo Pedrotti, S.A.T. Museo della Montagna, 16 ottobre-20 novembre 1998], a cura di F. Menapace, Collana Beni artistici e storici del Trentino. Quaderni, n. 7, Provincia autonoma di Trento, Trento 1998], pubblicato nel 1998, Floriano Menapace ci ha fornito alcune notizie sulla vita e sulle passioni culturali dei Garbari: Giuseppe, un personaggio eclettico e dai numerosi interessi, collezionava minerali, francobolli, libri antichi, mobili e oggetti d’antiquariato, per poi dedicarsi anche ai viaggi, all'escursionismo, all'alpinismo, alla fotografia di montagna e alla botanica. Compiuti gli studi in Germania e in Austria e laureatosi in giurisprudenza, dopo un lungo soggiorno in Svizzera e in Baviera, durante il quale si era sposato e poi divorziato, tornò a Trento e assunse la direzione della ditta tessile del padre, insieme a Carlo, il fratello minore. Si stabilì in una villa a Magor di Man a Villazzano e, a partire dal 1895 trasformò il parco adiacente all'abitazione in una sorta di giardino botanico popolato da piante esotiche molto rare, che, unite alle specie di tipo mediterraneo, conferiscono allo spazio il tipico carattere di un giardino di acclimatazione. D'altra parte, durante tutta la sua vita, Garbari viaggiò molto, visitando l'Inghilterra, |l'America latina e le grandi esposizioni universali, e ebbe modo di raccogliere e portare con sé, oggetti, pietre e vegetali di ogni genere.
Nel 1908 Giuseppe sposò la milanese lda Carugati Bardell, figlia del proprietario dei Cotonifici Riuniti con cui la ditta Garbari collaborava da tempo. Nel 1909 nacque Aldo Innocenzo, e nel 1911 Egildo Luigi. Nel 1913 la famiglia Garbari si trasferì definitivamente a Firenze, tornando a Trento solo sporadicamente.
Giuseppe Garbari era fortemente appassionato di botanica, e molto del suo tempo libero era dedicato alla creazione di serre e orti, nelle sue ville a Trento, a Firenze e sull'isola d'Elba. Nella serra di Villa Gherta furono riprodotti alcuni ibridi di orchidea. L'orto di acclimatazione creato all'Elba, invece, diventò uno dei più grandi del Mediterraneo [Per quanto riguarda i giardini delle ville dei fratelli Garbari, si fa riferimento a G. Bagnoli, F. Bertomini, N. Boccardi, Parchi e giardini storici in Trentino tra arte, natura e memoria, Provincia Autonoma di Trento, Trento 2016]. Inoltre, durante le numerose escursioni in montagna, i due fratelli scoprirono una specie sconosciuta di orchidea che, in loro onore, venne denominata "Seraphias Garbariorum J. Murr", Giuseppe fu anche un appassionato e rinomato collezionista di minerali: la sua raccolta, integrata da quella del defunto marito della consorte lda, era costituita soprattutto da rari campioni di provenienza italiana [Le informazioni sulla collezione mineralogica di Giuseppe Garbari sono contenute nell'articolo di C. Albertini, Nuove Giuseppe Garbari di Trento,, un collezionista di altri tempi, "Rivista Mineralogica ltaliana", n. 3/2010, pp. 166-175. Sulle passioni collezionistiche di Garbari si veda anche C. Albertini, Nuove conoscenze dai documenti di Vittorio Menguzzo di Valdagno; Giuseppe Garbari una figura di rilievo nel collezionismo mineralogico trentino, in "Studi e Ricerche- Associazione Amici del Museo", Museo Civico "G. Zannato", Montecchio Maggiore (Vicenzo), 24 (2017), pp. 44-45.]. La collezione fu venduta nel 1910 a Friedrich Krantz di Bonn, noto commerciante di minerali dell'epoca, e successivamente venne dispersa sul mercato. Di notevole interesse è anche la passione del ricco commerciante trentino per la fotografia di montagna e degna di nota è la sua collaborazione alle campagne fotografiche promosse dalla Società degli Alpinisti Tridentini (SAT) e del Club Alpino Italiano (CAI) sui ghiacciai delle Alpi [Si veda a questo proposito M, Casagranda, S. Rizzo, Dal Garda alle Dolomiti: alpinismo, viaggi, guerra e lavoro nelle montagne del Trentino Alto Adige e dei territori confinanti di Veneto e Lombardia: itinerario fotografico, Grafiche Dalpiaz, Trento 1962]. Anche Carlo, il più giovane dei due fratelli e quasi coetaneo di Cesare Covi, era un entusiasta alpinista e un fotografo di alta montagna.
La sua passione per i monti, per i ghiacciai e per le coraggiose scalate si coniuga con lo spirito nazionalista e patriottico dell'epoca, che si manifesta nella competizione agonistica con gli scalatori tedeschi per 'a conquista delle cime innevate. In particolare, la storia dell'alpinismo è legata al nome di Carlo Garbari in relazione all'ascensione del Campanile Basso sul Gruppo Brenta. Infatti egli fu il primo a studiare a fondo le pareti, individuando una via di salita logica e semplice per tentare la scalata che avvenne il 12 agosto del 1897 con il portatore Nino Poli e la guida Antonio Tavernaro. Inoltre, come il fratello maggiore, è molto appassionato di piante e di fiori con cui riempie il parco della sua villa di Mesiano.
Dal matrimonio con Maria Steinbeis (1866-1941) di Brannenburg in Baviera, figlia di un facoltoso imprenditore industriale tedesco e vedova in prime nozze di Paul Dollmann a. Monaco, nel 1901 nacque una figlia di nome Margherita [Come risulta dai documenti conservati negli archivi del Vigilianum di Trento], dalla cui abbreviazione tedesca ("Gherta"), prende forse in seguito il nome la villa di Mesiano.
Nel 1939, poco dopo la sua morte, Giovanni Pedrotti lo ricorderà così: "In tutto quanto intraprese, fosse alpinismo o coltivazione dei fiori, egli portò serietà e tenacia e nell'amore a| proprio paese mostrò sempre un interesse che può ben proporsi come esempio ai giovani" [G. Pedrotti, I fratelli Garbari, in "Trentino. Rivista fondata dalla Legione Trentina", Trento 15 gennaio 1939, p. 18].
Nel 1924, su progetto dell'architetto Marco Martinuzzi, venne costruita la galleria che collega via Manci a piazza Cesare Battisti, dove aveva sede la ditta dei Garbari, e decorata dai pannelli realizzati da Augusto Sezanne sui temi dell'arte della tessitura, ancor oggi visibili, a testimonianza della grande sensibilità di questa famiglia nei confronti dell'arte.
di Alessandra Tiddia
Testo tratto da
Trento 1900 - Artisti trentini ai tempi della Belle Époque: Cesare Covi
Catalogo della mostra che si è tenuta a Palazzo Trentini, sede della Presidenza del Consiglio della Provincia Autonoma di Trento
a cura di Alessandra Tiddia e Umberto Anesi, 18 marzo - 16 aprile 2022
Le variegate propensioni culturali e le molteplici passioni dei due fratelli Garbari trovava corrispondenza nella ricchezza decorativa di Villa Gherta, immersa all'interno di un enorme giardino rivisitato ex novo in chiave tardo romantica dalla progettazione botanica di Carlo e Giuseppe Garbari. La residenza conserva ancora oggi l'apparato decorativo di Cesare Covi, seppur ritoccato successivamente da altre mani [Nel 1973 le facciate dell'edificio vengono restaurate dal pittore trentino [Onchè Perzolli - Onkè] (Trento, 1907 - 2005) noto per i suoi affreschi nella Sala Consiliare del Comune di Castello Tesino].
[Una tempera su intonaco di Onkè sulla facciata di casa Bonvecchio in via Miralago 26 a Ricaldo, frazione di Baselga di Pinè]
La villa si sviluppa su quattro livelli, con una superficie per piano di circa 366 metri quadrati. Al piano seminterrato si trovano l'appartamento del custode e le cantine, mentre nei tre piani soprastanti c'è la residenza padronale. Nel sottotetto invece, come usanza, risiedeva la servitù. La costruzione è concepita come un percorso obbligato che parte dal pianterreno, attraverso locali comunicanti, ricchi di decorazioni vegetali come, ad esempio, melograni, rose, edera e uva. Quasi tutte le stanze sono abbellite con stucchi e fasce a carattere floreale, e con affreschi che rappresentano scene agresti e allegoriche. Importanti sono anche le preziose tappezzerie che rivestono le pareti: fra tutte spicca quella della prima sala ove ricorre il motivo della melagrana, che poi ricompare in moltissimi dettagli decorativi della villa, nei mobili così come nelle ringhiere dei balconi esterni.
Si tratta di un dettaglio importante non solo, come vedremo, per l'ampio valore simbolico della melagrana. Questo frutto assume una forte valenza simbolica fin dall'antichità classica, che faceva risalire la creazione dell'albero di melograno al sangue di Bacco, ucciso dai Titani e riportato in vita da Rea, la madre di Giove. Inoltre l'immagine della melagrana è legata anche al rapimento di Proserpina da parte di Plutone [Proserpina, la greca Persefone, mangia sei arilli di melagrana, ed è costretta a restare nell'Ade per sei mesi all'anno, da cui il ciclo delle stagioni] e nel Medioevo compare anche nei dipinti religiosi, diventando il simbolo della rinascita, di prosperità e fertilità, come del resto anche nella tradizione giudaica. Ma la melagrana era anche il marchio di una piccola fabbrica di ceramiche creata dal gruppo fiorentino "Arte della Ceramica" [sito Galileo Chini/Arte della Ceramica, sito Wikipedia su Galileo Chini] che nel 1898, aveva ricevuto il riconoscimento della medaglia d'oro, alla Prima Esposizione d'Arte Decorativa di Torino Nel 1900 la partecipazione all'Esposizione Universale di Parigi.\ aveva decretato la fama conclamata della manifattura fiorentina che aveva scelto come simbolo di fabbrica la melagrana, come a racchiudere molti artisti in un frutto colorato e fecondo. Dopo Parigi il gruppo, presieduto da Galileo Chini, ottenne un gran successo anche a San Pietroburgo (1901) in una mostra voluta dalla zarina Alessandra. Le ceramiche della manifattura fiorentina ebbero una diffusione ampia, sia nei mercati europei e perfino negli Stati Uniti. Questo riferimento toscano ben si accorda ai legami con Firenze dei due fratelli Garbari.
Gli schemi decorativi prodotti con più frequenza in questo periodo da "l'Arte della Ceramica" sono tratti dall'arte classica, come ad esempio: putti, ghirlande, festoni, pannelli con composizioni geometriche d'influenza klimtiana come spirali, cerchietti e triangoli, oppure motivi floreali stilizzati come l'occhio del pavone, che compare spessissimo nelle decorazioni di Chini. Essi corrispondono alla tipologia di piastre in ceramica che compongono lo splendido camino al primo piano della villa, dove spiccano anche delle decorazioni con rose, identificabili con quelle tipiche di Chini. Ad avvalorare la collaborazione con "L'Arte della Ceramica" anche il timbro del famoso gruppo rinvenuto su un bozzetto con un disegno di Covi, riferibile a un camino al secondo piano della villa. Si tratta di un documento determinante per stabilire i rapporti dei committenti di Villa Gherta, Covi e il gruppo di Galileo Chini in merito ad alcuni manufatti decorativi, che ci conferma |'ampiezza degli interessi e dei contatti dei fratelli Garbari.
L'elemento floreale connota tutta la decorazione interna e esterna della villa, raccordandosi al parco esterno e alle serre.
La rosa era un fiore molto amato anche da Cesare Covi: nel suo archivio infatti sono presenti numerose stampe con la raffigurazione di questo fiore, riprese da riviste tedesche e francesi di floricoltura, come modelli per le sue decorazioni.
Villa Gherta rappresenta un esempio decorativo quasi unico in Trentino di un gusto molto vicino al linguaggio del Liberty internazionale. Essa può essere accostabile, proprio per la cura dei dettagli ad un altro unicum in Trentino, ovvero la villa decorata qualche anno più tardi da Luigi Bonazza, che, tra il 1914 e il 1940, ripropone nella sua abitazione modelli stilistici appresi a Vienna ma rimodulati secondo un linguaggio più prossimo alle stilizzazioni del gusto Déco.
La decorazione di Villa Gherta che precede di un decennio Villa Bonazza, appare più legata a un linguaggio internazionale, che riassume varie influenze: infatti se la boiserie, mobili del salone e della stanza tappezzata con velluti dorati, sembrano ispirarsi allo stile Liberty, il vestibolo d'ingresso presenta un pavimento a mosaico con al centro la testa di Medusa, così come nell'ingresso di casa Chini a Firenze, dove la testa di: Medusa accoglieva l'ospite e come anche all'entrata di Villa Stuck, la residenza-atelier di Franz von Stuck, fondatore della Secessione di Monaco di Baviera.
Elementi ripresi da von Stuck compaiono anche in alcune teste decorate particolare in quella cinta dall'elmo sulle facciate della villa, e ricorrono in particolare in quella cinta dall'elmo che si trova sopra il terrazzino esterno esposto a Nord, che rimanda alla Pallade Atena del celebre artista tedesco. Von Stuck era un artista amato da Covi, come mostrano le numerose stampe cromolitografiche delle opere del maestro bavarese, stampate dall'editore Franz Hanfstaengl e presenti nell'archivio personale di Covi. Non stupisce dunque ritrovare nei dipinti delle sovrapporte la figura della cetra che rimanda a una citazione legata all’Orfeo di von Stuck.
Fra i modelli ispiratori di Covi non solo von Stuck ma anche lo stile neorinascimentale di molti palazzi italiani: un suo sopralluogo alla villa Bagatti-Valsecchi, casa-museo ispirata alle abitazioni del Cinquecento lombardo, è documentato il 27 aprile 1897 e quindi il 12 marzo e il 2 agosto 1902, in concomitanza con |'avvio dei lavori a Villa Gherta.
Come in molti palazzi a Firenze e a Milano, ispirati alla ripresa dello stile rinascimentale rivisitato in chiave moderna dal gusto Liberty, anche a Villa Gherta troviamo sia motivi floreali sia una vera e propria decorazione pittorica con degli inserti o nelle sovrapporte o in una fascia che perimetra un'intera sala, con figure di putti danzanti, scene bucoliche con fauni e ninie e allegorie femminili in trono. Oggi è possibile attribuire questi dipinti a Covi, grazie agli schizzi e ai bozzetti, conservati nel suo archivio, alcuni dei quali sono qui esposti.
Fra gli elementi della villa che rimandano alle ambientazioni Liberty e alle atmosfere neo-rinascimentali dell'italia umbertina, spicca una seduta molto particolare, un cosiddetto "Trono Corsini", in quanto copia del famoso trono etrusco, di cui è nota solo la replica in marmo di epoca romana, oggi conservata al Museo Barberini di Roma.
Fra la fine dell'800 e i primi decenni del '900 si diffonde presso la borghesia imprenditoriale il gusto per la copia dell'antico e la Manifattura Signa in Toscana replica moltissime sculture e oggetti dell'antichità, come ad esempio questa copia di un trono etrusco.
Un "Trono Corsini" compare ad esempio nella foto di scena con Eleonora Duse per la prima rappresentazione de La città morta, dramma di Gabriele D'Annunzio dedicato al suo rapporto con l'antichità etrusca e greca e rappresentato al Teatro lirico della Scala di Milano il 20 marzo 1901. Non è nota la provenienza di questo conservato a Trento, ma sappiamo che la moglie di Giuseppe Garbari, Ida Carugati vedova Bardelli [Era figlia del proprietario dei Cotonifici Riuniti di Villa d'Alme, vicino a Bergamo con cui la ditta Garbari lavorava da tempo. Giuseppe la sposò nel 1908 e nel 1913 si trasferirono a Firenze], era milanese e quindi forse poteva essere in contatto con gli ambienti del Teatro lirico. Era la figlia di una grande imprenditore di cotoni e lini che, come del resto anche la ditta Garbari, avrebbe potuto essere uno dei fornitori per i costumi del teatro milanese. In ogni caso la presenza del "Trono Corsini" conferma lo stile "alto" di questa residenza trentina, non solo per gli arredi ma anche per le modalità di alcune scelte decorative che riprendono i modelli di palazzi antichi e nobiliari.
Le parti dipinte da Covi si concentrano soprattutto in una fascia pittorica che decora il perimetro un'intera stanza posta sempre al primo piano, modulata appunto come le decorazioni storiche presenti in Trentino, ad esempio nella Sala grande del Castello del Buonconsiglio o nella sala della Magnifica Comunità di Fiemme a Cavalese, al cui restauro Covi attese nel 1901.
In questa fascia in mezzo ai putti in corteo con una tigre addobbata a festa, vediamo una figura femminile seduta in trono, con i colori della bandiera italiana, mentre nella parete adiacente la stessa figura riposa su un prato fiorito con papaveri e margherite, mentre un satiro suona il flauto. Il riferimento irredentistico e politico è chiaro anche considerando gli ideali e le simpatie italiche dei fratelli Garbari. Anche nel salone principale sopra la porta è raffigurata una figura femminile dalla lunga chioma rossa, distesa nella natura con una cetra accanto. Di questa figura esistono degli studi ritrovati fra le cose dell'artista.
Dal punto di vista stilistico, queste due figure femminili rimandano nella posa e nell'ambientazione a un preciso modello pittorico, ovvero al quadro Ninfea, dipinto da Cesare Laurenti nel 1898. oggi nelle collezioni dei Musei civici veneziani a Ca' Pesaro.
Qui come nelle raffigurazioni di Covi, il busto femminile emerge in mezzo ai fiori acquatici, le ninfee appunto, in uno stagno: fu un quadro che ebbe un impatto significativo nella cultura figurativa italiana, specie quella legate alle Biennali veneziane. Questo dipinto, esposto in Biennale e quindi donato nel 1899 da Umberto I alla nascente Galleria internazionale d'arte moderna a Venezia, fu segnalato da molta stampa e ampiamente descritto da Mario Morasso sulle pagine della notissima rivista "Emporium'" nel 1902 [M. Morosso, Artisti contemporanei. Cesare Laurenti, in "Emporium" yol. XV, n. 85, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, Bergamo 1902 p. 2. Sul dipinto si veda la scheda redatta da in C. Beltrami, Cesare Laurenti (1854-1936), Zel edizioni, Treviso 2010, p. 116]. Anche Covi ne rimase impressionato e lo utilizzò come motivo di ispirazione per questo Ciclo e per una tela di grandi proporzioni eseguita per la famiglia Conci di Mezzolombardo, citata da Thieme Becker prima del 1913 (vedi Ninfea, n. cat. XX).
Nella sala ci sono vari riferimenti alle atmosfere bucoliche e festose dei quadri di von Stuck ma anche ai dipinti dei suoi "traduttori'" italiani Cesare Laurenti e Ettore Tito, che furono gli artisti più prossimi al mondo dei fauni e delle ninfe, ripreso dalla pittura simbolista d'oltralpe.
|l bozzetto di una figura femminile che incede in mezzo a putti festanti e giocosi, poi riportata nella decorazione presente su una facciata della villa, ci conferma la passione di Covi per la pittura secessionista tedesca, poiché essa è ripresa da un'immagine dell'editore monacense Hanfstaengl, conservata fra le carte di Covi, e riferibile al repertorio delle esposizioni monacensi di von Stuck.
Nell'alternanza di riferimenti alla cultura italica neo-rinascimentale, così come all'arte d'oltralpe, si riflette dunque non solo |'eterogeneità e il cosmopolitismo dei committenti, ma anche l'ampiezza degli interessi artistici di Cesare Covi.
Tratte da Trentino Film Commission
Prese dal sottoscritto
Sulla parete N, l'anno del completamento della Villa
Quel che resta sulla parete nord dei dipinti originali di Cesare Covi - solo dei lacerti, ma attraverso i quali affiora il colore originale
Questo dipinto si trova sul lato sud, ed è stato oggetto del restauro del 1973 da parte di Onchè Perzolli (Onkè). Si vedano le due foto seguenti.
Dettaglio della foto precedente con la scritta "RESTAURATO ONKÈ 73"
E qui, a conferma, "PRIMO SPLENDORI REFECTA MCMLXXIII"
Questo dipinto è all'esterno della villa, sul lato nord
Dettaglio dell'immagine precedente: in basso a destra si trova la sigla di Cesare Covi "1905 CC"
La loggetta sul lato N
La volta della loggetta, ricca di motivi vegetali...
... e una Medusa (anzi, quattro, una per lato) a difendere l'ingresso
Sopra la loggetta, una Pallade Atena ripresa da von Stuck...
... e una processione di putti, con animali non meglio identificati
Melagrane dipinte su uno stipite (o pilastrino)...
... e scolpite sul balconcino superiore
Sul lato O, un'immagine francamente criptica, forse la Fama Censurata? (Si veda Die Huldigung)
E magari le fasce bianche sui capelli rossi (?) evocano lo stemma dei Savoia?
Alessandra Tiddia mi ha gentilmente trovato una fonte per questa immagine. Si tratta di un'opera di Klimt, Der Thespiskarren, che si trova nel Burgtheater a Vienna
Qui la stampa fornita da Tiddia
E qui l'immagine da Wikimedia Commons - public domain
E qui il dettaglio
L'ingresso rinascimentale
Sulla facciata Est, non un Parva sed apta mihi, che sarebbe stato fuori posto, ma una citazione dall'incipit della Satira II.6 di Orazio
Hoc erat in votis: modus agri non ita magnus,
hortus ubi et tecto vicinus iugis aquae fons
et paullum silvae super his foret. Auctius atque
di melius fecere. Bene est. Nil amplius oro,
Maia nate, nisi ut propria haec mihi munera faxis.
che si può rendere come
Questo era tra i miei desideri: un appezzamento di terra non troppo esteso,
dove ci fossero un orto e una fonte di acqua perenne vicina alla casa,
e un po' di bosco in più, oltre a queste cose. Gli dèi hanno fatto le cose
in modo più abbondante e migliore. Va bene così. Non chiedo nient'altro,
o figlio di Maia, se non che tu mi renda definitivi questi doni.
All'ingresso della Villa si viene accolti da questa Gorgone Medusa, che non vuole spaventare gli ospiti, ma ha una funzione apotropaica.
Questa iconografia è probabilmente legata all'idea della femme fatale - la percezione maschile del potere che le donne esercitano sugli uomini attraverso i desideri di questi ultimi.
Anche nella villa di Franz von Stuck si viene accolti dalla Medusa. Di seguito, l'olio su tela di von Stuck Medusa (1908), esposto alla Biennale nel 1909, e acquisito nello stesso anno da Ca' Pesaro,
Il trono Corsini (copia). Dal sito di Palazzo Barberini Corsini :
"Trono Corsini
I secolo a.C.
marmo
cm 82 x 49
Galleria Corsini
Inv: 666
Il cosiddetto Trono Corsini è uno degli oggetti più affascinanti e problematici della collezione. La scultura fu rinvenuta tra il 1732 e il 1734, durante gli scavi effettuati per realizzare le fondamenta della cappella della famiglia Corsini nella basilica di San Giovanni in Laterano.
La spalliera è divisa in due registri delimitati da una cornice con tralcio d’edera, con una teoria di soldati in quello superiore e scene di caccia al cinghiale in quello inferiore. Sulla base, sopra un fregio vegetale, si sviluppa la fascia figurata principale con scene di sacrificio, di lotta e di processione di non chiara interpretazione.
Per tipologia e decorazione, l’opera rientra nella serie dei troni funerari diffusi in ambiente etrusco e realizzati prevalentemente in bronzo o in terracotta. L’utilizzo del marmo e il luogo del ritrovamento riportano, invece, l’oggetto all’ambito romano e lo rendono un unicum nel panorama della produzione scultorea dell’antichità. Proprio la sua unicità, insieme alle vicende relative al luogo del rinvenimento, ha, però, permesso di ipotizzarne la funzione e il ruolo: si tratterebbe, infatti, del simbolo della discendenza regale della più importante delle donne della famiglia dei Plautii Silvani, Urgulania, di stirpe etrusca e sposa intorno al 40 a.C. di M. Plautius, vir praetorius. L’opera è, quindi, una fedele copia romana di età tardo repubblicana di un trono principesco etrusco della fine del V secolo a.C., come prova della regalità della gens di Urgulania."
Nella prima stanza, una vetrata...
... e stucchi e clipei rinascimentali
Secondo alcune opinioni molto meglio informate delle mie, il personaggio qui rappresentato è una donna, anche se la lira si riferisce ad Orfeo. A mio modestissimo avviso, considerata anche la rappresentazione del seno femminile in altri dipinti di donne supine, mi sembrerebbe più plausibile che questo personaggio sia proprio Orfeo.
Orfeo è un personaggio ricorrente nelle figurazioni liberty. Fra le svariate interpretazioni, anche psicanalitiche, che sono state date delle storie a lui legate, ne scelgo due.
Orfeo che, accompagnando Euridice fuori dall'Ade, non riesce a trattenersi e si volta a cercarla con lo sguardo, così perdendola, mi sembra sottolineare la debolezza degli uomini, incapaci di resistere alle loro pulsioni nei riguardi delle donne.
Orfeo sbranato delle Menadi rappresenta la paura degli uomini di fronte al potere che le donne esercitano su di loro, di nuovo attraverso il desiderio dei primi verso le seconde.
Melagrane, melagrane, melagrane, sempre nella prima stanza
Sfera e clipeo, sempre nella prima stanza
Camino di manifattura dell'Arte della Ceramica di Galileo Chini
Nella saletta a Sud Est, due vetrate... Google Gemini spiega
Questo è un esempio di vetrata artistica o vetro piombato (in inglese, leaded glass o stained glass).
I termini tecnici specifici per descrivere questo tipo di decorazione e la sua tecnica sono:
Vetrata artistica o Vetro piombato: Il termine generico per questo tipo di opera.
Tecnica Tiffany o Vetrata a foil (lamina) di rame: Anche se l'immagine sembra un vetro piombato, l'uso di vetri con sfumature e la possibile assenza di piombo spesso fa riferimento a questa tecnica, resa popolare da Louis Comfort Tiffany. Con questa tecnica, ogni pezzo di vetro è bordato da una sottile lamina adesiva di rame (il copper foil), e poi saldato con stagno.
Vetro Cattedrale o Vetro Opalescente: Si riferiscono al tipo di vetro utilizzato. I vetri opachi o semi-opachi e con venature di colore (streaky) sono chiamati vetro opalescente (o vetro opalescente Tiffany). I vetri trasparenti ma con texture e non perfettamente lisci (come quelli sullo sfondo) possono essere chiamati vetro cattedrale o a vetro testurizzato (ad esempio, vetro ondulato o vetro martellato).
Piombo (o profilo/bacchetta di piombo) o Saldatura a stagno: Se si tratta di vetro piombato, si riferisce ai profili scuri che tengono insieme i pezzi. Se è tecnica Tiffany, il termine corretto è saldatura a stagno (che riveste la lamina di rame).
Grisaglia: Un termine tecnico che indica la pittura vetrificabile utilizzata per aggiungere dettagli, ombre o contorni sui pezzi di vetro (spesso non usata in questo stile, ma è un termine tecnico comune per le vetrate).
Tessera o pezzo di vetro: Ogni singolo frammento colorato che compone il disegno.
Cartone o Disegno preparatorio: Il modello su cui si tagliano le tessere di vetro.
Basandosi sull'aspetto specifico con le foglie color ambra/giallo/arancio e i contorni scuri, il termine più preciso e descrittivo è:
Vetrata a motivi floreali/vegetali realizzata con la tecnica del vetro piombato (o vetrata a foil di rame) e utilizzando vetri opalescenti per le foglie e un vetro testurizzato per lo sfondo.
Le vetrate sono state recentemente restaurate dalla ditta specializzata Caron Vetrate Artistiche Sas di Mattia Modolo e C.
... un intaglio...
... e al tavolino per gli scacchi davanti alla finestra, una seduta impreziosita da tessuti settecenteschi
Le immagini seguenti rappresentano i fregi nella sala da biliardo. La prima contiene il tema ricorrente della tigre (magari appena ammansita da Orfeo), a rappresentare un tempo in cui esseri umani e animali vivevano in armonia
Bianco, rosso e verde, e l'Italia in trono, per immagini che fanno esplicito riferimento all'irredentismo dei fratelli Garbari
Qui si vede l'eco del quadro Ninfea di Cesare Laurenti
Dalla pagina della mostra Franz von Stuck: Lucifero moderno tenuta dal Mart al Palazzo delle Albere:
Il suo repertorio di figurazioni derivanti dall’arte classica – centauri, fauni, ninfe tratti dalla mitologia antica nel solco di una tradizione inaugurata da Arnold Böcklin – veniva mediato attraverso una sensibilità di fine secolo aperta all’erotismo e alla malizia.
Dalla voce di Wikipedia:
Franz von Stuck (Tettenweis, 23 febbraio 1863 – Monaco di Baviera, 30 agosto 1928) è stato un pittore simbolista-espressionista, nonché scultore, illustratore e architetto tedesco.
Nel 1892 fondò, insieme ad altri artisti, il movimento modernista della secessione di Monaco antesignano, assieme ad altre secessioni[1] del periodo, dell'esperienza dell'Art Nouveau (Jugendstil in Germania).
Nato nel villaggio bavarese di Tettenweis da una modesta famiglia cattolica di mugnai e contadini, Stuck mostrò già da fanciullo una viva inclinazione per il disegno. Per dare un impulso decisivo alla propria formazione artistica, nel 1878 il giovane Franz si trasferì a Monaco di Baviera, dove frequentò la Scuola di arti decorative, il Politecnico (1882-84) e infine l'Accademia (1885-89).[2]
Diventato noto per alcune vignette stese per la rivista Fliegende Blätter, l'esordio di Stuck come artista si data nel 1889, quando espose le sue prime tele al Glaspalast di Monaco: le opere, ispirate dai quadri di Arnold Böcklin e caratterizzate da un sapore sensuale e istrionico, riscossero molti plausi, e pure una medaglia d'oro (assegnata al dipinto Il guardiano del Paradiso).
[L'immagine è tratta da Wikimedia Commons]
Nel 1892 Stuck co-fondò la Secessione di Monaco, sotto la cui egida si raccolsero tutti quegli artisti insofferenti di ogni convenzionalismo accademico; del movimento concepì anche il manifesto, quello raffigurante la divinità ellenica Atena con l'elmo. Intanto, nel 1892 eseguì Il Peccato (Die Sünde), opera che - raffigurando Eva avvinta ad un serpente - riscosse un successo furioso e contribuì a rafforzare la sua notorietà europea; nel 1895, a soli trentadue anni, gli venne affidata la cattedra di disegno in quell'Accademia di Monaco che lo vide inizialmente formarsi.[2]
Di una delle sue modelle Stuck si invaghì a tal segno da farla sua sposa: era costei Mary Lindpainter, un'americana monachense d'adozione, con la quale Stuck convolò a nozze nel 1897.[3] I due novelli sposi si trasferirono l'anno successivo nella Villa Stuck, un'imponente casa-atelier progettata e fatta costruire dallo stesso artista, in un massiccio stile neoclassico. Stuck ideò sia la veste architettonica, ispirata ad un quadro di Böcklin, La villa sul mare, sia le decorazioni interne, compresi i mobili, i quadri e le sculture, per le quali ricevette una medaglia d'oro all'Esposizione Universale di Parigi del 1900.[4]
Investito nel 1905 del titolo di cavaliere dell'Ordine al merito della corona bavarese dal principe reggente Leopoldo di Baviera, allo scorcio del secolo Stuck vide la propria fama lentamente scemare; ciò malgrado, fu comunque protagonista di una mostra monografica a lui dedicata alla Biennale di Venezia del 1909 (l'anno successivo se ne terrà un'altra a Roma),[3] venendo apprezzato da artisti della levatura di Kandinskij, Klee e Albers, che già seguirono i suoi corsi di pittura.[4]
Franz von Stuck morì di infarto il 30 agosto 1928 a Monaco di Baviera;[3] sinceramente pianto dai suoi contemporanei, fu sepolto accanto alla moglie Mary nel cimitero Waldfriedhof.
La produzione pittorica di Franz von Stuck si impone con accenti di forte simbolismo, sostanziandosi di opere esplicitamente desunte dalla mitologia greco-romana e dalla religiosità pagana. Le caratteristiche principali delle opere di Stuck sono riscontrabili già nelle tele degli esordi: il languore dell'erotismo femminile (Innocenza), la trattazione dissacrante di tematiche religiose (Il guardiano del Paradiso) e infine l'interesse per i personaggi mitologici del mondo classico, come l'amato dio Pan, raffigurati all'interno di una natura selvaggia e primitiva (Combattimento tra fauni).[4]
Mostrandosi assai sensibile alle composizioni di Arnold Böcklin (suo genio tutelare) e di Hans Thoma,[2] Stuck fuse le influenze esercitate dal Naturalismo e dall'Impressionismo, dando così vita a uno stile assolutamente personale, un simbolismo mistico di una grandezza primordiale: è all'insegna di questo orientamento di gusto che l'artista dipinse i suoi famosi combattimenti tra centauri.[4]
Altra peculiarità dello stile di Stuck, inoltre, è l'attenzione che pose nella selezione delle cornici delle sue tele, scelte per integrarsi armoniosamente all'opera inquadrata: la maggior parte di queste cornici sono massicce e riccamente intagliate, differenziandosi così dalla massa di prodotti in serie che, pur presentando un basso costo, erano privi di identità.[4]
Tre opere di Franz von Stuck, tratti dal volume e da Wikipedia
Franz von Stuck: Lucifero moderno
a cura di Franco Marinelli e Alessandra Tiddia
Skira, MIlano 2006
Da Google Gemini:
"Kampf ums Weib" (Lotta per la donna)
Come sempre in Stuck, la scena mitologica è un pretesto per mettere in scena una potente allegoria della psiche umana, molto in sintonia con le nascenti teorie di Freud e la filosofia di Nietzsche.
Il Fauno/Satiro: È il protagonista e l'incarnazione dell'istinto puro e sfrenato. Rappresenta la libido, la forza della natura non addomesticata, il desiderio sessuale primordiale che agisce senza freni morali. È la perfetta rappresentazione dell'uomo come essere animale, un concetto esplorato dal Darwinismo sociale molto in voga all'epoca.
La Donna Contesa: È il fulcro del desiderio e della lotta. Il suo corpo luminoso è l'oggetto del contendere, il premio che scatena la violenza. La sua espressione è volutamente ambigua: è terrorizzata dalla violenza o c'è un accenno di estasi e di abbandono all'istinto? Questa ambiguità è tipica delle femmes fatales del Simbolismo, viste come creature a metà tra la purezza e un'ancestrale connessione con le forze della natura.
La Figura in Blu: Questa donna rappresenta la forza che si oppone all'istinto. Può essere interpretata come la ragione, la civiltà, o la morale che cerca disperatamente di trattenere e controllare la bestia interiore. La sua lotta è quella dell'ordine contro il caos.
L'intera scena è quindi una potente psicomachia, una battaglia dell'anima. È la visualizzazione dello scontro tra Dionisiaco (l'istinto caotico del fauno) e Apollineo (l'ordine e la ragione della donna vestita) per il possesso dell'essere umano.
Quest'immagine è tratta da Franz von Stuck: Lucifero moderno
Da Google Gemini:
Quest'opera è una potentissima sintesi di simboli che ridefiniscono la figura biblica di Eva in chiave moderna, trasformandola nell'archetipo della femme fatale.
La Donna come "Femme Fatale": Non è una figura mitologica o storica, ma l'incarnazione di un'idea. La sua nudità, abbinata a elementi moderni come le calze e le scarpe col tacco, la strappa dal contesto classico e la proietta in una dimensione contemporanea e perversa. È la donna tentatrice, consapevole del proprio potere erotico e del suo potenziale distruttivo.
Il Serpente: È il simbolo più evidente. Avvolto attorno a lei come uno scialle o un gioiello, rappresenta la tentazione, il peccato originale e la conoscenza proibita. Le sue spire sensuali accentuano le curve del corpo femminile, suggerendo una complicità totale tra la donna e il male. Non è un tentatore esterno, ma una parte di lei, un'estensione della sua stessa natura.
Il Teschio: Tenuto in mano con disinvoltura, è il classico simbolo del memento mori (ricordati che devi morire). La sua presenza è un monito inequivocabile: l'attrazione erotica, il desiderio e il peccato sono indissolubilmente legati alla morte. Questa unione di Eros (Amore/Sesso) e Thanatos (Morte) è uno dei temi centrali della cultura fin-de-siècle e del pensiero freudiano.
In sintesi, la donna non commette un peccato: lei è il Peccato. È l'icona di un potere femminile tanto affascinante quanto mortale.
Quest'immagine è tratta da Franz von Stuck: Lucifero moderno
Da Google Gemini:
Stuck realizzò ben dodici versioni di quest'opera, a testimonianza della sua ossessione per il tema. Il dipinto non solo realizza il potenziale del disegno, ma lo amplifica a un livello quasi religioso.
Dal Segno al Colore: L'Esplosione del Contrasto
La prima, fondamentale differenza è l'introduzione del colore e della luce. Se il disegno viveva sul contrasto tra il nero del carboncino, il bianco del gessetto e il tono medio della carta, il dipinto lo porta all'estremo.
La Carne e il Buio: Il corpo della donna emerge da un buio assoluto, profondo e impenetrabile. La sua pelle non è semplicemente bianca, ma ha una qualità fosforescente, quasi spettrale. Questo chiaroscuro radicale non serve a descrivere la forma, ma a far risplendere la tentazione dall'oscurità dell'inconscio. È la luce seducente del peccato che brilla nelle tenebre.
Il Serpente: Nel dipinto, il serpente diventa una creatura viva e ipnotica. Le sue scaglie sono spesso dipinte con un blu-nero lucido, e i suoi occhi gialli e penetranti fanno da eco a quelli della donna, suggerendo che entrambi condividano la stessa anima tentatrice.
L'Evoluzione dei Simboli
Rispetto al disegno che abbiamo visto, nel dipinto Stuck fa una scelta cruciale: elimina il teschio. Questa assenza è significativa. Rimuovendo il riferimento letterale alla morte (memento mori), concentra tutto il significato mortale all'interno della figura stessa. La donna e il serpente non sono più solo coloro che portano alla morte, ma diventano essi stessi l'incarnazione di quel ciclo inseparabile di desiderio e annientamento (Eros e Thanatos). Il pericolo non è più un oggetto che lei tiene in mano, ma è la sua stessa essenza.
La Cornice: L'Altare del Peccato
Un elemento che non si può ignorare in Stuck è la cornice. L'artista disegnava personalmente le cornici per le sue opere più importanti, considerandole parte integrante dell'esperienza artistica (Gesamtkunstwerk - opera d'arte totale).
Quella de "Il Peccato" è massiccia, dorata, spesso disegnata come il portale di un tempio antico. Sul fondo, a caratteri cubitali, Stuck incide il titolo: DIE SÜNDE. Questa scelta trasforma il quadro. Non è più una semplice immagine da appendere a una parete, ma un oggetto di culto, un'icona posta su un altare. Lo spettatore non sta guardando un dipinto, sta venerando (o venendo tentato da) l'idolo del Peccato stesso, presentato in una teca sacra.
Conclusione
Il dipinto "Il Peccato" è il manifesto di Franz von Stuck. Prende la potente idea abbozzata nel disegno e la carica di una forza magnetica e quasi soprannaturale. Attraverso un uso magistrale del colore, della luce e della presentazione, Stuck non dipinge semplicemente una donna peccatrice, ma crea l'archetipo visivo della femme fatale moderna e un'allegoria senza tempo della potenza distruttiva e irresistibile della seduzione.
Questa immagine è tratta da Wikimedia Commons, ed è public domain. Si veda anche la voce di Wikipedia
Questa Giuditta di Franz von Stuck (da Wikimedia Commons , public domain) ben rappresenta il mito della femme fatale
Anche Gustav Klimt si era cimentato con questo tema, in questa celebre Giuditta II (da Wikimedia Commons, Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International license), che si trova a Ca' Pesaro
Villa Stuck a Monaco di Baviera, in due immagini tratte da Wikimedia Commons prima immagine, seconda immagine
Un'amazzone accoglie i visitatori (da Wikimedia Commons)
Seguono altre immagini [tratte dalla pagina di Wikipedia] degli interni e delle opere di Villa Stuck
Da Google Gemini:
Il vero cuore dell'opera è il suo denso carico di simboli, che trasformano i personaggi in pure allegorie.
La figura alata (Il Vincitore): A sinistra, un giovane uomo nudo e atletico, con grandi ali scure, avanza solennemente. Non è un angelo cristiano, ma una personificazione classica. La palma che porta è, fin dall'antichità, il simbolo inequivocabile della vittoria. La lunga tromba è simbolo della fama, dell'annuncio glorioso. La sua nudità eroica lo ricollega all'ideale greco dell'atleta o dell'eroe. Egli è, in sostanza, l'Allegoria della Vittoria e della Gloria.
La figura in trono (Il Potere): A destra, una donna vestita con un peplo classico siede su un trono severo e squadrato. La sua posa è statica, pensierosa. Al suo fianco siede un'aquila, simbolo per eccellenza del potere imperiale (l'Impero Romano) e divino (l'attributo di Giove/Zeus). La donna non è un personaggio specifico, ma l'Allegoria del Potere, dell'Autorità o forse della Patria, a cui la Vittoria rende omaggio.
L'interazione è quindi un'allegoria universale: la Vittoria (forza attiva e dinamica) che rende omaggio e si sottomette al Potere (autorità statica e ricevente). È una meditazione solenne sul rapporto tra gloria, fama e potere costituito.
[...] Questo tipo di arte, che fondeva il classicismo con un linguaggio moderno, antinaturalistico e carico di significati intellettuali, era esattamente ciò che animava le correnti artistiche più innovative d'Europa a cavallo del secolo, dalla Secessione di Monaco a quella di Vienna.
Da Google Gemini:
è stata dipinta da Franz von Stuck nel 1894.
Il dipinto raffigura l'episodio biblico in cui Sansone, un eroe dotato di una forza straordinaria, combatte e sconfigge un giovane leone a mani nude. Von Stuck cattura il momento culminante della lotta, con Sansone che afferra la bocca del leone e lo sottomette con una dimostrazione di forza brutale e primordiale.
Lo stile di Von Stuck è chiaramente riconoscibile:
Drammaticità: L'opera è carica di tensione e dinamismo, enfatizzati dal contrasto tra la muscolatura di Sansone e la furia impotente del leone.
Simbolismo: Oltre a narrare un evento biblico, il quadro esplora il tema della forza, della vittoria dell'uomo sulla natura selvaggia e della lotta interiore. L'atto di squarciare la bocca del leone è un'immagine potente di dominio e di energia primordiale.
Pittura e Scrittura: L'artista include il nome "SAMSON" in alto a sinistra, integrando la parola nel disegno in modo che diventi parte dell'opera stessa.
Questo dipinto è un esempio perfetto di come von Stuck usasse temi mitologici e biblici per esplorare la natura umana e i suoi istinti più profondi.
Da Google Gemini:
realizzata nel 1898.
Interpretazione:
Artista: Franz von Stuck (1863-1928), pittore simbolista tedesco, noto per le sue opere che esplorano temi di mitologia, allegoria e sessualità con uno stile potente e a volte provocatorio.
Titolo: Die Wippe (L'altalena)
Data: 1898
Il dipinto, tipico dello stile di von Stuck, mette in scena un'allegoria. La figura in alto, una baccante dai capelli scuri, rappresenta la spensieratezza e la gioia sfrenata, quasi dionisiaca, sospesa tra il cielo e la terra. La figura in basso, una donna nuda e bionda, appoggiata saldamente al suolo, sembra simboleggiare la razionalità o la vita terrena, che sostiene il peso dell'altra e riflette sulla sua leggerezza.
L'opera gioca sul contrasto tra:
Elevazione e gravità: una figura è sollevata e spensierata, l'altra è ancorata e ponderosa.
Materia e spirito: la figura terrena e la figura che sembra librarsi in un regno più spirituale.
Come in molte opere di von Stuck, l'ambiguità e la tensione tra gli opposti sono al centro dell'attenzione, invitando a una riflessione più profonda sul dualismo dell'esistenza umana.
Da Google Gemini:
una celebre opera di Franz von Stuck, realizzata nel 1910.
L'opera raffigura un fauno adulto, con le corna e le zampe di capra, che si tiene la testa ridendo sonoramente. Accanto a lui, un piccolo fauno o satiro con corna e capelli rossi sta suonando un flauto di Pan.
Anche in questo caso, l'artista utilizza figure mitologiche per esplorare temi umani:
Il contrasto tra l'innocenza e l'esperienza: Il piccolo satiro, con la sua espressione concentrata e quasi goffa, rappresenta l'infanzia o la fase di apprendimento, mentre il fauno adulto incarna la saggezza, la malizia o forse la spensieratezza di chi ha già sperimentato la vita.
La musica e la natura: Il flauto di Pan è un simbolo della musica e dell'armonia della natura, elemento centrale nella mitologia dei fauni e dei satiri.
Umorismo e allegria: A differenza di molte opere di von Stuck che hanno un tono più serio o drammatico, questo dipinto ha un'atmosfera giocosa e umoristica, evidenziata dalla risata contagiosa del fauno.
È un'opera che mostra un lato più leggero e ironico dell'artista, pur mantenendo il suo stile distintivo e la sua maestria nel dipingere figure e anatomie.
(dovrebbe trovarsi nella Villa Stuck)
Immagine tratta da Wikimedia Commons, public domain
Da Google Gemini:
Un'Icona, non un Ritratto
A differenza delle opere precedenti, questa non è una scena narrativa, ma un'icona ieratica e solenne. Stuck non sta raccontando un mito, sta presentando la divinità stessa allo spettatore in una posa frontale, simmetrica e senza tempo.
Composizione e Stile: L'impostazione è deliberatamente anti-naturalistica e arcaica. La rigidità della posa, lo sguardo fisso e frontale e lo sfondo in oro zecchino sono prelevati direttamente dall'arte bizantina e dalle sculture greche arcaiche. Stuck rifiuta la prospettiva e il realismo per creare un'immagine dal potere quasi religioso, un idolo da venerare. Il suo volto, tuttavia, è modellato con una sensibilità moderna che la rende presente e quasi viva.
Sguardo e Presenza: Il centro emotivo dell'opera è lo sguardo magnetico e penetrante della dea. Non è uno sguardo benevolo; è severo, intelligente e quasi intimidatorio. Atena non si lascia semplicemente osservare, ma interroga e giudica lo spettatore, affermando la sua autorità assoluta.
Analisi Iconografica e Simbolica
Ogni elemento del dipinto è un simbolo preciso, che Stuck usa per un duplice scopo: rappresentare la dea della mitologia e, soprattutto, creare un'allegoria per l'arte stessa.
Gli Attributi della Dea: Troviamo tutti gli elementi classici di Atena:
L'Elmo e l'Egida: Indossa l'elmo e sul petto ha l'egida con la testa della Gorgone (Medusa), che pietrificava i nemici e simboleggia il suo potere terrificante in battaglia.
La Lancia: Il lungo manico rosso della lancia è un riferimento alla sua natura di dea guerriera, ma della guerra strategica e intelligente, non della violenza brutale.
La Nike Alata: Nella mano destra regge un globo su cui si erge Nike, la personificazione della Vittoria. Questo è un riferimento diretto alla colossale statua di Atena Parthenos di Fidia. Il messaggio è chiaro: la vittoria accompagna sempre la saggezza di Atena.
Atena come Allegoria dell'Arte: Per gli artisti della Secessione, Pallas Athene era la dea protettrice del loro movimento. Non rappresentava la vecchia e polverosa arte accademica, ma una nuova Arte, pura, sacra e combattiva. In questo dipinto, Atena simboleggia:
La Saggezza necessaria per creare una nuova estetica.
La Forza Combattiva per rompere con le tradizioni passate.
La Vittoria (Nike) finale di questa nuova arte su quella vecchia.
Contesto e Conclusione
Franz von Stuck fece di quest'opera il manifesto della Secessione di Monaco. Ne collocò una versione al centro della sua casa-museo, la Villa Stuck, come se fosse la divinità protettrice del suo "tempio dell'arte".
Quando Cesare Covi a Villa Gherta cita la Pallade Atena di Stuck, non sta semplicemente copiando un'immagine classica. Sta facendo una dichiarazione di intenti: sta dimostrando di essere allineato con le idee artistiche più moderne e rivoluzionarie d'Europa, quelle che vedevano l'Arte come una forza sacra, intellettuale e vittoriosa.
In conclusione, la "Pallas Athene" è molto più di un dipinto mitologico. È il simbolo di un'intera generazione di artisti che voleva liberare l'arte dalle catene del passato e presentarla come una nuova, potente divinità per il mondo moderno.
L'immagine è un autoritratto di Cesare Covi (1916-1923), matita e gessetto su carta.
di Alessandra Tiddia
Testo tratto da
Trento 1900 - Artisti trentini ai tempi della Belle Époque: Cesare Covi
Catalogo della mostra che si è tenuta a Palazzo Trentini, sede della Presidenza del Consiglio della Provincia Autonoma di Trento
a cura di Alessandra Tiddia e Umberto Anesi, 18 marzo - 16 aprile 2022
Stupisce pensare che l’ultima occasione espositiva ove figuravano opere di Covi risalga al 1930. Dopo la Mostra di ritratti d’artisti trentini contemporanei, allora ospitata presso il Circolo Sociale di Trento [Mostra di ritratti d’artisti trentini contemporanei, Trento, Circolo Sociale, gennaio 1930. Cfr. L. Sette, La mostra di ritratti di artisti trentini contemporanei al Circolo Sociale, in “Studi trentini di scienze storiche”, XI (1930), p. 75.] , le opere di Covi sono pressoché scomparse dalle rassegne dedicate all’arte trentina fra ‘800 e ‘900.
Spetta dunque all’iniziativa espositiva odierna il merito di ripuntare la lente dell’indagine storico-artistica su Cesare Covi e sul contesto trentino in cui operò fra la fine dell’800 e i primi decenni del secolo scorso.
La mostra ha anche un altro pregio, ovvero quello di aver costituito una sorta di laboratorio progettuale, che sotto l’egida della Presidenza del Consiglio Provinciale, ha visto la collaborazione congiunta di ben tre importanti istituzioni provinciali, il Mart, l’Università degli Studi di Trento e la Soprintendenza di Trento, compartecipi di un progetto culturale che pone nuove prospettive di studio non solo su Covi ma su un periodo, quello a Trento prima del primo conflitto mondiale, ancora aperto a nuove indagini, come ad esempio lo studio approfondito di un sito strepitoso come quello di Villa Gherta a Mesiano, affrescata appunto da Covi.
Spetta invece agli studi di Umberto Anesi aver fatto riemergere dall’oblio una personalità artistica seppur schiva, ma interessante per alcuni esiti e in particolare per il lirismo dei suoi paesaggi. Cesare Covi tuttavia, non fu solo un pittore di paesaggi anche se la seconda parte della sua vita fu dedicata soprattutto a rappresentare la sua relazione intima e segreta, talvolta malinconica, con la natura solitaria, quella dei din torni della sua abitazione a Celva, vicino a Trento o dei pascoli alpini visti attraverso il filtro di una sensibilità mutuata da Segantini. Essi sono presenti in mostra accanto ad alcune prove mature nell’ambito della ritrattistica e del disegno. La sua attività comprese anche opere decorative e affreschi in Austria e in qualche palazzo di Trento, come il ciclo decorativo di Villa Gherta, antica abitazione della famiglia Garbari, sulle colline di Trento, acquisita recentemente dall’Università degli Studi di Trento e esempio eclatante di un gusto aggiornato ai tempi e allo stile Art Nouveau o Liberty.
A questo sito viene qui dedicato un intero capitolo a cui si rimanda per degli approfondimenti e in mostra un’intera sala svela, attraverso bozzetti e una campagna fotografica sostenuta dall’Università degli Studi di Trento, grazie all’entusiasmo condiviso con Michela Favero e l’occhio attento di Pierluigi Cattani Faggion, l’unicità di questo luogo che gli studi su Covi hanno restituito alla nostra attenzione.
L’auspicio è che il focus attuale possa solleticare futuri approfondimenti non solo sulla parte decorativa ma su tutto l’insieme della villa, dal parco circostante, dagli arredi interni, alle suppellettili, a partire dagli splendidi camini Art Nouveau, o la strepitosa boiserie in tema con la ricorrenza del simbolo del melograno, in quanto testimonianza di un‘opera integrale, nello spirito di un'europea Gesamtkunstwerk, dove architettura di interni ed esterni, decorazione pittorica e botan ca, concorrono, per volontà del committente, a un insieme armonico e in un certo modo unico per Trento.
Infine il volume si completa con un catalogo della produzione artistica di Covi nota ad oggi, una parte sostanziale che fa di questo volume uno strumento di studio, legato si alla celebrazione dei 150 anni dalla nascita di Covi, ma con un valore non episodico.
Cesare Covi infatti nasce nel 1872 a Trento dove muore nel 1923. La sua formazione avviene verso la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta fra Milano, Firenze, Roma e le sue opere sono esposte a Milano e a Vienna negli anni novanta. Nel suo iter artistico ci sono alcuni passaggi espositivi notevoli che vale la pena di segnalare: nel 1892 partecipa alla rassegna a Brera [ Esposizione annuale 1892, catalogo della mostra [Milano, Palazzo della Società per le Belle Arti ed Esposizione Permanente, 1892], Tipografia Lombardi, Milano 1892, p. 31. 10], un appuntamento importante per gli artisti italiani, un’esposizione che l’anno prima aveva registrato la presenza delle scandalose Due madri di Segantini, dove il mondo animale era equiparato al mondo umano nella celebrazione dell’ideale materno.
Nel 1897, un anno prima della fondazione della Secessione viennese, e di “Ver Sacrum”, Covi presenta la sua Inizio Primavera alla mostra della Künstlerhaus di Vienna [ Katalog der XXV. Jahres-Ausstellung in Wien, Wien 1897] , dove espone anche un giovane Gustav Klimt.
Nel 1906, insieme a Bonazza, Ratini, Campestrini, Covi è invitato a Milano a rappresentare il Trentino nell’Expo per l’apertura della Galleria del Sempione [Esposizione Internazionale del Sempione , Milano, 28 aprile - 11 novembre 1906 ( Pastorale n. 25, Sala XIX; Paese n. 11, Sala XXII)] . Nel 1922 poco prima di morire partecipa con ben cinque opere all’Esposizione d’arte della Venezia Tridentina, ospitata nel Teatro civico di Bolzano [Esposizione d’arte della Venezia Tridentina, Bolzano, Teatro Civico [agosto - settembre 1922] (Pastorale n. 39, Tramonto invernale n. 40, Autunno n. 41, Paesaggio Primavera n. 42)] , una rassegna importante perché in quell’occasione si intendeva dar conto delle forze artistiche regionali, unendo per la prima volta gli artisti di Trento e quelli di Bolzano.
Covi infine prende parte anche a un’altra mostra “fuori porta” degli artisti trentini, ovvero quella organizzata a Venezia, a Ca’ Pesaro, nel 1923. Insomma, non poteva essere considerato un artista isolato: a lui anche Maroni avrebbe voluto dedicare uno dei suoi volumi della collana C.A.T. (Collana degli artisti trentini), ma non fece in tempo.
Prima di lui, altri si erano occupati di Covi, come ad esempio Thieme Becker, che nel 1913 dava ampio conto della sua produzione e dei suoi committenti. Aveva scritto di lui anche Wenter Marini [G. Wenter Marini, Covi I, in “Il Nuovo Trentino”, 14 gennaio 1922, p. 2; G. Wenter Marini, Covi II, in “Il Nuovo Trentino”, 23 febbraio 1922, p. 2; V.M., Cesare Covi, in “Studi Trentini”, anno V, fasc. 1, 1924, p. 79] , suo sodale presso il Circolo Artistico Tridentino, gruppo costituitosi alcuni anni prima del primo conflitto, con il fondamentale apporto di Luigi Bonazza che vi aveva contribuito con determinazione, al suo rientro da Vienna, sull’esempio aggregativo dei sodalizi artistici delle Secessioni europee, forte dell’esperienza viennese, appena conclusa.
Ne facevano parte oltre a Covi, Luigi Ratini, Camillo Bernardi, gli scultori Stefano Zuech, Davide Rigatti e Ermete Bonapace, e gli architetti Giorgio Wenter Marini e Ettore Sottsass Sr., per lo più artisti che provenivano da formazione ed esperienze «nordiche», chi a Monaco, chi a Vienna, e che erano dunque accomunati da un gusto forgiato da lemmi secessionisti, tradotti però attraverso una sensibilità tutta italiana.
Giorgio Wenter Marini era la “voce ufficiale” del circolo e insieme a Bonazza il promotore più attivo, soprattutto negli anni venti, delle prime mostre collettive affiancate successivamente dalle esposizioni sindacali. Wenter Marini era stato uno dei fautori dei due più importanti appuntamenti espositivi del primo dopoguerra in Trentino, ovvero la Mostra d’Arte, tenuta nei mesi di novembre e dicembre 1922, a Rovereto, nelle ampie sale della Camera di Commercio e poco prima, nell’estate 1922, della Mostra d’Arte - Kunstschau di Bolzano, che poté registrare la presenza di vari artisti trentini, fra cui Covi, e anticipò quella formula di collaborazione fra Trento e Bolzano che diverrà poi prassi con l’introduzione delle mostre sindacali a partire dal 1927.
Se le numerose rassegne espositive ci consentono di seguire l’attività culturale ed espositiva della Trento del primo dopoguerra, più difficile è ricostruire il panorama artistico a Trento negli anni prima della guerra, quelli in cui operò Covi, poiché coincidono con una generazione artistica, da Bezzi a Prati, Moggioli, Disertori, Campestrini, Ratini, Tomasi, Bernardi, che operarono per lo più fuori Trento 7 .
Campestrini era a Milano, Carlo Fait era a Torino, a Firenze invece c’erano Roberto Iras Baldessari, Carlo Cainelli e Umberto Maganzini; a Vienna Oddone Tomasi, Luigi Bonazza, Josef Zotti; a Roma, Benvenuto Disertori e Zuech. Moggioli si era trasferito a Venezia fin dal 1907; in laguna vi soggiornarono pure Tullio Garbari e Disertori. Anche Prati, morto in quello stesso 1907, anni prima aveva fatto la spola fra Venezia, Agnedo e Trento.
Eugenio Prati aveva costituito con Andrea Malfatti e Giovanni Segantini la triade che aveva rappresentato l’arte trentina alla grande rassegna nazionale di Roma nel 1883. Nato negli anni quaranta (1842), Prati appartiene alla generazione precedente a Covi, come Mentessi e Pogliaghi, suoi maestri a Milano. Tuttavia l’influenza esercitata da Prati su Covi fu ancora più determinante, come vedremo. [Sulle loro vicende artistiche extra Trentino ne riferisce spesso la penna del Battisti sulle pagine di “Vita Trentina” molto attenta alla situazione artistica trentina. Si veda: I. Cimonetti, L’educazione al bello del popolo trentino. Gli articoli d’arte di “Vita Trentina” tra il 1903 e il 1911, in Tempi della storia, tempi dell’arte. Cesare Battisti tra Vienna e Roma, a cura di L. Dal Prà, Provincia autonoma di Trento, Castello del Buonconsiglio, Trento 2016 pp. 171-178 e A. Tiddia, Tradizione VS Modernità. “Glorie dell’arte” in Trentino-Alto Adige al tempo di Cesare Battisti, ibidem pp. 42-63.]
Il suo magistero, seppur indiretto, fu infatti fondamentale per Covi, come quello di Segantini. Del resto la sua pittura era molto ben rappresentata alle esposizioni milanesi e a quelle veneziane, e quindi accessibile attraverso i cataloghi. Le sue raffigurazioni trovavano un’efficace diffusione anche grazie alle pagine delle “Strenne del Trentino”.
Una delle sue opere più note, Idillio di natura, fu esposto per la prima volta a Torino nella Esposizione Generale Nazionale del 1884: pur guardando ai modelli segantiniani, come rivela del resto la stessa scelta del titolo, può essere considerato uno dei primi lavori “in esterni”, poiché le figure sono collocate in un paesaggio dai toni “modernamente accesi di un tramonto roseo” 8 . Queste tonalità accese costituiscono una novità linguistica nel linguaggio pittorico di Prati, una modalità espressiva giudicata “moderna”, e che troverà piena applicazione in opere del decennio successivo, come in Il suono dell’Angelus (1897), Ave Maria nota anche come Preghiera della sera (1898), Agnellino smarrito (1900), quadri dove il paesaggio partecipa alla rappresentazione, anzi ne è parte integrante. La novità principale è costituita dal fatto che il rapporto compositivo non è più fra le figure e il loro contesto narrativo, umili cucine o raffinati interni borghesi, ma a partire da Idillio le figure diventano un tutt’uno con la natura: il paesaggio partecipa all’espressione del sentimento, restituendo in questa interpretazione il vero significato del termine idillio. Prati dichiara così la sua totale adesione ai portati della pittura di Segantini, al di là del riferimento tematico, perché la natura diviene il luogo espressivo del sentimento. La lezione segantiniana agisce su Prati traducendosi in quella sensibilità mistica e religiosa che gli consente di transitare la sua pittura dal Naturalismo al Simbolismo.
I protagonisti delle sue tele sono anche i paesaggi naturali del Trentino, non solo la sua gente, soggetti che Prati esprime e caratterizza con un profondo lirismo che gli consente di fondere, anche pittoricamente, le figure nel paesaggio, grazie anche alla mediazione della pittura scapigliata. Egli spinge la sua pittura verso una sempre più radicale rinuncia agli effetti decorativi, di dettaglio, pittoreschi, in favore di una rarefazione atmosferica della materia che si fa impalpabile, trasparente, liquida nelle pennellate di tenui cromatismi, che avvolgono in misteriosi veli le sembianze delle cose e delle figure. Il simbolismo di Prati si declina secondo l’ideale già promosso a suo tempo da Vittore Grubicy: l’intensità degli effetti pittorici, derivante dalle luci e dai colori, è funzionale a esprimere sentimenti ed emozioni. [L. Chirtani, Le Belle Arti all’esposizione di Torino, in “Il Corriere della Sera”, 23-24 settembre 1884]
È questa l’eredità più significativa che Covi sembra cogliere da Prati e riversare nei suoi paesaggi, a partire dai titoli: i suoi Pastorali raffigurano per lo più proprio questa tensione all’armonia fra uomo e natura, che costituisce la lezione più profonda ereditata dall’arte di Segantini e Prati.
Anche Umberto Moggioli negli stessi anni ricerca nelle solitudini lagunari un rapporto sinestetico con la natura, come prima di lui anche Bartolomeo Bezzi, che lo aveva preceduto nella declinazione di una Venezia solitaria e vaporosa, fatta d’acqua riflessa e nubi.
Nato nel 1886, quindi più di un decennio dopo Covi, trova i suoi riferimenti formativi in Prati, Bezzi, e Segantini poiché essi con la loro arte celebrano i temi e i valori della gente di montagna, quali la maternità, la compassione o la simpatia verso tutti gli esseri del creato e una profonda sintonia con la natura, mediata da una religiosità semplice e molto sentita. Valori semplici e essenziali ma soprattutto popolari, nella scelta dei temi come nella fruizione; attraverso un sentimento del vero che si fa poesia 9 essi diventavano comprensibili a un ampio pubblico, il più ampio possibile.
Infatti il comune denominatore delle loro opere era quella liricità in grado di rivelare la nota intima e religiosa propria della terra trentina: tale aspetto lo ritroviamo non solo nelle figure materne e nei temi della pittura di genere tanto amati da Prati, ma anche nei paesaggi di Bezzi, intento in una raffigurazione paesaggistica di monti e acque, che si fa sempre più fluida e sospesa.
Come nella rappresentazione dei paesaggi lagunari, anche nei ritratti Moggioli affida alla luce un significato non solo ambientale, ma volto a creare un’atmosfera e uno stato d’animo. Questo passaggio risulta evidente ad esempio nel confronto fra i due dipinti qui esposti, ovvero il Ritratto della signora Pasetto, dipinto a Venezia nell’anno del suo esordio in Biennale, il 1907 e legato alla ricca mondanità Liberty, e il Ritratto di Elodie Moncher, realizzato l’anno seguente: via via la figura assume una valenza diversa nell’organizzazione della configurazione spaziale, emerge una maggiore attenzione a cogliere lo stato d’animo e mutano i rapporti di luce, mentre la definizione cromatica risente degli approfondimenti condotti dall’artista nell’ambito del post-impressionismo. [Questi valori vengono condivisi soprattutto da Segantini e da uno dei suoi interpreti più sinceri, Eugenio Prati, per poi trasferirsi, con un linguaggio differente, anche nelle raffigurazioni di Moggioli (si pensi a quanto deva a Segantini la sua Sera a Mazzorbo, 1913, raffigurante una maternità ospitata in un albero).]
Il Ritratto di Elodie Moncher ci offre un saggio di come Moggioli si stia rivolgendo a una modernità linguistica rappresentata dalla ritrattistica Art Nouveau di Jacques-Émile Blanche o di Giovanni Boldini. Quest’opera ci offre un tripudio virtuoso e morbido di toni bianchi che costituiscono una soluzione inedita nella pittura di Moggioli: essi muovono le ricche pieghe della gonna che occupa gran parte della superficie pittorica e di un bianco soffuso è anche lo sfondo indistinto dietro la figura.
Elodie Moncher era la moglie di Guido, proprietario della Tipografia Artistica Tridentina, in cui si stampava il giornale “Il Popolo”, diretto da Cesare Battisti, e l’inventore del primo elicoplano italiano, Elodie appunto, che nel 1909 riuscì a compiere finalmente il suo primo volo.
Moggioli non fu l’unico a scegliere Venezia come luogo della sua formazione, con lui anche l’amico Benvenuto Disertori. Entrambi avevano lasciato Trento nei primi anni del secolo, alla ricerca di possibilità formative e nuovi stimoli. Disertori puntualizza questa scelta con toni molto polemici che denunciano l’isolamento culturale di Trento specie nell’ambito delle arti figurative. Scrive infatti:” al tempo in cui nasceva Umberto Moggioli a Trento (1886) era questa una cittadina modesta e per così dire appartata, soggetta all’Austria e da essa amministrata con un razionalismo semplicista senza sentimentalismi, né complimenti. […] Usurpati e avviliti a depositi militari i principali monumenti della città. Il medievale palazzo dei principi vescovi attiguo al duomo [sic], nel seicento nobilmente trasformato a palazzo pretorio, vedeasi ridotto a caserma di artiglieria; il castelletto turrito e merlato imposto come fortilizio alla millenaria abside di San Biagio, passato da abitazione del capitano di quell’arma. Lo splendido castello del Buonconsiglio dominante la città da nord, una delle più sontuose dimore principesche della nostra Rinascenza, degradato a caserma della fanteria. Restaurato perché fatiscente il sommo del duomo romanico con una sensibilità da capomastri e da scalpellini di acquai. [...] Fu il momento della dura prosa: come se non tutte, una buona parte del coro delle Muse avesse alla ragione voltate le spalle per sempre, tanto era ridotta la vita artistica della città. Faceva si eccezione la musica. La Società Filarmonica contribuiva a mantenere il livello del gusto: anche fra i cittadini non dediti alla sua professione non pochi la coltivavano competentemente. La musicalissima Austria Ungheria era presente con i suoi virtuosi di passaggio, che si avvicendavano alle altre celebrità mondiali e diciamolo pure con le sue 15rinomate bande musicali militari. La città irredenta teneva il broncio a molte cose che venivano da Nord, talvolta anche alle buone, mentre tendeva appassionatamente verso le limitrofe provincie italiane. Tuttavia non è lecito dimenticare che le frontiere politiche erano una realtà, e che, in un certo senso, Verona era più lontana ed estranea, per modo di dire, di Cracovia: il che contribuiva all’isolamento.” Questa condizione di isolamento assume toni sempre più duri ed espliciti se riferita all’ambito delle arti figurative: “Per ciò che riguarda la pittura, una vita artistica a Trento era pressoché inesistente. Non che la terra tridentina fosse diventata infeconda di artefici e di veri poeti del pennello: Pio Joris si faceva onore a Roma, Giovanni Segantini nell’alta Lombardia e dai monti della Svizzera, Bartolomeo Bezzi a Verona e a Venezia, il Campestrini a Milano, Eugenio Prati eremita con la famiglia a Villagnedo fra un bel pezzo di genere e l’altro dipingeva le uve col loro pulviscolo. Ma nella città di Trento la professione stessa del pittore era una vaga utopia, una favola poco creduta, tuttalpiù deprecata.“ [R. Maroni (a cura di), Umberto Moggioli, pittore (I parte), testo di N. Barbantini (1922), CAT, Trento 1963; R. Maroni (a cura di), Umberto Moggioli, pittore (II parte) , testo di C. Piovan (1932), CAT, Trento 1964.] Nella Trento “appartata, modesta e irredenta”, restia agli influssi nordici, ma propensa a quanto avviene “nelle limitrofe provincie italiane”, ricordata da Disertori, si avverte con molta chiarezza come l’appartenenza a un territorio di confine non sia solo un fatto geografico, ma soprattutto politico e culturale.
Come ha ricordato Vincenzo Calì, “lo sviluppo dei sentimenti nazional-culturali e l’intraprendenza dei ceti commerciali e amministrativi che stavano alla base della nascente borghesia cittadina, contribuirono ulteriormente alla vicinanza con il mondo italiano e all’opposizione sempre più forte contro quello tedesco, ponendo fine a qualsiasi forma di collaborazione e scambio culturale anzi la contrapposizione al mondo germanico e l’identificazione sempre più forte con la cultura italiana furono un nucleo forte per la maturazione di un’identità e di una cultura locale coesa” [V. Calì, Cultura e stampa nel Trentino di inizio secolo XX, i n A. Dongilli, Un giornale per “Il popolo”: l’impresa culturale dei coniugi Battisti (1900-1914) , UCT, Trento 2006, p. 8] .
I territori dei confini più meridionali dell’Impero, Trento come Trieste, furono caratterizzati da una costante culturale, ovvero l’oscillazione fra Classicismo e Romanticismo, fra germanesimo e latinità, fra nord e sud, un’oscillazione avvertita più qui che altrove, poiché il concetto di nazione (quella dell’Impero asburgico) si opponeva a quello di nazionalità (le plurinazionalità che lo componevano) [Cfr. Calì, Cultura e stampa nel Trentino di inizio secolo XX, cit., p. 7. 13 M. Lupo, Introduzione, in Publio Virgilio Marone, Eneide , Manfrini, Trento 1982, p. 11].
Fra gli artisti più ricettivi e portatori delle novità linguistiche della Modernità, Tullio Garbari, Luigi Bonazza e Luigi Ratini. Se Garbari la ricerca in una nuova consapevolezza che riguarda le origini retiche e popolari della cultura trentina, Bonazza e Ratini, complice la loro comune formazione “nordica”, sono accomunati dal riferirsi al mito e all’allegoria classica attraverso un linguaggio moderno, che deriva in parte dall’esperienza secessionista per il primo mentre per Ratini l’avvicinamento è quello alle forme più rigide e ancora più classiche del Decò, come rivelano le tre teste associate ai fiori delle sue incisioni, presenti in mostra.
Dopo una formazione ispirata ai canoni della ritrattistica tradizionale così come la committenza richiedeva, Luigi Ratini (classe 1880), abbandona gli stilemi della ritrattistica ufficiale, appresi a Monaco fra il 1898 e il 1901, dove imperavano due principi della ritrattistica, Franz von Lenbach e Franz von Stuck, e grazie alle esperienze a Vienna (1901-1903) e a Roma (1903-1905) approda a modalità molto più personali, ricevendo numerose importanti commissioni, dai baroni Salvadori e Salvotti.
Nel 1906 partecipa, come Covi, alla mostra milanese del Sempione con un’opera che è una esplicita dichiarazione di discendenza, ovvero il grande dipinto intitolato La tomba di Segantini. La sua tensione verso l’epica e l’allegoria trova compiuta realizzazione nel ciclo di incisioni dove si fa sensibile interprete delle leggende e degli eroi dell’epoca antica, del mondo greco e romano, tanto da confessare in una lettera del 1926 a Ezio Bruti, allora segretario della roveretana Accademia degli Agiati, che “l’opera mia fondamentale fu l’illustrazione di opere, e specialmente di grandi poemi della classicità, fra cui quell’Eneide di Virgilio che è stata ed è il sogno della mia vita.” 13
In questa affermazione si coglie nettamente la propensione di Ratini a conciliare nelle sue opere passato e presente, a introdurre elementi di contemporaneità nella descrizione dei paesaggi o nell’inserzione di volti moderni fra i personaggi delle sue tavole pur all’interno della celebrazione del mito. Accanto alle tavole dei due poemi virgiliani, Ratini realizza i tre ritratti qui esposti, Donna con cane, Donna con gatto, Rhododendron, dove il rapporto antico/moderno è invertito rispetto a quanto detto sopra: nella rappresentazione del ritratto contemporaneo si palesano ancora echi degli influssi secessionisti e simbolisti di fine secolo che Ratini aveva assorbito alle esposizioni internazionali delle Secessioni di Monaco e di Vienna.
I tre ritratti femminili a carboncino concepiti nel 1921, forse come bozzetti per cartoline, mostrano un comune segno grafico, fortemente sgranato, e una resa sfumata la cui azione combinata produce un effetto che può ricordare la tecnica pointillista. Un altro aspetto che li accomuna è un’inquietante e misteriosa staticità, una caratteristica che li accosta alla memoria dei ritratti di Fernand Khnopff, un artista amato da Ratini, le cui opere erano state esposte alle mostre della Secessione viennese.
La staticità degli sguardi di queste figure, la loro assoluta frontalità dichiara la loro appartenenza ad un clima culturale i cui modelli di riferimento sono ancora quelli della Secessione, anche se i tre carboncini sono stati realizzati da Ratini all’inizio degli anni venti. Tali riferimenti diventano ancora più espliciti se li confrontiamo con la figura di Minerva ideata da Ratini nel 1920 come copertina dell’Iliade, ieratica figura “con gli occhi fissi, chiari, lucenti e con il suo misterioso sorriso in un’atmosfera di tempesta”, ma anche replica fedele della Pallade Atena di von Stuck e Klimt, che a lei avevano affidato l’emblema della Secessione.
Nel transitare dalla raffigurazione di Minerva a queste idee di femminilità, un passaggio che potremmo sintetizzare con la formula “dal mito al ritratto”, Ratini sostituisce civetta e corazza con più domestici animali e grazie ad un maggior senso volumetrico sviluppa suggestioni già tipicamente Decò.
Anche per la produzione artistica di Luigi Bonazza possiamo ritrovare una parabola simile, che si avvia con un’adesione puntuale e filologica alle modalità secessioniste, già con la strepitosa Leggenda di Orfeo del 1905 - presentata nel 1906 a Milano alla mostra del Sempione, e oggi esposta nelle sale del Mart di Rovereto - e si mantiene con coerenza fino a tutti gli anni quaranta.
Il modello klimtiano sarà sempre un punto di riferimento importante per Bonazza e si rifletterà nel ciclo decorativo della sua villa a Trento, edificata con l’idea di un progetto pluriennale di coerenza agli stilemi klimtiani e secessionisti ben oltre gli anni venti.
Ne è prova calzante lo stupendo Ritratto di Italia Bertotti, depositato presso il Mart di Rovereto: qui la bidimensionalità ieratica dei modelli klimtiani ha 18lasciato il posto a una ricerca di monumentalità, molto più classica e italica. Ieratica e preziosa come le figure del maestro viennese, Italia si offre al nostro sguardo con una nuova plasticità, più tridimensionale a cui concorre una tecnica pointillistica per piccoli punti di colore accostati che ne costruiscono fascino e puntualizzano anche piccoli ma significativi dettagli. A questo ritratto, inoltre, si lega un episodio che mi è stato riferito da Giuseppe Nardelli, suo nipote, che vale la pena di riportare perché particolarmente efficace per comprendere i sentimenti che animavano committenza e artisti a Trento nei primi anni del 1900: “Italia Bertotti (1905- 1990), era figlia di Luigi Bertotti e Dina Di Palma, entrambi cittadini del Tirolo italiano e entrambi insofferenti al dominio asburgico, tanto da battezzare i due figli Italia Libera e Italo Garibaldi. Con la fine dell’Impero asburgico, Luigi, che amava l’arte, intendeva festeggiare il diciottesimo compleanno della figlia con un ritratto. Il più giovane e promettente pittore trentino, Moggioli, era morto nel 1919 di febbre spagnola. Volendo scegliere un pittore di fama riconosciuta, a quei tempi la scelta era praticamente obbligata: Alcide Davide Campestrini. Era un pittore molto noto in città, manteneva due atelier, uno a Trento e uno a Milano, aveva vinto premi, era professore e membro onorario dell’Accademia di Brera. Era la scelta perfetta. Campestrini accettò la commissione, ma i lavori iniziarono molto a rilento: il pittore aveva molti impegni e poco tempo. Luigi non era molto soddisfatto dell’operato di Campestrini, in particolare della lentezza dei lavori, e i due recisero il contratto. Da pochi anni era ritornato a Trento un pittore relativamente giovane, Luigi Bonazza, che aveva passato molti anni a Vienna. Il (bis)nonno Luigi lo contattò e Bonazza dipinse il ritratto della nonna.
La nonna ha posato dal vivo per il quadro, non ci sono foto da cui é tratto, e più volte ci ha raccontato di quanto lunghe fossero le sedute di posa. Al contrario di Campestrini, Bonazza dedicò moltissimo tempo e impegno al quadro, ed il risultato è il dipinto che io, le mie sorelle e i miei cugini abbiamo visto da sempre sopra la poltrona della nonna, che abitava in via Manci”, proprio a qualche metro da dove oggi è esposto, nelle sale di Palazzo Trentini.
di Veronica Saggiorato (Biblioteca della Montagna-SAT – Servizio Civile)
[Testo tratto dal sito della SAT]
Tra il 18 marzo e il 16 aprile [2022] a Palazzo Trentini è stata ospitata la mostra Trento 1900 – Artisti trentini ai tempi della Belle Époque: Cesare Covi, dedicata, come già esprime il titolo, al poco noto artista trentino che ha vissuto l’apice della sua carriera negli anni immediatamente precedenti alla Prima Guerra Mondiale. La mostra ha l’intento di far riscoprire e rimettere in luce l’operato di questo corregionale dimenticato, mentre qui si vorrebbe raccontare la sua storia, legata indissolubilmente a quella del sodalizio da un sottile filo, quasi invisibile.
Nel 1872, lo stesso anno in cui viene fondata la Società degli Alpinisti Tridentini, nasce a Trento il decimo degli undici figli di Giuseppe Covi e Angela Molinari, i sarti più rinomati del centro città. Dell’infanzia di Cesare, così viene chiamato il bambino, non sappiamo molto, se non che sin da tenera età si nota il talento per il disegno.
A 17 anni, da poco orfano dei genitori, intraprende la formazione artistica all’Accademia di Brera, durante la quale, malgrado la vincita di una borsa di studio e una menzione nella realizzazione di elementi di figura al primo anno e una medaglia di bronzo per le decorazioni e gli ornamenti al secondo anno, le sue opere constano di caratteri prettamente accademici, privi di un particolare stile od espressività. La permanenza a Milano gli avvale in ogni caso l’opportunità, ben sfruttata, di conoscere e intrattenere rapporti, a volte anche di stretta amicizia, con alcuni pittori contemporanei. Gli studi compiuti a Brera, specialmente quelli sui busti di sculture antiche, sono propedeutici all’esame di ammissione all’Accademia di Vienna, che prevede la riproduzione di un modello di testa. Malgrado le capacità del giovane, la commissione non riconosce il suo talento e Cesare sceglie così di iscriversi all’Accademia delle Arti di Firenze, dimostrando particolare sensibilità per l’arte italiana. Nello stesso periodo concorre alla borsa di studio della Provincia del Tirolo, comparendo nell’esposizione al Ferdinandeum di Innsbruck. Nel 1894 si sposta a Roma per frequentare la Scuola libera con modello vivente annessa al Regio Istituto di Belle Arti, permanenza durante la quale sviluppa un certo interesse per le rovine archeologiche. L’anno successivo concorre nuovamente per la borsa di studio tirolese, stavolta vincendola, e nel 1897 espone sia alla XXV Esposizione Annuale della Künstlerhaus a Vienna, unico trentino tra i pochi artisti italiani, sia alla Triennale di Brera a Milano.
Dal 1898, terminato il periodo di formazione, torna a Trento per intraprendere la professione di decoratore e pittore. Nello stesso anno partecipa all’esposizione nazionale di Torino e negli anni a seguire la rivista “Strenna del Trentino-Alto Adige” pubblica alcuni suoi lavori. È questo il periodo, prima del nuovo secolo, che vede l’avvicinamento del pittore a personalità ben note del mondo satino, dedite alla diffusione della cultura e di un ideale filoitaliano decisamente presente nella regione.
I fratelli Garbari, Giovanni Pedrotti e Cesare Scotoni affidano a Cesare la decorazione di alcune loro proprietà, alcune tutt’oggi ancora visibili. Con firma del 1895 si presenta l’affresco realizzato nell’abitazione del Pedrotti, oggi visibile nell’ufficio presidenziale della Casa della SAT, che raffigura un cielo primaverile stagliato dalle figure di due angioletti reggenti nastri rossi e accompagnati da una giovane figura femminile spostata su un lato.
Scenari romantici e naturalistici, rivisitati in chiave moderna secondo lo stile dell’Art Nouveau, decorano gli interni e gli esterni di Villa Gherta a Mesiano di Trento, di proprietà dei fratelli Garbari (ora dell’Università di Trento). Tutt’ora si possono vedere quei lavori sulle facciate dell’edificio e nelle sue sale, frutto di un intenso studio progettuale su bozze, ripreso anche nella mostra.
Nel 1906 acquista un’abitazione a Celva (Trento), vicino al Passo del Cimirlo, che chiama “Romitorio” e trasforma in casa-laboratorio. In questo luogo solitario e immerso nella natura Cesare si ritaglia il suo spazio e si concentra nello studio e nella realizzazione di scene agresti, montane e di vita rurale caratterizzate dal cambiamento stagionale, accuratamente rappresentato. Nello stesso anno partecipa all’Esposizione internazionale di Milano portando La Pastorale, pubblicata tre anni più tardi nella rivista “Vita Trentina”.
Sin dal 1912 fa parte del Circolo Artistico Trentino, fondato da Luigi Bonazza lo stesso anno e di cui è tra i soci fondatori, nonché quello più anziano e il solo a non avere una formazione artistica austro-tedesca. In quello stesso periodo realizza quella che viene considerata la sua ultima opera, La Primavera, esposta alla Mostra Annuale della Permanente di Milano.
Negli anni subito successivi l’approccio all’arte di Cesare verte forzatamente su tematiche cristiane. Tra il 1913 e il 1914 gli viene commissionato il restauro degli interni della chiesa di S. Ermete a Calceranica, in Valsugana; lavoro non concluso, sia per l’incertezza del committente che per lo scoppio della guerra. Con l’inizio della Grande Guerra molti suoi colleghi del Circolo, le cui attività, prevalentemente convivi d’arte, vengono sospese, fuggono nel Regno d’Italia per evitare l’arruolamento forzato. Non sono invece chiare le dinamiche che portano Cesare Covi, con famiglia e conoscenti irredentisti, a militare come pittore di guerra per gli austriaci. Nel 1916 affresca il monumento ai caduti di Trofaiach, vicino a Leoben, in Stiria, la sola delle diverse commissioni di guerra ancora visibile, mentre delle altre, una Pietà per un contadino benestante ed una per i caduti di Sankt Peter-Freienstein, vicino a Trofaiach, voluta dalla baronessa Mayr-Melnhof, restano solamente i disegni preparatori. Nulla invece resta della decorazione della cappella per le vittime dell’esplosione della polveriera di Wöllersdorf, nella Bassa Austria, avvenuta il 18 settembre 1918 e che uccise circa 400 operai, prevalentemente donne.
Al termine del conflitto Cesare Covi ritorna a Trento, trasferendosi in una modesta abitazione in piazza Duomo e conducendo una vita semplice. La guerra l’ha segnato e, in ristrettezza economica e privo di importanti ingaggi, cade in una profonda crisi che lo affligge non solo moralmente, ma anche fisicamente. Malgrado il pessimismo che permea l’ultima fase di vita del pittore, descritto nel 1922 dall’amico e [architetto, non giornalista] Wenter Marini come un uomo provato, geloso delle sue opere e allo stesso tempo sfiduciato dal dipingere, continua a far parte del ricostituito Circolo Artistico Trentino, adesso dedicato in particolar modo ai temi architettonici utili per la ricostruzione post-bellica, e, forse grazie all’aiuto dello stesso Marini, gli viene commissionato il restauro della chiesa di San Vigilio in Vallarsa. Quest’ultimo può essere considerato l’unico lavoro di rilievo eseguito negli anni Venti dall’artista e reso con “religiosa austerità”, sebbene l’immagine del santo presenti dei caratteri atipici, quasi specchio di connotati politici piuttosto che del martirio.
Il malumore generale provato da Cesare non lo esclude dalla partecipazione ad importanti esposizioni come la prima Biennale d’Arte della Venezia Tridentina a Bolzano, tra agosto e settembre 1922, dove vince il premio ENIT, o ancora alla Quadriennale Mostra Nazionale di Belle Arti a Torino, nella primavera del 1923, in cui viene notato da un critico d’arte francese che in seguito gli chiede informazioni della sua carriera, poiché vorrebbe presentarlo nella rivista per cui lavora, senza purtroppo ottenere risposta, forse per via della morte di Covi di lì a pochi mesi. L’ultima mostra a cui partecipa è la Tredicesima collettiva del Circolo Artistico Trentino a Ca’ Pesaro a Venezia, tra il 21 aprile e il 30 giugno 1923.
Un mese più tardi, il 31 luglio, muore Cesare Covi. Nelle settimane subito successive sono diversi gli articoli di giornale che parlano del pittore, della sua vita e di come si sentisse angosciato e abbandonato dal mondo che lo circondava, ma in poco tempo tutti se ne dimenticarono.
Cesare è stato un artista apprezzato all’estero, viste le numerose commissioni ricevute in guerra e l’interesse che più in generale suscitava nei critici esteri, mentre a casa, nella sua amata e insostituibile Trento, solo pochi seppero riconoscere il talento. Questa consapevolezza, unita al grande cambiamento sociale che si stava verificando al termine del conflitto mondiale, portarono Covi verso la solitudine, il rigetto della società, l’amarezza e la sfiducia verso un mondo incapace di riconoscere il suo valore. La vita dei più, lo sappiamo bene, è destinata a cadere nell’oblio, essere dimenticata per sempre, anche se si tenta di tutto per venir ricordati, fosse solo dai propri cari. Non è questo però quello che voleva Cesare Covi, un pittore e un uomo che non cercava fama e non pretendeva di esser compreso dai suoi contemporanei; non lo pretendeva, ma lo avrebbe tanto voluto
Da Wikipedia, testo e immagini:
Cesare Laurenti (Mesola, 6 novembre 1854 – Venezia, 8 novembre 1936) è stato un pittore, scultore e architetto italiano.
Formatosi a Ferrara e a Padova, frequentò l'Accademia di Belle Arti a Firenze e nel 1878 si trasferì a Napoli dove fu allievo di Domenico Morelli. Tornò poi a Padova e poco dopo si stabilì a Venezia, dove operò seguendo la moda dell'epoca, influenzata da Giacomo Favretto. Passò poi ai soggetti mitologici e letterari. Nel 1885 illustrò con 14 acqueforti il volume di Poesie "Rime nate qua" di Gino Cittadella Vigodarzere, Venezia, Ferd. Ongania Editore.
Dopo essersi aggiudicato il prestigioso premio Principe Umberto alla Prima Esposizione Triennale del 1891 della Regia Accademia di Belle Arti di Brera con la tela Le Parche, il suo stile si fece più metaforico, fino a divenire decisamente simbolista. Fu questo il periodo di alcune delle opere più rappresentative, come Fioritura Nova (conservata a Ca' Pesaro). In quel periodo iniziò a seguire il gusto liberty, come dimostra il grande fregio eseguito dalla ditta ceramica Gregorj di Treviso e intitolato Le statue d'oro (1.20 x 50 metri di lunghezza). [Di questo fregio si vede un dettaglio qui a lato, tratto dal sito Il castello di Mesola una delizia estense da vedere di Chiara Rossi] L'opera fu presentata alla Biennale di Venezia del 1903 e ora è collocata presso il Castello Estense di Mesola[1] e soprattutto la decorazione del ristorante Storione di Padova, oggi demolito[2][3]. Ancora alla Biennale di Venezia, nel 1907 gli venne allestita una sala personale.
Sempre nel 1907 fu chiamato a fare parte della Commissione d'Appello sulla questione della ricostruzione del campanile di San Marco a Venezia, crollato nel 1902 e poi riedificato nel 1912.[4]
Laurenti cominciò a recuperare la tradizione classica veneziana, culminando con la Pescheria di Rialto, in collaborazione con l'architetto Domenico Rupolo. Non fu invece realizzato un Monumento a Dante Alighieri, che doveva essere innalzato sul Monte Mario, a Roma: il progetto, presentato già nel 1911, lo occupò sino alla morte. Alcuni disegni relativi a questo progetto sono custoditi a Ferrara presso il Museo d'arte moderna e contemporanea Filippo de Pisis, assieme al dipinto Eterno enigma, esposto alla Biennale di Venezia del 1932[5].
Da Ca' Pesaro, Fioritura nova (1897)
Molto simile al precedente questo Visione antica (Parallelo) (1901), olio su tela applicata su tavola, esposto (agosto 2025) nella Collezione Permanente del Mart, su prestito (?) della Galleria Nuova Arcadia di L. Franchi (Padova)
La tempera su cartone L'ombra (1907) si trova a Ca' Pesaro
Da Wikipedia, testo e immagini:
Ettore Tito (Castellammare di Stabia, 15 dicembre 1859 – Venezia, 26 giugno 1941) è stato un pittore e scultore italiano.
Ettore Tito nacque a Castellammare di Stabia il 15 dicembre 1859 da Ubaldo Tito, capitano della marina mercantile e Luigia Novello.
Sua madre era veneziana, e nel 1867, quando era ancora un ragazzino, la famiglia si trasferì a Venezia dove egli avrebbe vissuto per il resto della sua vita. Iniziò giovanissimo gli studi artistici, dapprima con l'artista olandese Cecil van Haanen, di cui sarà amico per tutta la vita,[1] e poi all'Accademia di Belle Arti, dove entrò all'età di 12 anni, prima ancora di aver raggiunto l'età legale per l'ammissione.[2] All'Accademia studiò principalmente con Pompeo Marino Molmenti e si diplomò all'età di 17 anni.
Il suo primo grande successo arriva nel 1887 quando il suo dipinto Pescheria vecchia (raffigurazione dell'antico mercato del pesce al Rialto) ottenne grandi consensi all'Esposizione Nazionale Artistica di Venezia e successivamente venne acquistato dalla Galleria nazionale d'arte moderna e contemporanea di Roma.[3]
Nel 1894 Tito succede a Pompeo Molmenti come Professore di Pittura all'Accademia di Venezia, incarico che ricopre fino al 1927. Tra i suoi allievi vi sono Eugenio Da Venezia, Cesare Mainella, Lucillo Grassi, Giuseppe Ciardi, Giovanni Korompay, Guido Marussig, Domenico Failutti, il pittore del realismo magico Cagnaccio di San Pietro,[4]Galileo Cattabriga[5] e Raffaele Boschini.
I suoi primi dipinti furono in gran parte raffigurazioni di persone, vita quotidiana e paesaggi di Venezia e del Veneto. Dopo il 1900 si rivolse sempre più a soggetti mitologici e simbolici ispirati alla pittura veneziana del XVIII secolo, sia per i suoi dipinti ad olio che per i murales che dipinse a Villa Berlinghieri a Roma e a Palazzo Martinengo a Venezia. Alla fine del XIX secolo, gli vennero anche commissionati disegni e schizzi per illustrare diverse riviste britanniche e americane, tra cui The Graphic, Scribner's Magazine e Punch. In un allontanamento dal suo stile abituale, produsse in Art Déco quattro proverbi con raffigurazioni di donne emancipate per una rivista francese negli anni '20. Uno di questi, Aide-toi, le ciel t'aidera ("Il paradiso aiuta coloro che si aiutano da soli") è esposto al Victoria and Albert Museum.[6]
Le sue opere divennero molto popolari in Italia, tanto da essere viste in ogni Biennale di Venezia dal suo inizio nel 1895 fino al 1914 e di nuovo nel 1920 quando la Biennale riprese dopo la prima guerra mondiale. Alla Biennale del 1897 vinse il Premio Città di Venezia e alla Biennale del 1903 la Grande Medaglia d'Oro. Nel 1909 un'intera sala della Biennale fu dedicata a una retrospettiva del suo lavoro con 45 dipinti e una scultura in bronzo di Pegaso in mostra.[7] Intere sale dedicate al suo lavoro furono presentate anche alle Biennali del 1922, 1930 e 1936.
All'estero il dipinto Chioggia vinse una medaglia d'oro all'Esposizione Universale di Parigi del 1900 e fu successivamente acquistata dal Museo del Lussemburgo. Il suo dipinto, La gomena, vinse il Gran Premio all'Esposizione internazionale di Bruxelles nel 1910,[8] e nel 1915 fu insignito del Gran Premio per la pittura italiana all'Esposizione internazionale Panama-Pacifico di San Francisco.[3] Fu inoltre esposta una mostra di 18 sue tele tenutosi a Los Angeles nel 1926, anno in cui fu anche nominato membro della Reale Accademia d'Italia.[9]
Tito faceva parte di un gruppo di pittori con stretti legami con la comunità di espatriati inglesi e americani a Venezia che aveva il suo fulcro a Palazzo Barbaro ed era amico sia di John Singer Sargent che di Isabella Stewart Gardner.[10] Nel corso degli anni anche le proprietà di famiglia, Villa Tito a Riviera del Brenta e Palazzetto Tito a Venezia, furono luoghi di ritrovo per artisti come Anders Zorn, Ludwig Passini, Luigi Nono e Mariano Fortuny così come musicisti e scrittori. Ha dipinto i ritratti di molti membri della sua cerchia e delle loro famiglie tra cui: il compositore Ermanno Wolf-Ferrari; lo storico dell'arte Corrado Ricci; il poeta Nadja Malacrida; il giornalista Luigi Albertini; l'artista Nerina Pisani (il cui marito, Giuseppe Volpi, e i loro figli furono anch'essi ritratti da Tito); l'artista Rita D'Aronco, figlia dell'amico intimo di Tito, Raimondo D'Aronco;[11] i figli di Edith e Cosimo Rucellai; e Dina Velluti, sorella dello scultore veneziano Gigetto Velluti.[12][13]
Una delle commissioni più importanti dei suoi ultimi anni arrivò nel 1929, quando all'età di 70 anni venne incaricato del rifacimento del soffitto nella chiesa di Santa Maria di Nazareth a Venezia e gli fu chiesto di realizzare un dipinto di 400 metri quadrati per la volta della chiesa in sostituzione di quella di Tiepolo distrutta nella prima guerra mondiale.[3] La sua ultima grande opera, I maestri veneziani venne completata nel 1937 ed esposta alla Biennale di Venezia del 1940. Considerata il suo "testamento spirituale",[14] il dipinto raffigura Venezia personificata come una giovane donna attorniata dai più grandi artisti della città (Tiepolo, Veronese, Tiziano e Tintoretto) che le rendono omaggio e da Goldoni e Arlecchino.
Sempre a Venezia realizzò per committenze private vari affreschi tra cui, ad esempio, quello del grande salone da ballo del Palazzo D'Anna Viaro Martinengo Volpi di Misurata, sempre in stile tiepolesco.
Tito morì a Venezia il 26 giugno 1941 all'età di 81 anni. Anche suo figlio Luigi Tito (1907–1991) fu un noto pittore. Il figlio di Luigi, Pietro Giuseppe (Eppe) Tito (nato nel 1959), deceduto nel 2022, divenne un apprezzato scultore. Nel settembre 2003 si è tenuta presso Villa Pisani di Stra una retrospettiva delle opere di Ettore, Luigi e Pietro Giuseppe Tito.[15]
Dalla voce di Wikipedia:
Il Museo Bagatti Valsecchi è una dimora storica ubicata in via Gesù, nel centro di Milano. Il "Palazzo Bagatti Valsecchi", che ospita il museo, fu acquistato dalla Regione Lombardia nel 1975 ed è fra le più importanti e meglio conservate case museo d'Europa. Da ottobre 2008 è parte del circuito "Case Museo di Milano".
Fausto e Giuseppe Bagatti Valsecchi, di Varedo, concepirono insieme il progetto di costruire una dimora in cui abitare ispirata ai palazzi signorili del Quattro e Cinquecento lombardo e di arredarla con oggetti d'arte rinascimentale. A questo scopo i due fratelli decisero di ampliare il palazzo milanese di famiglia (attuale sede del Museo) alla fine dell'Ottocento. [Tali lavori si svolsero fra il 1883 e il 1894.]
L'unicità del progetto dei fratelli Bagatti Valsecchi stava nel voler creare un insieme (in architettura definibile col termine tedesco Gesamtwerk) assolutamente armonico, in cui l'edificio, le decorazioni fisse e i preziosi oggetti d'arte collezionati con passione contribuissero in uguale misura alla fedeltà dell'ambientazione rinascimentale tuttora imprescindibile dalle collezioni (tra cui, per esempio, opere di Giovanni Bellini, Gentile Bellini, Giampietrino e Lorenzo di Niccolò).
La cultura ottocentesca che si riflette nella casa di Fausto e Giuseppe Bagatti Valsecchi era impegnata a ricercare nel passato l'ispirazione per le proprie manifestazioni artistiche. I due fratelli però, discostandosi dalla strada più battuta, non combinarono spunti attinti da epoche differenti. Piuttosto che verso l'eclettismo, indirizzarono le loro preferenze a suggestioni e oggetti del Rinascimento (v. Neorinascimento), in linea del resto con il programma culturale varato dalla giovane monarchia sabauda all'indomani dell'Unità d'Italia.
Il Museo Bagatti Valsecchi, aperto al pubblico dal 1994, è una casa-museo fra le più importanti e meglio conservate d'Europa. A reggerla è una fondazione privata, voluta dagli eredi Bagatti Valsecchi nel 1974 per esporre al pubblico le collezioni d'arte rinascimentale e gli oggetti d'arredo rinascimentale e neorinascimentale raccolti negli ultimi decenni del XIX secolo dai fratelli Fausto e Giuseppe per arricchire la propria casa.
Il Museo Bagatti Valsecchi è gestito dalla Fondazione Bagatti Valsecchi - ONLUS, ente di diritto privato di cui, dal 15 febbraio 2021, riveste la carica di Presidente Camilla Bagatti Valsecchi. Pier Fausto Bagatti Valsecchi ha guidato l'omonima fondazione per 26 anni e ne è oggi Presidente Onorario. Negli anni il Consiglio di Amministrazione ha incluso anche Vittorio Sgarbi, in rappresentanza della Regione Lombardia.
[Le immagini seguenti sono link a pagine del sito Case Museo - Museo Bagatti Valsecchi ]
Sala Bevilacqua
La biblioteca
Dall'articolo di Wikipedia:
L'Art Nouveau, e le sue declinazioni assimilate in Italia allo stile floreale o stile Liberty[1] o (soprattutto all'epoca) arte nuova, fu un movimento artistico e filosofico che si sviluppò tra la fine dell'800 e il primo decennio del 1900 e che influenzò le arti figurative, l'architettura e le arti applicate.[2][3] Il movimento artistico ebbe massima diffusione durante l'ultimo periodo della cosiddetta Belle Époque.
Il nome Art Nouveau ("arte nuova") fu coniato in Francia, nazione nella quale il movimento era noto anche come Style Guimard, Style 1900 o École de Nancy (per gli oggetti d'arte); anche in Gran Bretagna fu noto come Art Nouveau insieme con le definizioni in lingua di Modern Style o Studio Style, mentre in Germania prese il nome di Jugendstil (stile giovane), in Austria Sezessionstil (Secessione), nei Paesi Bassi Nieuwe Kunst (traduzione di Art Nouveau in olandese), in Polonia Secesja, in Svizzera Style sapin o Jugendstil, in Serbia e Croazia Secesija, in Russia Modern e, in Spagna, Arte Joven (arte giovane), o più frequentemente, Modernismo. In Italia il movimento artistico assunse dapprima il nome di arte nuova e successivamente di stile floreale o stile Liberty.
L'espressione «Art Nouveau» fu utilizzata per la prima volta da Edmond Picard nel 1894 nella rivista belga L'Art moderne per qualificare la produzione artistica di Henry van de Velde.[4] Tuttavia il nome era stato coniato dallo stesso Henry van de Velde insieme con i suoi connazionali Victor Horta, Paul Hankar e Gustave Serrurier-Bovy.[5]
«L'opera di tutti e quattro fu messa assieme, giudicata e studiata attraverso la sola qualità ovviamente comune a tutti: la novità; così ebbe origine il nome Art Nouveau[5]»
L'Art Nouveau si configurò come stile ad ampio raggio, che abbracciava i più disparati campi come architettura, decorazione d'interni ed esterni, gioielleria, mobilio e tessuti, utensili e oggettistica, illuminazione, arte funeraria.
Il movimento trae le sue origini dai principi del movimento anglosassone delle Arts and Crafts, che aveva posto l'accento sulla libera creazione dell'artigiano come unica alternativa alla meccanizzazione e alla produzione in serie di oggetti con poco valore estetico.[6] L'Art Nouveau, rielaborando questi assunti, aprì la strada al moderno design e all'architettura moderna.
Un punto importante per la diffusione di quest'arte fu l'Esposizione svoltasi a Parigi nel 1900, nella quale il nuovo stile trionfò in ogni campo. Ma il movimento si diffuse anche attraverso altri canali: la pubblicazione di nuove riviste, come L'art pour tous, e l'istituzione di scuole e laboratori artigianali.
A Bruxelles, dove si ebbero le prime manifestazioni mature del nuovo movimento, ebbero un ruolo importante l'ambiente socialista e l'esigenza di uscire dall'ombra della grande e lontana Parigi. [...]
Lo stile floreale ebbe la sua prima testimonianza in Italia a Palermo a fine Ottocento e nel 1902 all'Esposizione internazionale d'arte decorativa moderna di Torino, ed in generale alle esposizioni italiane di quegli anni. Tuttavia la definizione di quello stile oscillava in descrizioni diverse, denotando la grande varietà di interpretazioni stilistiche che lo stile moderno assommava in sé. Scriveva nel 1906, a margine dell'esposizione di Milano, il critico d'arte Ugo Ojetti:[13]
«Che cos’è lo stile moderno? Lo stile moderno finora, al paragone di tutti gli stili, da quei classici e nostri ai quali si oppone, fino a quelli coloniali cioè asiatici dai quali trae con incomprensibile amore tante ispirazioni, non ha che una definizione: quella di non essere ancóra definibile. Qui all’Esposizione di Milano esso ripete due caratteri speciali: quello d’incastrare le porte fra due alti piloni a piramide tronca, spesso sormontati da statue, spesso accimati da un’enorme voluta ionica; e quello di far le porte e le finestre ovoidali o rotonde invece che rettangolari. Quando accetta, per eccezione o per necessità di chiusura, queste porte d’antica e logica forma, non manca mai di rinchiuderle a loro volta dentro un’altra apertura ovoidale o rotonda. Nel resto, è libero: e forse soltanto per questa sua libertà, crede d’essere moderno.»
Ancora, nel tentativo di dare una definizione più precisa dello stile nuovo, il professor Renzo Canella scriveva nel 1914 per Hoepli:[14]
«Adoperiamo questo nome generico per indicare l'architettura nuova, poiché nessuno di quei nomi, floreale, liberty, ecc. hanno un carattere serio per poter essere universalmente accettati. Quest'arte non si può chiamare floreale, non corrispondendo a verità, poiché tutta l'arte nuova non intende d' ornarsi solo di fiori e di piante, ma si estende ad ogni campo essendo varia come la fantasia dei costruttori. — Lo stesso si può dire per il nome liberty. Lo stile liberty non fu che un tentativo di applicare alle linee architettoniche quelle decorative. Esso fu iniziato in Inghilterra per opera d'un negoziante di drapperie chiamato Liberty e si attenne particolarmente alla linea retta terminante in una curva aggraziata ed elegante; ma presto degenerò nell'arte della scuola secessionista che si basò sul principio imperante della linea contorta.»
L' Art Nouveau, con le sue linee ornamentali e dinamiche, costituì un autentico tentativo di riforma di vita. Questo movimento si rafforzò sulla scia di altri movimenti precedenti, primo fra tutti l'Arts and Crafts inglese; la corrente riformista volle proporsi come risposta alle conseguenze negative dell'industrializzazione, proponendo un ritorno alla natura e l'adesione a uno stile di vita sano. I movimenti riformisti trovarono fondamento ai loro principi in teorie biologiche, concezioni filosofiche della vita così come in dottrine spirituali occultiste. Da queste basi nacque il Modernismo artistico.
Nuove pubblicazioni (manifesti di mostre d'arte, periodici del settore) - come ad esempio Ver Sacrum, la rivista della Secessione Viennese, e Volné Směry (Libere Direzioni) legata all'associazione Spolek Mánes di Praga - divennero l'espressione di una trasformazione di criteri estetici. L'Art Nouveau trovò la fonte primaria dell'ispirazione nella natura, di cui gli artisti ammiravano la perfezione formale, l'aspetto sfuggente e la forza dinamica e vitale. Motivi floreali e zoomorfici si diffusero così in tutte le arti applicate: mobili, manufatti in metallo, vetri e ceramiche. Le linee sinuose e dinamiche incarnano una visione vitalistica del mondo inteso come fenomeno creativo eterno e naturale nell'ambito di una continua rigenerazione organica. Inoltre gli artisti poterono avere un approccio scientifico alla natura grazie anche al microscopio, alla microfotografia e ai raggi X.
Nei circoli artistici si diffuse un vivo interesse per la teosofia, dottrina che fonda la cognizione dei poteri spirituali occulti su uno studio comparativo dei sistemi religiosi del mondo (ispirati dalle teorie dell'occultista Helena Blavatsky). Tra i seguaci delle dottrine occultiste incontriamo il ceco Alfons Mucha e gli artisti Simbolisti del gruppo Sursum. Attraverso le scienze esoteriche e le sedute spiritiche si tentava di svelare i più reconditi misteri dell'esistenza.
In questo nuovo contesto culturale, nacque anche un nuovo senso dell'indipendenza e dell'emancipazione femminile, una femminilità al di fuori dei canoni, sfida al vecchio conservatorismo morale. Immagini dalla carica erotica più o meno esplicita venivano proiettate su rappresentazioni idealizzate ed eroicizzanti di cantanti d'opera o attrici famose come Sarah Bernhardt o anche cantanti e ballerine di cabaret, incarnanti l'immagine della femme fatale.[15]
Dal sito di Wikipedia (Nota: il sito in italiano appare ottenuto da quello in inglese mediante una traduzione automatica tutt'altro che ottimale. Il testo seguente è una nuova traduzione fatta con Google Translate)
Liberty, comunemente noto come Liberty's , è un grande magazzino di lusso a Londra , in Inghilterra. Si trova in Great Marlborough Street, nel West End di Londra . L'edificio si estende da Carnaby Street a est fino a Kingly Street a ovest, dove forma un arco di tre piani sopra l'ingresso nord del centro commerciale di Kingly Street, che ospita al centro il Liberty Clock . Liberty è noto in tutto il mondo per il suo stretto legame con l'arte e la cultura, ma è famoso soprattutto per i suoi tessuti audaci e con stampe floreali. L'ampio negozio in stile finto Tudor vende anche abbigliamento, bellezza e articoli per la casa per uomo, donna e bambino, di un mix di marchi e marchi di fascia alta ed emergenti.
Il negozio è noto per aver individuato e sostenuto giovani designer all'inizio della loro carriera, e molti marchi oggi affermati sono stati inizialmente disponibili da Liberty. Il negozio ha svolto un ruolo essenziale nella diffusione e nella diffusione dello stile moderno . Questo conferma la lunga reputazione di Liberty per la collaborazione con artisti e designer britannici. Liberty fa un'apparizione cameo in Enola Holmes .
Arthur Lasenby Liberty nacque a Chesham , nel Buckinghamshire , nel 1843. Fu impiegato dalla ditta Farmer & Rogers in Regent Street nel 1862, l'anno dell'Esposizione Internazionale . Nel 1874, rifiutato per una partnership, e forte dei suoi 10 anni di esperienza, decise di avviare un'attività in proprio. Con un prestito di £ 2.000 dal suo futuro suocero, nel 1875, accettò l'affitto di metà negozio al 218a di Regent Street con tre dipendenti.
Il negozio vendeva ornamenti, tessuti e oggetti d'arte , soprattutto dal Giappone e dall'Oriente. Entro diciotto mesi, aveva rimborsato il prestito e acquisito la seconda metà del 218 di Regent Street. Con la crescita dell'attività, furono acquistate e ampliate proprietà vicine. Nel 1884, introdusse il reparto costumi, diretto da Edward William Godwin (1833-1886), un illustre architetto e membro fondatore della Costume Society . Lui e Arthur Liberty crearono abiti interni per sfidare le mode di Parigi.
Nel 1885, il numero 142-144 di Regent Street fu acquisito e ospitò la crescente domanda di tappeti e mobili. Il seminterrato fu chiamato Eastern Bazaar e divenne il luogo di vendita di quelli che venivano descritti come "oggetti decorativi d'arredo". Chiamò la proprietà Chesham House, dal nome del luogo in cui era cresciuto. Il negozio divenne il luogo più alla moda per lo shopping a Londra e i tessuti Liberty venivano utilizzati sia per l'abbigliamento che per l'arredamento.
Nel novembre del 1885, Liberty portò quarantadue abitanti del villaggio dall'India per allestire un villaggio vivente di artigiani indiani. Liberty era specializzato in prodotti orientali, in particolare sete indiane importate, e l'obiettivo dell'esposizione era quello di generare sia pubblicità che vendite per il negozio. [ 6 ] Nel 1889, Oscar Wilde, un cliente abituale del negozio, scrisse "Liberty's è la meta prescelta dall'acquirente artistico".
Durante gli anni Novanta del XIX secolo, Liberty strinse solidi rapporti con molti designer inglesi. Molti di questi, tra cui Archibald Knox , praticavano gli stili artistici noti come Arts and Crafts e Art Nouveau , e Liberty contribuì allo sviluppo dell'Art Nouveau incoraggiando tali designer. L'azienda divenne associata a questo nuovo stile, al punto che in Italia l'Art Nouveau divenne nota come Stile Liberty , dal nome del negozio londinese.
L'Art Deco, decò o déco (nome derivato per estrema sintesi dalla dicitura Exposition internationale des arts décoratifs et industriels modernes, Esposizione internazionale di arti decorative e industriali moderne, tenutasi a Parigi nel 1925 e perciò detto anche stile 1925), è stato un fenomeno del gusto che interessò sostanzialmente il periodo fra il 1919 e il 1930 in Europa, mentre in America, in particolare negli Stati Uniti, si prolungò fino al 1940: riguardò le arti decorative, le arti visive, l'architettura e la moda.[1]
L'Expo parigina del 1925 vide trionfare, fra i molti espositori stranieri, la speciale raffinatezza francese in varie categorie merceologiche, dall'ebanisteria agli accessori di moda: Parigi restava il centro internazionale del buon gusto anche negli anni critici seguiti alla prima guerra mondiale. Ma l'Art déco non nasceva con l'Esposizione, che fu semmai una sorta di rutilante rassegna di un fenomeno nella fase della sua tarda maturità, scaturito nella stessa Parigi intorno al 1910 per opera di Paul Poiret, stilista dai molteplici interessi, rivolti alla completa riforma estetica dell'ambiente esistenziale moderno. Oltreoceano, gli Stati Uniti d'America aderirono più lentamente al déco, raccogliendone in un certo senso il testimone verso gli anni trenta, con il caratteristico gusto per un modellato aerodinamico del cosiddetto Streamlining Modern, di cui furono artefici principalmente i designer Raymond Loewy, Henry Dreyfuss e Walter Dorwin Teague.
Parigi rimase in ogni caso il centro maggiore del design Art déco, con il mobilio di Jacques-Émile Ruhlmann che rinnovava i fasti dell'ebanisteria parigina fra rococò e stile Impero, con l'azienda di Süe et Mare, con i pannelli e i mobili modernistici di Eileen Gray, con il ferro battuto di Edgar Brandt e gli oggetti in metallo e le lacche di Jean Dunand, con i lavori in vetro di René Lalique e Maurice Marinot, con gli orologi e la gioielleria di Cartier, con i manifesti di Cassandre e Sepo.
Il termine "Art Deco" non ebbe un ampio uso fino a che quel gusto non fu rivalutato negli anni sessanta.
Varie e disparate le principali fonti di tale stile eclettico:
Le prime opere della Wiener Werkstätte, fondata nel 1903, e soprattutto quelle di astratto geometrismo del principale esponente, Josef Hoffmann;
Le arti "primitive", come quella africana, o antiche come l'egizia o l'azteca;
La scultura e i vasi dell'antica Grecia, dei periodi geometrico e arcaico;
Le ziggurat;
Gli scenari e i costumi di Léon Bakst per i Balletti russi di Djagilev;
Le forme cristalline e sfaccettate del cubismo e del futurismo;
Le stridenti gamme dei colori del fauvismo;
Le forme severe del neoclassicismo: Boullée, Schinkel;
Motivi e forme di animali, il fogliame tropicale, i cristalli, i motivi solari e i getti d'acqua;
Forme femminili "moderne", agili e atletiche;
Tecnologia da "macchina del tempo" come la radio e i grattacieli;
Innovazioni tecnologiche in campo automobilistico e aerodinamico;
Industria della moda;
Tutto ciò che riguarda il jazz (Periodo: Hot Jazz e Swing).
Oltre a queste influenze l'Art déco è caratterizzata dall'uso di materiali come l'alluminio, l'acciaio inossidabile, lacca, legno intarsiato, pelle di squalo o di zebra. L'uso massiccio di forme a zigzag o a scacchi, e curve vaste (diverse da quelle sinuose dell'Art Nouveau), motivi a 'V' e a raggi solari. Alcuni di questi motivi erano usati per opere molto diverse fra loro, come ad esempio i motivi a forma di raggi solari: furono utilizzati per delle scarpe da donna, griglie per termosifoni, l'auditorium del Radio City Music Hall e la guglia del Chrysler Building. L'Art déco fu uno stile sintetico, e al tempo stesso volumetricamente, aerodinamico, turgido e opulento, probabilmente in reazione all'austerità imposta dagli anni della prima guerra mondiale e della conseguente crisi economica.
Fu peraltro uno stile molto popolare per gli interni dei cinematografi, e dei transatlantici come l'Île de France e il Normandie.
Alcuni storici considerano l'art deco come una forma popolare e alternativa del modernismo [senza fonte], oppure del Movimento Moderno, in architettura. Di fatto, il razionalismo italiano utilizzò alcuni elementi di questa espressione artistica frammisti a strutture razionali, soprattutto nelle nuove città costruite durante il regime fascista - in Italia e ancor di più nelle colonie (Dodecaneso, Libia, Eritrea, Etiopia) - dove riagganci alla tradizione locale e un certo gusto dell'esotico ne furono il filo conduttore. Come esempi più significativi potremmo citare diversi palazzi di Rodi, che ne portano i segni più evidenti, mentre in città di nuova fondazione ma essenzialmente razionaliste, come Portolago, nell'isola greca di Lero, o Sabaudia in Italia se ne leggono solo accenni in alcuni edifici.
L'art deco cominciò a perdere lentamente campo in Occidente una volta raggiunta la produzione di massa. Cominciò a essere derisa perché si riteneva che fosse kitsch e che presentasse un'immagine falsa del lusso. Alla fine questo stile fu stroncato dall'austerità della seconda guerra mondiale. In stati coloniali, come l'India, divenne il punto di partenza del modernismo e continuò a essere usato fino agli anni sessanta.
Vi fu un nuovo interesse per l'Art Deco negli anni ottanta, grazie al design grafico di quel periodo, dove la sua associazione ai film noir e alla moda degli anni trenta portò al suo uso nella pubblicità per la moda e la gioielleria.
L'“Art Déco Historic Districts” a Miami Beach, in Florida, è il luogo con la più alta concentrazione al mondo di architettura Art déco. Dalla Ocean Drive alla Collins Avenue, da Lincoln Rd. a Espanola Way, si possono ammirare hotel, appartamenti e altri edifici in questo stile costruiti tra 1923 e 1943.[2] In particolar modo, il frequente utilizzo di elementi tropicali all'interno delle decorazioni (come fenicotteri, palme e fiori), dei motivi nautici e delle tonalità pastello (come il giallo, il celeste, il lilla e il rosa) ha comunemente ribattezzato questo movimento, nel caso di Miami, Tropical Art Déco.
Traduzione dalla pagina in inglese di Wikipedia:
Nuovi materiali e tecnologie, in particolare il cemento armato, furono fondamentali per lo sviluppo e l'aspetto dell'Art Déco. La prima casa in cemento armato fu costruita nel 1853 nella periferia di Parigi da François Coignet. Nel 1877 Joseph Monier introdusse l'idea di rinforzare il cemento armato con una rete di tondini di ferro disposti a griglia. Nel 1893, Auguste Perret costruì il primo garage in cemento armato a Parigi, poi un condominio, una casa e, nel 1913, il Théâtre des Champs-Élysées. Il teatro fu definito da un critico lo "Zeppelin di Avenue Montaigne", una presunta influenza germanica, copiata dalla Secessione viennese. Da allora in poi, la maggior parte degli edifici Art Déco fu realizzata in cemento armato, che consentiva una maggiore libertà formale e riduceva la necessità di rinforzi per pilastri e colonne. Perret fu anche un pioniere nel rivestire il cemento armato con piastrelle di ceramica, sia a scopo protettivo che decorativo. L'architetto Le Corbusier apprese per la prima volta gli usi del cemento armato lavorando come disegnatore nello studio di Perret.
Altre nuove tecnologie importanti per l'Art Déco furono i nuovi metodi di produzione del vetro piano, che era meno costoso e consentiva finestre molto più grandi e resistenti, e per la produzione in serie dell'alluminio, che fu utilizzato per edifici e telai di finestre e in seguito, da Corbusier, Warren McArthur e altri, per mobili leggeri.
Alcune foto, fatte in occasione di una visita a Casa Bonazza nell'ambito dei Palazzi Aperti, 6 settembre 2025. Casa Bonazza è l'unico altro esempio di Gesamtkunstwerk a Trento.
Sulla strada che dalla Chiesa di Povo scende a Villa Gherta a Pantè di Povo in Via della Cascata 6 si trova un'edicola con la copia di una statua di San Giovanni Nepomuceno, dovuta a Antonio Giongo. L'originale, che era stato oggetto di vandalismi, è custodito a Torre Vanga.
[Ringrazio Roberto Pancheri, che come si evince dalla bibliografia qui sotto riportata ha studiato approfonditamente quest'opera, per avermela indicata e per avermi fornito il materiale qui di seguito riportato]
Testo di Luciana Giacomelli e Alberto Groff
ANTONIO GIONGO (LAVARONE 1730 CA. TRENTO 1798)
San Giovanni Nepomuceno
cm 197
1778
in basso, a destra: "ANT, GIONGO FACIEBAT"
dall'edicola di Pantè di Povo in Via della Cascata 6
donazione, determinazione n. 415 del 19 dicembre 2012
inv. n. 544691
La scultura, esposta nella nicchia di un'edicola stradale oggetto di recenti atti vandalici, è stata donata alla Provincia autonoma di Trento dal suo proprietario per assicurarla alla pubblica fruizione e preservarla da ulteriore degrado, e sostituita da una copia in vetroresina che è stata collocata nel luogo originario. Essa è databile al 1778, anno in cui è menzionata in un documento nel quale si registra la concessione di un'indulgenza di quaranta giorni all'edicola votiva che la accoglieva a Pantè di Povo. Fu commissionata dal barone Andrea Federico da Messina, capitano imperiale a Rovereto e vicecapitano della città di Trento, il cui stemma a rilievo è posto sul basamento della scultura.
L'edicola con la copia [ho rimosso la grata antistante con Google Gemini]
La scelta di raffigurare san Giovanni Nepomuceno, riconoscibile dall'abbigliamento canonicale [inclusa la berretta da canonico nella mano destra] e dal Crocifisso stretto al petto [e dalla corona a cinque stelle, a rappresentare la parola TACUI, cioè non violai il segreto confessionale], non è casuale, considerato che la contigua strada porta nella direzione della cascata di Ponte Alto. Il santo, infatti, nato in Boemia e divenuto vicario generale dell'arcivescovo praghese Giovanni di Jenštejn durante il regno di Venceslao IV, per ordine di quest'ultimo, essendosi opposto a un grave atto di ingerenza negli affari ecclesiastici, venne torturato e infine gettato nel fiume Moldava nella notte tra il 20 e il 21 marzo 1393. Canonizzato nel 1729 da papa Benedetto XIII, divenne oggetto di devozione come protettore contro gli annegamenti e le inondazioni, nonché santo collegato all'inviolabilità del segreto della confessione sacramentale, dal momento che, secondo una tradizione agiografica parallela alla prima, egli si era rifiutato di svelare quanto confessatogli dalla regina Giovanna di Baviera, moglie del re Venceslao. Nel corso del XVIII il suo culto si diffuse in tutta Europa e le sculture che lo ritraggono trovano posto privilegiato in prossimità di ponti o di guado di corsi d'acqua, come nel caso delle pregevoli statue settecentesche di S. Michele all'Adige, di Riva del Garda, di Isera, oltre che di quella che orna la fontanella di via S. Marco di Trento, strada solitamente interessata nei secoli scorsi da distruttive esondazioni, mentre proprio a ridosso della canonizzazione del santo venne eretta nel 1732 la chiesetta a lui dedicata nella frazione di Peniola, presso Moena, decorata con propri dipinti su tela dallo stesso pio committente, il pittore Martino Gabrielli.
L'originale a Torre Vanga (foto tratta dall'articolo, ripulita sullo sfondo da Google Gemini)
Scomparsa la prima opera documentata di Antonio Giongo, ossia una fontana realizzata per la comunità di Salorno (1776), la statua di san Giovanni Nepomuceno, unica tra le opere conosciute dell'artista ad essere firmata, costituisce una tappa importante all'interno della produzione di Antonio Giongo, la cui ricostruzione biografica e critica dobbiamo agli studi di Roberto Pancheri che ne ha definitivamente circostanziato l'attività a lungo confusa con quella del più noto Francesco Antonio (2003 e 2005). In questa occasione l'artista, che dovette essere praticamente un autodidatta, dimostra di saper ben lavorare la pietra nella resa dei panneggi, così come si dimostra abile scultore nella fattura del Crocifisso abbracciato dal santo, forse l'episodio meglio riuscito dell'intera composizione.
Il volto appare irrigidito e piuttosto stereotipato nei lineamenti, la cui esecuzione ha caratteri che definiscono tutte le sue opere dal busto di Giovanni Filippo Crosina de Manburg in S. Bernardino a Trento (1762 post quem) a quello di papa Pio VI nel presbiterio di S. Maria Maggiore (1785), ai profili di Pietro Vigilio Thun e di Pio VI per Palazzo Tabarelli de Fatis a Trento (1791-1792) fino a quelli, in gesso, della sala consiliare del vecchio municipio cittadino della metà degli anni Novanta, riproposizione in chiave neocinquecentesca di ritratti di papi e imperatori (N. Artini, Antonio Giongo: le commissioni consolari e l'intervento a palazzo Tabarelli a Trento (1780 1796), in I Giongo di Lavarone: botteghe e cantieri del Settecento in Trentino, Atti del Convegno di studi (Lavarone, 1 ottobre 2004) a cura di M. Bertoldi - L. Giacomelli R. Pancheri, Trento 2005 ["Beni Artistici e Storici. Quaderni", 10], pp. 140-153).
Proprio in quest'ultimo cantiere, le esili e raffinate candelabre, i fregi vegetali, le ghirlande in stucco mostrano come il linguaggio dell'artista si esprimesse al meglio, e nei modi più aggiornati, nel campo della decorazione dove emerge la sua capacità nella resa dei dettagli di cui aveva già dato prova scolpendo il piccolo Crocifisso del san Giovanni Nepomuceno donato alla comunità trentina.
Bibliografia:
R. Pancheri, Antonio Giongo, in Scultura in Trentino. Il Seicento e il Settecento a cura di A. Bacchi - L. Giacomelli, Trento 2003, II, pp. 148-151;
R. Pancheri, Antonio Giongo "egregio scultore in Trento" (con notizie sul pittore Antonio Pomarolli), in I Giongo di Lavarone: botteghe e cantieri del Settecento in Trentino, Atti del Convegno di studi (Lavarone, 1 ottobre 2004) a cura di M. Bertoldi - L. Giacomelli - R. Pancheri, Trento 2005 ("Beni Artistici e Storici Quaderni", 10), pp. 126-139.
Intervento di restauro a cura della Soprintendenza per i Beni Storico-artistici, librari e archivistici:
direttore lavori L. Dal Prà
restauro di Francesco e Tiziano Nerobutto, 2013.
[Antonio Giongo è famoso soprattutto per il suo contributo alla Fontana del Nettuno a Piazza Duomo a Trento, realizzata fra il 1767 e il 1769.]
Testo tratto dall'articolo sul sito della Cooperativa SAD (società di assistenza domiciliare) dedicato alla storia della Villa O'Santissima
Le testimonianze attestano che la zona collinare della città fu abitata sin dall’antichità, con i suoi territori vocati alla coltivazione che da sempre furono aree di produzione per i contadini della zona. Con l’avvento del Rinascimento, la borghesia iniziò a guardare alla campagna come luogo di svago e ristoro iniziando così il fenomeno della villeggiatura; un modo, inoltre, per affermare la propria ascesa sociale.
Nella maggior parte dei casi i masi esistenti venivano ridefiniti per ospitare la borghesia, in questo modo la semplicità esterna si contrapponeva all’elaborazione degli spazi interni caratterizzati da decorazioni dipinte, stucchi, imponenti caminetti e vasti saloni. La Villa era posta in posizione isolata e caratterizzata dalla presenza di un viale di accesso spesso delimitato da piante o alberi. Tutt’intorno all’edificio si sviluppava il giardino arricchito da vialetti, statue fontane, laghetti, mentre al di fuori del parco della casa erano posti i terreni coltivati.
Le origini della Residenza O’Santissima, il cui nome era Maso Magor o Malgor, non sono certe ma dalle documentazioni d’archivio è possibile ripercorrere brevemente la sua storia attraverso alcuni momenti principali che riassumiamo nel percorso storico riportato qui di seguito.
Dai documenti d’archivio emerge che dal 1610 al 1859 la proprietà del terreno – sul quale già si attesta la presenza del Maso – era della famiglia Roveretti, che nel 1683 fece costruire la chiesa della Beata Vergine Maria. L’epoca della famiglia Roveretti come proprietaria della villa termina l’11 febbraio 1859, quando Giuseppe Rossi ne subentra come nuovo possidente fino all’anno 1895. Durante questo periodo avvenne la costruzione della ferrovia della Valsugana il cui progetto prevedeva il passaggio nelle vicinanze della villa, per questo motivo nel 1894 vennero espropriate alcune particelle fondiarie.
Il 25 gennaio 1895 la proprietà fu acquistata da Giuseppe Garbari, possidente e commerciante in manifatture ed esperto di botanica. Questa sua passione lo portò ad introdurre nel giardino della villa specie vegetali rare ed esotiche, e a fare richiesta nel 1896, del diritto d’acqua per la realizzazione di un acquedotto che portasse l’acqua dalla sorgente alla villa.
Il 5 novembre 1913 la proprietà venne venduta al conte Gustavo Sizzo de Noris fu Enrico, e a sua moglie, la contessa Elena Sizzo de Noris. Successivamente, il 18 maggio 1920, ne divenne nuovo proprietario Giovanni Zelgher fu Antonio, e per questo motivo la villa verrà chiamata, in seguito, “Villa Zelgher”.
Il 5 dicembre 1939 la villa e il suo parco furono acquistati dalla principessa Teresa di Sassonia e il marito Lamoral Taxis Bordogna Valnigra che ne rimasero i proprietari fino all’ottobre del 1954, anno in cui subentrò l’Istituto di religione Suore Figlie della Chiesa che, negli anni, frazionò l’intera proprietà e parte di essa fu venduta. Durante questi anni, inoltre, vengono realizzati lavori di ampliamento che prevedono la costruzione di due fabbricati nei quali si inseriscono tre sale riunioni, tre sale da pranzo, tre reparti di stanze da letto ed altre sale riunioni ed incontri, terrazze e chiesa.
Nel 1982 una consistente parte del Parco “Garbari” viene venduto al Comune di Trento al fine di sistemarlo e aprirlo al pubblico. Nel 1984, l’Istituto Suore Figlie della Chiesa cede il complesso alla Fondazione diocesana “O’Santissima” con l’intenzione di utilizzare la proprietà come Centro Pastorale di accoglienza.
Nel 2000 la villa venne utilizzata per ospitare temporaneamente gli anziani della casa di riposo di Povo, in attesa della costruzione del nuovo edificio. Nel 2006 la villa fu chiusa definitivamente, portando ad un periodo di degrado in cui l’edificio venne rovinato da vandali e tossicodipendenti che lo utilizzavano come dormitorio.
Nel 2015 la cooperativa SAD acquista il compendio con l’obiettivo di realizzare un nuovo modello di welfare generativo e riqualificare il quartiere attraverso l’offerta di servizi innovativi. Nel 2018 il Comune di Trento dichiara di pubblico interesse i lavori di recupero e di ampliamento progettati dalla cooperativa e nel 2021 iniziano i lavori di restauro e ricostruzione.
Testi dall'articolo di Wikipedia. Foto (dalla mostra Klimt e l'Arte Italiana tenuta al Mart dal 16 marzo al 27 agosto 2023) e dritte di Paola Dorigatti.
Galileo Andrea Maria Chini (Firenze, 2 dicembre 1873 – Firenze, 23 agosto 1956) è stato un pittore, decoratore, grafico e ceramista italiano, tra i protagonisti dello stile Liberty in Italia[1].
Galileo Chini nacque a Firenze da Elio, sarto e suonatore dilettante di flicorno, e da Aristea Bastiani. Dopo la morte del padre, si iscrisse alla Scuola d'Arte di Santa Croce, a Firenze, dove frequentò i corsi di decorazione. Iniziò a lavorare nella fabbrica di prodotti chimici Pegna, successivamente fu apprendista decoratore nell'impresa di restauri dello zio paterno Dario (1847-1897). Proseguì nell'attività di apprendista fino al 1895 frequentando, oltre l'azienda dello zio, le botteghe di Amedeo Buontempo e Augusto Burchi, entrambi pittori attivi in quegli anni a Firenze.
Dal 1895 al 1897 frequentò saltuariamente la Scuola Libera di Nudo all'Accademia di belle arti di Firenze senza conseguire alcun diploma, e considerandosi sempre al culmine della sua formazione un autodidatta totale. In questo stesso periodo conobbe a Volterra la giovane Elvira Pescetti che diventò sua moglie.
A Firenze nel 1896 fondò la manifattura "Arte della Ceramica" insieme a Giovanni Vannuzzi, Giovanni Montelatici, Vittorio Emanuele Giunti, Vincenzo Giustiniani, cui successivamente, dal 1902, si aggiunse il collezionista d'arte Giuseppe Gatti Casazza. [...]
Tra il 1896 e il 1897 Galileo Chini, sensibile ai problemi dell'arte decorativa, assieme ad altri amici decide di creare una manifattura di ceramiche.'L'idea era nata per caso al “Caffè Nacci” in piazza Beccaria a Firenze, cercando di rilevare un'antica fabbrica di ceramica fiorentina.
Egli voleva creare una manifattura della ceramica con nuovi intendimenti artistici, legati all'Art Nouveau, per trasformare i nostri artisti in artigiani e i nostri artigiani in artisti, come ritenuto da (Walter Crane), concetto, che era quanto mai aderente al temperamento e agli ideali artistici di Chini. All'epoca del Liberty occorreva assimilare a questo stile tutto, anche il soprammobile, il vaso o il piatto. Osservando come attraverso un caleidoscopio i nuovi ritrovati, come i vetri opalescenti “clair de lune” di Gallè o i vetri iridati a riflessi metallici “Favrile glass”, di Tiffany & Co., Chini crea con effetti simili, gli smalti delle sue ceramiche. Piante, fiori, animali e figure umane si piegano sulle superfici curve dei suoi vasi, come per abbracciarli.
Con la diffusione dell'Art Nouveau in Europa Galileo Chini si orienta verso la nuova forma d'arte, riuscendo a inserirsi nelle moderne tendenze del gusto con conoscenza del materiale e intelligente apertura a nuove esperienze. Richiama in questo modo anche l'attenzione del pittore milanese Luigi Tazzini, direttore artistico della fabbrica di ceramiche Richard-Ginori (nata dall'acquisizione della Porcellana Ginori a Doccia presso Firenze), che apprezzerà i suoi manufatti.
La piccola fabbrica di ceramiche creata dal gruppo fiorentino, chiamata “Arte della Ceramica”, ebbe la sua prima sede in due piccole stanze in Via del Ghirlandaio. Nel 1898, ottenne una medaglia d'oro, presentandosi alla Prima Esposizione d'Arte Decorativa di Torino, sfidando anche fabbriche più note e più antiche.
Gli artisti scelsero come simbolo di fabbrica la “Melagrana”, come a racchiudere molti artisti in un frutto colorato e fecondo.
Presto sarà Galileo Chini a dirigere la manifattura, destinata a trionfare in un crescendo di successi e di commissioni. Siamo agli esordi della Mostra di Parigi, è il 1900 e l'Arte della Ceramica è in febbrile attesa di poter competere a fianco delle grandi case d'Europa e del mondo.
Il gruppo fiorentino è premiato, e ottiene riconoscimenti inaspettati e un successo che si ripeterà l'anno seguente a Pietroburgo in una mostra voluta dalla zarina Alessandra. Le ceramiche della manifattura fiorentina ebbero larga diffusione, sfondando nei mercati europei e perfino negli Stati Uniti dove erano molto ricercate presso Tiffany a New York.
Nell'ultimo decennio dell'Ottocento la manifattura produceva principalmente vasi e piatti, nel catalogo descrittivo stampato nel 1898, poco dopo l'Esposizione di Torino, all'elenco dei pezzi riportati, compaiano solo una piastrella e una borchia decorativa.
All'attività della ceramica, Galileo Chini alternava quella di affreschista e restauratore a capo dell'impresa dello zio, usando le maioliche come elemento decorativo degli interni ed esterni di grandi palazzi o negozi, un esempio da ammirare è il caffè Margherita, ma anche molti altri edifici sull'omonimo Viale Regina Margherita a Viareggio (LU). Chini diviene ideatore inesauribile di nuove forme, abile e originale decoratore, ricercando sempre nuove combinazioni per ottenere materia duttile e resistente.
All'inizio del secolo, si ha una più vasta produzione di tali materiali, come testimoniano alcune immagini dell'esposizione di Torino data 1902, cui la manifattura partecipò presentando una sala da bagno interamente rivestita di piastrelle con quattro bassorilievi in grès. Essi rappresentano tra riccioli e motivi floreali: le sagome di due eleganti cigni, pavoni resi scintillanti da colori metallici che ricordano le sete orientali, salamandre e rettili.
La fabbrica tra il 1906 e il 1944 si sposta a borgo San Lorenzo nel Mugello e prende il nome di “Fornaci San Lorenzo”, aumentando la produzione di esemplari destinati ai rivestimenti edilizi e dell'ebanisteria, oltre alla produzione di rosoni, listelli, colonne, capitelli e teste di leone.
Gli schemi decorativi prodotti con più frequenza in questo periodo sono tratti dall'arte classica, come ad esempio: putti, ghirlande, festoni o pannelli con composizioni geometriche d'influenza klimtiane come spirali, cerchietti e triangoli oppure motivi floreali stilizzati (l'arte Klimtiana è la tipica arte siamese, con decorazioni in serie di putti, girali botanici, disegni astrali con altri simboli e fregi tipici del Siam).
Al tempo l'architetto Giovanni Michelazzi stava cercando con la sua architettura di contrastare la pressante ingerenza dei modelli neo rinascimentali, introdotti dall'architetto Poggi, da questi presupposti nasce la collaborazione con Galileo Chini che riesce ad integrare i due stili.
Vaso a lustro dorato con occhi di pavone e ghiera metallica (1900-1904), majolica policroma