La morte non è niente. Non conta.
Io me ne sono solo andato nella stanza accanto.
Non è successo nulla.
Tutto resta esattamente come era.
Io sono io e tu sei tu
e la vita passata che abbiamo vissuto così bene insieme è immutata, intatta.
Quello che eravamo prima l'uno per l'altro lo siamo ancora.
Chiamami con il vecchio nome familiare.
Parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato.
Non cambiare tono di voce,
Non assumere un'aria solenne o triste.
Continua a ridere di quello che ci faceva ridere,
di quelle piccole cose che tanto ci piacevano quando eravamo insieme.
Sorridi, pensa a me e prega per me.
Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima.
Pronuncialo senza la minima traccia d'ombra o di tristezza.
La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto.
È la stessa di prima,
C'è una continuità che non si spezza.
Cos'è questa morte se non un incidente insignificante?
Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri solo perché sono fuori dalla tua vista?
Non sono lontano, sono dall'altra parte, proprio dietro l'angolo.
Va tutto bene; nulla è perduto.
Un breve istante e tutto sarà come prima.
E come rideremo dei problemi della separazione quando ci incontreremo di nuovo!
(H.S. Holland)
Mio caro Carlo,
sai bene che non avrei mai voluto scrivere questa lettera, ci hai lasciato così presto, non dovevi farlo, e in questa dannata situazione non abbiamo potuto nemmeno salutarti.
E ho pensato di partire con questa poesia, che credo fotografi la situazione. Sono certo che la conosci e che potresti parlarmi del suo autore. In tanti anni non c’è stato argomento di conversazione, rugby a parte, in cui tu non ne sapessi più di me, eppure non me lo hai mai fatto pesare...
Allora eccoci qui, a parlare di come ci siamo conosciuti e di come sei entrato, piano piano e con gentilezza, nella mia vita e in quella di Patrizia e dei miei figli. Ah, anche dei nipoti. Giocavi con Clementina, tirandole la palla quando eravamo al magazzino di Populonia, e ridevate insieme ricordi? Quella volta siamo riusciti a portarti al mare, impresa titanica invero, come ben sa chi ha avuto il privilegio di conoscerti anche nella tua vita privata.
Ci siamo conosciuti poco dopo il tuo arrivo a Firenze, mi pare fosse il 94’ e tu, appena arrivato, sei stato precettato da Pucci per fare il Direttore. Io mi sono offerto di aiutarti, e ho cercato di importi la mia presenza. Fa parte del mio carattere, lo sai bene, ma tu mi hai accettato. A volte sono invadente, spesso anche troppo, e per qualche strana alchimia tutte le persone a me più care sono l’esatto contrario di me. Così, in poco tempo, sei entrato a far parte della mia famiglia. Quante volte abbiamo passato il Natale, l’ultimo dell’anno e Pasqua insieme, specialmente quando ancora non avevi formato il gruppo degli algebristi che hai sempre guidato in modo discreto. E in molte di queste occasioni ti ho prestato una giacca, quella grigia che ti sta benissimo, e che indossavi solo per farmi piacere. La stessa giacca te l’ho prestata in certe occasioni istituzionali, ma è una cosa nostra, ed è giusto mantenere un dignitoso riserbo.
C’eri al matrimonio di Giovanni ed a quello di Caterina, non potevi certo mancare, e anche in quelle occasioni mi pare che la giacca fosse una delle mie.
Quando era ancora in Italia, Caterina cantava in un coro a cappella. Io trovavo sempre una scusa per non andare a sentirla, ed una volta che non mi sono potuto chiamare fuori ti ho chiamato come sostegno morale. Credo fosse una chiesa a Scandicci, o forse a Quaracchi, non ricordo bene, sono passati circa dieci anni, e forse tu mi puoi aiutare a farlo. Ma ricordo bene che alla fine ti ho chiesto se ti era piaciuto.
- Sì, ma il soprano andava troppo sopra gli altri -
Figurati se potevo capirlo, ma sotto sotto ho pensato che non potevi capirlo nemmeno tu.
- allora, Caterina, come è andata? –
-Zitto, babbo, il soprano andava troppo sopra, fa sempre così... –
Io al posto tuo avrei gonfiato il petto e detto: - Visto? Ve l’avevo detto! -. Tu ti sei limitato ad abbassare lo sguardo, sei fatto così.
Quante cose abbiamo condiviso! Ricordo ancora di quando ti ho portato al campo di rugby, il mitico Padovani, e tu mi guardavi con aria divertita mentre pretendevo che anche tu accarezzassi l’erba..
E i disegni che mi hai regalato, con la firma degli “algebristi anonimi” ? Li conservo tutti, lo sai bene, perché provavo un sottile piacere ad essere preso in giro da te, Francesco ed Orazio. E i tuoi scritti? Nell’ultimo, quello che non hai mai voluto finire, ad un certo punto parli della morte del capitano Willars. Il commento, micidiale, è stato : -almeno ha smesso di parlarci di rugby...- Cito a memoria, perché il manoscritto è nel mio studio al Dini e chissà quando potrò rileggerlo.
Per non parlare dei soprusi che avete fatto al mio omino di ferro, alcuni così turpi che credo sia bene stendere un velo pietoso.
Ti confesso una cosa, che sono certo hai capito da tempo.
In fondo, voi algebristi, io vi ho sempre invidiato!
La mia matematica è adatta a descrivere il mondo che ci circonda. Al corso di EDO ho trattato pure il modello SIR, così drammaticamente attuale, e di questo abbiamo discusso, l’ultima volta che ci siamo visti di persona, quando ancora potevamo andare al Dini. Per questo ho sempre mostrato “disprezzo” per l’algebra, ma sai che non è vero, e lo sanno anche Francesco, Orazio ed ora anche Eugenio, che il mio corso lo ha pure seguito. Io con le equazioni differenziali posso cercare di descrivere quello che ci circonda, voi invece siete al piano di sopra, ed io non sono mai riuscito a salirvi.
Per me era appunto, “algebra”, ma questo, per favore, tienitelo per te.
Una sera, a cena, mi avete fatto pure un esame, sono certo che il ricordo ti fa ancora sorridere.
La commissione , rigorosamente di tre persone, era presieduta da te, con a latere Francesco ed Orazio. -ci parli del teorema di Lagrange- Questa era la domanda che mi avete fatto con aria innocente e melliflua.
- Lo so! E che ci vuole? Sia f una funzione continua nell’intervallo chiuso AB e derivabile nell’aperto, allora... –
-No guardi, io intendevo quello importante, quello del corso di algebra-
- Proprio, non lo ricordo. E poi, quello importante è quello del corso di analisi. Un aiutino? - -le classi laterali le dicono nulla?-
- E’ passato troppo tempo, ma, giuro, lo sapevo. O almeno lo sapevo quando me lo ha insegnato lo Zappa - Tu ti sei rivolto ai due compari, dicendo che il candidato non era preparato, ed ho dovuto recitare un mea culpa...
Ma forse ti sto annoiando, scusami, e tante sono le cose di cui ti vorrei ancora parlare. Alcune sono troppo intime, e ce le teniamo per noi.
Per gli studenti sei sempre stato un mito, ed io ho seguito una sola delle tue lezioni, ovviamente non di algebra, non ci avrei capito nulla. Eravamo una notte al Dini. Prima ho parlato io, mi pare di un modello di Volterra-Lotka, poi tu e poi Orazio, credo su un problema di crittografia.
Tu invece hai volato alto, come sempre: Armonia e contrappunto. Nel silenzio generale, tu ci hai portato in quel mondo, per me così lontano. E a un certo punto hai citato un testo in sanscrito.
L’occasione era troppo ghiotta per me, e non ho saputo trattenermi, interrompendo quella magia con una sciocchezza: -Perché tutti voi sapete, che il Professor Casolo conosce anche il sanscrito!-
Il giorno dopo, due studenti del mio corso mi hanno chiesto conferma del fatto che tu sapessi anche il sanscrito. Questo fa capire quanto ti stimino.
Ma forse il sanscrito lo sai per davvero, Carlo. Per favore, prima o poi me lo dovrai dire...
Con l’affetto di sempre
Gabriele Villari, 7 Aprile 2020