Caro Nando,
mi rendo conto nello scrivere queste righe di non potermi liberare anche io dall’impaccio dell’onomastica. Non è solo per la familiarità, quasi letterale, dei nostri rapporti, come di altri amici, che sei sempre stato un gerundio con funzione di nome. Qualcosa che avvicina quella persona mentre si sta allontanando con te in qualche altrove: un esercizio dell’immaginazione, una “chiacchierata” chilometrica, Nando, appunto.
Al funerale, usciti dalla chiesa, ho scherzato con Eugenio Barba. “Vabbè - gli ho detto- non ci può abbracciare, però possiamo prenderci a pugni”. Ci siamo salutati mimando qualche colpo: un “gerundio affettivo” per te che non te ne eri andato, ma eri solamente morto. Le “finte”, invece, erano reali: avresti apprezzato la scenetta che scongiurava i musi lunghi e le fitte al cuore.
E prima, durante la messa, sai a cosa mi è capitato di pensare? Ad Achille Campanile. A quello che avevi scritto su di lui. E poiché quel pensiero mi era tornato con insistenza alla mente, arrivato a casa, ho ripreso in mano il libro (Uomini di scena, uomini di libro nella edizione accresciuta che io e Raimondo Guarino ti avevamo proposto per la collana Officina dei teatri, anno 2010)
L’ultimo capitolo, La scena sulla coscienza, dopo aver scritto di Pasolini, Macchia e Garboli, lo concludevi con uno saggio, appunto, su Campanile. Scrivevi di come il suo teatro brevissimo rispettasse le regole di una tradizione che non esiste e dunque uno se lo doveva immaginare su una scena invasa da un gruppo di «clowns-kabuki». Ecco, se di colpo fossero entrati in quella chiesa uggiosa e sconsolata, dove Dio se l’era data a gambe, e Cristo, convocato per l’eucarestia, ce lo possiamo figurare con l’aria afflitta di chi attende l’arrivo di un autobus romano, avrebbero potuto incarnare, come meglio non si sarebbe potuto, «l’allegoria di un congedo». Sono sempre parole tue, con le quali annunciavi al lettore perché quel pezzo su Campanile l’avevi posto a conclusione di quel volume.
L’ «allegoria di un congedo», che sarebbe anche un bel titolo per molti dei tuoi scritti, è una fuga sul posto, un modo per mandare a vuoto l’autobiografia per cederne l’incarico alla persona. E rileggendo quelle pagine mi sono reso conto di come vi avessi preso gusto a lasciarvi una tua araldica personale.
E dunque rivediamo cosa intendevi per La scena sulla coscienza:
«Se dovessimo parlare in termini artigianali, o metodologici, potremmo dire che è una lotta contro l’irrefrenabile tendenza dell’azione teatrale a trasformarsi in “opera” (letteraria, spettacolare o ideologica). Tenersi la scena sulla coscienza, infatti, vuol dire lasciarla allo stato fluido, impedirle di trasformarsi in qualcosa che possa essere contemplato e basta.“
A me pare chiaro che il tuo “studiare teatro” equivalesse propriamente ad un’azione teatrale che lottava anch’essa contro l’irrefrenabile tendenza a cadere nel libro, nel saggio. Da qui quell’arte tua propria della accanita divagazione per tener d’occhio il rischio di accostarti troppo all’argomento mentre, intanto, danzavi sul tema. L’argomento poi sarebbe saltato fuori con una capriola improvvisa, inaspettata, vestito a nuovo, anche con una cert’aria da “chi la fa, l’aspetti”.
Dove avessi imparato ad esercitare quell’arte me la figuro legata alla militanza nel tuo altrove d’elezione, gli studi nel Seicento: dai tempi de La fascinazione del teatro, alla cosiddetta commedia dell’arte, Isabella Andreini, e poi Tasso, e via via in tutte quelle volte che ci sei tornato su.
Cosa ci sei andato a fare lì così spesso? L’hai suggerito tu stesso, ma per interposte persone.
Credo che nella nostra cultura Cesare Garboli sia una figura speculare a Carlo Ginzburg. Nessuno, come quest’ultimo, ha saputo comprendere altrettanto profondamente l’affinità elettiva fra microstoria - che sennò resta accademica curiositas - e ricerca dell’autore su di sé, il proprio tempo e la propria persona. Benché nella scrittura rovesci il percorso, nel vissuto Garboli non parte dalla storia, ma vi approda, come per una liberazione. Riscrive ogni volta la dialettica che fonda la vocazione dello storico - quando c’è. Per lui la storia è ben lontana dall’essere una «maestra». È la sua arcadia, la sua terra migliore? Migliore, si intende, solo perché in essa ferocia e porcherie sono comprensibili, o si può onorevolmente darsi da fare come se le si comprendesse? Comunque sia, è forse per questo che val la pena di tenersi la scena sulla coscienza.
Nella mappa della cultura italiana Cesare Garboli e Carlo Ginzburg sono stati i tuoi “dirimpettai”, alla maniera del celebre terrazzino di Questi fantasmi dove Eduardo conversava col casigliano di fronte. Lo so bene che questo non te lo saresti lasciato dire, ma approfitto della nuova situazione in cui ora ci troviamo perché lì, nella scena sulla coscienza, hai svolto la tua arte di tenere sempre desta quella persona che chiamiamo Nando: «A nutrirci non sono solo né soprattutto le corrispondenze con il tempo nostro, reale o presunto. Se di finzioni abbiamo bisogno non è tanto per riconoscerci, ma per conoscere. Per staccarci».
E allora, concludo ancora con parole tue:
«Niente è contemporaneo; niente è passato. Noi, di questa potenziale essenza del teatro possiamo solo sentire la mancanza. Gettati sulla nostra sponda dal continuo regredire dei tempi, forse non sappiamo più reggerci diritti sul crinale della sua doppia negazione“.
Tu in piedi su quel crinale ci hai sempre danzato. Per questo, forse, tanto tempo fa, te ne andavi in giro sempre con un bastone, “fingendo” l’allegoria di una vecchiezza senza età o se vuoi, per dirla ancora con quel tuo Campanile, «per la burla d’uno sguardo da vegliardo o d’un cannocchiale infantile» che scopre il mondo alla rovescia.
Novembre 2020
Stefano Geraci
Sei anni fa, in occasione dell’uscita del volume I Cinque Continenti del teatro. Fatti e leggende della cultura materiale dell’attore di Eugenio Barba e Nicola Savarese, la rivista «Teatro e Storia» dedicò un dossier ad una impresa editoriale che aveva avuto una gestazione quasi ventennale. Sul mio contributo, che qui ripubblico con lievi modifiche su invito affettuoso di Vittorio Giudici, Nicola mi scrisse parole commuoventi. L’amico, il compagno di tante avventure e uno dei maestri del mio apprendistato, era lieto che si raccontassero le vicende che avevano dato vita al capostipite di quell’ ultima fatica: Anatomia del teatro. Un dizionario di antropologia teatrale curato da Savarese per la Casa Usher nel 1983. Come è noto, quel volume ebbe una fortuna straordinaria. Rieditato più volte e tradotto in molte lingue negli anni successivi con il titolo L’arte segreta dell’attore. Dizionario di antropologia teatrale, è stata una delle più feconde “invenzioni teatrali” di quegli anni così fervidi di dialoghi tra «uomini di scena e uomini di libro» (Ferdinando Taviani).Senza la irruenta testardaggine, l’audacia dell’esploratore, il sagace sguardo rivolto ai dettagli rivelatori delle immagini, Anatomia del teatro non avrebbe mai visto la luce, e con lui la stirpe che ne è seguita.
Savarese è morto il 19 giugno. Per noi, gli amici di una vita, inizia un nuovo dialogo con Nicola che ci accompagnerà per quel che resta del nostro cammino.
EPPURE È UN LIBRO
STEFANO GERACI
Attraversando I Cinque Continenti del Teatro non sono riuscito ad evitare di domandarmi ogni volta quale genere di libro avessi per le mani.
Voglio dire che il bello, l’utile e anche il dilettevole si mescolano con l’“impertinenza“ di presentarsi proprio come libro, quando, invece, si dichiara, in conclusione, una raccolta «di pagine non finite», oltre le quali gli autori in maschera, Bouvard e Pecuchet, fanno scivolare lentamente, con una mossa esibita beffardamente sotto gli occhi dei lettori, i fogli fuoriusciti dai loro taccuini. Non saprei definire quest’ultimo capitolo se non come l’ultima mano dove si gioca il destino della partita che gli autori hanno condotto fin lì, una “calata“ di immagini di apocalissi atomiche e inutili stragi, di apoteosi filateliche di teatri e drammaturghi, di danze macabre e supplizi.
Un finale di partita annunciato dall’esergo a questo ultimo capitolo dove gli autori dichiarano che nei cinque precedenti hanno tentato di esporre « una sintesi tra Storia e destino individuale su come la Storia lascia un segno sulla tecnica degli attori oltre che sulle loro vite».
Se non si conoscessero gli autori, verrebbe voglia di pensare a due attori che, incoraggiati dalla lontana e straordinaria impresa di Anatomia del teatro. Un dizionario di antropologia teatrale, si trovassero nella condizione di cercarne un seguito.
Due attori rifugiati? Impediti a recitare, reclusi? Espulsi ingiustamente da qualche teatro o compagnia? O disgustati da ciò che hanno intorno: il libro dove «je me débarrasserai enfin de ce qui m’étouffe»? Si capirebbe allora, fino in fondo, il ricorso ai due prestanome di Flaubert, Bouvard e Pecuchet.
Gli stratagemmi sagaci, infatti, con cui il libro «pretende» di essere tale - i dialoghi della coppia flaubertiana premessi ad ogni capitolo e, ancora più, le cinque domande (Who? What ? When Where? Why?) che «ordinano» la materia - fatti e leggende della cultura materiale dell’attore - hanno il piglio, dichiarato in prefazione, dell’ «editor - regista» che a un certo punto sa di dover mettere fine alla turbolenza dei materiali. Se nel processo del lavoro teatrale viene il momento in cui a comandare è lo spettacolo, in questo è il «libro» da fare . Che il libro sia, dunque, senza tuttavia rinunciare, in quell’ultimo capitolo - Pagine cadute dal taccuinio di Bouvard e Pécuchet, a rendere esplicito ciò che pure interroga il lettore nei cinque precedenti : che «genere» di libro sto leggendo ?
Mi sono chiesto allora se per individuarlo non fosse stato opportuno cercare quali libri gli si potrebbero accostare, cosa, insomma, mettergli accanto.
Così sono andato a rileggere il saggio che Savarese ha scritto qualche anno fa, L’Avventura di un dizionario , convinto che ripercorrere i legami tra le due imprese mi avrebbero aiutato a trovare se non stretti compagni, dei parenti affini a I Cinque Continenti.
Il succo di quel saggio potrebbe essere riassunto così.
Un giovane storico, educato allo studio dei contesti, non riesce ad estirpare l’indomabile passione del collezionista, «un coatto delle immagini più varie» che da adulto si specializza in quelle che hanno per «soggetto» il teatro.
Con in mano la vocazione indomabile del collezionista, non è mi stato difficile riandare al ritratto che ne traccia Benjamin: «Colpito dalla frammentarietà e della dispersione in cui versano le cose del mondo», il collezionista intraprende una lotta senza fine di fronte «all’appassionato turbamento di questo spettacolo» .
Per sopire quel turbamento, Savarese, digiuno ancora di Warburg, abbozza schemi di figure che gli paiono del tutto insufficienti. Per fortuna, si direbbe. Se si fosse lasciato persuadere a cercare la storia delle migrazioni e delle metamorfosi delle immagini non sarebbe stato tanto efficace lo «shock» provocato dalla scoperta di quella «scuola dello sguardo», come Savarese definisce l’ISTA ( International School of Theatre Antropology), soprattutto quella delle prime edizioni.
A questo punto del racconto mi sembrava di aver ottenuto una traccia per andare avanti. L’ISTA come un imprevedibile equivalente di Mnemosyne. E poi non era forse capitato più volte, nelle avventure della storia dell’arte, che raccolte e collezioni avessero incontrato «una scuola dello sguardo» generando nuove percezioni? Perché non c’è dubbio che nella prima impresa, Anatomia del teatro, le relazioni tra immagini - Savarese preferisce chiamarle «figure» - e testi scritti sono uno snodo cruciale del libro.
Accertato, dunque, che all’inizio della prima impresa c’è l’incontro di un collezionista, «appassionatamente turbato dallo spettacolo» delle «figure» che raccoglie e una inedita «scuola dello sguardo», potevo fare un passo avanti.
Parafrasando Michael Baxandall, potremo dire che alle «figure» «non si danno spiegazioni: si spiegano le osservazioni fatte su di esse» . Nel nostro caso, attraverso «la scuola dello sguardo», l’osservazione di «una anatomia del vivente in stato di rappresentazione» avrebbe potuto spiegare la relazione tra l’immagine di un attore giapponese con quella di una scultura quattrocentesca. Insomma, le storie di immagini distanti non venivano scoperte attraverso dirette comparazioni, nè interrogando le convenzioni artistiche o simboliche dello sguardo di chi le «figure» le produce.
L’Anatomia dell’attore si proponeva dunque di attrarre l’uno verso l’altro due sguardi separati. Quello distante dello storico, che confronta immagini di epoche diverse, e quello «contemporaneo» del partecipante della «scuola dello sguardo» per cui è impossibile una simile operazione. Il lettore sarebbe stato spinto ad intraprendere un viaggio attraverso la storia e nello stesso tempo a riconoscersi come partecipante- osservatore di quella storia nello stesso momento in cui il viaggio avviene.
Di qui il cruccio che Savarese racconta nelle sue Avventure: quale forma dare ad un libro le cui singole «voci» («mani», piedi», «energia» ecc.) non possono che essere collegate «circolarmente»? Non è possibile - aveva concluso- «fare un libro rotondo».
Che Savarese vi volesse alludere o meno, se un libro rotondo era impossibile, tuttavia «un libro sferico» era stato a lungo inseguito. Mi riferisco naturalmente a Ejzenstejn quando immaginava che tutti i suoi saggi potessero rinviare ad un centro comune così che il destinatario fosse in grado di attraversali simultaneamente, passando dall’uno all’altro, avanti e indietro.
Tralascio di accennare ai fatti e alle circostanze della vicenda del «libro sferico», per osservare solo che la «visione», nata nel 1929, tornerà a visitarlo ogni volta che avrà l’intenzione di comporre i suoi scritti in libri, tutti incompiuti: prima nel 1932 e poi ancora un anno prima della morte.
Il «libro sferico» non è una utopia, è semplicemente impossibile. Serve per non pensare il libro da farsi all’interno di un possibile «genere» di appartenenza e scontrarsi con i limiti materiali della forma-libro. Insomma, il libro, in questo caso, è un necessario compromesso a cui è doveroso non credere per realizzarlo.
Ora, dunque, possiamo venire al «compromesso» di Anatomia del teatro. Un dizionario di antropologia teatrale, la prima denominazione della fortunata serie e anche l’unica che ne conserva nel titolo il segno.
Racconta Savarese che incalzato dalla necessitàà di trovare un ordine alle «voci» ( «mani», «piedi», «energia» ecc. ) abbia individuato la formula più efficace nel ritrovarsi per la mani il Dizionario filosofico di Voltaire, ovvero un dizionario ricavato dall’Enciclopédie. E’ quello che accade nella prima impresa di Barba -Savarese. Disposte consecutivamente le parti de l’Anatomia del teatro tendono inevitabilmente a disporsi come «voci», appunto, di una enciclopedia, ma dovendo in ognuna di essa far risonare gli echi di tutte, ne sarebbe venuta fuori un enciclopedia fatta di una sola «Voce». Il ricorso al dizionario invece poteva offrire un ordine di sostegno, quello alfabetico, che consentisse al lettore di non credere che la successione e lo spazio dedicato alle singole «voci» implichi una gerarchia ( le parti più importanti) o un ordine propedeutico.
Qualcosa del genere, mi potevo domandare, era già successo?
Altroché, seppure a parti invertite.
Come è noto, esistono due Enciclopedie dello Spettacolo. La prima comprende i primi quattro volumi, la seconda gli altri otto.
Ripercorro molto succintamente la vicenda.
Pensata da Silvio D’Amico per trovare un personale salvacondotto in un dopoguerra dove correva il rischio concreto di essere «epurato», un tale impresa era sì stata promossa in nome della sua unicità, ma prese piede perché l’editore che l’aveva accettata (Sansoni, che poi voleva dire «prima» Giovanni Gentile e ora Ugo Spirito) era ben disposto a dare un seguito alle fortunate enciclopedie che aveva fino allora messo in piedi.
Affidata, dopo la prima e poco convincente prova, dal padre ai figli, Sandro d’Amico, caporedattore, spalleggiato da fratello Fedele, il musicologo, il progetto si era inoltrato in una strada sempre meno prevedibile.
Come raccontava Sandro al padre , perchè l’enciclopedia uscisse dalle secche del primo deludente tentativo, era necessario smettere di dipendere dalla sua biblioteca. Ora, una enciclopedia, idealmente o concretamente, ha sempre una biblioteca alle spalle, anche se non vuole solo ricavare da essa la ricomposizione dei libri che ne fanno parte ma aspira al progetto monumentale di essere essa stessa un nuovo «libro».
Nel tagliare gli ormeggi dalla biblioteca di Silvio D’Amico ha origine la «crisi» del 1957,quando di fronte all’impossibilità di adempiere alle uscite richieste dall’editore ( due volumi l’anno), la redazione di spacca. Da una parte i due fratelli d’Amico e i loro collaboratori, dall’altra Francesco Savio che guida la parte relativa al cinema. La sua proposta è molto semplice: continuare il lavoro intrapreso mentendo all’editore circa il rispetto del piano editoriale. Sembra solo una tattica disinvolta verso una controparte speculativa, come era d’altronde il progetto dell’Enciclopedia, in realtàà, come capiscono al volo i due fratelli, quell’espediente era «un tradimento» perché rischiava di colpire al cuore il teatro.
Mentire all’editore significava dover poi mentire anche ai collaboratori. Inevitabilmente si sarebbe dovuto procedere ad una diversa ridistribuzione delle voci mandando avanti quelle più «importanti» per tamponare i rinvii, a discapito delle «minori».
Ora i meriti dell’Enciclopedia dello Spettacolo sono molti noti, dalla fuoriuscita dell’etnocentrismo, alla raccolta iconografica che col tempo tendeva a configurarsi non più come apparato illustrativo, ma «voce» tra le «voci», ma l’ allontanamento dalla biblioteca paterna è decisivo. Sandro d’Amico aveva scoperto che quella enciclopedia stava prendendo vita attorno ad un paradosso: lo spazio assegnato ad ogni singola voce sarebbe dipeso dalla quantità di documenti che ogni singolo collaboratore sarebbe riuscito a rintracciare. Raccontava d’Amico: «La voce Esperia Sperani ( una maestra d’attrici, un esempio non proprio scelto a caso) era più necessaria di quella dedicata a Ruggero Ruggeri» . Avallare le gerarchie delle voci, avrebbe consentito ai collaboratori ad essere «lacunosi» e dare poi il diritto alle amputazioni, come poi inevitabilmente avvenne. Formalmente ed editorialmente l’impresa rimaneva una enciclopedia, di fatto cominciava a funzionare come la creazione di un nuovo «dizionario». Analogamente, per esempio, a quanto avviene per la lessicografia se una ricorrenza di citazioni di un parola comune e in uso è meno ampia di un’altra caduta in disuso, la seconda occuperà più spazio della prima.
Accanto all’analogia va sottolineata una fondamentale differenza. Se nella creazione di un dizionario linguistico la lessicografia traccia una possibile storia della lingua, i «lemmi» della Enciclopedia dello Spettacolo finivano per contraddire le storie del teatro vigenti e individuare la presenza del teatro nella storia con la sola sua dimensione pubblica, gli spettacoli.
Non è difficile immaginare cosa sarebbe successo se di fronte alla «crisi», il «dizionario» avesse prevalso: sarebbe probabilmente caduta la rilevanza della denominazione «spettacolo», alcune voci abolite, come «Città», non avevano, senso per il Cinema; l’inesausta ricerca iconografica, poi decimata, avrebbe costretto all’invenzione di nuovi voci; e, soprattutto, la formazione di inedite competenze e conoscenze, che intanto si andavano formando, avrebbe reso evidente che quell’opera andava disponendosi come inedito «libro» che indicava strade più ampie e ricche da quelle intraprese dalle scene che prendevano forma in quegli anni in Italia.
Giunto sin qui, la vicenda della «prima» Enciclopedia troncata mentre si andava facendo, mi sono chiesto se non valesse la pena abbandonare la ricerca di libri affini e non, invece, appellarmi a qualche altro progetto famoso che non è mai andato in porto. Poteva ora valere la pena fare una visitina a «quel grand livre» di cui Jacques Copeau era andato in cerca quarant’anni prima durante l’interruzione delle attività del Vieux Colombier provocata dalla grande guerra.
Copeau, alle prese con la versione francese di On the Art of the Theatre, si era detto che se Gordon Craig era stato costretto a far nascere solo «le livre» del teatro a venire, il Vieux Colombier avrebbe potuto far marciare insieme la scena e il « libro» verso la conquista del teatro rinato.
L’impresa di quel «grand periodique» che avrebbero dovuto comporre progressivamente «le livre des bon artisan, où viendra se consigner toute découverte» alla fine ricadde negli anni successivi quasi tutta sulle spalle di Lèon Chancerel che si rammaricherà del tempo impiegato per la ricerca dell’imponente documentazione necessaria per dar vita al « livre» a discapito della sua azione nelle scene.
Diversi sono i motivi per i quali il progetto andò a vuoto.
Vorrei qui vorrei solo sottolineare come Copeau non riuscì a provocare l’entusiasmo in chi maggiormente se lo aspettava, Louis Jouvet.
Bastava correggere la famelica ricerca di libri, tavole illustrate, documenti d’archivio con cui l’attore avrebbe voluto ricostruire «le carte di famiglia», conoscere non solo da vicino i «suoi antenati», ma addirittura avere la sensazione di ripercorrerne la carriera e da qui spiccare il grande salto verso il nuovo comédien.
Copeau lo voleva proteggere dal cadere nell’equivoco di credere che la rinascita avesse a che fare col riannodare i fili di una tradizione ormai interrotta. Non aveva torto, ma non si capivano fino in fondo, come capitava talvolta a lui e Dullin durante le prove.
Jouvet avrebbe voluto che l’attore avesse lo stesso diritto ad una memoria lunga come quella di uno scrittore, la libertàà di poggiare i piedi, quando fosse necessario, in passati lontani, un continuo andirivieni tra quei mondi e le contingenze della professione. Anche da Montaigne, diceva a Copeau, se ne potrebbe trarre un «dictionnaire», lì c’era tutto, o quasi.
E poco importava se fatti e leggende anziché contrapporsi andavano ad intrecciarsi gli uni con gli altre. Quello che proprio aborriva era confezionare un libro dell’attore, memorie, manuali, libri-conversazione.
Quel suo «grand livre» non smise mai di cercarlo, di tentarne approssimazioni. Acutissima ne avvertì l’urgenza e anche la responsabilitàà quando trovò un accorto salvacondotto per sé e la sua compagnia girando il mondo mentre i nazisti occupavano la Francia. Il libro non fu poi mai realizzato, ma gli era chiaro in quegli anni che dovesse esplorare gli atti di coscienza nello spazio tra la persona che poteva essere e l’attore curvato dall’esercizio della professione durante la sfiancante peregrinazione affrontata per salvare il suo teatro. Intorno a questa storia invisibile si aggirò fino alla fine della sua vita, pubblicando lacerti e affioramenti.
Forse sarebbe stati sufficienti questi ultimi passi per cominciare a spendere le righe dovute a I Cinque Continenti, ma la camminata non ho potuto evitarla.
Mi è servita per mettere in fila fallimenti, crisi, enciclopedie che diventano dizionari, libri impossibili, una affinità non di «genere», ma lontani parenti «degeneri» attraverso cui inseguire I Cinque Continenti del Teatro.
Quindi ora me la posso spicciare con poche parole.
Mi sembra chiaro intanto quello che il libro non è.
Non una storia del teatro, perché affrontata nell’atto di sfidarla, non un album ragionato di «tecniche ausiliari» perché la selezione e il montaggio delle immagini che ne individuano la pertinenza è alla fine letteralmente rinfacciata dall’impertinenza che le rivolge la Storia attraverso le immagini dei suoi detriti e delle sue distruzioni.
Alla fine si potrebbe concludere che il libro stesso “soffra“ nel tentativo di mostrare come le «tecniche ausiliare», l’impasto di vita e mestiere nelle storie degli attori, attraversino la Storia.
Le scosse, i piccoli precipizi, le rapide incisioni sulla pelle della materia che organizza danno vita ad una lotta entro e contro la forma-libro.
Un solo esempio.
La raccolta di testi e immagini e testi intitolata Piccola Enciclopedia dell’onore degli attori, dedicato ad un artigianato che impone di «non condividere i valori imposti dalle circostanze e dallo spirito del tempo» ,è presentata attraverso quella che Barba chiama «una immagine -esca», una «storia sotterranea del teatro» di fronte alla quale i racconti degli storici rivelano limiti invalicabili, contraddizioni e sono costretti ad arrestarsi. Questa storia che non si può scrivere riguarda tutto quello che trova rifugio nelle tecniche e nelle regole degli attori, ribellioni, ferite personali, ambizioni incalzanti e soprattutto «il cosidetto caso», quel «vento cieco chiamato Storia» che scompiglia destini e produce incontri, sospinge lontano e crea incontri inaspettati. E’ per questo che la Piccola Enciclopedia si affaccia improvvisa sull’ultimo paragrafo intitolato La responsabilità del teatro entro il quale si raccoglie una rassegna degli zoo umani, delle esposizioni di mostri e del commercio del loro spettacoli?
Questa «storia sotterranea» non si può raccontare, però la si può mostrare attraverso ciò che scuote la forma-libro, accumulando «pagine non finite» e fogli che potrebbero volare via all’infinito dai taccuini dei loro autori, e ricomporsi con un altro ordine secondo «il cosiddetto caso» o con gli infiniti meridiani del «libro sferico» che convergono verso lo stesso centro.
Eppure è ancora un libro, artigianalmente tanto ben composto quanto più si avvicina e sfiora il suo fallimento, mostrandosi esso stesso, nell’ostinazione ammirevole del suo farsi, una «tecnica ausiliare» del teatro.
Giugno 2024