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Umiliare
Ci sono certe occasioni in cui le cose hanno una forza invincibile (per chi non è santo). Una di queste occasioni sono i festival (parlo di occasioni naturalmente, che io conosco). Le "cose" dei festival sono i loro "riti" o "cerimoniali", con lo stato d'animo che comportano. Prima che il Festival di Venezia "aprisse i battenti", i suoi "riti" erano già cominciati. Come? Creando schemi e partiti presi nei cervelli dei critici, mettiamo. Ecco per esempio Pietro Bianchi: egli fa un articolo di "anticipazioni" sul Festival, e subito, come dicono i veneziani (e perché non avere il coraggio di dirlo anche per scritto), "va a cagàr nel mucio", come il diavolo. Parla del "Satyricon" di Fellini come dell'indiscusso e unico possibile Leone d'oro, che non c'è. Il film di Fellini sarà sicuramente una meraviglia: ma Pietro Bianchi lo umilia dandolo con tanta leggerezza e spensieratezza - meccaniche e aprioristiche - come cavallo vincente (di un premio che non c'è). Umilia il "Satyricon" e umilia tutti gli altri film: perché, insieme al "Satyricon", li impacchetta tutti dentro una convenzione giornalistica, dentro l'apriorismo dell'opinione pubblica, che non vuole sorprese: che vuole l'ordine. Questo lo dico oggettivamente. Soggettivamente, ecco, su di me, la triste forza delle cose. Sono cioè costretto a pensieri e dispiaceri meschini: per cinque minuti sia pure. So io quello che ho dato di me per fare "Porcile": un film povero, girato in un mese, con una cifra irrisoria. É stato meraviglioso, si capisce. Perché l'esprimersi - anche attraverso i disagi più angosciosi - è sempre meraviglioso. E poi, ci sono le avventure umane della lavorazione, il cui valore nulla poi può togliere: come amori di un giorno, subito lontani ma indelebili, ci sono i rapporti degli attori - il disperato Pierre Clementi, l'angosciato Jean-Pierre Léaud - per cui il lavorare era come per dei bambini sperduti l'essere accarezzati dalla madre; lo smarrito Lionello, che con una volontà struggente ha vinto le impossibilità del suo ruolo, riuscendo gioiosamente vittorioso; l'adorabile Anne Wiasemsky, sempre perfetta e invulnerabile, lei, come una preziosa bestia di razza (o come Marco Ferreri); Ninetto – Ninetto Davoli - che per la prima volta, nella sua esperienza un po' comica di "attore per forza", ha avuto coscienza di quello che faceva, e ha recitato l'ultima scena con le lacrime agli occhi; e Tognazzi, infine, uno degli uomini più buoni e intelligenti che io abbia conosciuto. E poi le avventure naturali. Credo che nessuno abbia mai patito tanto freddo come noi, prima sull'Etna, con vento, nebbia, neve, pioggia, e poi in gennaio in una villa veneta neoclassica vicino a Padova, che deve essere gelida anche d'estate... Lì la forza delle cose era una forza interiore: eravamo dominatori della tanto difficile e imprendibile realtà, che recalcitrava maledettamente, ma solo sul suo livello pragmatico! Come era dolce possederla, cioè essere fusi con essa! Ecco, ora il film è finito, è alle mie spalle. Lo considero il più riuscito dei miei film, almeno esteriormente, se il mio atteggiamento verso cose e casi tanto brucianti non aveva potuto essere che contemplativo. Quello che penso io del mio film, lo pensano certamente tutti gli autori dei film presenti al Festival di Venezia, per la maggior parte appunto autori di film "poveri", come il mio. E tutti avranno passato i loro cinque minuti di meschinità, sproporzionati col loro lavoro, nel leggere che il film più ricco e più forte è dato, senza nemmeno l'ombra del dubbio, così brutalmente, come il migliore.
13 settembre 1969
" Un po' di ostrogoto "
Anche Moravia si è occupato del "Satyricon", con un articolo grande come un lenzuolo steso ad asciugare. Vi fa le sue consuete osservazioni acute, vive, intelligenti e convincenti. "L'Espresso" dice, annunciando l'articolo, che Moravia ha visto in "anteprima mondiale" il film: in realtà, come egli mi ha detto, si è trattato semplicemente di una delle solite visioni private (di cui Fellini è maestro), e d'una copia ancora non doppiata in cui gli attori, come mi diceva appunto Moravia, parlano in romanesco, in svedese, in ostrogoto. Ora, io sostengo e ho sempre sostenuto che il cinema è una "tecnica audiovisiva". Per spiegarmi, la prendo un po' alla larga. A dimostrare che il linguaggio del cinema è autonomo e ha una sua convenzione, o codice, un ricercatore riportava l'esempio di un film fatto vedere a un pubblico di selvaggi o quasi (non ricordo se esquimesi o bantú): ebbene, questi selvaggi non avrebbero capito il film - secondo quel ricercatore - perché essi non sarebbero stati in possesso delle chiavi del codice cinematografico. Ma io ricordo anche una prima pagina di Beltrame della "Domenica del Corriere", di quando ero ragazzo, in cui si vedeva una platea sconvolta dal terrore, perché una locomotiva, sullo schermo, era rappresentata in modo che pareva dovesse investire gli spettatori, che erano appunto dei semplici, dei quasi selvaggi. Se costoro erano così atterriti da una locomotiva che, da uno schermo, si precipitava su di essi, vuoi dire che qualcosa, di quella rappresentazione, capivano: solo che confondevano il codice di interpretazione della realtà col codice di interpretazione del cinema: cinema e realtà si identificavano come uno stesso sistema. Ora, se un selvaggio ha un suo codice per "leggere" la realtà che gli passa davanti agli occhi - mettiamo una donna che allatta un bambino - ha naturalmente anche un codice per leggere la realtà cinematografica: ossia la stessa donna "che allatta un bambino" ripresa dalla camera e proiettata. Egli non può che pensare, appunto, :in tutti e due i casi: "Ecco una mamma che allatta suo figlio: è un fatto che cade naturalmente nel dominio della mia esperienza". Probabilmente i selvaggi di quel ricercatore erano stati posti di fronte a un film girato in Europa, nel nostro fortunato mondo civile, e quindi rappresentava una realtà che essi non conoscevano: essi erano privi dunque del codice per interpretare quella realtà, non del codice per interpretare quel film! Se fosse stato proiettato loro un film che avesse rappresentato la loro realtà, quella del loro villaggio e del loro rapporto con le cose, essi l'avrebbero capito. Ecco il punto: l'avrebbero capito certamente di meno (o addirittura per niente) se quel film fosse stato muto (o parlato in ostrogoto). Voglio dire questo: che il cinema, a livello linguistico, è audiovisivo: in quanto il codice di interpretazione della realtà (che è appunto audiovisivo) e il codice di interpretazione del cinema, in gran parte, coincidono. A livello estetico (si sa che le convenzioni estetiche sono sempre restrittive e selettive) si possono fare dei film muti: e fare dei capolavori assoluti (Dreyer, e più ancora Murnau, o Buster Keaton). Se un uomo si presenta ai nostri occhi e tace, noi lo interpretiamo in un modo (secondo la nostra esperienza); se un uomo si presenta ai nostri occhi e parla in una lingua ignota, noi lo interpretiamo in un secondo modo; se un uomo si presenta ai nostri occhi e parla nella nostra lingua, noi lo interpretiamo in un terzo modo. Questo terzo modo può essere totalmente diverso dal primo e dal secondo: perché il momento "parlato" può alterare totalmente il momento "visivo". Quante, dolorose o gioiose sorprese abbiamo avuto, non appena una creatura, dopo aver taciuto per un po', ha aperto bocca! In conclusione: il mio carissimo Alberto ha compiuto un errore critico sostanziale, parlando di un film senza capire quel che i personaggi dicevano: errore fondato sulla persuasione, retorica, che il cinema sia immagine. Fellini che è un mago come Herrera, sa benissimo tutto questo.
n. 37 a. XXXI, 13 settembre 1969
Caro Pier Paolo (26)
a proposito del mio articolo sul "Satyricon" di Fellini mi hai accusato di essere incorso in un errore sostanziale parlando del film senza capire quel che i personaggi dicevano. In realtà il film che ho visto non era muto e io ho capito quello che i personaggi dicevano perché parlavano in lingue che conosco. Piuttosto bisognerebbe intendersi sul significato della parola "audiovisivo". Anche il teatro, è audiovisivo. Lo spettatore, a teatro, guarda e ascolta. Ma il testo teatrale può essere letto senza la rappresentazione perché ha un valore letterario ossia estetico. Questo non si può dire delle sceneggiature se non in casi rarissimi. É evidente che noi al cinema guardiamo e ascoltiamo come nella realtà. É evidente pure che la parola rende più "completa" l'immagine. Ma non sono altrettanto sicuro che la renda "diversa", come mostri di credere. E questo, appunto, perché la parola al cinema non ha una funzione espressiva cioè estetica ma informativa. D'altra parte tu dici che "il cinema a livello linguistico è audiovisivo: in quanto il codice di interpretazione della realtà (che è appunto audiovisivo) e il codice di interpretazione del cinema in gran parte coincidono". Ora io penso che il cinema va decodificato soltanto a livello estetico. A quel livello la parola, nel cinema, o conta poco o non conta nulla. E infatti tu ammetti che a livello estetico si possono anche fare dei capolavori muti. Ma che vuol dire questo se non che il codice di interpretazione della realtà e il codice di interpretazione del cinema non coincidono? Naturalmente la parola è suono. E qui siamo d'accordo. Il cinema è immagine e suono. Un film giapponese parlato in giapponese (cioè in una lingua che non conosco) mi sembra più vero, più plastico, più completo e insomma più giapponese dello stesso film giapponese parlato in svedese (altra lingua che non capisco). E questo perché la lingua giapponese come "suono" rende più completi e più giapponesi gli interni, i personaggi, gli eventi giapponesi. Per questo io sono contrario al doppiaggio in una lingua diversa da quella originaria. Detto questo non pretendo davvero di avere ragione. Vorrei soltanto che tu facessi le debite distinzioni tra la parola che esprime e la parola che informa. Tra il livello linguistico e il livello estetico. Tra la realtà e la rappresentazione. La parola al cinema potrebbe benissimo, è vero, essere altrettanto e anche più espressiva dell'immagine. Ma allora sarebbe un doppione dell'immagine.
Amichevolmente il tuo
Alberto Moravia
Caro Alberto
mi sembra, per dirti la verità, che anziché rispondere ai miei appunti, non hai voluto far
altro che ribadire, nel tuo biglietto, le tue precedenti opinioni. Noi siamo testardi, e va bene; se non fosse così non avremmo neanche un nostro sistema esclusivo che è sempre chiuso da barriere, fossati, e magari anche da barricate. A me sembra che tu a proposito del cinema, del teatro, ecc., continui imperterrito a essere un illuminista e un positivista, che ha, giustamente, ignorato Croce. E fin qui, tutto in comune tra noi due. Ma da qui in poi si apre una... diacronia. Naturalmente, son convinto di essere nel giusto io: per la semplice ragione che ho seguito alla meno peggio l'evolversi delle scienze linguistiche e semiologiche, mentre tu, meno interessato a questi problemi, per tante ragioni, ignori tale evolversi. Ciò ti costringe a giudicare i fatti estetici solo sul piano estetico. Tu giudichi dunque i film solamente come puro fatto estetico. Mentre, come ogni altra espressione "metalinguistica", i film presuppongono anche un approccio di carattere puramente linguistico (o meglio semiologico): che non è obbligatorio, s'intende. Ma, una volta che si sia accettato di affrontarlo, bisogna farlo con chiarezza, possibilmente. Tu ti sei lasciato trascinare da me a discutere al livello linguistico e semiologico sul cinema; ma non ti sei accorto ingenuamente che, a tale livello linguistico e semiologico, tu hai continuato a usare modelli di giudizio estetico o genericamente culturale. Il che significa che con un grammatico che parla di "aggettivi", appunto da grammatico, tu ti metti a discutere sul valore "formale" degli aggettivi. Il grammatico ti guarderebbe stupefatto. Che gliene importa a lui se l'aggettivo "bello" o "brutto" è usato esteticamente e culturalmente al modo giusto? Per lui "bello" e "brutto" sono due aggettivi qualificativi e basta. Ora, io penso che un critico non possa ignorare la grammatica, anche se il fine del suo giudizio sia estetico. Io devo sapere, come critico letterario, non solo che "bello" e "brutto" sono due aggettivi qualificativi ecc., ma devo conoscere anche le più impensabili sottigliezze del codice grammaticale (che non è solo quello che si impara a scuola; e che è descrittivo, e non normativo, non normativo, caro Alberto! Così per il cinema: io sarò un miglior critico a livello estetico quanto più sarò un intenditore di grammatica cinematografica: ossia saprò tanto meglio analizzare i fatti formali quanto più saprò farne anche un'analisi grammaticale. La grammatica del cinema è ancora da fare; ma, da qualche anno, la semiologia da una parte e la teoria delle comunicazioni dall'altra, hanno aperto straordinarie possibilità di sapere cos'è il cinema come "sistema di segni". Ecco, la ridefinizione di ogni forma di comunicazione, ivi compresa la lingua scrittoparlata, come "sistema di segni", è stata la grande rivoluzione di questi anni, che non può, come fai tu, essere ignorata. La nozione di "sistema di segni", applicata al cinema e al teatro, vanifica le costruzioni pseudo-razionali sul cinema e sul teatro, costruite a puro livello estetico o genericamente culturale, cui tu sei ancora fedele. Naturalmente le tue idee valgono per la loro intelligenza, non per la loro attendibilità. Come "sistema di segni" il cinema ha, tra le altre caratteristiche, quella di esser "audiovisivo". Ciò è un dato di fatto. Vorresti per caso discuterlo? Al cinema (non dico, bada bene, nei film) i personaggi parlano. Il semiologo potrebbe scrivere volumi su tale fatto. Io riassumo la cosa così: il cinema è un sistema di segni, in cui la realtà di un "uomo che parla" è espressa, anziché attraverso un simbolo, attraverso quello stesso "uomo che parla". E quindi lo spettatore "riconosce" quell'uomo (giovane o di mezza età, milanese o napoletano, cretino o intelligente, operaio o piccolo borghese ecc. ecc.) attraverso lo stesso codice con cui mi riconosce un analogo uomo nella realtà. Tutto questo è detto al di fuori di ogni giudizio estetico. Al semiologo del cinema non interessa se "quell'uomo che parla" sia esteticamente o culturalmente un valore: per lui è un "uomo che parla" e basta, come per il grammatico "bello" o "brutto" sono due aggettivi qualificativi e basta. Oh, e adesso veniamo (saliamo o scendiamo) al livello estetico. In un film (non dico più, ora, nel cinema) "un uomo che parla", esteticamente, è una forma. Puoi ignorare la volontà dell'autore di aver dato una "forma" attraverso una tecnica audiovisiva - l'immagine dell'uomo e la sua parola? No, non puoi ignorare questo. Non puoi operare una dissociazione che fa solo comodo a te! Non puoi ignorare la totalità di quella forma. Essa, come diresti tu, "è quella che è": se tu ne ignori o ne scindi un solo elemento, non è più se stessa: cioè non è più una forma, che è sempre il campione di una totalità, ed è sempre autonomamente esaustiva di una realtà. La forma "uomo che parla" (nella fattispecie un napoletano biondo che parla in svedese, mettiamo) richiede un giudizio che tenga conto dell'equilibrio di tutto ciò di cui è composta. Potrei farti uno scherzo, se avessimo soldi e tempo da perdere: girerei una scena, e poi la doppierei, non dico con parole diverse, ma con sfumature di intonazioni diverse. Ebbene, vedresti, molto semplicemente, che quella scena non sarebbe più la stessa scena, sia a livello dell'espressione che a livello dell'intonazione. No, caro Alberto, vieni con me a un turno di doppiaggio, e poi vedrai che la parola non completa soltanto l'immagine, ma la rende "formalmente" diversa. E smettila di pensare dunque che il cinema vada decodificato solo a livello estetico, perché, scusami, è impossibile: è impossibile fingere che il cinema non sia un "sistema di segni", e che i film, solo i film, siano metalinguistici, cioè consentano una interpretazione estetica. E smettila anche di pensare che le parole nelle sceneggiature non abbiano un valore letterario ossia estetico. Perché ciò mi offende personalmente: e non me ne importa niente di essere eventualmente uno di quei casi rarissimi di cui parli. Ci sono: e questo per me, ahimè, è importante.
n. 39 a. XXXI, 27 settembre 1969
Caro Pier Paolo (29)
non è vero niente. Non mi sono lasciato trascinare da te a discutere di cinema a livello
linguistico e semiologico. Come non mi lascerei trascinare a discuterne a livello sociologico, a livello psicanalitico, a livello politico, a livello antropologico, a livello ideologico e così via. Tutti livelli legittimi almeno quanto quello linguistico. Del resto non sono entusiasta neppure del livello estetico che ho citato forse per pigrizia. Non posso dimenticare infatti che non molti anni fa la critica peggiore decodificava, appunto, l'opera d'arte a livello estetico. Diciamo piuttosto che il solo livello al quale bisogna tenersi è quello dell'intelligenza delle cose. Anche tu sembri pensarlo quando dici che le mie idee valgono per la loro intelligenza, non per la loro attendibilità. Quanto al fatto che io ignorerei "l'evolversi delle scienze linguistiche e semiologiche", vorrei ricordarti che ho scritto addirittura una commedia sul problema se per cambiare il mondo basta cambiare le parole oppure bisogna cambiare la realtà: "Il mondo è quello che è". Secondo me, applicare la nozione di sistema di segni al cinema, al teatro e in genere all'arte è una operazione conservatrice. Anche la realtà sociale sarebbe un sistema di segni. E allora, addio contestazione. Il tuo
Alberto Moravia
Caro Alberto
d'accordo, occorre prima di tutto l'intelligenza delle cose. Ma avrai notato come tutti coloro che si basano esclusivamente sull'intelligenza delle cose sono degli sciocchi. Bisogna sempre avere un pretesto, che è poi una mediazione culturale per quanto illusoria; bisogna sempre essere specialisti (la parzialità può essere esaustiva) anche sapendo che la specializzazione non è che un "movimento di approccio", come nei riti delle antiche "sofie". Perché dici che la nozione di "sistema di segni" applicata ai mezzi di comunicazione è un'operazione conservatrice? Lo è; in certo modo, se fai coincidere la parola sistema con la parola struttura come la usa Lévi-Strauss, il cartesiano, il razionalista, il matematico; ma pochi l'usano così. Ogni sistema o struttura è in realtà un processo. Tu, dicendo per deduzione "anche la realtà sociale sarebbe un sistema di segni", dici quello che dico io già da anni, impotente di andare oltre a simile definizione. Ma non ho mai detto che si tratti di un sistema di segni immobile! Fosse pure un'entropia coi suoi valori assoluti, viene sempre il momento in cui essa produce, dall'interno di se stessa, i nuovi valori, e quindi i nuovi segni. Dici: addio contestazione! Ma lo sai benissimo: il linguaggio della contestazione si produce dall'interno del linguaggio dell'establishment, così come il messaggio espressivo di un poeta si produce dall'interno del codice linguistico. Ma insomma, è vero, ciò che importa è che ci sia prima di tutto la crudele, aristocratica grazia dell'intelligenza delle cose.
n. 40 a. XXXI, 4 ottobre 1969