La Bigliettaia di Arzamas

L’arrivo a Nijnij Novgorod

Ero giunto a Nijnii Novgorod dopo un faticoso viaggio in treno da Mosca. I treni russi non sono confortevoli e spesso i passeggeri sono costretti a stare in cuccette precarie, tra gente che mangia continuamente, si lamenta e beve.

I finestrini sporchi non danno neppure la possibilità di guardare il panorama e quindi si è costretti a lasciarsi trastullare dai propri pensieri e ascoltare i discorsi dei compagni di viaggio. E poi il panorama è di una uniformità disarmante.

I boschi sono interrotti di tanto in tanto da qualche radura e da qualche villaggio di contadini.

Distrattamente guardavo fuori e riuscivo appena a scorgere i nomi delle stazioni, la folla che sulle banchine attendeva il treno, le robuste sorveglianti col cappello grigio con una striscia rossa che controllano i passeggeri quando salgono.

Alla stazione di Nijnii Novgorod mi aspettava Alexei Fedotkin. Non lo conoscevo personalmente ma teneva in mano un cartello col mio nome e aveva vicino due suoi allievi che dovevano aiutarlo.

Alexei era un chiaccherone formidabile e dopo pochi minuti mi trattava come un conoscente di vecchia data. Fuori dalla stazione ci aspettava Demetri con la macchina. Si trattava di una di quelle vecchie Volga, grige, piene di graffi, con il parabrezza sfracellato e coperta di schizzi di fango. Ma per i russi una simile macchina è un segno di distinzione, di ricchezza e di prestigio. Demetri si era dedicato al business dopo aver difeso la tesi di dottorato e Alexei diceva che era perso per la ricerca. Lui ridacchiava con indifferenza e notavo che il vestito che portava mostrava una ricchezza che certo il prof. Fedotkin non possedeva. A Nijnii Novgorod ero già stato cinque anni prima ed ero molto curioso di vedere ciò che era cambiato.

La città aveva la fama di essere all’avanguardia nel campo delle riforme, il suo primo governatore Boris Nemtsov era ora al governo con Cernomyrdin e questo di sicuro doveva essere considerato un segno di potere per la città.

Mentre Demetri percorreva qualche largo prospiekt nella direzione del fiume Oka ho potuto vedere il pendio su cui è costruita la città. Si vedevano le rosse mura del Cremlino che scendono giù fin quasi a lambire il corso del fiume. Ho scorto il monastero della Trasfigurazione e ho subito dopo visto la bellissima chiesa Stroganoff forse la più bella di tutte. Guardavo ma ero sommerso dalle chiacchere di Alexei che mi dava dei piccoli colpi alla spalla ogni volta che mi rivolgeva la parola. Dopo un po’ mi ha spiegato che la destinazione del nostro viaggio era casa sua, giù oltre il Cremlino in uno dei quartieri nuovi della città. Il palazzo dove viveva Alexei era uno di quei prefabbricati di nove piani che avevo visto in ogni angolo dell’ex URSS.

Si possono vedere i segni delle singole componenti del prefabbricato, assemblate una sopra l’altra come le parti di un gioco per bambini. Gli ingressi sono indicati da un numero stampato sopra dei portoni sudici, generalmente di legno e tutt’intorno dei tubi argentei corrono tra i cortili e i prati portando il gas nelle cucine. Alcuni di questi tubi si sollevano come dei giganteschi draghi con delle gobbe mostruose. Agli ingressi, su delle panche qualche pensionato si godeva il tepore della serata primaverile. Demetrio ha scaricato i miei bagagli e anche gli allievi del prof. Fedotkin sono scesi e ci hanno lasciati. Il giroscale del palazzo di Alexei aveva i gradini di cemento, in ogni pianerottolo un piccolo secchio maleodorante raccoglieva le immondizie.

Il caldo di giugno faceva fermentare quei rifiuti e transitare per quel giroscale richiedeva grande forza d’animo. L’appartamento di Fedotkin era un misero bilocale eppure per proteggerlo lo aveva dotato di due porte, sbarrate e rinforzate. Nulla era diverso da tanti altri appartamenti che avevo visto in precedenti viaggi: il bagno separato dal lavandino, la cucina costruita a ridosso del gabinetto, i tubi dell’acqua costruiti in modo da essere ben visibili. Non ho mai capito per quale ragione la cucina e il bagno dovevano essere cosi’ vicini e quale sciagurata idea avesse ispirato gli ideatori di una simile soluzione.

A casa di Fedotkin ci aspettava la sua seconda moglie, di vent’anni più giovane di lui. Era una bella donna di una bellezza che stava sfiorendo. Era vestita male e forse non pensava che tra i doveri dell’ospitalità c’era anche quello di presentarsi meglio possibile. Aveva una vestaglia quasi trasparente e si stringeva quasi avesse freddo. Alexei mi ha detto che spesso la sera Elena, questo il nome della moglie, aveva la febbre. L’ospitalità russa si traduce sempre in cene e pranzi abbondanti, in grandi bevute e chiacchierate interminabili. Quella sera con Elena e Alexei non è stato diverso.

Ma dopo un po’ abbiamo cominciato a discutere di politica e abbiamo finito perfino con l’alzare la voce. Particolarmente agitata era Elena che infieriva con disprezzo sui democratici, su Eltsin e Nemtsov.

Ero un po’ sorpreso perchè per la prima volta avevo trovato un professore di matematica che fosse simpatizzante dei comunisti e di Ziuganov. Guardavo Alexei come un animale raro. Non era mai stato in Occidente, non conosceva l’inglese, detestava gli ebrei e si professava religioso. Anche Elena ci teneva a dirmi che i comunisti di oggi non sono più quei mangiapreti che si crede, anzi ci sono pure dei preti che partecipano alle manifestazioni del partito comunista. Ero sconcertato ma la stanchezza del viaggio mi rendeva remissivo. Dopo un po’ ascoltavo in silenzio le interminabili filippiche di Alexei, sempre sottolineate da cenni di assenso di Elena che guardava il marito tenendo le braccia incrociate sul petto nascondendo così i seni, minuscoli ma ugualmente visibili sotto la vestaglia. Quando l’impeto polemico si è un po’ attenuato abbiamo parlato dei miei progetti e dei miei desideri.

Avevo una vaga idea di approfittare dell’occasione per andare a visitare Veliki Ustiug, una piccola cittadina del Nord della Russia. Un desiderio nato casualmente sfogliando dei libri che avevo visto in un precedente viaggio. Alexei, che aveva parlato ininterrottamente fin dal mio arrivo alla stazione, si è fermato e mi ha guardato come se avesse creduto di non aver ben capito. I suoi occhi azzurri erano spalancati e perfino la bocca era socchiusa. Aveva i denti sporcati dal fumo e ho potuto osservare il mento che terminava in un piccolo, lezioso buchetto. Certamente aveva dei bei lineamenti e la capigliatura canuta e il ventre simile ad una botticella non lo imbruttivano più di tanto.

È rimasto con quella espressione di stupore per un po’ anche Elena mi guardava stupefatta quasi credesse che fossi un po’ matto. Veliki Ustiug, chissà perché? Io sono stato qui tutta la vita e non mi è mai venuta in mente l’idea di andare in quella città.

Dopo un attimo di esitazione Alexei mi ha detto che intorno a Nijni Novgorod ci sono molti posti interessanti. Uno lo conoscevo anch’io e ne tenevo una vecchia incisione nella mia camera da pranzo. Si tratta di Pavlovo con molte piccole chiesette addossate ad una collina. La città di Nijni Novgorod non aveva una fama di gran centro turistico e anzi molti la reputavano una città industriale molto inquinata. Elena si è messa a dire che la sua famiglia aveva una dacia in campagna e forse per me era molto interessante vedere come vivono i contadini.

Devo aver fatto una faccia così poco entusiasta che ha subito cambiato argomento. Alexei è andato in un’altra stanza a cercare una cartina. I russi hanno le case piene di libri. Sono libri stampati su carta di bassa qualità, generalmente non hanno illustrazioni. Ma sono libri ritenuti molto preziosi lo stesso. Gli amici se li passano, ne discutono, e troneggiano nel posto più bello di casa come una decorazione. È proprio impensabile un appartamento senza scaffali carichi di libri, anneriti dall’uso e con qualche pagina rovinata che dimostra come vengano letti e riletti. Alexei ha rovistato per un po’ in camera da letto e poi è ritornato con una cartina elementare della regione di Nijni Novgorod. L’ha distesa sul tavolo della cameretta destinata agli ospiti e ha cominciato a scorrere con l’indice della mano destra la direzione del fiume Oka e poi quella del Volga. Ad un tratto si è fermato e mi ha chiesto: conosci Arzamas? Si, era un posto che avevo sentito nominare e anzi avevo visto un quadro della prima metà dell’Ottocento che rappresentava quella città. Potremo andare li se vuoi. Non sapevo se ne valesse la pena ma il mio senso di riconoscenza mi suggeriva di dire di si.

La città aveva una sinistra reputazione legata alla produzione delle bombe atomiche e naturalmente era stata inaccessibile per molti decenni. Tuttavia quel quadro che la rappresentava ne dava una immagine affascinante. Cento chiese facevano corona ad una grande cattedrale costruita dopo la vittoria su Napoleone. Proprio come la chiesa del Salvatore di Mosca. La cittadina era stata costruita sui rilevi che come onde di un lago in burrasca coprono l’intera zona centrale della Russia. Ma si perché non andare ad Arzamas? In fondo la mia segreta aspirazione sarebbe di visitare tutti i paesi di questo sterminato stato, dalla penisola della Chukotia fino alla Cabardino Balkaria.

Bisognava aspettare qualche giorno prima di poter realizzare questo progetto. Avevo bisogno di presentarmi all’Università, farmi registrare dalla polizia, farmi conoscere da qualche professore della cattedra di probabilità e soprattutto fare qualche conferenza. Arzamas poteva aspettare almeno fino alla settimana dopo.

La mattina dopo il mio arrivo sono andato con Alexei nel suo ufficio all’università. Lui è il direttore della cattedra e aveva anche una segretaria che lo accoglieva con gentilezza. Addirittura con deferenza si è rivolta a me, quasi fossi un’autorità mondiale. È una strana sensazione quella di essere più stimato di quello che dovrei esserlo per i miei meriti. Mi mette in imbarazzo ma, allo stesso tempo, mi piace. La signora Irina mi ha fatto sedere su una poltrona di pelle nera, sdrucita ma comoda e mi ha fatto portare un tè bollente. Il vapore mi ha appannato gli occhiali e a mala pena riuscivo a vederla mentre mi parlava. Aveva una voce stridula ma i suoi modi erano piacevoli. Andava da un punto all’altro dell’ufficio mentre Alexei seduto alla scrivania guardava alcune carte. Dopo qualche minuto mi ha detto che la mia prima conferenza sarebbe stata lunedì e poi saremo stati liberi di andare ad Arzamas. Certo il mio obiettivo era Veliki Ustiug ma Arzamas era più accessibile.

La rapidità con cui Alexei prendeva le decisioni e l’assoluta remissività della sua segretaria mi sembravano dei privilegi che io non avevo mai avuto nella mia posizione. Una segretaria che mi accogliesse con la stessa familiarità di una moglie, un ufficio dove uno si possa sentire sovrano assoluto, un telefono, un computer e una biblioteca e la deferenza dei colleghi e degli studenti: Alexei aveva tutto questo. Eppure imprecava contro un sistema che vedeva destinato alla rovina. Ogni suo discorso finiva sempre con una sfuriata contro i democratici che, a suo dire, minacciano l’esistenza stessa della sua vita. E quando parlava si infervorava, diventava rosso e suoi occhi celesti si iniettavano di sangue, l’espressione del viso diventava corrucciata ed esprimevano una pena insopportabile.

Dopo qualche decina di minuti la segretaria si allontanò e io rimasi in silenzio mentre Alexei continuava a leggere certi documenti. Io l’osservavo con un po’ di timore e ogni tanto passavo lo sguardo sui mobili, sugli scaffali, sulle finestre dalle quali filtrava una luce spenta che annunciava la pioggia. In quelle circostanze, con la presenza di Alexei a pochi metri mi era difficile fare utili meditazioni perché ad ogni istante mi pareva di poter essere sorpreso nel bel mezzo di qualche fantasticheria. Pensai per un po’ a sua moglie e alla sua indispettita difesa dei comunisti di Ziuganov. Quando parlava di politica alzava il tono della voce e cambiava anche lei l’espressione del viso.

Mi piaceva il fatto che avesse sposato un uomo di vent’anni più vecchio di lei. La differenza d’età non pareva un problema per nessuno dei due. Certamente non lo era per Alexei che non si poneva alcun problema anche se aveva raggiunto la bella età di 58 anni. Un’età critica in Russia per un maschio perché secondo le statistiche è l’età media dei russi alla morte. Ma forse per Alexei questo non era per niente un problema perché lui era il direttore di una cattedra universitaria, era un uomo adulato dai suoi allievi e appassionato di letture. Per Elena essere moglie di un professore era una conquista sociale, le dava l’illusione di poter un giorno diventare qualcuno nell’ambiente accademico anche se aveva appena difeso la sua tesi di dottorato. Ed è stato proprio questo che le aveva compromesso la salute. Evidentemente ha subito qualche trauma che l‘ha resa ancora più succube del marito. Mentre pensavo a lei mi è venuto in mente che ogni sera mentre me ne stavo nel mio stanzino degli ospiti Alexei ed Elena facevano l’amore. Lei febbricitante e lui rotondo ed allegro per l’ultimo sorso di vodka tracannata.

Al mattino trovavo solamente Elena che mi preparava la colazione con molta premura. Non si vestiva se non quando doveva uscire e spesso indossava delle vestaglie trasparenti, vaporose che lasciavano intravvedere una carnagione lattea arrossata dalla febbre. Passando da una stanza all’altra quando la luce viva del mattino la colpiva in pieno era possibile vedere la forma delle anche, il pube peloso e i capezzoli color vinaccia. Io la osservavo distrattamente e come ospite mantenevo un contegno irreprensibile. Le sue occhiate e l’insistenza con cui mi chiedeva di mettermi a tavola prima ancora di essermi vestito lasciavano pochi dubbi sulla sua volontà di sedurmi.

Guardavo il suo ancheggiare provocante, e quando si sedeva a tavola un po’ sudata sentivo la voglia di avvicinarmi. I timpani delle orecchie mi vibravano un po’, mi riusciva difficile parlare senza inghiottire la saliva e un tremore incontrollabile si impadroniva di tutta la mia persona. Eppure tra noi esisteva una barriera che ci teneva a debita distanza. Forse era la consapevolezza che Elena non era il tipo di donna che mi piacesse particolarmente o forse era la sensazione che Alexei incombeva su di noi anche mentre era assente.

Una gita ad Arzamas

Qualche giorno dopo Alexei mi ha detto che il viaggio ad Arzamas era stato organizzato. Con un autobus andavamo fino alla città e poi giravamo un po’ a piedi e un po’ in taxi. Per me Arzamas era il luogo rappresentato in quel quadro dalle cento chiese riunite attorno alla grande cattedrale. Invece oggi appare come la solita città sovietica di bianchi caseggiati sepolti in un verde sbiadito. Quegli edifici vedono una vita stentata, grigia, certo decorosa ma in fin dei conti penosa. Il nostro autobus sobbalzando, ansimando e trascinando il suo carico di passeggeri un po’ obesi è arrivato proprio davanti alla grande chiesa del centro. Per una città di provincia quella grande basilica barocca sembra proprio eccessiva.

I lunghi anni del regime sovietico l’avevano lasciata nell'incuria più completa. Adesso rivive. È stata ridecorata con tante icone, ridipinta e anche la presenza di tanti fedeli sembra l’abbiano ridestata ad una nuova vita. Era stata voluta per ricordare la vittoria su Napoleone del 1812, proprio come la chiesa del Salvatore di Mosca ma non ha avuto lo stesso tragico destino.

La mia visita a quella chiesa sembrava ad Alexei troppo lunga, troppo infervorata per essere autentica. Il suo spirito caustico vedeva ovunque ragioni per diffidare, inganni incombenti anche nei gesti più naturali. Eppure lui si professava religioso. È diventato comunista quando tutti ripudiavano il comunismo e oggi è diventato religioso. Comunista e religioso. Diceva che tutto ciò che si racconta sulle persecuzioni religiose del regime sono esagerazioni e oggi i Comunisti sono in prima linea per ricostruire le chiese. Ai miei segni di incredulità mi faceva notare che molti preti vanno alle manifestazioni dei comunisti e che oggi perfino Ziuganov è a favore della Chiesa Ortodossa. Mi diceva tutte queste cose borbottando e sussurrando mentre passavamo da una icona all'altra. Ogni tanto lo guardavo, osservavo i suoi occhi azzurri saettare di piacere per le assurdità che diceva e pretendeva che accettassi. Il mio dovere di ospite era quello di non contraddirlo ma il mio amor proprio mi faceva conservare uno scetticismo contenuto. All'uscita dalla chiesa Alexei si è ancor piu’ infervorato. La chiesa è il cuore della nazione, la custode delle tradizioni e il tramite per la conservazione dei valori morali tradizionali. Ma allora perché cercare di distruggerla con la stessa furia dell’Orda d’oro? Chiacchierando in modo torrenziale, divincolandosi come un indemoniato voleva convincermi che non era vero e soprattutto che i comunisti di oggi non avevano nulla in comune con Stalin e Lenin.

Intorno a noi vi era una piazzetta ingombra di calcinacci e da essa partiva una stradina che planava sulla pianura intorno per balze e piccole curve. Da entrambi i lati si vedevano case prerivoluzionarie dai colori vivaci, piccole e pittoresche. Ho fatto cenno che avrei voluto fare una passeggiata in quella direzione e lui, senza interrompere un attimo il suo argomentare ha subito iniziato a camminare. Mentre cercavo di osservare le piccole botteghe, le imponenti massaie che uscivano ed entravano dai negozi, Alexei mi tormentava con un flusso alluvionale di parole. Soffrivo per quella opprimente, ininterrotta valanga di verbi, aggettivi cui non riuscivo a tener testa. Fotografavo quel che potevo, ogni tanto facevo cenno che ero d’accordo con lui, a volte chiedevo pietà per le troppe parole con cui mi dilaniava. In queste circostanze un forte dolore al colon mi fa soffrire in modo insopportabile. Ho anche chiesto di andare al bagno per star da solo, in silenzio. Appena ritornavo la sua aggressione fatta di parole riprendeva implacabile. E purtroppo non avevo scampo. Il suo era un bisogno sadico di lacerare la tranquillità del prossimo e con me riusciva facilmente nel suo scopo.

Quando ha saputo che lontano dal centro c’era un piccolo monastero di qualche interesse ha deciso di prendere l’autobus. Ero sicuro che dentro un autobus non potesse parlare e ho accolto la proposta con entusiasmo. L’autobus era mal in arnese. Il vetro del parabrezza era percorso da una raggiera di fratture, la fiancata rovinata e scorticata e l’insieme offriva una immagine di trasandatezza e degrado. Dentro l’autobus una folla di donne premeva contro i sedili, vicino alle porte tenendo strette le borse della spesa. Alexei era stato sospinto verso la porta centrale e io ero rimasto all’altezza del posto del bigliettaio. In realta’ si trattava di una bigliettaia che silenziosamente distribuiva quei pezzettini di carta sudicia e ritirava i rubli .

Andava avanti e indietro finché l’eccessivo numero di passeggeri l’ha costretta a fermarsi al suo posto. Chiedeva aiuto per raggiungere i passeggeri lontani, ritirava i soldi e tutte le operazioni avvenivano in un silenzio assoluto. Si avvertiva l’odore del sudore che le braccia sollevate spandevano nell’aria, si poteva indovinare il contenuto delle borse della spesa. La bigliettaia ha ritirato i soldi del mio biglietto e io l’ho potuta osservare attentamente. Dalla predella del posto dove stava dominava tutti i passeggeri per statura e bellezza. I suoi seni sodi venivano tormentati, schiacciati da quella folla silenziosa di massaie che senza poesia e allegria si trascinava verso la periferia. La distanza tra il mio viso e il suo era di poche decine di centimetri e così ho potuto osservarle gli occhi azzurri, slavati, le sopracciglia ben curate che accentuavano la bellezza altera del viso. Spesso usava me per trasferire lontano i biglietti e un calore dolce, sudato mi toccava. Dopo qualche minuto la bigliettaia aveva completamente catturato la mia attenzione. Perfino il dolore al colon era dimenticato. Osservavo i gesti maestosi con cui si sporgeva, il bel golf verde che conteneva i seni imponenti, le sue labbra serrate, disegnate con sensualità. Perché una donna tanto bella faceva la bigliettaia?

Dopo lunghi minuti di osservazioni mi sono accorto che nessuno la osservava. Neppure Alexei che era finito sempre più lontano. Ogni tanto qualche nuovo passeggero saliva e mi dava una strattonata e il mio corpo finiva con aderire al suo per qualche attimo. Un attimo prezioso in cui potevo avvertire l‘odore del suo sudore, gradevole come il profumo di lavanda. Lei non si scostava affatto e forse il suo lavoro l’aveva talmente abituata ad essere sballottata. toccata, spintonata che il movimento involontario a cui ero costretto non lo notava neppure. Ho potuto vedere che teneva i capelli raccolti sulla nuca e che il viso era di un biancore marmoreo. Aveva l’aspetto della Vittoria di Samotracia, l’imponenza di una valchiria e mi chiedevo chi potesse essere, quale fosse la ragione di quel lavoro. Avrebbe potuto sfruttare la sua bellezza invece di distribuire biglietti su uno sgangherato autobus di Arzamas.

Il mio viaggio per quella città’ è durato venti minuti. Per fortuna si fermava spesso e la velocità con cui riusciva ad avanzare per quelle strade non superava i trenta chilometri all’ora. Ho potuto avere vicino una autentica bellezza per qualche minuto, osservarla e ammirarla. Proprio come un quadro o una statua. Pensavo che era un vero peccato che dovessi scendere e perderla per sempre. Ritornare a Nijni Novgorod insieme ad Alexei, ascoltare le sue interminabili filippiche contro i democratici, rivedere Elena febbricitante e velenosa mentre su questo autobus avrei potuto guardare la bella sconosciuta e scoprirne il suo segreto. Ma purtroppo la corsa di quel mezzo è finita davanti al monastero e io distrattamente l’ho visitato continuando a pensare alla bella bigliettaia.

Anche delle chiacchiere di Alexei sono riuscito a farne a meno. Lui parlava e io lo guardavo senza ascoltarlo. La cosa più bella di Arzamas mi era stata vicina per qualche minuto e mi aveva stregato. Arzamas era improvvisamente diventato più importante di Nijni Novgorod e ho capito che era per me irrinunciabile ritornarvi.

L’ospitalità a casa di Alexei era divenuta sempre più fastidiosa. Lui era sempre molto occupato e la moglie in preda a ricorrenti crisi non poteva certo occuparsi di me. La mia idea era di lasciare Nijni Novgorod col proposito di andare nuovamente ad Arzamas e ricercare la misteriosa bigliettaia.

Durante una delle assenze di Alexei sono andato alla Bolshaia Pokrovskaia, la grande arteria che attraversa tutta la città storica e mi sono procurato un biglietto ferroviario. L’ho dovuto fare di nascosto perché Alexei avrebbe impedito in ogni modo che prendessi una simile iniziativa. Anche lui ha maturato uno strano sentimento di universale paura verso ogni cosa considerando che tutti sono pronti a derubare gli sconosciuti. Per lui uno straniero sprovveduto come me era una preda appetibile per tutti.

La caduta dei valori tradizionali avvenuta dopo la disintegrazione dell’URSS aveva innescato un processo di degrado irreversibile. Tutti si erano trasformati in aggressivi truffatori e anche andare in treno da soli era un pericolo. Spesso mi squadrava con un sentimento di derisione per la mia ingenuità’ quasi volesse dire che ero un agnello in un bosco pieno di lupi. Era una sensazione che io invece non provavo. Per me la gente con cui avevo avuto a che fare era molto gentile e premurosa e in ogni circostanza mi sentivo tranquillo. Venendo dal corrotto mondo capitalistico mi sentivo tranquillo anche se ogni tanto qualcuno avesse manifestato intenzioni poco raccomandabili. Comunque il giorno che ho comperato il biglietto per Arzamas ho provato la sensazione di aver tradito la sua fiducia e di aver abusato della sua ospitalità.

Quando ho annunciato ad Alexei la mia decisione mi ha guardato e dopo un po’ mi ha detto seccato: “sei una persona libera” e la moglie di rincalzo ha fatto notare che non vedeva la ragione di andare di nuovo in una brutta città’ come Arzamas. Poi Elena ha preso in braccio il gatto siamese e l’ha accarezzato e sbaciucchiato. Sentivo che una atmosfera gelida aveva sostituita l’ospitalità che fino a quel momento avevo avuto. La sera abbiamo parlato poco e il giorno successivo ho lasciato quel piccolo appartamento con la sensazione di essere un profittatore senza scrupoli.

Alla ricerca della bigliettaia di Arzamas

Alla stazione ferroviaria Alexei mi ha salutato con cordialità e dal mio finestrino non ho cessato di guardare verso di lui finché ho potuto vederlo. Il treno puntava verso l’Oka e un po’ alla volta il bel pendio su cui era stata costruita la città storica è scomparso dal mio orizzonte. Ero libero e solo e sorretto da un’idea stravagante: cercare una donna che avevo visto per qualche minuto su un autobus di Arzamas. Forse avrei scoperto che non avevo nulla in comune con lei, forse avrebbe riso dei miei propositi ma una forza irresistibile mi stava spingendo verso l’avventura.

Due ore dopo ero in un albergo frugale con i giroscala di cemento, la stanza che odorava di petrolio, i corridoi sorvegliati da una donna di mezza età. Ogni volta che passavo mi squadrava, qualche volta sorseggiava un po’ di tè e io di rimando la salutavo con un piccolo inchino. Era uno dei tanti alberghi sovietici, spartani e grossolani concepiti per scoraggiare ogni forma di turismo. Dovevi sentirti a disagio, provare una sorta di malessere che doveva indurti a ridurre la lunghezza della permanenza. Erano alberghi poco confortevoli con ristoranti enormi, pieni di fumo dai tavoli unti dove si servivano pasti indigesti.

Il panorama che appariva dalla mia stanza era invece abbastanza attraente: la grande chiesa del centro di Arzamas appariva in tutta la sua maestosità con una grande cupola azzurra screpolata.

Il mio obiettivo era di prendere l’autobus e cercare la bigliettaia, seguirla e poi avvicinarla in qualche modo. La mattina seguente cominciai col cercare la stazione dalla quale ero partito insieme a Alexei. Guardavo dentro ogni autobus che passava senza salire. Ero pronto a prendere il mezzo appena mi fossi accorto che la bella bigliettaia era al suo posto di lavoro. Passarono alcune ore senza che riuscissi a rivederla e cominciavo a provare un vago senso di delusione. Vicino alla stazione vi era un piccolo grazioso gazebo che doveva servire per ripararsi dalla pioggia. Mi sedetti un po’ e cominciai a leggere il giornale. Mi avvicinò’ una strana donna con un velo in testa. Doveva avere quarant’anni o forse qualcuno in più. Con un’aria misteriosa mi dice: io l’ho notata alcuni giorni fa sull’autobus. La guardai sbalordito e lei di rimando mi disse:”sa si vede che lei è uno straniero e qui ad Arzamas se ne sono visti molto pochi”.” Io ero vicino a lei e ho notato con quale ammirazione guardava la bigliettaia”. Non credevo che dalla mia espressione si potessero desumere i miei pensieri. Anzi ho sempre guardato con paura quelli che avevano questo potere. Rimasi per un po’ interdetto e osservai la mia interlocutrice che mi fissava. “Lei penserà che non sono fatti miei ma ho la sensazione che lei sia tornato per cercare quella bigliettaia. Ho notato che si affacciava ad ogni autobus che passava di qua”. Mi sentivo in grave imbarazzo come un ladruncolo colto sul fatto. Non riuscivo a dir nulla e lei approfittando del mio silenzio si sedette vicino a me e cominciò a dirmi che la bella bigliettaia in realtà viveva vicino ad Arzamas in un paese chiamato Pavlovo. Era bella e sfortunata e non volle dire di più.

Quando ebbi un po’ di forza guardai quella donna e dissi “Pavlovo?”. “Si” mi rispose con un sorriso. Aveva qualche dente rivestito d’oro che brillava e le dava un aspetto dimesso. Pavlovo è un minuscolo villaggio di cui possedevo una bella incisione. Su una collinetta sono distribuite alcune chiese e sotto scorre un sottile ruscello che in primavera allaga tutta la campagna. Ecco se la bigliettaia viveva proprio a Pavlovo mi sarebbe stato facile trovarla. Già mi immaginavo che perlustravo il paese alla ricerca della mia bella sconosciuta, trepidante e imbarazzato. Ma continuai ad osservare la mia interlocutrice dal sorriso metallico e le chiesi: “Ma perché pensa che io voglia conoscere la bigliettaia?” Fece una risata scrosciante e mi diede una pacca sulla spalla in modo molto confidenziale. “Sull’autobus io passo molte ore perché devo attraversare tutti i giorni l’intera città”. “Perciò osservo i passeggeri e mi diverto moltissimo”. Sull’autobus si intrecciano conversazioni interessanti, la gente si incontra, spesso nascono amori. Dal modo in cui due persone si osservano sono capace di capire se qualcuno è interessato a qualcun altro. L’altro giorno ho visto come lei osservava la bigliettaia e ho capito che vi è stato da parte sua una grande curiosità. Forse un colpo di fulmine o semplicemente lei è stato colpito dalla sua bellezza.

Si fermò di colpo e mi disse: “le sembrerà strano ma quella donna piace anche a me”. Rimasi ancora più sbalordito e trattenendo il respiro le chiesi: “in che senso le piace?”. La mia interlocutrice si fermò un po’ e poi accarezzandosi la guancia quasi volesse togliersi un piccolo fastidio mi disse: mi piace tutto ciò che è bello, mi piacciono i pioppi, le betulle, le donne alte, gli uomini robusti, le saune col vapore, le serate quando si beve e si balla. La lasciai dire e allora abbassando il tono della voce mi ha detto: “mi piace il sesso” e digrignò il suo sorriso coi denti dorati. Mi alzai quasi che avessi improvvisamente paura. Ma lei la conosce? Sa come si chiama? L’ha mai frequentata? Si rabbui’ per un attimo e tacque. Le osservai le mani percorse da grosse vene violastre, bene in evidenza con una pelle un po’ raggrinzita. Aveva le unghie curate e dipinte e si accarezzava i bordi della borsetta.

Che strana conversazione! Pensai d’un tratto. Adesso so che la bigliettaia di Arzamas abita a Pavlovo il paese della mia bella incisione che come una profezia è stata appesa nella mia stanza da pranzo per molti anni. Pavlovo mi ricordava il quadro di Nesterov intitolato “Il silenzio”. Sullo sfondo di un lago si vede una collinetta con due chiese, proprio come a Pavlovo. Osservai ancora la mia strana interlocutrice e le chiesi: ma lei abita ad Arzamas? Fece cenno che non voleva dirmelo. Io sono Irina, mi chiamo Irina e la tua bigliettaia mi conosce. Vedrai che mi conosce e si alzò e partì.

Ero sconvolto da quella conversazione e osservai quella donna allontanarsi nella direzione della grande chiesa centrale. Solo dopo ho saputo che si chiama la chiesa della Trinità. Chissà quanto è lontano Pavlovo da Arzamas mi domandai dopo aver lasciato il gazebo. Cercai un taxi e pattuii cinquecento rubli per andare subito a Pavlovo. La giornata era luminosa e si poteva vedere l’ondulata campagna che circonda Arzamas per molti chilometri. Il mio tassista possedeva una vecchia Volga piena di magagne ma molto volonterosamente cercava di renderla confortevole con tappetini e piccoli schienali di vimini.

Dopo mezz’ora arrivai a Pavlovo che mi è subito parso un po’ diverso dalla mia incisione. Mi lasciò vicino ad una chiesetta col suo minuscolo camposanto. Osservai le tombe più vecchie e poi feci una capatina dentro la chiesa e osservai l’iconostasi a tre file come un qualunque turista. Anche se il paese è piccolo cercare una sconosciuta non è affatto semplice. C’era uno spaccio dove si vendevano candele, salsicce, icone e libri e dissi che ero stato mandato da una certa Irina alla ricerca di una ragazza di trent’anni che faceva la bigliettaia ad Arzamas. Il proprietario trafficò un po’ prima di rispondere e poi mi disse: probabilmente è la figlia del prete della chiesa dell’Annunciazione.

Studiava a Nijni Novgorod e Irina è stata una sua insegnante. Ecco perché quella donna pretendeva di conoscere la mia bella sconosciuta. “Mi scusi, ma la bigliettaia torna tutte le sere a casa qui a Pavlovo?” E si, vive con suo padre da un po’ di mesi mentre prima viveva a Nijni Novgorod. Ne sapevo abbastanza e uscii da quel negozio dove fermentavano i formaggi e i salumi sudavano strutto. Feci qualche passo sulla strada e poi ritornai indietro: “Ma mi dica, come si chiama?” Stava tagliando un salame e asciugandosi il sudore mi rispose con un filo di voce: “Yelena”.

Grazie, adesso sapevo che la bella sconosciuta dell’autobus viveva a Pavlovo, era figlia di un prete di campagna e tra qualche ora l’avrei potuta rivedere. Verso le sette di sera vicino alla chiesa dell’Annunciazione vidi arrivare una donna alta. La vidi di spalle col suo bel golf verde, gli stivali color vinaccia, le spalle ben disegnate. Mi avvicinai e la chiamai. Irina mi manda da lei e vorrei tanto aver la possibilità di conoscerla. Le dissi tutto d’un fiato. Mi sorrise amabilmente quasi mi avesse riconosciuto.

Avevamo trascorso qualche minuto vicini l’uno all’altro su un autobus affollato e i nostri corpi si era toccati e anche le nostre anime si erano compenetrate. Quel sorriso era la confessione che anche lei mi aveva notato e che era contenta di conoscermi. Ho casualmente incontrato una sua vecchia insegnante che mi ha detto di venire a Pavlovo.

Fece un lungo respiro e poi mi disse: “Irina insegna Filologia slava all’università di Nijni Novgorod e io sono stata la sua “aspirantka”. “Se vuole le racconto la mia storia e perché Irina l’ha mandata da me. Non risposi ma capii che dovevo seguirla a casa sua perché voleva passare un po’ di tempo con me. Ormai la sera era imminente e io non avrei più potuto tornare all’albergo di Arzamas. Mi portò a casa sua dove viveva suo padre che l’aspettava, probabilmente come ogni sera. La casa del padre di Yelena (mi sia consentito di chiamarla così d’ora in poi) occupava due piani e la maggior parte del tempo lo trascorrevano al secondo piano.

Una grande stufa di maioliche decorate occupava il centro di uno stanzone, probabilmente quella che doveva essere la sala da pranzo. Un angolo era ingombro di icone, alcune con delle cornici d’argento, altre protette da delle tendine di stoffa.

Nell’insieme vi era una cupa atmosfera perché le finestre erano chiuse da spesse tende e la luce era spenta. Yelena mi presentò il padre, alto più o meno come lei, con un pizzetto bianco e vestito con dei pantaloni stranamente attillati. Yelena non conosceva il mio nome ma mi trattava con affabile cordialità. Mi presentai io stesso e mi accorsi di essere un po’ imbarazzato. “Te?.Vuole del te?” mi chiese dopo qualche attimo. Era la scusa per allontanarsi e lasciarmi solo con Yelena. Lei si sedette vicino a me su un divano e sorridendo mi disse: Irina è stata la professoressa sotto la quale ho lavorato alla mia tesi di dottorato.

Alla cattedra di filologia ci sono molte brave insegnanti e preferivo una professoressa perché molti maschi sono invadenti. E poi l’argomento che lei mi ha proposto era molto interessante per me. Io vivevo a Nijni Novgorod in una di quelle case di legno vicino al monastero dell’Intercessione. Lo conoscevo bene perché era vicino alla casa di Alexei e spesso alla sera andavamo a passeggiarci. Mi piaceva moltissimo vedere con quale confidenza mi trattava. C’eravamo rivisti da poco e già mi raccontava dei suoi studi. Dopo un po’ tornò il padre col te e cambiammo subito discorso. E fu lui che mi chiese come mai ero capitato ad Arzamas.

Il padre di Yelenia si chiamava Serafino ed era rimasto vedovo da molti anni. Mi ha raccontato che la sua attività principale è il recupero delle chiese di Pavlovo. Ogni giorno faceva qualcosa e i parrocchiani più devoti lo aiutavano sia per la raccolta di soldi che per i lavori più semplici. La passione per la filologia è venuta a Yelena proprio perché padre Serafino le ha insegnato ad amare i vecchi testi religiosi. Come in tante altre case anche da loro vi erano molti scaffali pieni di libri e adesso, con la nuova libertà di stampa si sono arricchiti di tante pubblicazioni.

Ho raccontato che a casa mia avevo una stampa di Pavlovo che avevo acquistato alcuni anni prima a Mosca. Mentre raccontavo Yelena era seduta sul divano con le mani appoggiate sulle gonne, mi guardava con grande attenzione e ascoltava quasi immobile. Aveva sciolto i capelli sulle spalle. Erano folti e castani come una criniera leonina e le incorniciavano il viso dominato da una bocca carnosa, grande. Ecco era la bocca che soprattutto le dava un fascino particolare e ho notato che assomigliava a quella del padre.

Che ospitalità speciale quella di padre Serafino: gli importava molto poco di chi fossi ma la sua casa era aperta anche ad uno straniero che cercava di conoscere sua figlia. Nessuna diffidenza da parte sua. Dopo un po’ ebbi l’ardire di domandare perché Yeleva lavorasse come bigliettaia dopo aver difeso la tesi di dottorato in filologia. “No, io non ho ancora terminato gli studi e adesso mi guadagno qualche rublo così”. Qui alla mia età la maggior parte delle ragazze è sposata oppure è emigrata e io avrei potuto facilmente andare all’estero. Ma io vorrei conoscere il mio paese. E poi qui ho mio padre e non vorrei lasciarlo. Padre Serafino sorrise ma disse “tu sei libera di andare dove vuoi, io so badare a me stesso e poi ci sono i parrocchiani che mi aiutano”. Yelena verso sera uscì senza dir nulla e padre Serafino si ritirò nella sua camera da letto.

Prima di lasciarmi mi disse che sua figlia mi avrebbe preparato la stanza per la notte. Io avevo le valige ad Arzamas e non avevo ancora deciso che fare i giorni successivi. Verso le dieci di sera Yelena ritornò e mi preparò la stanza per la notte. Prima di lasciarmi si fermò sullo specchio della porta e mi chiese cosa volessi fare il giorno dopo. “Andiamo insieme ad Arzamas” le proposi. “Tu vai al lavoro e poi ci vediamo al mio albergo”. Non mi rispose e si allontanò.

Dopo un po’ bussò e vestita in camicia da notte mi disse che era d’accordo di andare insieme in città. La luce del mio abatjour la colpiva in pieno e rendeva trasparente la sua vestaglia. Il suo corpo era perfetto, i seni tesi e turgidi culminavano in capezzoli grandi conficcati nella camicetta come piccole dita. Potevo vederle la peluria del pube estesa fino all’attaccatura delle cosce. Forse non si rendeva conto che la potevo osservare in tutta la sua bellezza perché forse non aveva la malizia di chi piace farsi ammirare e tormentare gli uomini. Quando si girò evitai di guardarla perché mi sembrava di essere poco rispettoso dell’ospitalità che avevo ricevuto.

La mattina successiva andammo insieme ad Arzamas in uno di quei pullman azzurri, pieni di schizzi di fango, con il parabrezza scheggiato. Altre persone andavano al lavoro in città e qualcuna andava fino a Nijni Novgorod. Molti si alzavano all’alba per poter giungere in tempo in fabbrica o in ufficio e sonnecchiavano, sballonzolati sui sedili da una strada piena di irregolarità.

La campagna intorno sembrava abbandonata, conquistata da un bosco di betulle e abeti che avanzava da ogni lato come un esercito invasore. Yelena sedeva accanto a me e la sua mano destra era appoggiata al mio braccio sinistro e sentivo il calore della sua pelle. Dormiva un po’ e il suo respiro era regolare, sommesso. Era così vicina a me che avrei potuto accarezzarla e invece mi limitavo ad osservarla come mi capita di fare con un quadro o una statua.

All’arrivo ad Arzamas ho avuto la sorpresa di rivedere Irina che aspettava lei. Dall’espressione del suo viso ho capito che era irritata per qualche ragione. Si sono allontanate un po’ nella direzione del chiosco dove si vendono i biglietti dell’autobus a una distanza tale che io non potevo capire ciò che si dicevano. Irina gesticolava infuriata e ogni tanto alzava la voce. Parlava in modo torrenziale e poi batteva il dorso della mano su un giornale che teneva in mano. Yelena la guardava e ascoltava osservando imbarazzata di traverso in modo da non incrociare lo sguardo della sua insegnante. Qualche parola detta gridando mi giungeva all’orecchio. Così ho sentito “ma tu allora perché…” e poi “io ti ho aspettato in ufficio quando…”. Il senso di quel colloquio mi sfuggiva.

Yelena pareva non volersi difendere e di rado interrompeva Irina. Yelena la dominava fisicamente e a me sembrava strano che stesse in quell’atteggiamento prostrato, in balia di probabili accuse senza mai replicare. Lo scontro verbale durò molto e le occhiate irritate che Irina mi riservava mi hanno consigliato di allontanarmi un po’. Sono entrato nella chiesa della Trinità e con l’animo inquieto ho preso ad osservare distrattamente qualche icona delle colonne vicino all’ingresso. Poi sono uscito e ho detto a Yelena di cercarmi in chiesa quando aveva finito. Mi è venuto improvvisamente in mente che Irina il giorno prima mi aveva detto che Yelena piaceva anche a lei. Forse era questa la ragione di quel burrascoso scontro.

Dopo quindici minuti sono uscito e ho visto una scena del tutto diversa. Yelena e Irina si erano sedute su una panca del gazebo e Irina accarezzava appassionatamente le mani della sua allieva. Continuava a parlare senza interruzione e accompagnava alcune parole con vigorose strette alle braccia. Yelena lasciava fare e guardava lontano.

Curiosamente nessuno prestava attenzione a quella scena inusuale. La gente andava verso il chiosco a comperare i biglietti, alcune donne andavano verso il negozi della strada centrale di Arzamas e le effusioni di Irina sembravano non attirare l’attenzione di nessuno. A me invece tutte quelle smancerie sembravano strane, inopportune e inspiegabili. Soprattutto mi pareva incomprensibile che Irina insistesse nella sua corte aggressiva mentre Yelena lasciava fare con un disinteresse evidente. Pensai che era opportuno che intervenissi e chiesi a Yelena se volesse accompagnarmi all’albergo. Irina mi guardò seccata e alzandosi di scatto mi disse “Yelena deve finire la tesi di dottorato, questo deve fare”.

Tutta quella premura, quelle carezze erano dunque la manifestazione di una materna insegnante che aveva a cuore la carriera di un’allieva cui voleva bene. Irina ci lasciò e Yelena aspettò che si fosse allontanata per spiegarmi cosa fosse successo. “È vero che dovrei terminare gli studi e mi manca poco per finire” mi disse dopo un po’.

Ma la mia insegnante mi soffoca di attenzioni, è onnipresente nella mia vita. Lei è sola e si comporta così con quasi tutte le allieve. “E con gli allievi?” Mi sorrise in modo ironico come si fa con un ingenuo che non capisce nulla. E tu cosa farai? le ho chiesto con ansia. Andare a fare la bigliettaia per tutta la vita non fa per me, vivere all’ombra di mio padre a Pavlovo anche non mi piace. Poi sedendosi sotto il gazebo mi ha detto prendendomi le mani: “quanto tempo tu puoi restare qui?” “Se tu potessi rimanere quanto basta per aspettare la fine dei miei studi io potrei venir via con te”.

L’avevo vista da poco e quell’idea di unire le nostre vite mi ha spaventato. Avevo cercato di non essere legato a nessuno e perciò ho sicuramente fatto un’espressione che l’ha delusa. E poi la mia vita non è qui in Russia e al massimo mi posso fermare per qualche settimana. Io vorrei andare verso Nord a visitare i monasteri isolati della regione di Vologda, le chiese di legno e le comunità dei Vecchi Credenti.

Ad Arzamas sono capitato per caso e non vorrei rimanerci per molto e neppure tornare a Nijni Novgorod è una prospettiva che mi attira. Se tu vuoi possiamo partire insieme. Qualche settimana e poi vediamo. Potrei passare per Mosca e far prolungare il visto oppure potrei farti venire in Italia. Ma tu vorresti studiare e ritornare da Irina? Yelena era chiaramente combattuta e non riusciva a prendere una decisione. E in quel momento non doveva neppure prenderla. Quello che mi ha colpito in quel colloquio era che uno fosse pronto offrire la propria vita ad uno sconosciuto. Trovare un compagno per la vita è una cosa troppo importante per deciderlo su due piedi e anche interrompere gli studi o riprenderli non si può fare così.

È nei romanzi russi che appaiono personaggi eccessivi che sono perfino pronti a darsi la morte per scoprire cosa ci possa essere dopo. Donne che si innamorano per uno sguardo dato dall’ussaro incontrato il giorno del gran ballo, duelli decisi per vendicare una grave offesa. Tutto esagerato come l’idea di Yelena. Io volevo vederla, conoscerla, frequentarla per un po’ e poi scomparire. Si scomparire perché la mia vita interiore è fatta di sogni, di piccole cose intense e brevi. So bene che fuggendo da Irina e da Pavlovo renderebbe Yelena pronta ad ogni avventura e che finirei per perderla tra breve. La sera dopo il lavoro tornammo insieme a Pavlovo. Io lasciai l’albergo e mi trasferii da lei. Padre Serafino mi accolse con entusiasmo forse perché gli sembrava che potevo portare una ventata di novità nella sua vita di ricostruttore di chiese.

Nei giorni seguenti venni a sapere che Yelena oltre che appassionata di filologia slava si dilettava di poesia. Scriveva soprattutto all’alba. Si metteva nel cortile della casa e su una tavola di legno scriveva e rileggeva a mezza voce. Poi camminando declamava i versi che aveva scritto e segnava l’ora esatta di quando aveva finito. Aveva pacchi di poesie che riguardavano molti temi. Alcune facevano riferimento alla solitudine che evidentemente era la fonte di ispirazione principale. L’aurora, quel passaggio dal buio della notte all’incerto chiarore le erano fatali. Si alzava per prima e ancora prima di lavarsi afferrava il suo quadernetto e usciva. Quando pioveva stava alla finestra del grande salone e scriveva facendo poche correzioni. Qualche volta mi leggeva quello che scriveva ma io non ero in grado di capire il gioco sottile delle parole che usava.

Il padre non sembrava molto entusiasta di quelle poesie piene di tristezza. Ogni tanto le rileggeva e annotava qualcosa a pie’ di pagina. Le ho anche domandato se avesse pubblicato qualche poesia e lei mi ha detto che oggi in Russia la poesia non interessa più a nessuno. Forse non interessa quasi a nessuno come prima. Forse che durante il comunismo c’era un pubblico di appassionati per la poesia? E Irina ha letto qualche tua poesia? Le ho chiesto una volta. Si lei ne ha lette molte anche se io non volevo. Lei mi ha detto che alcune si possono pubblicare. Lei conosce alcuni del comitato di redazione di una rivista e vorrebbe aiutarmi a pubblicarle. “E che aspetti allora, che aspetti?”. Mi fece capire che Irina voleva aiutarla ma in cambio di qualcosa.

Sulle prime rimasi sconcertato ma poi le ho detto che la notorietà merita qualche compromesso. Poi mi ha anche fatto osservare che pubblicare i propri scritti significa mettere a nudo la propria anima. Tutti poi sapranno cosa io provo e riconosceranno i miei pensieri più nascosti. È così, certo. Pubblicare una poesia, un romanzo significa esporsi, farsi conoscere, abbassare le difese, rischiare di farsi deridere. Lo so anch’io che è così. Ma vuoi mettere la notorietà, essere riconosciuta per aver scritto qualcosa che viene poi declamato da altri, studiato nelle scuole. E poi non si ricorderanno i compromessi, le Irine dai denti d’oro che ti accarezzano per la strada, i vogliosi redattori di qualche rivista che guardano il tuo sedere e appena leggono il titolo di quello che scrivi. Poi ci sarà dell’altro e arriverà anche il tuo pittore, il tuo Altman che come una nuova Akhmatova ti rappresenterà altera e seducente.

Questo lavorio per convincere Yelena a portare le sue poesie da Irina è continuato per molti giorni. Padre Serafino non diceva nulla ma di sicuro non approvava. Alla fine riuscii nel mio intento e decidemmo insieme di andare a Nijni Novgorod da Irina. Portò con se alcuni quaderni e io ero ben felice di poter contribuire a quel passo fondamentale.

La casa di Irina non era lontana dalla Bolshaia Pokrovskaja e aveva conservato la spaziosità delle abitazioni dell’Ottocento. Grandi scaffali pieni di libri coprivano interamente alcune pareti. I piccoli tavolinetti era ingombri di oggetti di ogni tipo dalle bambolette di stoffa alle scatolette di Palekh. Qua e la c’erano quaderni aperti e vicino alla finestra uno scrittoio con un calamaio.

Irina fu felice di rivederci e abbracciò e accarezzò Yelena con vera passione. Questa volta l’allieva sorrise e quasi ricambiò l’affettuosità baciandola sulla fronte. Mentre sorseggiavamo un te bollente Yelena spiegò che avrebbe voluto pubblicare qualcuna delle sue poesie. Irina faceva cenno di si e intanto le afferrava la mano e l’accarezzava senza farsi scrupolo di urtare la mia sensibilità. D’un tratto si è alzata e l’ha baciata con trasporto dicendole: “fai bene a cercare di pubblicare, già te l’avevo detto altre volte”. Il problema era quello di scegliere le poesie perché non tutte erano adatte a quella rivista. Per una sconosciuta la cosa principale era di scegliere opportunamente le migliori e un grande ruolo nella cernita lo doveva avere Igor, il caporedattore. Ci vuole qualche giorno e tu insieme al tuo amico potete rimanere qui con me.

Irina si mise al lavoro con grande zelo. Telefonò in redazione per fissare un appuntamento e poi disse che era pronta a dedicare l’intera giornata alla lettura di quelle poesie. “Tu puoi andare a passeggiare alla Bolshaja Pokrovskaja e al Castello”. Certo non potevo restare a lungo in quella casa imponendo la mia presenza ad Irina che trionfante voleva approfittare di Yelena e della sua improvvisa voglia di conquistarsi la fama letteraria.

Uscii e il tempo mi aiutò molto. Andai alla chiesa Stroganoff che a mezza collina domina la parte storica della città. È una chiesa barocca, di quello stile che nel Settecento aveva dominato in Russia. L’incuria del Settantennio comunista l’aveva offesa ma oggi, restituita al culto aveva ripreso vitalità e bellezza. Quel giorno un coro stava provando alcune canzoni religiose e ho potuto distrarmi un po’ ascoltando le loro voci e soprattutto guardando la bellissima ragazza che agiva da direttore d’orchestra. Aveva una gonna stretta che faceva risaltare il sedere perfetto ogni volta che si piegava. I suoi gesti nervosi e allo stesso tempo graziosi mi piacevano molto e mi trattenni per qualche ora.

Passeggiai poi per la piccola vallata che divide in due la città. Nell’Ottocento era disseminata di negozi dalle scritte vivaci in russo e francese. Ne avevo visto le fotografie in vecchi album. Ogni tanto pensavo a Irina e Yelena che leggevano le poesie e un po’ di eccitazione mi distoglieva l’animo da ciò che vedevo. Il Cremlino di Nijni Novgorod ha perso tutto il suo antico fascino. Lo hanno disseminato di cannoni e carri armati e l’unica cosa che mi piacesse era la Pinacoteca. E guardando Rorikh e Polienov ho trascorso il resto del pomeriggio.

Quando tornai mi accorsi che Yelena aveva il viso illuminato di felicità. Era rossa e gli occhi brillavano eccitati. Anche Irina riusciva appena a contenere la felicità. La ragione di quella contentezza era che Igor, il caporedattore di “La nuova poesia russa” aveva accettato di incontrarle e probabilmente era disposto a pubblicare qualcuna delle poesie di Yelena. Ero stato io ad insistere tanto e quindi anch’io dovevo essere felice ma un po’ di pena la provavo. Irina e Igor in quel momento erano più importanti di me. Anzi io non ero affatto importante per Yelena. Se diventava una nota poetessa avrebbe avuto ai suoi piedi la città di Nijni Novgorod e mai più sarebbe salita sull’autobus di Arzamas a fare la bigliettaia. Ma le mie riserve mentali erano poco importanti.

Quella sera a cena Irina aveva messo in tavola tutto ciò che aveva di meglio. C’era il salmone, il caviale, i cetrioli verde scuro, i rossi ravanelli , il burro e la carne lessata. Aveva anche tirato fuori la bottiglia della vodka di Kazan, di un liquore armeno e l’acqua minerale delle fonti sante, quelle che finanziavano il Patriarcato di Mosca. Anche Padre Serafino l’usava spesso. La tavola imbandita di tutto ciò che la cucina russa offre è stata abbellita da una ciotola di solianka fumante. Irina e Yelena prima di cominciare a mangiare hanno bevuto due bicchierini di vodka facendo un brindisi “alla futura carriera della poetessa”. Dopo aver bevuto Irina non mancava di accarezzare le mani di Yelena che lasciava fare e io seguivo le due donne nelle loro effusioni con stupore e anche con eccitazione. Tra di loro si era creata una atmosfera di complicità, di entusiasmo che faceva piacere osservare. Domani ci sarebbe stato l’incontro con Igor e tutte e due erano sicure del successo che Yelena avrebbe avuto .

La cena durò alcune ore e finì con canti e qualche lacrima. Io partecipavo poco perché ero relegato al ruolo di osservatore. Mi ha colpito come Irina accaldata e un po’ ubriaca facesse come se io non esistessi. Si alzava, toglieva i piatti sporchi, riportava in tavola il pane e le bevande e non si preoccupava mai di me. I suoi occhi erano tutti per Yelena che sembrava quasi febbricitante per l’eccitazione. Domani si sarebbe deciso se poteva diventare una poetessa. La vodka che aveva bevuto le faceva sembrare la meta più vicina che mai e la sua musa ispiratrice sognava di accompagnarla alle serate letterarie, magari a Mosca o San Pietroburgo.

Lasciarono il tavolo ingombro di piatti e andarono a dormire e così anch’io mi ritirai nella cameretta che mi aveva predisposto Irina. Una piccola finestra dava sulla Bolshaja Pokrovskaja e fino a notte fonda ho potuto sentire le grida allegre delle ragazze e dei ragazzi che passeggiavano sulla grande strada. Potevo addirittura sentire i loro discorsi, vedere i gruppetti con la bottiglia di birra in mano trastullarsi aspettando la notte che in giugno arriva molto tardi.

Troppe cose erano accadute quel giorno e mi addormentai profondamente immerso in un piacevole abbandono. Nel cuore della notte mi alzai per andare al bagno e mi persi. Aprii la porta della stanza dove dormivano Irina e Yelena. Dormivano insieme e nella luce incerta dell’alba potei vedere che erano entrambe nude, vicine. Le loro gambe sbucavano dalle lenzuola e più’ di tutto mi colpì Irina. Era un po’ piegata su un fianco come se volesse aderire col suo corpo a quello di Yelena. Dal mio posto di osservazione si poteva vedere il suo sedere che doveva essere insolitamente peloso, un particolare che mi eccitò. Yelena era poco visibile e anzi il suo viso era nascosto dai capelli. Rimasi per un po’ ad osservare quella scena e pensai ad un quadro di Courbet, sensuale e scandaloso. Quando tornai a letto il cuore mi batteva in modo incontrollato e rimasi turbato ed eccitato. Irina amava Yelena. Ecco perché Yelena aveva interrotto la redazione della tesi di dottorato. La passione di Irina era così travolgente che anche la mia presenza non riusciva a condizionarla.

Quella donna aveva circa quindici anni più di Yelena, era più minuta, più brutta ma aveva una personalità travolgente. Quella passione mi incuteva rispetto e quasi paura. Mi sembrava che nulla avrebbe potuto impedirle di starle vicino.

L’indomani partimmo tutti e tre per la casa di Igor. Bisognava scendere per la piccola valle che divide in due l’otkos di Nijni Novgorod e non era molto distante dalla chiesa Stroganoff che avevo visto il giorno prima.

Igor era un signore di circa quarant’anni dai capelli biondastri, piuttosto grasso e dall’atteggiamento strafottente. Il suo ruolo di redattore capo di quella rivista di poesia gli dava un prestigio ed una importanza sociale che non mancava di esibire. La sua stanza di lavoro era molto curiosa. Di traverso, da una finestra all’altra, era teso un filo a cui erano appesi tre pesci essiccati. Una grande scrivania piena di cassetti era ingombra di disegni, incisioni, foglietti scritti, tagliacarte e gomme. In un vaso di terracotta teneva un mazzo di matite e di penne. Una stilografica d'argento faceva bella mostra di se dal taschino di una giacca sdrucita.

Igor ci accolse sull’uscio e non nascose subito che gli piaceva Yelena. La fece sedere addirittura dal suo lato della scrivania al suo fianco. Eppure Igor parlava solamente con Irina come se la poetessa fosse lei. Yelena non gradiva di star seduta accanto a quell’omaccione tronfio e cominciò a camminare per la stanza. La sua figura slanciata riusciva quasi a chiudere la luce di una finestra e a me permetteva di osservarla in tutta la sua bellezza. Dopo i soliti convenevoli, il tè bollente e i complimenti per la bellezza di Yelena toccò a lei.

Prese un quaderno, coll’indice inumidito di saliva cominciò a girare nervosamente le pagine e arrivò a scegliere un brano scritto qualche settimana fa. Aspettò il silenzio assoluto e cominciò a leggere con la sua voce delicata, armoniosa accompagnando le immagini con gesti della mano libera. La luce di mezzogiorno entrava nella stanza e creava attorno ai suoi capelli un’aureola luminosa e rendeva incantato lo spettacolo della sua recitazione. Avrei voluto possedere una telecamera per registrare quella scena. In uno dei suoi movimenti colpì la corda a cui erano appesi i pesci e per un attimo temetti che questo rovinasse la recita. Anche Igor era ammutolito e Irina faceva cenni di approvazione della testa che incoraggiavano Yelena. Poi scelse qualche altro brano e poi un altro fino a che dovette fermarsi per la stanchezza.

Era straordinario vederla declamare i suoi versi, commuoversi, entusiasmarsi, intristire un po’. Si muoveva come se noi non ci fossimo e noi assistevamo come se avessimo dimenticato i nostri corpi. Per quelle ore eravamo spirito puro, ci siamo dimenticati delle nostre miserie, dei nostri tormenti. La bellezza e la grazia di Yelena aveva colpito tutti e tre noi. Ne ricavai l’impressione che eravamo, in un modo o nell’altro tutti e tre innamorati di lei. Igor dopo la recita rimase in silenzio per qualche attimo ma tutti eravamo certi che avrebbe detto che le poesie andavano pubblicate.

Cominciò dicendo che sarebbe stato bello farle ripetere la sua recita in un teatro con una delicata musica sullo sfondo. Pensava addirittura a come avrebbe dovuto vestirsi. Poi si alzò e disse che gli sarebbe piaciuto portare un fotografo e fare dei manifesti per coprire l’intera città di Nijni Novgorod. La guardava e ad ogni sguardo si vedeva che era convinto che Yelena era la persona giusta per attirare la gente. Pubblicare le sue poesie su una rivista di limitata circolazione è troppo poco, disse alla fine. Merita di più e mi accorsi che Irina era quasi irritata per il successo improvviso che aveva riscosso Yelena. Sentiva che così il suo ruolo sarebbe cessato e lei poteva essere tra un po’ abbandonata di nuovo.

Chiaramente non disse nulla, si congratulò per il successo bevette il bicchierino di vodka e poi mangiò la sua bella fetta di pesce salato. Così anch’io mi accorsi che il successo avrebbe potuto guastare tutto ma io ero un visitatore di passaggio, un cercatore di piccole emozioni che sapeva che la bigliettaia di Arzamas era un capriccio e nulla più. Igor disse che sarebbe stato il caso di vederci tra un paio di giorni perché lui voleva parlare con un fotografo di sua conoscenza e studiare la possibilità di una recita di poesie al teatro centrale di Nijni Novgorod, quello intitolato a Maxim Gorkij.

Tornammo a casa di Irina sulla Bolshaja Pokrovskaja. Eravamo ammutoliti e soprattutto Irina sembrava la più colpita da quell’incontro. Passammo vicino alla vecchia banca con la sua torre circolare e a fianco vedemmo lo studio di un fotografo. In vetrina aveva alcune fotografie di coppie sposate con lo sfondo del monastero dell’Intercessione. Ho pensato che il fotografo cui pensava Igor era forse questo artista che si poteva permettere di avere lo studio proprio sulla via centrale della città.

Lo dissi a Yelena che mi ha prontamente risposto che pensava la stessa cosa. Il giorno dell’appuntamento col fotografo mi occupai anch’io dell’abbigliamento di Yelena. Le feci provare almeno cinque paia di pantaloni, la maglietta poi non riuscivo a trovarla. Fece anche delle prove con l’intero guardaroba di Irina. Ma troppa era la differenza fisica tra le due donne. L’armonioso busto di Yelena era dominato da due seni prorompenti che dovevano essere esposti, attirare su di se gli sguardi ammirati e invidiosi, la sua recita doveva essere accompagnata dalle evoluzioni del suo corpo e le lunghe gambe d’airone dovevano muoversi insieme alle immagini che le sue poesie evocavano. Le feci mettere un fermaglio tra i capelli, scelsi gli orecchini e a lungo disputammo con Irina sul colore del rossetto. Poi d’accordo le demmo un rossetto che ricordava il colore delle viole. Fui io che glielo applicai sulle labbra sensuali e scherzando gliene misi un po’ anche all’interno della bocca. Yelena era più’ bella delle sue poesie ed ero certo che nelle mani del fotografo della Bolshaja Pokrovskaja avrebbe stupito tutti.

Con Igor, Irina e Yelena andammo dal fotografo che avevamo visto il giorno prima sulla via centrale della città’. Il suo negozio era pieno di specchi, di vecchie macchine fotografiche esposte in alcune vetrine. Su un tavolino di mogano teneva aperto un album di fotografie della vecchia Nijni Novgorod, delle sue chiese scomparse, degli edifici della Fiera, delle slitte con cui i nobili si spostavano in inverno. Aspettammo un po’ finché sbucò da una stanzetta buia un vecchietto calvo con un vistoso riporto. Guardò subito Yelena quasi che fosse stato preavvertito chi doveva fotografare. A me non prestò affatto attenzione come pure ad Irina che scelse di starsene imbronciata a scorrere le fotografie messe a disposizione dei clienti. Il fotografo portò via la “poetessa” come la chiamava e le dava dei piccoli colpetti alle spalle per incoraggiarla. Lei era molto più alta e i due formavano la classica coppia del nano e della bella, una specie di Quasimodo ed Esmeralda. La seduta fotografica durò un paio d’ore e Yelena si adattò a tutte le possibili pose. Era paziente, docile e in ogni fotografia assumeva delle espressioni che valorizzavano la grazia e la bellezza che possedeva. Il fotografo non ascoltava il nostro parere e vedevo che aveva in mente tante possibili combinazioni come se i teatri di mezza Russia si fossero sempre serviti da lui. Io avrei accentuato la seduzione che emanava dai suoi seni, avrei scelto di farla apparire una cavallerizza col frustino in mano. Avrei anche scelto di rappresentarla come Altman fece con Anna Akhmatova. Invece per lui la poetessa era una donna sfumata, tutta spirito e niente corpo. I nostri sforzi nello scegliere orecchini, collane, rossetti e fermagli dei capelli erano stati tutti inutili.

Gia’ una settimana dopo l’intera città di Nijni Novgorod era piena dei ritratti della bigliettaia di Arzamas. La sua bellezza occhieggiava al più distratto dei cittadini dalle mura del Cremlino, fino agli stand della fiera. Mi era capitato di vederne uno anche sulla prospettiva Gagarin vicino alla casa-museo di Sakharov. Si invitavano gli appassionati di poesia ad una serata memorabile al teatro Maxim Gorkij. La poesia forse, come diceva Yelena, interessava poco ma la bellezza interessava a tutti. Era il dono avvelenato che alcune donne ricevono e ne restano segnate per tutta la vita. C’è la bellezza portata con serenità e che trasmette felicità in chi la può guardare e poi c’è la bellezza stregata che semina tormenti, che viene, potrei dire, indossata come un mantello luccicante. La bellezza torbida che fa presagire guai, che seduce irresistibilmente e porta alla rovina. Quella di Yelena poteva essere simile alla bellezza della fata o della strega e io l’avrei saputo tra non molto.

La scenografia dello spettacolo al Maxim Gorkij era stata affidata ad uno strano regista di cui si diceva in giro che fosse un raffinato ammiratore di Semiradskij. Forse per questa ragione aveva pensato di far vestire Yelena come una Maddalena, con una lunga gonna spiegazzata, senza gioielli e senza fronzoli. La scena doveva essere dominata da un disegno ispirato ad una quadro di Semiradskji con la danzatrice tra i coltelli, una scena di ispirazione classica sullo sfondo di una baia del Tirreno.

Prima della recita delle poesie un breve balletto doveva preparare l’atmosfera e questo forse ha permesso di attirare qualche spettatore in più. Ho potuto rivedere Alexei Fedotkin e sua moglie Elena, poi Demetri, il padre di Yelena, padre Serafino. C’era il fotografo e naturalmente Igor e Irina e una gran folla di sconosciuti, dai nuovi russi ben visibili per la loro deforme obesità fino ai dilettanti dei circoli letterari della città. Parte degli spettatori doveva venire dalla scuola di musica che avevo visitato nei primi giorni di permanenza a Nijni Novgorod. Il teatro era grande e dal parterre fino alle logge era quasi completamente pieno. Dopo il balletto potei avvicinarmi alle prime file. Quando Yelena apparìsulla scena un fascio di luce la investi’ in pieno. I capelli mandavano bei riflessi violetti e ramati, il vestito un po’ dimesso aderiva al seno incurvandosi magnificamente e lei appariva ancora più alta, più lieve come se fosse stata posata sulla scena da una mano invisibile. Ero emozionato anch’io e avrei voluto che attorno a noi ci fosse il più assoluto silenzio, il buio che desse l’illusione della voce che proviene dalla profondità della terra o dallo spazio lontano. Recitò alcune poesie di seguito accompagnata dalle luci colorate che saettavano sulla scena e mettevano in rilievo parti diverse del quadro di Semiradskji, una debole musica era appena percepibile. Io l’avrei del tutto abolita ma il regista aveva voluto che qualcosa aiutasse psicologicamente Yelena nella recita. Diceva che sentire la propria voce a volte da la sensazione di non farcela e che non corrisponda al suono che si vorrebbe sentire. Quando lo spettacolo terminò mi precipitai verso l’ingresso del teatro per ascoltare i commenti degli spettatori che se ne andavano. La maggior parte si dilungavano sulla bellezza della “poetessa”, “più affascinante di tutte le attrici della città”, tanto bella che era sprecata a recitar poesie. Qualcuno lodava l’allestimento e quasi nessuno sembrava aver capito il senso delle poesie di Yelena. Igor forse non si era reso conto che la poesia era destinata a piccoli circoli di appassionati e anche una valchiria bellissima come Yelena finisce con l’attirare gli sguardi volgari piuttosto che la curiosità delle persone colte. Ed è stato proprio di questo che lungamente parlammo quella sera a casa di Irina. Tutti noi dicemmo che la recita era andata benissimo, che tutto si era svolto nel migliore dei modi ma era chiaro che non era vero. Irina era contenta che “la poetessa” avesse quasi fallito e che così poteva tornare alla sua tesi di dottorato in filologia slava. In realtà Yelena aveva fallito come poetessa perché la poesia non poteva essere apprezzata dal grande pubblico ma la sua bellezza era stata notata da tutti. Quella sera tutti noi l’avevamo persa perché gli occhi di tanti si erano posati su di lei con intenti predatori. C’è stato chi le ha proposto di fare la donna che doveva attirare gli incerti all’ingresso dei teatri semplicemente rispondendo alle domande degli avventori, mescolandosi alla folla per farsi guardare. C’è stato qualche raffinato fotografo che le ha chiesto di fare delle fotografie artistiche, dei nudi per album costosi prestando le sue belle gambe alle stravaganze di qualche artista. E poi ancora la scuola di Belle Arti che le ha offerto di posare per gli allievi. Nessuno ha fatto cenno alle poesie con l’esclusione di Igor che ha mantenuto la parola e le ha pubblicato alcune di quelle che gli sono sembrate più adatte alla “Nuova Poesia Russa”. Mi faceva un po’ pena perchè dopo l’illusione della notorietà la vita di Yelena è ritornata ad essere molto simile a quella che aveva svolto da studentessa. Da un lato Irina ha ripreso a tormentarla con la tesi, poi c’era Igor che si era preso per lei una cotta e mi faceva dannare per la gelosia. Igor le prometteva di pubblicare una poesia e lei usciva con lui per qualche sera. Io rimanevo da solo oppure stavo con Irina indispettita perché la sua allieva era così distratta. Fu così che cominciai a riprendere il vecchio progetto di lasciare Nijni Novgorod insieme ad Yelena per andare verso il Nord. Avrei potuto così sottrarla alle adulazioni interessate di Igor e di tutti gli allestitori di spettacoli teatrali che la volevano usare come specchietto per le allodole. Anche Irina mi era diventata insopportabile con tutte quelle moine, quelle sfacciate smancerie verso Yelena. E poi avevo preso coscienza che Yelena era diventata importante per me e non volevo più considerarla un capriccio momentaneo. Io conoscevo un professore dell’università di Syktyvkar, una sperduta città del Nord, capitale della repubblica dei Komi. Mi aveva invitato e avevo sempre rifiutato perché mi sembrava un luogo privo di interesse turistico e anche l’università non si era mai distinta per meriti scientifici.

Ma la meta era lontana e sull’itinerario che era necessario percorrere per raggiungerla si trovavano posti di grande fascino. Avrei impiegato molto tempo per arrivarci e durante il tragitto Yelena sarebbe stata solo con me. L’avrei sottratta a tutti i corteggiatori, tenuta lontana da Irina, distratta dall’incubo della tesi di dottorato. Avrei dovuto decidere in fretta perché l’autunno piovoso incombeva e forse lassù avrei incontrato la prima neve. Avevo con me tutto ciò che serviva, i soldi e la voglia di vedere, l’estro per dedicarmi all’avventura, la passione per Yelena. Lei si convisse abbastanza facilmente perché non aveva visto nulla. Col padre era stata a Sergeij Posad un paio di volte e poi a Mosca. La sua vita si era svolta tra Pavlovo, Arzamas e Nijni Novgorod. La Russia, quella immensa, impenetrabile della taiga l’aveva vista nei libri di geografia. L’aveva sognata leggendo le storie degli architetti europei che sono venuti a costruire San Pietroburgo. Città come Totma, Veliki Ustiug, Solvichegodsk le aveva viste sugli atlanti, ne aveva visto i monasteri in qualche collezione di cartoline e ne aveva sentito parlare da qualche audace che si era avventurato fin lassù. Ecco l’occasione della vita, dunque.

Viaggiare al di la dei limiti geografici raggiunti fin a quel momento era quindi una cosa che la seduceva e insieme andammo a comperare il primo biglietto ferroviario fino a Yaroslavl. Il primo tratto del nostro viaggio era Nijni Novgorod- Yaroslavl passando per il cuore del cosiddetto anello d’oro. Il primo settembre alle prime ore del mattino eravamo alla stazione assieme a Irina e Igor che avevano deciso di accompagnarci. Irina accarezzava e stringeva Yelena e poi piangeva, si disperava e minacciava perfino di venire con noi. Le ha addirittura dato dei soldi chiedendole di telefonarle sovente. Igor invece era silenzioso e cupo e nel bar della stazione consumò un tè senza lasciar trasparire i pensieri che lo agitavano. Noi partivamo senza aver detto esattamente dove andavamo e quanto tempo saremmo stati via. Yelena aveva preso con se sia il passaporto interno che quello per l’estero. Nel fondo del suo animo c’era la speranza di lasciare la Russia assieme a me.

Scritto nel mese di Agosto 2001