suggerimenti di non sistematiche letture...
F. Farotti, Et in Arcadia ego L’incantesimo del nichilismo in pittura, Mimesis, Milano 2015
Come a tutti noto, nel XIX secolo la pittura è interessata da una frattura, destinata col tempo a diventare voragine: il figurativismo “classico” a poco a poco si sfalda e, attraverso la decisiva svolta dell’Impressionismo (Monet, soprattutto), cede il passo all’arte “moderna” novecentesca, sempre più astratta e informale (Van Gogh, Gauguin, Munch, Cézanne, Picasso e il cubismo, il futurismo, Kandinskij, il suprematismo di Malevic, Magritte, fino ai grandi informali americani Rothko, Pollock, per citarne solo alcuni). L’esito ultimo di questo grandioso processo di sfaldamento è quello di un’arte che nega se stessa (è negazione possibile?), arrivando all’irrisione e alla totale desacralizzazione dello stesso atto artistico (Duchamp o Warhol, ad esempio). Ma quali sono le ragioni profonde di questo collasso, di questa metamorfosi? Quale significato attribuire ad opere che l’occhio non educato guarda come a stranezze apparentemente senza senso, giudicandole in molti casi semplicemente “brutte”? (“tu sei talmente brutto che sembri un capolavoro di arte moderna!” così il sergente maggiore Hartman del kubrickiano Full Metal Jacket apostrofa la recluta…).
Ebbene, Farotti con grande maestria ci conduce a cogliere le ragioni che rendono necessario l’emergere di un nuovo concetto di “bello”, l’unico coerente con la progressiva ed inevitabile affermazione del nichilismo a livello planetario, a sua volta rigorosa ed ineludibile conseguenza dell’ originaria evocazione greca del senso dell’essere e del nulla. Si tratta di operazione filosofica di grande fascino e spessore (non pura estetica, ma piuttosto metafisica!). La lettura del denso saggio deve essere attenta, ma l’attenzione è abbondantemente ripagata dal piacere di penetrare le ragioni dell’incantesimo del nichilismo in pittura, inquadrato coerentemente come atto del grandioso processo di tramonto della Tradizione. In questo affascinante percorso finiamo per comprendere come questo tramonto sia destinato ad essere seguito dall’alba di un tempo del tutto nuovo, dalle implicazioni e dalle potenzialità ad oggi ancora largamente inesplorate. (gennaio 2016)
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E. Severino, In viaggio con Leopardi La partita sul destino dell’uomo, Rizzoli 2015
E’ la filosofia dei Greci che, nella storia del pensiero, per la prima volta mette in luce l’opposizione infinita di essere e nulla, riconoscendo il divenire come quel processo che porta le “cose” dall’essere al nulla e viceversa: “ente” è ciò che diviene e per la prima volta l’uomo avverte la minaccia e l’angoscia del proprio divenire, nella previsione del proprio annientamento. Così, la filosofia, resasi conto di avere spalancato le porte dell’inferno, tenta nel contempo di approntare “il Rimedio”, tenta cioè di rendere prevedibile il divenire che non si lascia prevedere, inserendolo in una Spiegazione stabile, governata da un superiore Senso (un Ordine, un’Origine) immutabile. E’ la grande Tradizione filosofica, da Platone ad Hegel, che, ponendosi come “sapere vero” (epistéme), offre all’uomo la salvezza dal dolore e dall’angoscia. Ma dopo Hegel quella stessa filosofia finisce lentamente col mostrare l’impossibilità di ogni Legge immutabile, di ogni Senso, di ogni volontà epistemica che faccia argine al divenire. In questo grande e tragico affresco Severino ci dimostra come Leopardi, in anticipo sullo stesso Nietzsche, abbia pienamente colto la necessaria insostenibilità di ogni Rimedio, “liberando” l’uomo da ogni Immutabile e restituendogli la libertà. Severino ci introduce così alla grande Partita tra Giocatore Bianco (la Tradizione dell’Occidente) e Giocatore Nero, qui incarnato da Leopardi, il cui pensiero filosofico è scandagliato con grande chiarezza e abbondanza di riferimenti testuali. E Severino ci mostra come la partita, a un certo livello, non può esser vinta che dal Giocatore Nero: la conclusione è che l’uomo si reimpossessa della propria libertà, per la quale però paga un caro prezzo, finendo nuovamente per esporsi all’angoscia del divenire, alla prospettiva del Nulla (alla quale potrà semmai sfuggire il superuomo, che – lui solo – non abbisogna di un riparo contro il divenire, ma anzi riesce a gioirne). Di qui l’incancellabile "infelicità di tutte le cose", come a tutti noto additataci con grande acume dall’intera poetica leopardiana. Ma a questo punto fa sentire la propria voce anche il Terzo Giocatore, che finora ha guardato in silenzio la partita e ora ci mostra come l’uscita dalla lacerante antinomia sia possibile solo liberandosi dalla fede nell’esistenza del divenire. Si giunge così alla seconda parte del testo severiniano, che si inerpica su un cammino assai arduo: si tratta infatti di voltare le spalle all’interpretazione greca (oggi: planetaria) del divenire, arrivando alla sconcertante conclusione dell’eternità di tutte le cose. Si tratta, come ben si intuisce, di una sfida intellettuale difficile, di un’ultima e straordinaria partita del pensiero che ha per posta la comprensione del destino delle cose e dell’uomo stesso. (febbraio 2016)
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D.J.Hand, Il caso non esiste, BUR 2015
Succede a tutti, ogni tanto, di leggere di persone cui capitano "coincidenze" stranissime: uomini che, nel corso degli anni, vincono due volte alla lotteria, che sono colpiti più volte da un fulmine... Oppure, c'è chi sostiene di avere "scoperto" misteriori "messaggi" che predicono il futuro, nascosti in testi sacri (ad esempio, nella Bibbia o nella Torah). Leggiamo di eventi assai improbabili, che pure accadono e che inducono a ipotizzare "interventi sovrannaturali" nella vita di tutti i giorni. In questo luminoso saggio divulgativo Hand, che di professione è matematico, mostra come con un corretto uso delle leggi della probabilità tutto ciò che accade, per quanto improbabile in sé, può essere interpretato in termini razionali e può quindi essere inscritto in un quadro che non ha mai nulla di "sovrannaturale". La lettura ha il pregio non solo di essere istruttiva, ma anche e soprattutto di essere molto divertente. (febbraio 2016)
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P. Daverio, Il secolo lungo della modernità, Rizzoli 2012
Se il "secolo corto" è il Novecento, quello lungo è il XIX secolo: perchè inizia "prima", con la Rivoluzione francese, ma finisce "dopo", arrivando al suicidio collettivo del continente che si consuma nel 1914 con la Grande Guerra. Attraverso quel secolo Daverio ci accompagna, portandoci per le sale di un museo inesistente ma denso di opere di ogni genere (magnifico l'apparato iconografico, come ben si addice a un libro di storia dell'arte). E' una rivisitazione personale, fuori dagli schemi codificati della storia dell'arte cristallizzata, "ufficiale" (e magari un po' stereotipata), e per questo interessante e di scorrevolissima lettura (Daverio, che pure è capace di dense e colte citazioni storico-politico-letterarie che sono fuochi d'artificio, si fa leggere che è un piacere: ed è pregio non da poco). La materia è trattata "per temi" (la politica, il lavoro, la Belle Epoque, l'escapismo, su su fino a simbolismo e art nouveau): ed è una gioia per l'occhio (e per lo spirito) incontrare una volta ancora i grandissimi (Delacroix, Pellizza da Volpedo, Courbet, Manet, Toulouse-Lautrec, Gauguin, Van Gogh, Monet, Picasso e così via) ma anche i (cosiddetti) "minori"(molti dei quali a me per primo colpevolmente sconosciuti: Joy, Henshall, Zampighi, Bazille e innumerevoli altri). E per ogni tela, Daverio ha parole di commento capaci di tessere inaspettate connessioni, sorprendenti riferimenti, stimolanti inviti a superare steccati e letture convenzionali di comodo. (agosto 2016)
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P. Crepet, La gioia di educare, Einaudi 2008
Si tratta della raccolta di tre testi in precedenza pubblicati separatamente (Non siamo capaci di ascoltarli. Voi, noi. I figli non crescono più): è lettura di grande interesse per chi vesta i panni del genitore, ma anche per chi operi professionalmente con e per i ragazzi (professori, operatori scolastici in generale). Il noto psichiatra e sociologo indaga il perimetro della cosiddetta "emergenza educativa", anche attraverso la narrazione di tanti incontri con insegnanti, sindaci, politici, genitori avuti in molte occasioni in giro per l'Italia: che ne esce come paese sostanzialmente indifferente alla "questione educativa", incapace di riconoscere la tematica della educazione- formazione dei giovani come strategica per lo sviluppo della comunità (è notizia di questi giorni: taglia oggi, taglia domani, grazie alla miopia di politicanti di basso rango siamo in coda alla classifica degli investimenti e della spesa per l'istruzione: salvo poi addossare alla scuola ogni responsabilità, salvo poi chiedere alla scuola di fare miracoli, nel peggioramento costante delle condizioni di lavoro, nel caos organizzativo della macchina dell'amministrazione...). Il testo è di particolare interesse proprio quando Crepet fa il suo lavoro: quando cioè delinea certe coordinate psicologiche e comportamentali di molti dei ragazzi d'oggi, di cui denuncia l'analfabetismo non già e non tanto "sessuale", quanto piuttosto affettivo-relazionale (e qui gravissime sono le responsabilità anzitutto della famiglia, grande assente del nostro tempo, ma poi anche della scuola, spesso più preoccupata di curare la burocrazia - cui peraltro è costretta da una legislazione tante volte contraddittoria ed insensata - che di guardare in volto l'unicum che è ciascun ragazzo e ciascuna ragazza che siede in un'aula). Assai meno convincente, o proprio completamente sballata, l'analisi di Crepet, quando entra in aspetti tecnico-organizzativi dell'apparato scolastico con proposte al limite del fantastico/fantasioso, mostrando qui scarsa conoscenza di ciò di cui parla (e anche talora scarso rispetto per chi opera professionalmente nella scuola: immaginando ad esempio per i professori compiti di "animazione estiva" del tutto impropri che, a questo punto, potrebbero ben essere svolti - perchè no? - anche da insigni psichiatri): come noto, il miglior modo per rendere evidenti i confini del proprio sapere è quello di oltrepassarli. (agosto 2016)
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Vannuccini V., Predazzi F., Piccolo viaggio nell'anima tedesca, Feltrinelli 2005
Un piccolo, piacevole vademecum per comprendere lo spirito dei nostri vicini tedeschi attraverso l'interpretazione di parole-chiave (Weltanschauung, Wanderweg, Unwort, ...). Scrittura brillante delle due autrici, profonde conoscitrici della materia per essere state a lungo corrispondenti dalla Germania.
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Munroe R., Cosa accadrebbe se? Bompiani 2015
Divertentissima lettura, tramite la quale veniamo ad apprendere che cosa ci accadrebbe se nuotassimo in un piscina di combustibile nucleare esausto, se il nostro DNA improvvisamente svanisse, se gli oceani progressivamente si svuotassero, se un proiettile di materia nucleare collidesse con la Terra, se... Munroe è un fisico di formazione, che utilizza le proprie cognizioni per dare risposte su base scientifica a domande "assurde" e, proprio per questo, curiose. Il risultato è un testo di intelligente divertimento.
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Miccione D., Lumpen Italia Il trionfo del sottoproletariato cognitivo, IPOC 2015
La tesi dell'autore è semplice: lo stato, sotto molti aspetti pietoso, in cui versa il nostro Paese è riconducibile, in ultima analisi, ad una sola radice: l'affermazione - in ogni strato sociale - di quello che Miccione denomina l'ignorante ipermoderno, che - lungi dal vergognarsi della propria abissale ignoranza - al contrario se ne vanta e ne fa paradossale (ma efficace) strumento di affermazione e di successo. L'esito è un Italia in cui l'incompetenza è premiata con l'occupazione di ruoli di potere e di prestigio, in cui la cultura è sentita come inutile peso ("con la cultura non si mangia", ebbe ad affermare qualche anno fa un prestigioso ministro della Repubblica), in cui la conoscenza e il nepotismo valgono infinitamente più che la scrupolosa preparazione personale. Un Paese che distrugge, a colpi di progressive "riforme", la propria scuola (pubblica), nel quale l'affermazione di pochi incompetenti privilegiati poggia essenzialmente proprio sull'incapacità della grande maggioranza - resa ottusa da accorte e pluridecennali campagne mediatiche, tese ad esaltare la "cultura del fare" irriflessivo e acritico - di pensare, comprendere, criticare, scegliere. E su tali premesse, ossia sull'incapacità dei più di decodificare i meccanismi di funzionamento del mondo, la stessa possibilità di organizzazione democratica della vita della nazione tramonta nel suo significato sostanziale. Un Paese disastrato, insomma, in cui, con satanica coerenza, si rinuncia a stanziare risorse per il sapere, avvertito autodistruttivamente come inutile (laddove la categoria dell'utile ha ormai imposto il proprio dominio, l'intero comparto universitario nazionale riceve per la ricerca il 20% dei fondi destinati alla sola università di Harvard; il budget annuale (2010) della Biblioteca Nazionale di Firenze è di 2 milioni di euro, contro i 254 milioni della Biblioteca Nazionale di Parigi!).
L'affresco, lucido ed impietoso, è di quelli che muovono ad un riso amarissimo ma anche disperato. Resta aperta la domanda: si tratta di una situazione ormai compromessa ed irreversibile, il cui esito finale sarà una catastrofe titanica o un lento, asfittico e inesorabile sprofondamento dell'intera nazione nella barbarie culturale (e, dunque, morale?), o esiste ancora una possibilità di redenzione collettiva?
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Damour T., Albert Einstein La rivoluzione della fisica contemporanea, Einaudi 2009
Un libretto in cui la prosa scorrevole non si contrappone all'argomentazione rigorosa: senza entrare in tecnicismi per addetti ai lavori, ed evitando il genere strettamente "biografico", Damour intreccia vita e pensiero del grande fisico, riuscendo a mostrare con chiarezza quale sia stata l'importanza della figura di Einstein nel forgiare la fisica del XX (e del XXI) secolo. I lavori di Einstein (di cui il più noto è la teoria della relatività) hanno infatti indicato la strada alla comunità scientifica in una molteplicità di campi. Interessante la discussione, ben condotta nei limiti imposti dal carattere comunque divulgativo del testo, circa l'opposizione di Einstein all'impostazione "probabilistica" della meccanica quantistica (alla cui fondazione lo stesso Einstein, come noto, potentemente contribuì) nell'ambito della cosiddetta interpretazione di Copenaghen.
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Ladyman J., Filosofia della scienza Un'introduzione, Carocci 2014
Il sottotitolo esprime pregi e limiti di questo saggio: si tratta infatti di un'esposizione nel complesso elementare di alcune ben note tematiche oggetto di riflessione nell'ambito della filosofia della scienza. Trovano qui semplice ma efficace illustrazione, nei primi 4 capitoli, le posizioni "classiche" di Bacone e Galileo, il falsificazionismo di Popper e l'epistemologia "delle rivoluzioni" di Kuhn. I punti di forza e di debolezza delle varie posizioni sono presentati con chiarezza e discussi in modo quasi dialettico e dunque didatticamente efficace. I restanti quattro capitoli entrano più nel vivo della discussione epistemologica contemporanea: qui, in estrema sintesi, si affrontano da sempre posizioni realiste (di un realismo non-ingenuo) e antirealiste, entrambe alle prese con l'enorme problema di definire il valore conoscitivo della teoria scientifica, di chiarire i meccanismi che regolano il progresso scientifico, di discutere la stessa idea di "verità scientifica" e della possibilità di intenderla (einsteinianamente) come capacità di descrivere efficacemente la struttura di un universo oggettivo ed esterno, le cui leggi sono ritenute afferrabili per il tramite di una speculazione razionale. L'opera, proprio grazie al suo carattere di introduzione, ha il merito di mostrare al lettore sprovvisto di una pregressa formazione in campo epistemologico in quali difficoltà concettuali (ignorate dal "senso comune") possa incorrere un simile, ambizioso programma, ma anche di presentare le difficoltà delle posizioni che a un tale programma negano validità.
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Galimberti U., L'ospite inquietante Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli 2016
Diciamolo subito: pur capace di offrire, di tanto in tanto, interessanti spunti di riflessione, il testo è nel complesso deludente. Le ragioni del "successo" del nichilismo nel colonizzare in modo brutale ogni esistenza sono identificate - assai superficialmente - nell'affermazione della tecnoscienza, cui si imputa la responsabilità dello "svuotamento di senso" del cielo e della terra, il disincanto del mondo, la "malattia dello spirito" e la trasformazione del futuro da scrigno di speranza a fonte di perenne, inconoscibile e immedicabile minaccia. La lettura mostra però i segni dell'incoerenza: se - come ci ammonisce con straordinaria lucidità il pluricitato Nietzsche - il nichilismo è l'insuperabile destino dell'occidente (ovvero del mondo), e rappresenta anche l'esito estremo e necessario della metafisica greca, al più la tecnoscienza non è già, banalmente, la "causa del male", quanto piuttosto lo stadio ultimo di un processo inevitabile, e in qualche modo già contenuto nelle premesse (ovvero gli stessi concetti di essere e nulla evocati dai Greci). Francamente fastidioso poi l'attacco polemico violento e ai limiti dell'ossessivo contro il mondo della scuola, contro professori scioperati, indifferenti, incapaci e sempre dipinti a tinte fosche: a conferma del fatto che il miglior modo per rivelare i confini del proprio sapere è oltrepassarli (evidentemente l'autore ignora quanta attenzione ponga ormai la scuola di oggi, tra difficoltà di ogni tipo, nell'individuare e arginare situazioni di disagio: talora fallendo? certamente, come possono fallire psicologi e psichiatri, con l'aggravante che questi ultimi dovrebbero possedere strumenti che non appartengono al bagaglio professionale dell'insegnante). E, dopo avere, con qualche noiosa ripetizione, preso in esame alcune forme in cui si sostanzia l' "ospite inquietante" (la depressione, la tossicodipendenza, l'atto estremo del suicida, ecc.), Galimberti ci congeda regalandoci una vera e propria perla di saggezza: "a giustificare l'esistenza non è tanto il reperimento di un senso (...) quanto l'arte del vivere (...) che consiste nel riconoscere le proprie capacità e nell'esplicitarle e vederle fiorire secondo misura". Possibile che il frutto di tanto studio si condensi in suggerimenti degni giusto di "frate Indovino"? Come, professore, tutto qui? (luglio 2017)
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M. Recalcati, L'ora di lezione Per un'erotica dell'insegnamento, Einaudi 2014
Bellissima riflessone sul valore della scuola e dell'insegnamento, il cui centro è collocato nell' "ora di lezione", da più parti ultimamente tanto vituperata. Saggio (ed impostazione) in qualche modo controcorrente, in un'epoca di follia come la nostra (sebbene risuoni l'ammonimento di Polonio: "c'è una logica in questa follia") che pone - da un po' di anni a questa parte, con indicazioni tanto più sospette quanto più insistenti e reiterate - il cuore dell'attività educativa in mille "progetti e progettini" (di discutibile utilità ma di sicuro costo economico), in attività più o meno ludiche, in psicologismi dilettantistici (Recalcati, da esperto in materia, nega recisamente che i professori debbano giocare allo psicologo, essendo di ben altra natura la loro missione), in improbabili "alternanze scuola-lavoro" (credat alius!). No, compito del docente è "far innamorare" (ecco l'erotica dell'insegnamento): e l'oggetto dell'innamoramento dovrebbe essere il sapere, sentito come desiderabile (ogni sentimento di amore non viene forse proprio dal desiderio?), in un processo che trasforma l'alunno da "oggetto" (destinatario di un sapere accettato passivamente, dunque in fondo inefficace ed estraneo) a "soggetto" che desidera in prima persona accostarsi al sapere, trasformato così in cosa viva e dotata di senso (e in fondo - dice Goethe - che cosa è l'uomo se non un "costruttore di senso"?). E' dunque proprio nell'ora di lezione che avviene il decisivo incontro che, come ogni incontro che si rispetti, è (o dovrebbe essere) sempre un incontro d'amore: l'incontro del giovane con un sapere che il professore ha saputo (compito altissimo) rendere desiderabile, appetibile, voluto. Altro che scuola della pedagogheria (avrebbe detto Gentile), altro che scuola "delle competenze" , dei POF, dei PTOF, dei RAV, dei PDM, dei mille acronimi posti a coprire pudicamente il vuoto di senso e il senso di vuoto. Altro che "scuola dei progetti", del tutto dimentica, però, di un qualsivoglia progetto di scuola!
Un testo insomma da consigliare: certamente ai docenti, magari agli stessi studenti, ma (idealmente) ancora più a coloro che hanno il potere di disegnare il tipo di scuola che si vuole, oggi e domani, per il Paese: posto che la faticosa opera di sbarco della scuola italiana sui lidi tecnocratici-aziendalistici tanto cari alle non elette burocrazie d'Oltralpe e a svariate Organizzazioni economiche transnazionali (che, dietro la foglia di fico di improbabili pedagogie di marca anglosassone, dettano la linea agli Stati democratici) gliene lasci - si capisce - il tempo. (luglio 2017)
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A. Baricco, I barbari - saggio sulla mutazione, Feltrinelli 2006
Spettacolarizzazione, superficialità, velocità, rifiuto di ogni "fatica del concetto" a vantaggio dell'accettazione della "verità della rete" (informazione al posto della conoscenza), facile omologazione ai "morbidi diktat dell'impero" (ovviamente statunitense), leggerezza di ciò che è immediato contrapposto alla "pesantezza" dello sforzo di riflessione critica: sono solo alcuni degli aspetti che questo brillante saggio di Baricco mette in evidenza di questo fenomeno epocale che stiamo tutti vivendo e che viene indicato con il termine, privato di connotazioni valoriali, di "barbarie". Si tratta di un mutamento davvero imponente, perchè coinvolge il modo di pensare (dunque, di agire) dell'essere umano. La caratterizzazione che ne fa Baricco è molto ben riuscita, a partire da alcuni ambiti-esempio, scherzosi ma significativi ed emblematici (la cultura del vino, il gioco del calcio, l'editoria). Il barbaro (nietzschianamente) non riconosce alcuna profondità e vive nell'hic et nunc, nell'immediatezza superficiale di un eterno presente e del godimento spensierato dell'attimo. La "civiltà" esprime i valori della Tradizione (al tramonto?): tempo e fatica, dedizione e studio, riflessione e pensiero per raggiungere le "profondità" di un sapere organico, articolato, sistematico. La "mutazione" incuriosisce e - pare - anche diverte Baricco: che non è filosofo, e dunque riconosce la propria incapacità di discutere i fondamenti, le radici lontane della barbarie. Ma Baricco sembra anche troppo generoso nel giudizio circa lo smottamento culturale in atto: ne vede elementi di positivo cambiamento, come ce ne sono stati moltissimi nel corso della storia umana (non riconoscendo la peculiarità del mutamento attuale, la cui pericolosità è in stretta relazione alla capacità di indebolire radicalmente le capacità di pensiero). Chi vive nella scuola (che Baricco non a caso arruola tra gli ultimi difensori della "civiltà") si confronta quotidianamente con la frana, con lo smottamento, e non può - credo - essere altrettanto ottimista o possibilista: il "multitasking" (nel quale si studia chattando, guardando la tv, giocando al pc e ascoltando musica), così tipico del barbaro, distrugge ogni possibilità di pensiero autentico (al quale peraltro il barbaro non è interessato): e qualche sospetto deve pur nascere in Baricco quando scrive: "siamo una collettività in cui i principi della civiltà restano una specie di boccone prelibato, riservato a chi ha la possibilità di formarsi nelle istituzioni scolastiche, e la barbarie è una specie di ideologia di default, concessa gratis a chiunque, e consumata massicciamente da chi non ha accesso ad altre fonti di formazione". In queste parole mi pare si condensi efficacemente il nocciolo del problema: per l'élite, i valori della "civiltà" (che porteranno i pochi ad attività specializzate e ben retribuite): tutti gli altri si sbronzino pure con gli stordimenti facili e con la velocità accattivante e a buon mercato della barbarie. Domanda: ma se dovessimo essere sottoposti ad una operazione chirurgica, preferiremmo un medico formatosi alla scuola della barbarie o a quella della civiltà? (luglio 2017)
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Canfora L., Tucidide, Laterza 2016
Nel 424 a.C., nel corso della lunghissima "guerra del Peloponneso" che vide impegnate Sparta e Atene in uno scontro mortale (e per molti versi decisivo per la storia dell'Occidente), Tucidide ricopriva il ruolo di stratego in Tracia, con il collega Eukles. Lo spartano Brasida, con manovra brillante quanto imprevista (da Atene), porta la guerra sullo sguarnito teatro trace: Eukles perde Amfipoli e Tucidide, accorso da Taso con le poche navi disponibili, non scongiura la perdita dell'importante città, ma riesce comunque ad evitare la caduta dello strategico porto di Eione. Da questa vicenda nasce il plurisecolare problema storiografico del (presunto) "esilio" di Tucidide: questi fu riconosciuto colpevole della perdita di Amfipoli? fu sottoposto a processo ed esiliato? dove avrebbe trascorso tale esilio? come tale situazione di esule si concilierebbe con la narrazione, indimenticabile, straordinaria, densa di particolari anche minuti, degli eventi bellici, inclusa la spedizione in Sicilia conclusasi per Atene con un disastro che porterà alla capitolazione finale dell'Impero? o piuttosto non ci fu nessun esilio, e questo non è che leggenda storiografica nata sul fraintendimento di alcune fonti? Canfora scrive un'opera eruditissima, rigorosissima, densa di citazioni, di riferimenti, di confutazioni, di dubbiose riflessioni sulle reale possibilità degli accadimenti storici, in incessante dialogo con antichi e moderni che della questione si sono occupati: un saggio scientifico sul tempo di Tucidide, gigante fondatore della storiografia politica, che ha il pregio di farsi leggere come un romanzo, di rendere vivide e di indiscutibile fascino vicende dalle quali ci separano 25 secoli, ma che restano di straordinario interesse ed attualità, perché i meccanismi di funzionamento del potere, ora come allora, sono sempre gli stessi. (luglio 2017)
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R.M. Rilke, Poesie 1907-1926, Einaudi 2014
Wer vermag denn zu lieben? Wer kann es? - Noch keiner. (Klage um Antinous)
(agosto 2017)
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Amaldi U., Sempre più veloci, Zanichelli 2012
Dopo un avvio un po' alla chetichella (e nell'opinione di chi scrive non particolarmente avvincente), il libretto prende decisamente quota: il lettore è condotto a comprendere quali necessità scientifiche spingano alla costruzione di macchine acceleratrici sempre più potenti e gigantesche. Si tratta di indagare la struttura microscopica della materia, ma anche (per ragioni ben illustrate) la struttura dell'universo alla sua nascita. Scoprendo che certi sviluppi scientifici, apparentemente "senza scopi pratici", finiscono per avere ricadute importanti nella vita quotidiana, inclusa le possibilità di diagnosticare e curare patologie anche gravi. (agosto 2017)
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Feynman R., QED, Adelphi 1989
Un classico, al quale ogni tanto tornare per una salutare rilettura. Senza formalismi o tecnicismi improponibili in un testo divulgativo (di alta divulgazione!), uno dei padri della elettrodinamica quantistica (QED: quantum electrodynamics) ne presenta le idee portanti, mostrando con la consueta simpatia come l'enorme complessità del molteplice empirico che ci circonda possa fondamentalmente essere descritto con il ricorso a poche, semplici ma geniali idee. (agosto 2017)
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Scotto di Luzio A., Senza educazione I rischi della scuola 2.0, Il Mulino 2015
La centralità delle cosiddette "nuove tecnologie" nella scuola del futuro è dogma: dal ministro di turno in giù, l'osanna per l'introduzione di computer, tablet e smartphone (secondo l'ultima risibile ma anche tragica trovata ministeriale) si leva alto nei cieli, per la gioia dei colossi del settore, che si vedono schiudere un mercato fiorente: buono per espandere le vendite e gonfiare i fatturati. Ma tutte queste "innovazioni" servono per davvero? Sono utili alla crescita umana ed intellettuale dei giovani che mettono piede nelle scuole? Ci sono prove scientifiche della decisività (e necessità) delle "tecnologie" per la formazione dei giovani? L'autore, docente di storia della pedagogia, fa piazza pulita dei molti luoghi comuni circolanti a riguardo e da (quasi) tutti ripetuti acriticamente: le "tecnologie", lungi dal rappresentare strumenti di effettivo sviluppo intellettuale, risultano addirittura dannose per la crescita delle nuove generazioni (e quando si parla di educazione di uomini e donne del futuro, il rischio di fare danni irreversibili è, semplicemente, enorme). Ma il pamphlet ha l'ulteriore pregio di andare oltre, mostrando come in effetti l'enfasi sulle "tecnologie" (e sul collegato svilimento della scuola del "sapere" a tutto vantaggio di una "moderna", suadente, ammiccante e vacua scuola del "fare") abbia una sua (mostruosa) logica, pienamente funzionale alla creazione di individui massificati e acritici, alla formazione di legioni di consumatori (e non più di cittadini), al mantenimento e anzi all'ampliamento delle differenze di censo e di classe. Obiettivo ultimo, la tragica costruzione di una società fatta da molti docili e supini agli imperativi di un potere detenuto da pochi. Asservimento "morbido", nel quale in effetti già largamente viviamo, conseguenza della deprivazione di ogni strumento intellettuale di analisi della realtà. (settembre 2017)
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Haas A., Introduzione a Meister Eckhart, Nardini 1997
Contemporaneo di Dante, la personalità di Eckhart, dotata di indiscutibile fascino, è stata capace di influenzare, magari anche per vie sotterranee, la riflessione filosofica dei secoli a venire: i sermoni eckhartiani sono stati apprezzati da Cusano, Lutero, Hegel, Schopenhauer, addirittura da Rosenberg; nel pensiero di Eckhart Bloch arriva a scorgere un'anticipazione della filosofia della storia di Marx; ma quel pensiero è stato anche posto in relazione alla speculazione filosofica di Heidegger e alla mistica induista e buddhista (impostazione che Haas comunque rifiuta, presentando E. come figura normativa della vita spirituale cristiana). Tale molteplicità di interpretazioni (la cui fondatezza va comunque discussa) indica di per sé la straordinaria ricchezza e la forza del pensiero del grande domenicano (morto poco prima che ventotto sue proposizioni fossero condannate per eresia da Giovanni XXII). Il libretto svolge così il suo (arduo) compito, di introdurre al pensiero del "predicatore", incentrato sull'idea di quel "distacco" che si rivela capace di condurre al "fondo dell'anima", laddove l'uomo incontra la "nuda Divinità" e trova Dio come nulla. E la tematica del nulla, della morte dell'anima e della morte di Dio è un leit motiv eckhartiano: l'uomo non solo deve guardare con indifferenza all'abisso del nulla, ma in quell'abisso - insegna Eckhart - l'uomo si trova in patria. (ottobre 2017)
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Scotto di Luzio A., La scuola che vorrei, Bruno Mondadori, 2013
Si tratta di un saggio a carattere in certo senso più "tecnico" - dunque di più difficile lettura - rispetto a Senza educazione: vi si analizza e vi si discute la traiettoria seguita dal pensiero sull'istruzione degli ultimi decenni, con particolare riferimento a quel mondo anglosassone che (purtroppo, tante volte mi verrebbe da dire) fa così spesso da apripista e da anticipazione a quel che poi accade nel resto del mondo (e, in particolare, in Italia: fertile terreno di coltura perchè Paese ormai sprovvisto di anticorpi culturali, dunque sempre disposto a far acriticamente propria ogni tesi, purchè d'oltralpe). L'autore tenta così un'analisi (certo discutibile ma interessante) delle cause della "crisi della scuola" che attraversa l'intera società occidentale: questa crisi viene ricondotta, tra le altre cose, al tramonto dell'idea che la scuola serva, anche, a porre l'esperienza dei giovani nella prospettiva di un legame intergenerazionale all'interno del quale vi sono vincoli non solo biologici, ma morali. Questo tramonto è ricondotto a sua volta alla crisi della famiglia, intesa come "contenuto spirituale di sentimenti e tradizioni", nella quale si dileguano la figura paterna e le relative responsabilità. Dalla rimozione dell'idea che scuola ed educazione "costituiscono una dimensione fondamentale della costellazione paterna" discendono molte conseguenze: la messa in discussione della legittimità stessa delle strutture dell'istruzione formale, la scomparsa dei programmi di studio, il venir meno di ogni nozione di canone culturale, la trasformazione dell'educazione tout court in un lungo (e in sostanza vuoto) elenco di "educazioni" con le quali la scuola cerca (vanamente!) di riconquistare un barlume di legittimazione, la sostituzione dei "valori" con "procedure formali" definite esclusivamente in termini di praticabilità (da cui il primato della negoziazione infinita sull'applicazione sic et simpliciter delle regole). Tutte cose che sa bene chiunque lavori nel campo. Se il "tramonto" è nel complesso ben tratteggiato, restano in ombra le ragioni profonde (in sostanza riconducibili al necessario nichilismo del nostro tempo) di tale tramonto. Forse per questo l'analisi dell'esistente occupa la gran parte del saggio (e, in questo senso, il titolo è un poco fuorviante), lasciando invece poco spazio alla caratterizzazione della "scuola che vorrei": di cui occorrerebbe mostrare infatti il fondamento, e questo è impresa titanica. (ottobre 2017)
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Tonzig G., Semplicemente fisica, Ilmiolibro
E’ vero che l’energia totale si conserva solo in presenza di forze conservative? E’ vero che il lavoro delle forze di attrito radente è sempre resistente? E’ vero che il calore è una forma di energia? E’ vero che il secondo principio della termodinamica vieta la completa trasformazione di calore in lavoro? E’ vero che una particella carica in moto in un campo elettrico si muove lungo le linee di campo? Avete dei dubbi? O, peggio: sul ricordo di studi vicini o lontani avete risposto tranquillamente di sì? Allora questo è il libro che fa per voi! Il professor Tonzig, ben noto per il suo ormai classico "100 errori di fisica", qui ci regala un godibilissimo bis. Lo stile, quello cui ci ha abituati: cristallino, geometrico, capace di andare al punto senza inutili fronzoli. La sostanza: semplicemente, la fisica o, per meglio dire, alcune idee della fisica, basilari, fondamentali. Quelle idee sulle quali non dovrebbero esservi dubbi, ma che spesso, invece, alla prova del… quesito risultano nella sostanza incomprese. Lo spirito: quello di una scienza che si nutre non di apodittiche certezze, ma di dubbi, di ragionevoli ipotesi, di intelligente e costruttivo scetticismo, di capacità (auto)critica, il cui insegnamento più prezioso è uno solo: essere sempre disponibili a mettersi in gioco con onestà intellettuale quando si percorre la strada senza fine della ricerca della verità. (ottobre 2017)
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Maffei L., Elogio della lentezza, il Mulino, 2014
L'autore è stato direttore dell'Istituto di neuroscienze del CNR e del laboratorio di neurobiologia della Scuola Normale di Pisa, presidente dell'Accademia dei Lincei e professore emerito di neurobiologia, sempre alla Normale di Pisa. Insomma, una vita dedicata alle neuroscienze: si deve proprio ammettere che sappia bene di quel che si parla. E, forte di questa competenza, Maffei ci mette in guardia: la spasmodica esaltazione della "velocità", soprattutto se riferita alle modalità di pensiero (diciamo) indotte/imposte dalle "nuove tecnologie" sui meccanismi di funzionamento cerebrale, non va esente da potenziali e gravissimi pericoli. Perché è proprio il "pensiero lento", sviluppatosi nel corso di una lunghissima evoluzione, che ha trasformato i primi rudimentali ominidi in esseri intelligenti (be': non sempre e non tutti, però ce ne sono...). Ma il nostro tempo, il nostro sistema economico tendono a svilire questa dimensione "lenta", riflessiva ed autoriflessiva, esaltando invece l'agire immediato, rapido, subitaneo, che non si occupa di "sofismi" e discussioni ma pretende il risultato qui ed ora. Uno smottamento culturale dovuto alla interessata diffusione, sempre più invasiva ed invadente, delle "tecnologie informatiche" e della "connessione perenne", che sciagurati filoni di pensiero additano come strumento salvifico degli apprendimenti: in altri termini, la scuola, ultimo bastione ormai del pensiero "lento", dovrebbe rinunciare in sostanza alla propria essenza - quella di educare con gli stumenti della cultura, dunque di un'elaborazione concettuale che richiede i suoi incomprimibili tempi - per abbracciare il nuovo Verbo digitale. Benché il testo non ponga esplicitamente al centro la questione educativa, il monito di Maffei risulta ancora più allarmante se riferito al mondo dell'educazione e dell'istruzione, perché è proprio qui che si forma l'uomo e il cittadino dell'umanità del futuro. E questo è ben noto a tutti: anche ai potentissimi alfieri dell'ossimorico "pensiero digitale". (ottobre 2017)
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Guerraggio A., La scienza in trincea, Raffaello Cortina Editore, 2015
Solitamente, quando si pensa al patto d'acciaio tra scienza e guerra, si pensa subito al secondo conflitto mondiale: qui, come ben noto, la collaborazione strettissima tra scienziati e militari ha condotto alla bomba nucleare. Il saggio di Guerraggio ha il pregio di mostrarci come in realtà sia durante la prima guerra mondiale che si comprende la decisività della scienza nella risoluzione dei conflitti: la tecnoscienza che mette al servizio della politica e degli stati maggiori strumenti di potenza sempre più efficaci per annientare l'avversario del momento. La ricostruzione storica, pur con qualche ripetitività, è interessante e persino un po' straniante quando ci descrive l'Italia dei primi del Novecento, tanto lontana dall'Italia di oggi, e non necessariamente peggiore. (novembre 2017)
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Carr N., Internet ci rende stupidi? RaffaelloCortina Editore, 2011
Il sottotitolo, che recita "come la Rete sta cambiando il nostro cervello", riassume in brevissimo la tesi del saggio: il bombardamento continuo cui è sottoposto il cervello nel suo "connettersi" quotidiano con la Rete sta modificando gli stessi "meccanismi di pensiero", in virtù dell'ormai riconosciuta "plasticità" (a livello neurologico) del cervello stesso. La Rete, che ci gratifica con velocità e immediatezza, chiede in cambio (in modo naturalmente inconscio, dunque ancor più pericoloso) che si rinunci alla capacità di "pensiero profondo", quello che implica concentrazione continua su un certo tema o problema e che appare in relazione con la capacità di lettura "lineare" e comprensione di un testo (capacità che infatti sembra venire progressivamente meno, come ben constatano gli insegnanti nella loro pratica di lavoro quotidiano). Se il sistematico "spostamento dell'attenzione" richiesto dalla "navigazione on line" ci rende più abili nel cosiddetto "multitasking", ebbene questo spostamento "ostacola la nostra capacità di pensare in modo approfondito e creativo", in una progressiva riduzione delle facoltà mentali che di fatto rendolo l'uomo uomo. In altri termini, l'uso parossistico della Rete sembra in prospettiva richiedere la progressiva rinuncia alla propria umanità, in un processo che appare irreversibile. In tale ben argomentato quadro, alla scuola (italiana, come sempre a rimorchio passivo delle interessate mode imposte da altri) si propongono le "tecnologie didattiche" come soluzione alle difficoltà di apprendimento, spingendo affinché proprio le menti più giovani e più plastiche (che della Reta fanno già ampio uso senza bisogno di incoraggiamento) siano ancor più esposte, assumano dosi sempre maggiori di "farmaco". Che, come noto, significa anche veleno. (gennaio 2018)